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Biografia, lavori in corso - a breve anche il 1974 e il 1975

lunedì 14 dicembre 2020

Teorema, incontro tra Pier Paolo Pasolini e Lino Peroni

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro




La seguente intervista è apparsa su "Inquadrature – rassegna di studi cinematografici"
(n.15-16, autunno 1968, pag. 33-37).
"Inquadrature" era una rivista realizzata a cura del Centro di Studi Cinematografici dell’Università di Pavia,
fondata e diretta da Lino Peroni.
Incontro con Pier Paolo Pasolini
di Lino Peroni




Peroni: In alcuni film di questi ultimi anni (per esemplificare: il suo Uccellacci e uccellini e Sovversivi, La guerra è finita e La cinese) passa, a livelli e con esiti diversi, un discorso abbastanza comune. L’interesse per queste opere nasce dal fatto che, qui, la coscienza della «crisi delle ideologie» non viene elusa con schemi ottimistici ma neppure mistificata dal formalismo delle neoavanguardie. Che cosa pensa di questa ricerca in atto e, in particolare, si sente interessato a proseguirla, e in quale direzione?

Pasolini: 
Mi sento interessato a proseguire questo tipo di esperienza. Infatti Teorema continua questo discorso. Teorema parla ancora di un’esperienza religiosa. Si tratta dell’arrivo di un visitatore divino dentro una famiglia borghese. Tale visitazione butta all’aria tutto quello che i borghesi sapevano di se stessi; quell’ospite è venuto per distruggere. L’autenticità, per usare una vecchia parola, distrugge l’inautenticità. Però quando egli se ne va, ognuno si ritrova con la coscienza della propria inautenticità e, in più, l’incapacità di essere autentico: per l’impossibilità classista e storica di esserlo. Così ognuno dei membri di questa famiglia ha una crisi, e il film finisce più o meno con la seguente morale: che qualunque cosa un borghese faccia, sbaglia. A parte gli errori storici, infatti, come l’idea di Nazione, l’idea di Dio, l’idea di Chiesa confessionale eccetera, anche se la ricerca del borghese è sincera, intima e nobile, tuttavia è sempre sbagliata. Ma questa condanna della borghesia, mentre prima (prima, fino al 1967: è un dato autobiografico) era precisa, era ovvia, qui rimane «sospesa», perché la borghesia in realtà sta cambiando. L’indignazione e la rabbia contro la borghesia classica, come la si è sempre intesa, non ha più ragione di essere dal momento in cui la borghesia sta cambiando rivoluzionariamente se stessa, cioè sta identificando tutto l’uomo al piccolo borghese. Ormai è tutta l’umanità che sta diventando piccolo borghese: e allora nascono delle nuove domande a cui è il borghese stesso che deve rispondere, e non più l’operaio oppure chi è all’opposizione. Ora a queste domande non possiamo rispondere né noi borghesi che siamo all’opposizione, né il borghese «naturale» stesso. Ecco perché il film rimane «sospeso», e finisce con una specie di urlo, che nella sua irrazionalità pura significa questa sospensione. Quindi vi sono in esso dei motivi politici, ideologici (mettiamo il rapporto tra religione e contestazione politica, la rabbia antiborghese, eccetera, tipici anche di Uccellacci e uccellini), che saranno chiari solamente a film finito. 

Peroni: Quindi, a parte la novità di offrire, almeno per quanto riguarda la sua opera cinematografica, un ambiente e dei personaggi borghesi, quali risultati si propone. In particolare lei accennò a una sua posizione «sacrale» come autore di fronte al personaggio della preistoria o mitico. Sembra ora che, proprio con Uccellacci e uccellini, questa sua posizione esistenziale, e quindi stilistica, tenda a mutarsi. Quale sarà in concreto il suo atteggiamento stilistico di fronte ai personaggi borghesi (e quindi probabilmente negativi) di Teorema?

Pasolini: Direi che questo mio passare a un ambiente borghese è puramente nominale. Perché non è che io faccia un film di costume sulla borghesia, non parlano mai, intanto, questi borghesi (il film è quasi muto), quindi non usano i loro modi di dire, non hanno atteggiamenti, eccetera. Insomma sono visti anche loro in quel modo particolare, che io chiamo «sacrale», con cui vedo tutti gli esseri umani (nella specie, finora i sottoproletari). Questi personaggi borghesi non sono mai visti in modo vivace o in modo polemico, come li vedono normalmente nei film di costume (come li descrive Arbasino, come li descrive la Cederna). Ora se io spoglio un borghese di tutto questo, egli si presenta nella sua nudità, nella sua essenzialità. Quindi si tratta di personaggi piuttosto assoluti e visti sempre nel mio modo eternamente sacrale e mitico.

Peroni: Il personaggio centrale di Teorema, questa figura misteriosa e affascinante dotata di una sconvolgente carica di vitalità, avrà l’aspetto dell’angelo o sarà piuttosto il Cristo secondo Matteo; cioè l’autenticità di questo personaggio divino assumerà corpo attraverso la condanna oppure attraverso una presenza angelica, di amore?

Pasolini: Questo personaggio ha finito col diventare ambiguo, cioè a metà strada tra l’angelico e il demoniaco. Il visitatore è bello, dolce, ma ha anche qualcosa di volgare (non per niente è un borghese anche lui). Non c’è borghese non colto (perché soltanto la cultura può purificare) che non sia volgare. E lui ha quel tanto di volgarità che ha accettato di avere per scendere tra questi borghesi; è perciò che è ambiguo. Ciò che è autentico invece, è l’amore che suscita, perché è un amore fuori dei compromessi, fuori dei patti con la vita, un amore scandaloso, un amore che distrugge, che modifica l’idea che il borghese ha di sé: ora l’autentico è l’amore, e la causa di questo amore è questo personaggio ambiguo.

Peroni: Dunque non esistono riferimenti con il Cristo di Matteo, poi suo.

Pasolini: Questo personaggio non è identificabile con Cristo; è se mai Dio, il Dio Padre (o un inviato che rappresenta il Dio Padre). È insomma il visitatore biblico dell’Antico Testamento, non il visitatore del Nuovo testamento.

Peroni: Dal momento che molto spesso ci sono state coincidenze tra le sue opere cinematografiche e quelle letterarie, si ricollega Teorema a qualche sua esperienza precedente e quanto è legato alla sua recente produzione letteraria?

Pasolini: La storia dell’idea di Teorema è molto curiosa e significativa. Circa tre anni fa ho cominciato a scrivere, per la prima volta in vita mia, delle cose di teatro; ho scritto quasi contemporaneamente sei tragedie in versi e Teorema era, come prima idea, una tragedia in versi, la settima. Avevo già cominciato a elaborarla come tragedia, come dramma in versi; poi ho sentito che l’amore tra questo visitatore divino e questi personaggi borghesi era molto più bello se silenzioso. Questa idea mi fatto pensare che allora forse era meglio farne un film, ma mi sembrava che come film fosse irrealizzabile e, in un primo momento, ho buttato giù un racconto che è rimasto molto schematico e, nella prima stesura, molto rozzo; poi l’ho elaborato come sceneggiatura e contemporaneamente ho anche modificato questo primo canovaccio di appunti che è diventato un’opera letteraria abbastanza autonoma. Quindi Teorema ha due momenti: un primo momento teatrale, che poi è caduto, e un secondo momento che si è diviso in due rami; uno cinematografico e uno letterario. Dunque si tratta di un rapporto stranissimo tra letteratura e cinema.

Peroni: Secondo quali criteri ha scelto gli attori per Teorema? Penso ci si debba ancora una volta rifare al discorso sul piano-sequenza o, meglio, al rifiuto del piano-sequenza.

Pasolini: I criteri con cui scelgo gli attori dei miei film sono sempre gli stessi: scelgo un attore per quello che è e non per quello che ha l’abilità di sembrare. Non sempre ci si riesce perché alle volte così come sono non corrispondono al personaggio; quindi ci si deve fatalmente accontentare, in questo senso, di approssimazioni, soprattutto per i film di ambiente e di carattere borghese. Per i film proletari basta andare per la strada e si trova subito uno disposto a dare se stesso veramente, totalmente, senza mediazioni, senza paure, senza pudori, senza il senso del ridicolo, generosamente insomma. Mentre l’idea di prendere un industriale milanese che facesse un industriale milanese in un film è praticamente irrealizzabile, e così la moglie di un industriale, così i figli di un industriale; quindi c’è fatalmente, nella scelta degli attori, un certo compromesso. Il collegamento con il discorso sul piano-sequenza è giusto: nei miei film non faccio mai dei piani-sequenza appunto perché i piani-sequenza permettono l’abilità dell’attore. Se io punto la macchina da presa su un uomo del popolo, su un ragazzo del popolo, su una vecchia contadina, allora il piano-sequenza andrebbe benissimo ugualmente, soprattutto se loro non se ne accorgono; ma se io la metto su un attore, allora viene fuori l’attore e si perde la sua realtà. In Teorema ho fatto dei piani-sequenza più lunghi del solito per certe situazioni particolari, però tutto sommato anche questo film l’ho girato a rapidissimi frammenti, in cui cogliere l’espressione essenziale, di volta in volta, e non permettere all’attore di sfoggiare sfumature e abilità, al di fuori della sua natura reale.

Peroni: perché non ha mai realizzato Il padre selvaggio. E, a parte le difficoltà che incontrò a suo tempo, non sente l’opportunità di ritornare oggi su un progetto che, a giudicare dalle pagine che ci sono rimaste, avrebbe potuto tradursi in un film di grande interesse?

Pasolini: Il prossimo film che farò si intitolerà Appunti per un poema sul Terzo Mondo e comprenderà quattro o cinque episodi e uno di questi si svolgerà in Africa e sarà Il padre selvaggio; però non ne sono certo. Può darsi che anziché fare Il padre selvaggio faccia un altro film che mi è venuto in mente, sempre però su questa linea, cioè una Orestiade ambientata in Africa. Ricreerei delle analogie, per quanto arbitrarie e poetiche, e in parte irrazionali, tra il mondo arcaico greco, in cui appare Atena che dà, attraverso Oreste, le prime istituzioni democratiche, e l’Africa moderna. Quindi Oreste sarebbe un giovane negro, mettiamo Classius Clay (pensavo a lui come protagonista), che ripete la tragedia di Oreste. Comunque sia che si tratti di un film su Il padre selvaggio sull’Orestiade, in ogni caso non sarà fatto come un vero e proprio film, ma come un «film da farsi». Questo «film da farsi» l’ho sperimentato in India qualche tempo fa. Anche in India sono andato con un soggetto di film, la storia di un maràgia il quale, secondo una leggenda mitica indiana, offre il proprio corpo alle tigri per sfamarle (questo, idealmente, prima della liberazione dell’India); e, dopo la liberazione dell’India, sempre idealmente, cioè implicando i problemi moderni dell’India, la famiglia di questo maràgia scompare perché i suoi membri muoiono ad uno ad uno di fame durante una carestia. Questa era l’idea del film. Così sono andato in India a fare una specie di inchiesta per verificare se questa idea era attendibile o no. Per sentire dagli indiani, i più diversi, da un maràgia stesso ad alcuni santoni, dalla gente del popolo a degli scrittori, se questo film poteva essere fatto o no. Ora ne è venuto fuori un film che ha tuttavia questa trama: la trama rimane, la storia rimane, però appunto, come trama «da farsi». Questa esperienza, fatta senza volerlo in India, vorrei allargarla, e girare un episodio simile per ognuno dei luoghi che sono tipici del Terzo Mondo; e uno di questi forse sarà appunto Il padre selvaggio (a meno che non sia sostituito dall’Orestiade).



Curatore, Bruno Esposito

Collaborano alla creazione di queste pagine corsare:

Carlo Picca
Mario Pozzi
Alessandro Barbato
Maria Vittoria Chiarelli
Giovanna Caterina Salice
Simona Zecchi

Pasolini - Salò e De Sade, il sesso come metafora del potere (autointervista).

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro



Salò e De Sade, il sesso come metafora del potere
(autointervista).



Questo film ha dei precedenti nella sua opera?

Sì. Le ricordo Porcile. Le ricordo anche Orgia, un’opera teatrale di cui ho curato io stesso la regia (a Torino, nel 1968). L’avevo pensata nel 1965, e scritta tra il 1965 e il 1968 come del resto Porcile, che era anch’esso un’opera teatrale. Originariamente doveva essere un’opera teatrale anche Teorema (uscito nel 1968). De Sade c’entrava attraverso il teatro della crudeltà, Artaud, e, per quanto sembri strano, anche attraverso Brecht, autore che fino a quel momento avevo poco amato, e per cui ho avuto un improvviso, anche se non travolgente amore appunto in quegli anni antecedenti alla contestazione. Non sono contento né di Porcile, né di Orgia: lo straniamento e il distacco non fanno per me, come del resto la crudeltà.


E allora Salò?

È vero, Salò sarà un film crudele, talmente crudele che (suppongo) dovrò per forza distanziarmene, fingere di non crederci e giocare un po’ in modo agghiacciante... Ma mi lasci finire il discorso sui precedenti. Nel 1970 ero nella valle della Loira. Facevo dei sopralluoghi per il Decameron. Sono stato invitato a fare un dibattito con gli studenti dell’Università di Tours. Lì insegna Franco Cagnetta, il quale mi ha dato da leggere un libro su Gilles de Rais e i documenti del suo processo, pensando che potesse essere un film per me. Ci ho pensato seriamente per qualche settimana (è uscita in Italia, in questi mesi, una bellissima biografia di Gilles de Rais, a cura di Ernesto Ferrero). Naturalmente poi ci ho rinunciato. Ero ormai preso dalla Trilogia della vita.


Perché?

Un film crudele sarebbe stato direttamente politico (eversivo e anarchico, in quel momento): quindi insincero. Forse ho sentito un po’ profeticamente che la cosa più sincera dentro di me, in quel momento, era fare un film su un sesso la cui gioiosità fosse un compenso – come infatti era – alla repressione: fenomeno che stava per finire ormai per sempre. La tolleranza di lì a poco avrebbe reso il sesso triste e ossessivo.
Ho evocato nella Trilogia i fantasmi dei personaggi dei miei film realistici precedenti. Senza più denuncia, ovviamente, ma con un amore così violento per il tempo perduto da essere una denuncia non di qualche particolare condizione umana ma di tutto il presente (permissivo per forza). Ora siamo dentro quel presente in modo ormai irreversibile: ci siamo adattati. La nostra memoria è sempre cattiva. Viviamo dunque ciò che succede oggi, la repressione del potere tollerante, che, di tutte le repressioni, è la più atroce. Niente di gioioso c’è più nel sesso. I giovani sono o brutti o disperati, cattivi o sconfitti.

È questo che vuole esprimere in Salò?

Non lo so. Questo è il vissuto. Certo non ne posso prescindere. È uno stato d’animo. È quello che cova nei miei pensieri e che soffro personalmente. Dunque è questo forse ciò che voglio esprimere in Salò. Il rapporto sessuale è un linguaggio (ciò, per quanto mi riguarda, è stato chiaro ed esplicito specialmente in Teorema): ora i linguaggi o sistemi di segni cambiano. Il linguaggio o sistema di segni del sesso è cambiato in Italia in pochi anni, radicalmente. Io non posso essere fuori dell’evoluzione di alcuna convenzione linguistica della mia società, compresa quella sessuale. Il sesso è oggi la soddisfazione di un obbligo sociale, non un piacere contro gli obblighi sociali.
Da ciò deriva un comportamento sessuale appunto radicalmente diverso da quello a cui io ero abituato. Per me dunque il trauma è stato (ed è) quasi intollerabile.

In pratica, per quanto riguarda Salò

Il sesso in Salò è una rappresentazione o metafora di questa situazione, questa che viviamo in questi anni: il sesso come obbligo e bruttezza.

Mi sembra di capire, però, che in lei ci siano anche altre intenzioni, meno interiori, forse, ma più dirette... 

Sì, ed è a queste che voglio arrivare. Oltre che la metafora del rapporto sessuale (obbligatorio e brutto) che la tolleranza del potere consumistico ci fa vivere in questi anni, tutto il sesso che c’è in Salò (e ce n’è in quantità enorme) è anche la metafora del rapporto del potere con coloro che gli sono sottoposti. In altre parole è la rappresentazione (magari onirica) di quella che Marx chiama la mercificazione dell’uomo: la riduzione del corpo a cosa (attraverso lo sfruttamento). Dunque il sesso è chiamato a svolgere nel mio film un ruolo metaforico orribile.
Tutto il contrario che nella Trilogia (se, nelle società repressive, il sesso era anche un’irrisione innocente del potere).

Ma le sue 120 giornate di Sodoma non si svolgono appunto a Salò nel 1944?

Sì, a Salò, e a Marzabotto. Ho preso a simbolo di quel potere che trasforma gli individui in oggetti (come per esempio nei migliori film di Miklós Jancsó) il potere fascista e nella fattispecie il potere repubblichino. Ma, appunto, si tratta di un simbolo. Quel potere arcaico mi facilita la rappresentazione. In realtà lascio a tutto il film un ampio margine bianco, che dilata quel potere arcaico, preso a simbolo di tutto il potere, e abbordabili alla immaginazione tutte le sue possibili forme... E poi... Ecco: è il potere che è anarchico. E, in concreto, mai il potere è stato più anarchico che durante la Repubblica di Salò.

E de Sade che c’entra?

C’entra, c’entra, perché De Sade è stato appunto il grande poeta dell’anarchia del potere.

Come?

Nel potere – in qualsiasi potere, legislativo ed esecutivo – c’è qualcosa di belluino. Nel suo codice e nella sua prassi, infatti, altro non si fa che sancire e rendere attualizzabile la più primordiale e cieca violenza dei forti contro i deboli: cioè, diciamolo ancora una volta, degli sfruttatori contro gli sfruttati. L’anarchia degli sfruttati è disperata, idillica, e soprattutto campata in aria, eternamente irrealizzata. Mentre l’anarchia del potere si concreta con la massima facilità in articoli di codice e in prassi. I potenti di Sade non fanno altro che scrivere dei regolamenti e regolarmente applicarli.

Scusi se torno alla pratica: ma in pratica come tutto ciò si realizza nel film?

È semplice, più o meno come nel libro di Sade: quattro potenti (un duca, un banchiere, un presidente di tribunale e un monsignore), ontologici e perciò arbitrari, riducono a cose delle vittime umili. E ciò in una specie di sacra rappresentazione, che seguendo probabilmente quella che era l’intenzione di Sade ha una specie di organizzazione formale dantesca. Un Antinferno, e tre Gironi. La figura principale (di carattere metonimico) è l’accumulazione (dei crimini): ma anche l’iperbole (vorrei giungere al limite della sopportabilità).

Chi sono gli attori che rappresentano i quattro mostri?

Non so se saranno mostri. Comunque non meno e non più delle vittime. Nello scegliere gli attori ho fatto la solita contaminazione: si tratta di un generico che in più di vent’anni di lavoro non ha mai detto una battuta, Aldo Valletti; di un mio vecchio amico delle borgate romane (conosciuto ai tempi di Accattone!), Giorgio Cataldi, di uno scrittore, Uberto Paolo Quintavalle, e infine anche di un attore, Paolo Bonacelli.

E chi saranno le quattro ‘megere’ narratrici?

Saranno tre bellissime donne (la quarta nel mio film fa la pianista, perché i Gironi sono appunto tre): Hélène Surgère, Caterina Boratto ed Elsa de’ Giorgi. La pianista sarà Sonia Saviange. Le due attrici francesi le ho scelte dopo aver visto a Venezia il film Femmes femmes di Vecchiali: bellissimo film in cui le due attrici, per restare nel contesto linguistico francese, sono sublimi (ma veramente).

E le vittime?

Tutti ragazzi e ragazze non professionisti (almeno in parte: le ragazze le ho scelte tra delle fotomodelle, perché naturalmente dovevano avere dei bei corpi e, soprattutto, non dovevano aver paura di mostrarli).

Dove gira?

 
A Salò (esterni), a Mantova (interni ed esterni in cui si svolgono rapimenti e rastrellamenti), a Bologna e dintorni: il paesetto sul Reno sostituirà il distrutto Marzabotto...

So che sono due settimane che sono cominciate le riprese. Può dire qualcosa del suo lavoro?

Me lo risparmi. Non c’è niente di più sentimentale di un regista che parla del suo lavoro sul set.

Pier Paolo Pasolini,
«Corriere della Sera», 25 marzo 1975





Curatore, Bruno Esposito

Collaborano alla creazione di queste pagine corsare:

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Maria Vittoria Chiarelli
Giovanna Caterina Salice
Simona Zecchi

Pasolini, amo la vita ferocemente, disperatamente.

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dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro

 


 

Pasolini intervistato da Louis Valentin
Intervista pubblicata su Lui, n. 1., giugno 1970.
di Louis Valentin



È stato detto che molte volte che lei ha tre ‘idoli’: Cristo, Marx e Freud… Che cosa ci risponde?

Che sono soltanto formule. La realtà è il mio unico idolo. Se ho scelto di fare il cinema, oltre che scrivere libri, è stato perché, invece di esprimere questa realtà con dei simboli come sono le parole, ho preferito servirmi di un altro mezzo, che è il cinema, per poter esprimere la realtà con la realtà.

Potrebbe esprimere con le parole, così come lei la percepisce soggettivamente, la realtà dei giovani d’oggi, che, a quanto sembra, l’appassiona?

La gioventù, se non altro una certa gioventù che rappresenta la maggioranza, la massa uniforme della società attuale, ha perso del tutto il desiderio di cultura. È ignorante e non vuole ammetterlo. E il pericolo sta nel fatto che essa trasforma la propria ignoranza in una ideologia, una barricata dietro la quale si nasconde scandendo i suoi slogan. Soltanto una minima percentuale di studenti ha letto Proust, Sartre o Marcuse. La cultura è arrivata al punto di saturazione. Ogni letteratura è una letteratura da ‘papà’.

Perché il rifiuto della cultura?

Perché la cultura coincide con il padre, la madre, la Chiesa, tutti i tabù della famiglia e della società. È sempre stato così. La gioventù ha sempre rinnovato la cultura a cominciare da quella del padre. Si opponeva al padre, il che implicava un sentimento di angoscia, un presagio di morte, un masochismo mitico. Uccidere il padre, anche sotto questa forma, rappresenta un masochismo assoluto, un costante senso di colpa. Oggi solo un’élite osa opporsi alla cultura del padre. Il suo sentimento di morte si è moltiplicato in questo mondo barbaro fatto di città-prigione, di autostrade implacabili, di cattivo cinema, di cattivi programmi televisivi, di informazioni false e povere di contenuto. La tecnica nega l’arte. Bisogna servirla, la tecnica, altrimenti è l’angoscia, la morte. Si impone, annienta ogni sentimento che non sia pronto a sottostarle. Uccide l’umanità, vale a dire l’umano nell’uomo. Fermarsi, rifiutare una situazione, cercare per altre vie, porsi degli interrogativi, in una parola educarsi, significa sottoporsi a una tale tensione, a una marcia controcorrente così faticosa che solo un’élite (e domani una superélite) potrà permettersi, accettando la morte, il retaggio sociale di affrontare il problema. Ecco perché la gioventù tace, si limita ad andare avanti con gli occhi fissi sulle tracce della macchina. Avanza al suono di una marcia fatta di cattiva musica, con l’attenzione requisita da una televisione retrograda, incoraggiata da un cinema spesso innominabile, da una sessualità anarchica. Non è musica d’arte o d’amore, questa, ma uno sterile balbettio che obbliga la gioventù a rifugiarsi nella produttività consumistica. Ecco perché la gioventù tace ed è lei, del resto, che scrive la storia.

L’amore potrebbe migliorare questa situazione drammatica?

La società non vuole più amore. Lo rifiuta, perché l’amore si oppone al lavoro e allenta i tempi di produzione. Era necessario infangare l’amore, la propria dignità, il rispetto di se stessi. Tuttavia anche l’amore può essere utilizzato, ma per aumentare la produttività. Si vendono macchine? No. Si vende l’immagine di una coppia che si abbraccia sui sedili: ecco che cosa mettono in mostra i manifesti, che cosa propone la pubblicità. Una donna nuda sul tetto di una macchina e noi compriamo l’automobile. Di che colore? Rosso! Non ci ricordiamo neppure della marca. Negli Stati Uniti, paese tecnicamente più progredito del nostro, i giovani protestano contro la tecnica per mezzo dell’antitecnicismo. E allora nascono il fenomeno hippy, i capelloni, la comunità che può divenire concentrazionaria, la rivolta rabbiosa manifestata con l’azione.

Dunque non è necessario far rivivere l’amore? Non si può tentare di esaltare la coppia?

E perché? Non ho mai visto la coppia così trionfante e così sublimata come oggi. Persino nei movimenti studenteschi, a Roma, Milano, Parigi, non ho mai visto per le strade così tanti contestatori dei due sessi marciare sotto braccio. E non ho visto affatto contestatori baciarsi, uomini far la corte ad altri uomini, donne ad altre donne. La gioventù è profondamente moralista. Riproduce il moralismo del padre, della società. L’eros libero, etero o omosessuale, anarcoide, esiste forse nell’alta borghesia, ma allora non è che una deviazione ipocrita.

Poiché per lei non esiste la coppia, pensa allora che sia meglio vivere soli o in gruppo?

È una falsa alternativa. Una trovata ipotetica, sulla falsariga dei modelli antichi. La solitudine rappresenta l’ascesi, la santità. Si tratta di una reazione feudale ed egocentrica, la paura di affrontare il problema. Vivere in gruppo è una forma di suicidio, spesso è la droga, questa specie di fittizia parete divisoria che si frappone tra te stesso e il prossimo; altra solitudine che serve a ritrovare la solitudine nella tomba, poiché non si è mai soli finché non si è morti.
Anche drogarsi significa rifiutare la cultura. I giovani si drogano per automatismo, per autodistruzione e per trovare attenuanti alla loro sottocultura. Anche Cocteau si drogava, ma lo faceva per la sua cultura. Per i giovani è diverso, la droga non li rende certo inclini alle cose migliori. Nel delirio dell’hascisc, della marijuana esaltano la cattiva pittura o il cinema scadente uscito dalle caves… l’unico consiglio che posso dar loro è quello di farsi una cultura: poi, se ne sono ancora capaci, prendano pure la droga. Ma non bastano blue-jeans e maglioni per diventare Sartre, né un pizzico di polverina per diventare Aldous Huxley…

E lei, che cosa faceva alla loro età? com’è stata la sua gioventù?

Dare delle spiegazioni, rifare il mondo parlando di me, scusarmi guardandomi alle spalle, molto indietro nel tempo, dire ‘nacqui’, ‘vissi così e così’, coniugarmi al passato remoto… no, non posso. Non ne ho né la forza fisica né quella morale necessarie. Bisognerebbe poter rivivere ogni secondo, riprovare le sensazioni di allora. Le autobiografie sono sempre false, perché compiacenti o suicide; le biografie, almeno una verità ce l’hanno: come si vuole far apparire gli altri (…)

Qual è la sua definizione dell’amore?

Quando manca l’amore la gente cessa di vivere. Viene annientata. È la malinconia, la fine di tutto. La società se n’è accorta ed ecco perché cerca tanto di esaltare l’amore. È una chiave della produttività. Senza l’amore l’uomo non può produrre. Però, nello stesso tempo, ogni tipo di società reprime il mondo sessuale, perché l’energia che l’uomo consuma nel fare l’amore non va a beneficio del capitale. Ogni società è innanzitutto puritana; noi crediamo di vivere in un periodo di piena libertà sessuale, è un’illusione. Il giorno in cui l’umanità avrà raggiunto la completa industrializzazione assisteremo all’avvento di un drastico moralismo pari a quello delle società più arretrate. Se hanno inventato le ore di lavoro straordinario non è stato per impedire i rapporti sessuali ma per regolamentarli secondo norme sociali. Così l’amore è diventato la ricompensa al lavoro fornito per lo sviluppo dell’industrializzazione.

Allora l’amore diventerà il simbolo del frutto proibito?

La società impedisce di conoscere la potenza dell’amore e di applicarla veramente. Insinua nell’individuo un concetto falso dei suoi desideri e della sua libido. Vuole che l’uomo abbia dell’amore un’idea sbagliata, come l’ha di se stesso.

Non pensa che l’uomo cerchi per disperazione di oltrepassare i propri limiti sessuali?

Chi vuole far questo si perde all’infinito. L’aldilà dell’amore è la follia. Fortunatamente esiste l’economia sessuale, un dispositivo di sicurezza, di correzione. Oltre un certo limite l’eros si autoblocca.

Può esserci amore senza rapporti sado-masochisti?

Nemmeno per idea. Ma chi ha cominciato per primo, Sade o Masoch? È la vecchia storia dell’uovo e la gallina. L’equilibrio di queste due forze è la risultante dell’equilibrio umano.

Nel realizzare i suoi film, specialmente Teorema, ha avuto l’impressione di fare un’opera utile?

Non mi interessa, non è questo il mio scopo. Io non voglio essere né paternalista, né pedagogo, né propagandista, né apostolo… Quando un’opera culturale diventa scienza, cessa di essere cultura. La psicoanalisi non è cultura, ma scienza applicata. Studiare l’energia atomica e costruire bomba H non è affatto la stessa cosa. Soltanto il contenuto interiore di un’opera è utile, per questo ogni opera autentica, più che utile, è terapeutica.

Lei afferma decisamente che la coppia non esiste più. Ma in senso fisiologico come è possibile negarne l’esistenza?

Certo, fisiologicamente non possiamo negare la coppia, l’accoppiamento. Ma considerata come nucleo familiare la coppia non esiste più. Il neocapitalismo non ha più bisogno della famiglia, come non ha più bisogno della Chiesa. Le lascia in vita, ecco tutto, e quelle sopravvivono. L’educazione dei figli oggi non avviene più nella famiglia, ma nel gruppo. Sì, credo proprio che la nostra generazione stia assistendo alla fine di un mondo. La base della società ha assunto altri valori, è divenuta un rapporto tra consumatore e produttore. Perché i giovani scappano da casa? Lo conosco bene il problema. Ne ho incontrati un sacco e ho parlato con tutti. Il movente è sempre quello di vent’anni fa: miseria, genitori che non vanno d’accordo, sempre le solite ragioni, classiche, anarcoidi, arcaiche, retrograde. Ma questi giovani non conoscono il proprio problema e nascondono la vera causa dietro simboli di avanguardia: libertà, ricerca di assoluto, contestazione. Ho conosciuto un ragazzo di vent’anni che era scappato di casa. Ha parlato con me e io l’ho ascoltato. Poi gli ho detto chiaramente: “Sei scappato di casa perché hai preso una cotta per la tua matrigna e volevi dare l’amore con lei”. È rimasto annientato, non voleva confessare la verità. Diceva che l’aveva fatto perché voleva venire a Roma a contestare con gli studenti. Nascondeva la sua rivolta freudiana dietro una rivoluzione sociale. E oltre a questo, la sua fuga aveva un motivo più attuale: voleva inserirsi nella vita di gruppo e riceverne un’educazione. Ogni ragazzo, per imporsi nel gruppo, contesta con e contro gli altri, e così facendo si porta dietro le vecchie abitudini: moralismo, utilitarismo. Ora, per un vero rivoluzionario niente è utile o inutile, quel che conta è l’azione. L’utilità è ancora una nozione borghese.

Qual è il suo atteggiamento davanti al fenomeno dell’omosessualità?

Ho già detto che la coppia, considerata come nucleo familiare, è ormai un’eresia, un’alienazione. Dal momento che la coppia è codificata si autodistrugge. La società rifiuta tutto ciò che non è codificato perché potrebbe mettere in crisi i suoi statuti. L’omosessualità minaccia la società ed è inconcepibile in qualsiasi organismo o comunità, anche tra i più conformisti. Pensiamo soltanto all’omosessualità alla Fiat. Perché dal momento in cui si accetta la nozione di non-coppia, di non-famiglia, si deve rifiutare l’amore verso l’altro, chiunque sia, di qualunque razza e sesso si presenti? Nella società la donna è stata sempre considerata un essere inferiore. Essa nasce con una sua precisa funzione prestabilita: fare figli. Se i nazisti non avessero avuto bisogno delle donne per questa funzione, se la società fosse stata completamente industrializzata, è probabile che essi avrebbero chiuso nei lager i polacchi, gli ebrei, gli zingari e le donne. Se non lo hanno fatto è stato per ragioni pratiche, per fabbricare figli: dico fabbricare, non mettere al mondo. La donna per loro esisteva in quanto macchina di riproduzione. Ma l’omosessuale, che è socialmente improduttivo? La sua sorte è ancora peggiore. È un respinto e per questa sua condizione dovrebbe o accettare la ripulsa, e soffrirne, o andare controcorrente, e soffrire lo stesso.
Normalità e anormalità sono ancora nozioni borghesi. L’unica anormalità che la società capitalistica tollera ancora è la donna. Raramente essa cerca o riesce a scuotersi di dosso la sua condizione di esclusa. La società fa di tutto per impedire alla donna di essere libera, e quando le permette di svolgere attività o professioni tipicamente da uomini, bisogna vedere di quali uomini si tratta e come vengono considerate le donne in questione. Basta guardare i programmi televisivi: vi sembra che possano emancipare la donna? L’unica libertà che le viene concessa è una libertà sessuale che in effetti è il contrario della libertà, è una forma di repressione sadica. La serie di film erotica lo dimostra a sufficienza. Essi servono, tutt’al più, a conservare i bassi istinti freudiani e nello stesso tempo a far prosperare la produttività nell’avvilimento, con le ore di straordinario, il risparmio, ecc.
La donna sarà la risultante di questo sistema di lavoro, il ricettacolo dei bisogni creati dalla società Ecco perché io cercherò sempre di indirizzare la donna per restituirla a se stessa senza nessun condizionamento. Per me una donna ha tutto il diritto di essere liberata, e pura, e idealizzata, come mia madre.


Ama la vita?

L’amo ferocemente, disperatamente. E credo che questa ferocia, questa disperazione mi porteranno alla fine. Amo il sole, l’erba, la gioventù. L’amore per la vita è divenuto per me un vizio più micidiale della cocaina. Io divoro la mia esistenza, con un appetito insaziabile. Come finirà tutto ciò? Lo ignoro. 


 

Curatore, Bruno Esposito
Grazie per aver visitato il mio blog

 
 
 
 
 
 
 

Medea di Pasolini - di G. B. Cavallaro - 1970

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro




Medea di Pasolini
di G. B. Cavallaro
Il Dramma,
ANNO 46 - NUMERO 2 
FEBBRAIO 1970

(Trascrizione curata da Bruno Esposito)

In una recente intervista (≪ Il Dramma≫, n. 12) ( L'intervista la trovi QUI ) a Piero Sanavio, Pasolini collocava la Medea sulla strada che lo portava a un prossimo film su San Paolo, un San Paolo visto come uomo di fede ma lacerato profondamente. Alcune parole dette allora, e rilette oggi, ricordano nel film la lunga lezione del centauro Chirone al giovane Giasone. Che cosa e infatti la Medea? E' la rievocazione mitica, nostalgicamente ricomposta, del tempo della religione, cioè, come egli diceva, di ≪ un rapporto di tipo religioso con la realtà, cioè considerare la realtà non naturale ≫. Questo è il tema della prima parte, e stupenda, del film. Qui Pasolini compone con perfetta intuizione l’immagine di un mondo sacrale, riscoperto con la memoria: memoria di affascinate letture,  e di riti d’infanzia, che costruisce immagini uniche e irripetibili, come ha osservato Callisto Cosulich, dal significato assoluto e dal sapore magico. Il racconto ripercorre con attenta passione il mito degli Argonauti, la storia di Giasone e il racconto della spedizione degli argonauti alla conquista del vello d’oro. Sono le nostre letture della prima ginnasiale, che Pasolini è andato a verificare in Anatolia nello stupendo villaggio roccioso della regione di Kayseèri e negli esterni inimmaginabili  della Valle di Urgùp in Cappadocia. Dove tutti si aspetterebbero tuttavia una minuziosa descrizione di fatti, e quindi la spedizione dei cinquanta eroi greci nelle remote lande della Colchide, abbiamo invece soprattutto  una ricostruzione etnografica, figurativamente stupenda, degli usi e della vita dei barbari della Colchide,  dei loro sacrifici umani. Non per estetismo pero Pasolini ha assunto il partito della bellezza a tutti i costi  ottenendo alle singole immagini il valore e la vibrazione  di sacre figurazioni, ma obbedendo a quello che  è il suo intimo stato d’animo, la sua religiosità (≪ tutto, - egli ha detto appunto - mi appare sotto una forma non dico miracolosa nel senso convenzionale, ma quasi, insomma, sacrale ≫).

In Pasolini c’è conflitto fra sacralità e religione istituzionalizzata, o per meglio dire fra religiosità come atteggiamento umano e poetico e giudizio sulla religione vista come fenomeno arcaico, preindustriale, coacervo di elementi irrazionali collegati alle epoche magiche. Da un lato c’è la religione divenuta istituzione e legge, cioè chiesa, in contraddizione con se stessa per conservarsi (come la Medea della tragedia), dall’altra il sentimento che tuttavia la contestazione al  mondo razionalizzato e consumistico, ≪ gruppi di umanità che franano fuori dalla tensione produzione-consumo ≫, può aversi solo dallo spiritualismo e dai grandi fenomeni di eresia, come i beats e gli hippies, eccetera. La religione, certo non una religione di tipo irrazionale come quella del mito, dopo essere stata il prima, può essere il poi del mondo neocapitalistico.

Si capisce per questo che il film di Pasolini appaia quasi bloccato sul piano dinamico del racconto, e che, governato da schemi cosi obbliganti e da tali remore, non possa abbandonarsi al gioco dei fatti e degli svolgimenti o delle psicologie. E ne risente in particolare la seconda parte della narrazione, quella dove è fedelmente trascritta, ma per scorci marginali e quasi di sbieco, l’umanissima tragedia di Euripide. Pero si ergono alcuni grandi momenti, brandelli sublimi di invenzione lirica. Nel conflitto tra un mondo barbarico e istintivo e una civiltà ordinata e riflessiva, laica, la tragica follia di Medea si colma di poesia anche se la costruzione psicologica del personaggio è assente. Ecco la doppia descrizione dell’uccisione di Glauce, figlia del re di Corinto, vista come progettazione è ripetuta poi nella realtà; e la dolce sequenza, pur nella obiettiva crudeltà dei fatti, in cui Medea uccide i due suoi figlioli, più un distacco che un omicidio. In questi momenti Pasolini è dalla parte della protagonista di un mondo barbarico e sacrale e ne comprende intimamente furori, contraddizioni e dolori, soprattutto quel sentirsi abbandonati dalla propria forza e ragion d’essere. E l’impiego originalissimo delle musiche tibetane, persiane e giapponesi sottolinea il processo di sacralizzazione assunto  dal regista.

Un film come questo giunge quasi inaspettato e fuori posto, nella sua castità, e il suo silenzio (è un film quasi muto, documento di un sentimento, pagina di lettura: come un appunto gramsciano, greve di riferimenti e connessioni ma sempre restituzione lucida e moderna di una sublime opera di poesia) sembra stridere in tempi di opere chiassose e volgari, di film da  cassetta, o stupidi e rumorosi anche se dotati di qualche intenzione, e di breve respiro. Pasolini continua a comportarsi da figlio caotico e disubbidiente del mondo borghese (il caos come programma polemico, come rivolta) e la sua disobbedienza assoluta si verifica nello stile anche di questo film; un’altra opera che è impossibile
annettere, consumare, esaurire nei significati facili  e nel bello delle immagini, ma che anzi volutamente  sconnette delle abitudini, invita allo sgradevole (teste  mozze, fratricidi, matricidi, dialoghi gettati in scena come oggetti superflui o come pure didascalie, il primato  dato al momento plastico e figurativo, tanto da scandalizzare i critici fini e da far dire che in fondo Pasolini non è ancora entrato in vera dimestichezza col cinema e le sue immagini). La verità è che Pasolini
ha costruito ancora una volta il racconto (non diversamente dal solito, ma con più maturazione e convinzione)  sul filo delle sue immagini interne e dei suoi ritmi, delle sue ragioni poetiche e dei significati che quella lettura ha evocato in lui. E fra stile e autore si crea un rapporto di unicità e di novità, di invenzione nell’apparente rinuncia alla costruzione narrativa e al  disegno dei caratteri e delle situazioni. Pasolini è esploratore di universi e non un suscitatore di ripetizioni teatrali o di melodrammi, e i mezzi da lui impiegati, se cosi li vogliamo chiamare, pur cosi lontani dagli standards narrativi, non potevano essere diversi. Anche se  sembra di vedere delle vignette colorate dalle immagini fisse, anche se la tragedia di Medea e esposta, come scrive un critico, en raccourci e, come suggerisce un secondo, in ≪ brandelli ≫ difficili da decifrare.

Per mettere d’accordo tutti, ci sono sempre le vedute  del paesaggio lagunare di Grado, e la piazza dei Miracoli di Pisa, e i costumi favolosi inventati da Piero Tosi, e le limpide architetture della immaginata Corinto.

E' che, sia pure non di facile lettura e discutibile come ogni cosa al mondo, da una parte ci sono film come Medea e come Antonio das Mortes di Glauber Rocha (seguito e sviluppo dei motivi dell’altro Deus e  o Diabo na terra do sol) allegorizzante e misticheggiante più dell’altro, ma di una truce quanto affascinante vena popolare, dall’altra ci sono invece Il giovane normale
di Dino Risi, o Lovemaker (≪ L ’uomo per fare l’amore ≫) di Ugo Liberatore, o La mia notte con Mauri di Erich Rohmer, il regista ex critico già autore di un divertente quanto inosservato La collectioneuse. Film che per un verso o per l’altro qualche cosa da dire l’avrebbero, certo sempre di più dei campioni d’incasso come Un maggiolino tutto matto o Il prof. doti. Guido Tersilli o Agente 007 al servizio segreto di Sua Maestà con la sua inutile orgia di inseguimenti e inverosimiglianze, ma che si fermano alla superficie di un gioco caricaturale, o sfiorano il paradosso con timida mano, o si perdono in un mare di parole senza porsi questioni impopolari come quella del rapporto contenuto-forma, come si diceva una volta, o del linguaggio, dei segni, come diciamo oggi.

I professionisti del box-office, che hanno dovuto già arrendersi ai contenuti rivoluzionari e ai registi giovani e hanno visto che alla fine gli uni e gli altri possono rivelarsi produttivi, non intendono rinunciare pero alla garanzia prestata dagli standards spettacolari. I film, essi dicono, devono rispondere alle ≪ regole che rendono  interessante una pellicola ≫, sia questa Indianapolis pista infernale o Fellini Satyricon o II commissario Pepe. Il pubblico e in grado di digerire opere diversissime, purchè sian tutte legate al denominatore comune ≪ della validità e dell’interesse ≫. Ma quali sono i requisiti della validità? L ’intelligenza, si afferma, la carica poetica, la personalità drammatica, la cultura possono trasformarsi in successo commerciale, senza compromessi,purchè
evitino i tentativi sperimentali per essere applicate secondo le costanti e ormai ≪ consacrate ≫ regole del gioco scenico. Un discorso che suona quasi irriverente quando lo si applica, come e in questo caso, a registi come Fellini e Visconti. Si insiste nel voler puntare sui grandi incassi, sui film d’alto costo, sul cinema di consumo e sulle sue regole evidentemente sconfitte in tutto il mondo, sul gigantismo cinematografico, gridando al lupo nei confronti dello sperimentalismo.


E' evidente, tutti ormai lo stanno sostenendo, che la pura prova di virtuosismo tecnico, lo sperimentalismo e l’ermetismo, l ’underground per partito preso hanno mostrato i loro limiti come fatto culturale e come risposta di pubblico; un film che e visto da pochi non può diventare ne un fatto industriale ne soprattutto culturale in tempi di mass-media. Ma fra il kolossal e l’underground  c’è
 tutto uno spazio da concedere all’invenzione linguistica e al discorso dell’autore, se non vogliamo che il cinema muoia nella stanca ripetizione del Modello  Unico. Questo spavento che ha preso tutti, registi  grandi e produttori piccoli, e l’ultimo segno di disperazione del nostro cinema, costretto all’innaturalezza  dalle sue abnormi strutture. Tutti, o quasi, non escluso il pur bravo e impegnato Pontecorvo, si danno alla prosa facile e all’alta divulgazione per assicurare la massima circolazione al loro cosiddetto Messaggio. Ecco la fuga dal montaggio, ecco l’attesa del grande attore,  ecco la necessita del grande schermo, della storia intreccio, dei luoghi comuni teatrali più deleteri.

Ma e possibile in queste condizioni trasmettere un qualsiasi messaggio che non sia uno stereotipo vestito  di buone intenzioni, in realtà segnato da un linguaggio  di classe che contraddice ai suoi significati? Morandini ha impostato acutamente la questione su ≪ Il Tempo ≫,  settimanale, negando la priorità del contenuto rispetto  alla forma e la stessa validità del compromesso cosi pressantemente chiesto dal mondo economico. Ciò che  l’artista ha da dire, corrisponde esattamente alla forma che assumerà la sua opera, non c’e un discorso che si  possa pronunciare in molti modi, adottando quasi uno sperimentalismo a rovescio: ≪ L’errore, anzi, il peccato di Pontecorvo e di credere che il fine giustifichi i mezzi... è l’errore tipico di chi crede che il contenuto sia qualcosa che sta “ dentro ” e che lo stile sia qualcosa che sta “ fuori ” ... Il modo di apparire e il modo  di essere, cioè la maschera e il volto ≫. Siamo perfettamente d’accordo, contro tutti i terroristi delle sante regole che stanno strozzando il cinema over ground-,se non si corre ai ripari.

G. B. Cavallaro
Il Dramma, ANNO 46 - NUMERO 2 - FEBBRAIO 1970

(Trascrizione dal cartaceo di B. Esposito)





Curatore, Bruno Esposito

Grazie per aver visitato il mio blog

UCCELLACCI E UCCELLINI di Pier Paolo Pasolini - Regia di Bogdan Jerkovic

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro





BUBBOLA:

Epò, popò, popò, popò, popí,

   pipí, qui qui, qui qui,

   qui qui, qui tutti, o miei compagni alati,

   quanti dai seminati

   degl'industri bifolchi

   semi ed orzo rapite,

   o prosapie infinite - dalla morbida voce

   e dall'ala veloce;

   e quanti per i solchi - errando a schiera

   pigolate con sí grata e leggera

   voce a le zolle intorno,

   tio, tiò, tiotiò;

   e quanti nei giardini hanno soggiorno

   fra ramuscelli d'edera,

   o su montane piagge

   d'albatrelle si nutrono e d'olive selvagge,

   tutti volate alla mia voce qui:

   tiotiò tiotiò tirití.

   Voi che ingoiate in umidi valloni

   le stridule zanzare,

   voi che godete il pascolo fiorito

   di Maratona ed ogni irriguo sito,

   e voi ch'errate a par con le alcïoni

   sul procelloso mare,

   qui venite a sentir le novità;

   ché ogni tribú dei collilunghi aligeri

   ora aduniamo qua.

   Perché giunto è un tal vecchietto

   di talento,

   che mandar vuole ad effetto

   un nuovissirno progetto:

   sú, sú, tutti a parlamento,

   qui qui qui,

   torotò torotò tirití,

   chicchabàu chicchabàu,

   torotò torolilí.


( Tratto da Uccelli di Aristòfane )





UCCELLACCI E UCCELLINI di Pier Paolo Pasoli
Regia di Bogdan Jerkovic
≪ Centro Universitario Teatrale ≫ di Parma.

Il Dramma
numero 373, ottobre 1967

(Trascrizione curata da Bruno Esposito)

Gli attori del ≪ Centro Universitario Teatrale ≫ di Parma (al quale si deve dal 1953 l’organizzazione del Festival Internazionale del Teatro Universitario) hanno tentato un interessante esperimento: quello di trasportare sulle scene, come un testo teatrale, la sceneggiatura originale del film Uccellacci e uccellini di Pier  Paolo Pasolini. La sceneggiatura stessa comprende tre episodi, il primo dei quali non ha trovato posto nel film (ed e forse, proprio per tale ragione, il più teatrale dei tre, almeno dal punto
di vista dell’esteriorità strutturale, essendo il solo che rispetti l’unità di luogo).

Il regista jugoslavo Bogdan Jerkovic (fondatore e direttore del Teatro Universitario di Zagabria, che da sette anni guida autorevolmente anche i giovani attori di Parma) si e sforzato di conferire il carattere di un discorso unitario ai tre episodi (sostanzialmente autonomi) di Uccellacci e uccellini, ponendo in rilievo il tema ad essi comune del ≪ miracolo non riuscito ≫.

Nel primo episodio si assiste all’≪ esperimento-miracolo ≫ di un ≪ missionario-domatore ≫, il signor Courneau (cioè il bianco), il quale tenta di insegnare a parlare ad un’aquila, che sta a rappresentare il ≪ terzo mondo ≫, ed invece ne è spiritualmente vinto, poichè assume egli stesso i
modi ed il linguaggio del fiero rapace, cadendo in preda ad una specie di ossessione imitativa.
Due frati, don Ciccillo e don Ninetto, che sono inviati — nel secondo episodio — da San Francesco
a pacificare la classe dei falchi e la classe dei passerotti, falliscono nella loro missione, perchè il falco divora il passerotto, ed allora San Francesco ammonisce i suoi seguaci, affermando che il miracolo potrà compiersi soltanto quando la società sara integralmente trasformata.
Infine, protagonista del terzo episodio, che ha per argomento la crisi del marxismo in Italia, un corvo ideologo che si sforza di inoculare la coscienza del marxismo in due ≪ piccoli italiani ≫ (un mezzadro e il suo figliuolo Ninetto) ed è invece ucciso e divorato da essi, perchè ha sbagliato il ≪ metodo ≫ nel propagandare la sua ideologia.

Questi tre apologhi schiettamente (e, in un certo senso, aridamente) politici, trasportati sulla scena (che finisce inevitabilmente  col rendere ≪ assoluta ≫ la parola, nonostante ogni accorgimento
della regia) e privati perciò della più abbondante integrazione che può fornire ad essi il più mobile e più duttile mezzo espressivo del cinema, risultano estremamente schematici ed ambigui, se non addirittura enigmatici (specialmente il terzo). L ’ambiguità è uno dei motivi dominanti (e più fertili) dell’arte di Pier Paolo Pasolini; ma quest’ambiguità, nella versione teatrale di Uccellacci e uccellini, si trasforma in più di un momento in una pura e semplice opacità dello spettacolo, pur cosi ricco di movimento e di colore.

Il regista Bogdan Jerkovic si è perfettamente reso conto del problema e, coadiuvato da un gruppo di intelligenti attori (fra i quali ricorderemo Gian Carlo  Ilari, Paolo Bocelli, Francesco Sciacco, Lorena Atti, Gigi Dall’Aglio e Luisella Mazzola), ha cercato di imprimere ai tre episodi una linea di conseguenza e di coerenza anche recitativa, adottando i moduli del ≪ Living Theater ≫ soprattutto nel primo e nel secondo episodio (che sono stilisticamente i più compiuti in una linea dal regista stesso definita ≪ mistico-grottesca ≫). Ma  l’interesse principale dello spettacolo rimane essenzialmente ≪ sperimentale ≫: esso propone una ≪ verifica ≫ che consente di studiare in qual misura una ≪ parola ≫, nata per essere premessa  e stimolo di immagini cinematografiche, possa resistere adeguandosi alla dimensione teatrale che le assegna, almeno nel caso di Uccellacci e uccellini, una responsabilità comunicativa incomparabilmente maggiore.

(Trascrizione dal cartaceo di B. Esposito)




Curatore, Bruno Esposito

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