"Le pagine corsare "
dedicate a Pier Paolo Pasolini
Eretico e Corsaro
Biblico scandalo, Pasolini e il Vangelo, il diavolo e l’acqua santa.
Quando il suo film apparve alla Mostra di Venezia e poi nelle sale, nel 1964, molti censori e nemici erano pronti a impallinare lo scrittore di sinistra dei ragazzi di vita, ma la persuasiva bellezza del film e il suo silenzioso respiro mistico vinsero su facili polemiche. Il Vangelo secondo Matteo, dedicato dall’autore "Alla cara, lieta, familiare memoria di Giovanni XXIII", rispecchia, nell’iconografia barbarica dei costumi e nelle immagini da pittura rinascimentale, la violenza del messaggio, la Parola non sempre pacificatrice di Gesù, nel rispetto della più grande Storia mai raccontata. Per Pasolini anche un Accattone o Mamma Roma potevano soffrire come Cristo e ribellarsi come lui alle ingiustizie del mondo, in una extra-temporalità.
In una scarna semplicità narrativa il film, con la macchina da presa a mano che salta, si anima e s’arrabbia come fosse viva, si avvale della presenza maternamente dolorosa di Susanna Pasolini, Madonna anziana, comunicazione di un dolore universale. E poi molti letterati, dalla Ginzburg a Siciliano e a Gatto. Ma il film è persuasivo per il suo taglio poetico, per la voglia di giustizia, per il vento che risuona tra le parole e le espressioni del volto dell’inedito attore Enrique Irazoqui, con la voce prepotente di Enrico Maria Salerno. Ci commuove per lo sguardo innocente e contagioso dei bambini, per la violenza espressiva del montaggio, per la povertà primitiva dei paesaggi inerpicati su picchi e rocce (di Matera e di altre zone del Sud). E per la rabbia, effetto ultimo dell’operazione, preceduta non a caso nel ‘63 dalla magnifica crocefissione laica dell’episodio pasoliniano La ricotta in Ro.Go.Pa.G, cronaca di una morte sacra con una comparsa al posto di un Dio, come dire una nota di Mozart o Bach ma insieme anche un canto popolare.
Scheda critica:
La storia di Pasolini poeta, scrittore, regista, intellettuale, uomo del suo tempo ha sempre suscitato, oltre che varie interpretazioni e non poche critiche verso le opere nate dal suo genio, un fascino irresistibile. Il fascino eterno del ribelle senza una vera bandiera alla quale piegare il capo, l’attrazione fatale per la vita e per l’uomo, dipinto proprio nelle spoglie e magnifiche metafore costruite e distrutte rapidamente dalla società. Il Vangelo (1964) non è altro che uno dei tanti tasselli che compongono e tengono ancora in vita il ricordo di questo poeta per molti aspetti schivo, dal viso provato, dallo sguardo profondo e tormentato come i suoi maledetti eroi di periferia; uno sguardo, però, che sapeva andare molte volte oltre l’orizzonte, lontano.
Questo fascino, che egli aveva riversato puntualmente nel Vangelo, è contenuto nel tentativo di fare del cinema strumento di poesia e, dunque, di " salvezza ". Un tentativo, questo, che aveva coinvolto inevitabilmente il mondo della letteratura italiana negli anni del boom economico. Non menzionare, infatti, il clima socio-economico in cui era girato il film ci potrebbe far cadere in facili incomprensioni ed errori. Era il decennio dell’industrializzazione, l’Italia da paese rurale si avviava, dopo la ricostruzione dalle macerie e dallo sconforto della guerra, a diventare una potenza industriale dell’Occidente: in quegli anni volgendo lo sguardo al paesaggio si potevano vedere le strade che sostituivano i campi, le automobili i vecchi trattori, i grattacieli i casali di campagna. Sì, l’Italia stava cambiando pelle e nel giro di pochi anni questa trasformazione investiva l’intera società: dal ricco industriale al giovane contadino, tutto il popolo italiano si sentiva protagonista di questa " rivoluzione ", con tutte le speranze, ma anche con tutte le probabili disillusioni che essa poteva portare con s?. Disillusioni che però non scalfivano per niente la nascita di un nuovo modello di comunicazione, un nuovo modo di fare cultura. Smessi i panni tradizionalmente ?litari che n’avevano contraddistinto il ruolo, ora la cultura si avviava ad assumere quella forte caratterizzazione " di massa " che non avrebbe più lasciato; ormai era il popolo ad esserne diventato il vero referente. Ma a questo punto quale doveva essere il ruolo dell’intellettuale, del poeta di fronte ad uno scenario che stava diventando più grande (ed importante) di lui? Si metteva in discussione il rapporto intellettuale-messaggio-destinatario, perch? in questa triade vi stava entrando di prepotenza un quarto termine: l’immagine. Proprio in quella società costruita sul denaro e sul suo uso sfrenato, l’immagine andava ad esserne l’epicentro e ad essa era delegata ogni possibile rappresentazione dell’esistenza umana. E se ciò stava avvenendo nell’arte (si ricordi la pop-art di Rauschemberg e Warhol), che diventava una sorta di descrizione o riproduzione in serie dell’era dei simulacri, il ruolo che assumevano strumenti visivi come televisione e cinema era totalizzante: attraverso queste macchine la realtà poteva essere riprodotta, deformata, amplificata, sfruttando al massimo l’istintualità umana della visione. Questo mondo che andava assumendo per il Pasolini marxista e "sottoproletario" la forma di un enorme supermercato, con le sue imponenti macchine da spettacolo, diventava, oltre che espressione del potere della " società neocapitalistica ", una sfida altissima con la sua capacità di ricercare nuove forme espressive per la propria poesia. Egli aveva capito che la letteratura per sopravvivere doveva entrare nel sistema e combatterlo dall’interno, sfruttando proprio quei mezzi che n’esprimevano la potenza. A questo punto maturava la decisione e la convinzione da parte del regista di esprimersi attraverso "la lingua scritta della realtà", e cioè il cinema, autentico interprete di un rapporto mitico-simbolico con il reale. Se le pagine di un libro potevano evocare la realtà, le scene di un film la potevano tradurre, conferendole materialità e fisicità. Era qui che nasceva la sua scelta cinematografica e il suo intento di farne poesia, ed è stata questa la scelta che più di ogni altra ha conferito al Vangelo un fascino particolare.
Non era certo la prima volta che Pasolini affrontava un tema religioso. Nella contraddittoria raccolta di poesie La religione del mio tempo (1961) egli descriveva la cultura neocapitalistica come la vera ed unica religione del suo tempo, schiavizzante, volgare simbolo di sottocultura con l’obiettivo dell’omologazione. Ma proprio le amare parole che si ritrovano in quelle pagine (il mondo mi sfugge / ancora non so dominarlo / più) esprimevano il desiderio di proseguire oltre: quale religione poteva cercare un non-credente e quale mezzo poteva sfruttare per trovarla? Non casuale appare la scelta del Vangelo secondo Matteo, opera che S. Petraglia definisce " lirica, epica, narrativa " e " ripresa attuale del mito ". Ed è per questo motivo che molte ed importanti per la sua comprensione venivano ad essere le scelte che portavano alla sua rappresentazione. Mentre Hollywood andava costruendo per sempre i suoi " miti ", questo piccolo regista optava per una scelta dolorosa ma avvincente: non circondarsi di attori famosi o idolatrati sul set, ma chiamare alla recitazione la " sua " gente, quell’inesperta, ma proprio per questo semplice e spontanea, delle borgate, la sola, forse, adatta all’interpretazione di personaggi santi e blasfemi. Questa era la novità più importante, dalla scelta di includere nel cast propria madre nel ruolo della Vergine (si chiarirò più avanti i miei pensieri sulle ragioni di questa scelta) alla nuova immagine del Cristo che voleva elaborare. Egli stesso dichiarava sulla scelta del Cristo: " Non volevo un Cristo dai lineamenti morbidi o dallo sguardo dolce (…). Appena vidi entrare nel mio studio Enrique Irazoqui fui certo di aver trovato il mio Cristo. Aveva lo stesso volto bello e fiero, umano e distaccato, dei Cristi dipinti da El Greco. Severo, perfino duro in certe espressioni ". Quest’esasperata ricerca di particolari modelli figurativi lo portava all’amore per le rappresentazioni iconografiche della pittura toscana medioevale, dalla quale traspariva poca idealità, ma gran passionalità, unita e trasferita anche negli elementi del quotidiano. Era straordinario il modo in cui riusciva a contaminare questi elementi semplicemente negli sguardi dei propri attori. Infatti, scorrendo tutta la pellicola, si è quasi catturati dalla tecnica del primo piano; il film stesso si apre con tre di questi: Maria, Giuseppe, Angelo dell’Annunciazione e si snoda per tutta la vicenda concentrandosi su due figure, il primo piano di Giovanni Battista nelle carceri, costantemente giocato su effetti di luce ed ombra, simbolo dell’incertezza e delle speranze umane di fronte all’ipotesi di una venuta messianica, e quello del Cristo durante le prime predicazioni: assente qualsiasi tipo di referente, lo schermo è totalmente occupato dal suo volto, come a sottolineare che il suo volto è già predicazione stessa, mentre alle sue spalle il mondo si presenta mutevole (anche qui effetto luce-ombra) , incerto, insicuro. Ed infine innumerevoli primi piani degli altri personaggi, molto spesso con gli sguardi rivolti al cielo, sospesi anch’essi in una fissità atemporale magica ed inquietante.
Ma torniamo alla figura centrale del film, cioè quella del Cristo. Uno dei fattori essenziali che conducono alla sua prorompente vitalità e superiorità di profeta senza spada è il linguaggio. La genialità di Pasolini sta nell’aver fatto ciò che molti registi non fanno: non cambiare nulla, n? una parola, n? un verso di quanto è scritto nel testo da cui trae spunto la storia messa in scena. Era questa un’idea semplice, ma geniale, perch? non solo toglieva ogni sospetto di demistificazione o blasfemia sul film che una sceneggiatura ritoccata e ripensata avrebbe potuto provocare, ma permetteva anche di conferire al linguaggio del Cristo un’universalità ed una forza mai viste prima. Il fatto che Pasolini non facesse dire al Cristo nulla di più di quanto non si trovasse nelle Sacre Scritture, rendeva questa figura ancora più vera e dona forza soprattutto al messaggio, spoglio, scarno, non più convenzionale, un messaggio che deve essere ricercato e di fronte al quale non si può far altro che meditare in silenzio. Ecco che allora parole ed immagini si fondono per magia in un Cristo radicale, convincente, a tratti violentemente veritiero, in una lotta nel e contro il mondo. Significativa, a questo proposito, la resa magistrale della tentazione nel deserto, con un Satana dal volto umano, un tentatore che viene da lontano come un comune, anonimo uomo che percorre le strade del mondo, a simboleggiare che il male è forte e non preserva nessuno dalla condanna morale; e sarà il Figlio dell’Uomo , nel deserto delle coscienze stesse, a dover sapere rifiutare e a scacciarlo via. Un isolamento, quello nel deserto, che scompare nell’atto del miracolo, compiuto di fronte a questi goffi contadini del Sud, che costituisce una forza irrazionale perch? espressione d’incontrastabile libertà, riversata proprio sugli oppressi più tristi: gli storpi, i lebbrosi, i ciechi, i figli del mondo che vivono alle periferie delle moderne città e delle loro luci. Ecco perch? la videocamera di Pasolini si ferma e "si arrende" di fronte al Cristo che dice: "Chi avrà perduto la sua vita per causa mia la ritroverà" o "Quanto è stretta la porta ed angusta la strada che conduce alla vita e pochi quelli che la trovano". A questo punto Pasolini termina, con il sermone della montagna e il Padre Nostro, la descrizione della lotta di Cristo nel mondo, per soffermarsi su quella che gli sta più a cuore: la lotta contro il mondo.
Il mondo contro il quale lotta il Cristo pasoliniano è quello filisteo-borghese che si scontra con il suo messaggio che, in quanto Verità, non può essere accettato. Egli stesso dichiarava che "il Vangelo doveva essere un violento richiamo alla borghesia stupidamente lanciata verso un futuro che è la distruzione dell’uomo, degli elementi antropologicamente umani, classici e religiosi dell’uomo". E’ probabile che Pasolini avesse riconosciuto nel Cristo-personaggio come nel Cristo-profeta molti tratti del suo biografismo: un uomo in lotta contro la degenerazione del mondo, un uomo crocefisso dagli avversari, un uomo che risorge. Tesi avvalorata dal fatto che il Cristo ha i toni più duri ed accesi proprio nelle dispute verbale contro il "potere", impegnato nel calpestare l’umanità e dunque a non credere nella missione dell’eroe dalla predicazione folle ed eremitica che hanno di fronte. "Moltissimi saranno coloro che saranno chiamati, ma pochissimi saranno gli eletti", questo il monito dell’uomo che crede in s?, nel proprio Verbo, nella propria ribellione che aprirà la strada alla salvezza. Strada che però, proprio perch? angusta, sarà quella che egli solo saprà compiere; emblematico, a questo proposito, il pianto di Pietro, uomo fermatosi proprio di fronte all’ultimo ostacolo, il più arduo, quello dell’affermazione del proprio io anche a rischio della morte; uomo perciò tragico nella sua solitudine e nel suo silenzio, ricurvo ai bordi della strada che non ha più continuato a percorrere. Strada e cammino abbandonati già da tempo dal Giuda, che si vende al potere per trenta denari, figura emblematica dell’uomo moderno che china il capo e chiude il proprio cuore di fronte al profumo dell’oro e della sicurezza: il suo è "atto di una terra di nessuno". Sono proprio queste esitazioni, questi errori tutti umani, queste consapevoli deviazioni che porteranno al martirio e alla morte questo "eretico sociale", ed esse si manifestano nei momenti più inaspettati del film: il personaggio, ad esempio, di Salomè è ritratto inizialmente con una dolcezza ed un candore estremo; poi, terminata la graziosa danza, il suo viso, rimanendo sereno, pronuncia la fatidica frase: "Voglio la testa di Giovanni Battista". E si può vedere come dietro quella dolce maschera, molto simile a quella che ogni uomo indossa nella società, si nascondano odio, sete di vendetta, follia. Salomè è contrapposta proprio in questo al personaggio femminile di primo piano dell’opera: Maria. Il film, come già detto, ha il suo principio con il volto sorridente e dolce della giovane fanciulla e la sua fine con la " stessa " immagine, dipinta stavolta sul volto provato e sfiancato dalla vita e da tutte le difficoltà di aver ricevuto per la propria esistenza una missione al limite dell’umanità stessa. Ed è qui il significato della scelta fatta da Pasolini con l’assegnazione della parte di Maria a sua madre: la donna che per prima accoglie in fasce il bambino e che lo porta per mano nel mondo da cambiare, è la stessa che piange sotto la croce, la " sua " croce. Impossibile non scorgere qui, ancora una volta, il sentimento di profondo affetto che il regista nutre verso la propria madre, ancora considerata l’unica figura per molti aspetti incorruttibile dall’età e dal mondo, ancora la guida, la luce da cui non ci si sentirà mai abbandonati, anche di fronte alle più dure e dolorose sconfitte. Infatti, nel film, ciò che rimane immutato è il suo sguardo: ancora innocente, ancora profondo nella compostezza e nella semplicità ed è, per questo, uno sguardo unico. Gli occhi della Madre, dunque, principio e fine dell’opera, gli unici, forse, capaci di donare magia e forza alla solenne promessa di un ritorno: " Ed io sarò con voi per sempre, fino alla fine del mondo ", e con esso tutta la sfida di riuscire ad andare oltre la propria dimensione, non rincorrendo l’irrazionale, ma scoprendo pian piano la propria anima ed il proprio essere uomini.
Dedicato a Giovanni XXIII, negli anni in cui il comunismo meno utopistico e il cattolicesimo più avanzato e progressista tentavano di " deporre le armi " e di instaurare un serio e costruttivo dialogo, questo film non è per nulla quella " piccola angusta cosa, frode in commercio " che definì M. Cournot. E’, per le ragioni sopra elencate, un autentico capolavoro, è unione di messaggio cristiano ed utopia marxista, è il difficile equilibrio tra narrazione del credente e del non credente, è creazione di cinema come poesia, ed è forse il sogno l’autentica strada per arrivare alla salvezza.
A cura di
Marco Luceri
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