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martedì 22 dicembre 2020

Pier Paolo Pasolini: La sceneggiatura come "struttura che vuol essere altra struttura" - Nuovi Argomenti, gennaio - marzo 1966

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro


Pier Paolo Pasolini:
La sceneggiatura come "struttura che vuol essere altra struttura" 
Nuovi Argomenti, gennaio - marzo 1966
*
Empirismo eretico
Terza parte: Cinema
Raccolta di saggi scritta da Pier Paolo Pasolini e pubblicata da Garzanti nel 1972.




Il dato concreto del rapporto tra cinema e letteratura è la sceneggiatura. Non mi interessa però tanto osservare la funzione mediatrice della sceneggiatura, e l'elaborazione critica dell'opera letteraria che essa conduce, "integrandola figuralmente" con la prospettiva altrettanto critica dell'opera cinematografica che essa presuppone.

In questa nota quello che mi interessa della sceneggiatura è il momento in cui la sceneggiatura può essere considerata una "tecnica" autonoma, un'opera integra e compiuta in se stessa. Prendiamo il caso di una sceneggiatura di uno scrittore, non tratta da un romanzo e – per una ragione o l'altra – non tradotta in film.

Questo caso ci presenta una sceneggiatura autonoma: che può rappresentare benissimo una vera e propria scelta dell'autore: la scelta di una tecnica narrativa.

Qual è il canone di giudizio per una simile opera? Se la si considera completamente appartenente alle "scritture" – cioè nient'altro che il prodotto di un "tipo di scrittura " il cui elemento fondamentale sia quello di scrivere attraverso la tecnica della sceneggiatura – allora essa va giudicata nel solito modo con cui si giudicano i prodotti letterari, e precisamente come un nuovo "genere" letterario, con la sua prosodia e la sua metrica particolari ecc. ecc.

Ma facendo questo, si compirebbe una operazione critica errata e arbitraria. Se nella sceneggiatura non c'è l'allusione continua a un'opera cinematografica da farsi, essa non è più una tecnica, e il suo aspetto di sceneggiatura è puramente pretestuale (caso che non si è ancora dato). Se dunque un autore decide di adottare la "tecnica" della sceneggiatura come opera autonoma, deve accettare insieme l'allusione a un'opera cinematografica " da farsi ", senza la quale la tecnica da lui adottata è fittizia – e quindi rientra direttamente nelle forme tradizionali delle scritture letterarie.

Se invece accetta, come elemento sostanziale, struttura, della sua " opera in forma di sceneggiatura ", l'allusione a un'opera cinematografica-visualizzatrice " da farsi ", allora si può dire che la sua opera è insieme tipica (ha caratteri veramente simili a tutte le sceneggiature vere e proprie e funzionali) e autonoma nel tempo stesso.

Un momento simile c'è in tutte le sceneggiature (dei film ad alto livello): ossia tutte le sceneggiature hanno un momento in cui sono delle "tecniche" autonome, il cui elemento strutturale primo è il riferimento integrativo a un'opera cinematografica da farsi.

In tale senso una critica a una sceneggiatura come tecnica autonoma, richiederà ovviamente delle condizioni particolari, così complesse, così determinate da un viluppo ideologico che non ha riferimenti né con la critica letteraria tradizionale, né con la recente tradizione critica cinematografica – da richiedere addirittura l'ausilio di possibili codici nuovi.

Per es., è possibile servirsi del codice stilcritico nell'analisi di una "sceneggiatura"? Può darsi che sia possibile, ma adattandolo a una serie di necessità che quel codice non aveva decisamente previsto tanto da non riuscire che fittiziamente a coprirle. Infatti, se l'esame istologico condotto su un campione prelevato dal corpo di una sceneggiatura è analogo a quello che si conduce su un'opera letteraria, esso destituisce la sceneggiatura del suo carattere che, come abbiamo visto, è sostanziale: l'allusione a un'opera

cinematografica da farsi. L'esame stilcritico ha sotto gli occhi la forma che ha: esso stende un velo diagnostico anche su ciò che potrebbe preventivamente sapere, figurarsi su ciò che non sa realmente, non solo come cognizione, ma come ipotesi di lavoro!

L'osservazione sull'infinitesimo riproducente il tutto – che conduce a una ridefinizione storico-culturale dell'opera – nel caso della sceneggiatura mancherà sempre di qualcosa: ossia di un elemento interno della forma: un elemento che lì non c'è, che è una " volontà della forma ".

(Una volta presa coscienza del problema, probabilmente uno stilcritico può adattarvi la sua indagine: tuttavia il dato essenziale della stilcritica, quello di agire sul concreto, viene eluso: praticamente non si può "avvertire" questa "volontà della forma " da un particolare della forma. Tale volontà va presupposta ideologicamente, deve far parte del codice critico. Nel dettaglio essa non è che un vuoto, una dinamica che non si concreta, è come un frammento di forza senza destinazione, che si traduce in una rozzezza e incompletezza della forma, da cui lo stilcritico non può dedurre che una rozzezza e incompletezza di tutta l'opera: e magari dedurne una sua qualità di appunto, di opera da farsi ecc. ecc. E con ciò non si è tenuto al punto critico giusto, che deve piuttosto preventivare e supporre tale conclusione come parte integrante dell'opera, come sua caratteristica strutturale ecc. ecc.)

La caratteristica principale del " segno" della tecnica della sceneggiatura, è quella di alludere al significato attraverso due strade diverse, concomitanti e riconfluenti. Ossia: il segno della sceneggiatura allude al significato secondo la strada normale di tutte le lingue scritte e specificamente dei gerghi letterari, ma, nel tempo stesso, esso allude a quel medesimo significato, rimandando il destinatario a un altro segno, quello del film da farsi. Ogni volta il nostro cervello, di fronte a un segno della sceneggiatura, percorre contemporaneamente queste due strade – una rapida e normale, e una seconda lunga e speciale per coglierne il significato.

In altre parole: l'autore di una sceneggiatura fa al suo destinatario la richiesta di una collaborazione particolare, quella cioè di prestare al testo una compiutezza " visiva " che esso non ha, ma a cui allude. Il lettore è complice, subito – di fronte alle caratteristiche tecniche subito intuite della sceneggiatura – nell'operazione che gli è richiesta: e la sua immaginazione rappresentatrice entra in una fase creativa molto più alta e intensa, meccanicamente, di quando legge un romanzo.

La tecnica della sceneggiatura è fondata soprattutto su questa collaborazione del lettore: e si capisce che la sua perfezione consiste nell'adempiere perfettamente questa funzione. La sua forma, il suo stile sono perfetti e completi quando hanno compreso e integrato in se stessi queste necessità. L'impressione di rozzezza e di incompletezza è dunque apparente. Tale rozzezza e tale incompletezza sono elementi stilistici.

A questo punto succede un dramma tra i vari aspetti sotto cui si presenta un " segno ". Esso è insieme orale (fonema), scritto (grafema) e visivo (cinèma). Per una serie incalcolabile di riflessi condizionati della nostra misteriosa cibernetica, noi abbiamo sempre compresenti questi aspetti diversi del "segno" linguistico, che è dunque uno e trino. Se apparteniamo alla classe che detiene la cultura, e sappiamo dunque almeno leggere, i "grafemi " ci si presentano subito come " segni " tout court, arricchiti infinitamente dalla compresenza del loro "fonema " e del loro " cinèma ".

Ci sono già, nella tradizione, certe "scritture " che rimandano il lettore a un'operazione analoga a quella che abbiamo qui sopra descritta: per es., le scritture

della poesia simbolista. Quando leggiamo una poesia di Mallarmé o di Ungaretti, davanti alla serie dei " grafemi " che sono in quel momento davanti ai nostri occhi – i linsegni – noi non ci limitiamo a una pura e semplice lettura: il testo ci richiede di collaborare " fingendo" di sentire acusticamente quei grafemi. Esso cioè ci rimanda ai fonemi. Che sono compresenti nel nostro giudizio anche se noi non leggiamo a voce alta. Un verso di Mallarmé o di Ungaretti raggiunge il suo significato solo attraverso una dilatazione semantica, o una coazione squisito-barbarica dei significati particolari: il che si ottiene attraverso la supposta musicalità della parola o dei nessi delle parole.

Ossia dando delle denotazioni non attraverso una particolare espressività del segno, ma attraverso la prevaricazione del suo fonema. Mentre leggiamo, dunque, integriamo in tal modo il significato aberrante dello speciale vocabolario del poeta, seguendo due strade, quella normale, segno-significato, e quella anormale, segno-segno in quanto fonema-significato.

La stessa cosa avviene negli sceno-testi (inventiamo pure questo nuovo termine!). Anche qui il lettore integra il significato incompleto della scrittura della sceneggiatura, seguendo due strade, quella normale, segno-significato, e quella anormale, segno-segno in quanto cinèma-significato.

La parola dello sceno-testo è dunque caratterizzata dall'accentuazione espressiva di uno dei tre momenti da cui è costituita, il cinèma.

Naturalmente i "cinèmi " sono delle immagini primordiali, delle monadi visive inesistenti, o quasi, in realtà. L'immagine nasce dalle coordinazioni dei cinèmi.

È questo il punto: queste coordinazioni di "cinèmi " non sono una tecnica letteraria. Sono un'altra langue, fondata su un sistema di "cinèmi" o "im-segni", su cui si impianta analogamente ai metalinguaggi scritti o parlati, il metalinguaggio cinematografico. Di esso si è sempre parlato (almeno in Italia), come di un "linguaggio" analogo a quello scritto-parlato (letteratura, teatro ecc.), e anche quanto di visivo c'è in esso, è visto per analogia alle arti figurative. Ogni esame cinematografico è dunque viziato da questa origine di calco linguistico che il cinema ha nella testa di chi lo analizza o lo studia. Lo "specifico filmico" – definizione che ha avuto qualche fortuna solo esteriore in Italia – non arriva a prospettare la possibilità del cinema come un'altra lingua, con le sue strutture autonome e particolari: lo "specifico filmico" tende a porre il cinema come un'altra tecnica, specifica, fondata per analogia sulla lingua scritta-parlata, cioè su quella che è per noi la lingua tout-court (ma non per la semiotica, che è indifferente di fronte ai più svariati, scandalosi e ipotetici sistemi di segni).

Mentre dunque il "cinèma" nelle lingue scritto-parlate è uno degli elementi del segno – e, oltre tutto, quello preso meno in considerazione, presentando- si alla nostra abitudine, la parola, come scritta-parlata, ossia soprattutto come fonema e come grafema -nelle lingue cinematografiche il cinèma è il segno per eccellenza: si deve parlare piuttosto di im-segno (che è dunque il "cinèma" staccato dagli altri due momenti della parola, e diventato autonomo, segno autosufficiente).

Che cos'è questa monade visiva fondamentale che è l'im-segno, e cosa sono le "coordinazioni di im-segni ", da cui nasce l'immagine? Anche qui, istintivamente, abbiamo sempre ragionato tenendo nella testa una specie di calco letterario, ossia facendo una continua e inconscia analogia tra cinema e linguaggi espressivi scritti. Abbiamo cioè identificato per analogia l'im-segno alla parola, e vi abbiamo costruito sopra una specie di surrettizia grammatica, vagamente, fortunosamente e, in qualche

modo sensualmente, analoga a quella delle lingue scritto-parlate. Ossia, abbiamo nella testa un'idea dell'im-segno molto vaga, che genericamente identifichiamo con la parola. Ma la parola è sostantivo, verbo, interiezione o particella interiettiva. Ci sono delle lingue fondamentalmente nominali, altre fondamentalmente verbali. Nelle nostre lingue comuni in occidente, la lingua consiste in un equilibrio di definizione (sostantivale) e di azione (verbale) ecc. ecc. Quali sono i sostantivi, i verbi, le congiunzioni, le interiezioni nella lingua cinematografica? E, soprattutto, è necessario, che obbedendo alla nostra legge dell'analogia e dell'abitudine, vi siano? Se il cinema è un'altra lingua, tale lingua sconosciuta non può essere fondata su leggi che non hanno niente a che fare con le leggi linguistiche cui siamo abituati?

Cos'è, fisicamente, l'im-segno? Un fotogramma? Una durata particolare di fotogrammi? Un insieme pluricellulare di fotogrammi? Una sequenza significativa di fotogrammi dotati di durata? Questo deve essere ancora deciso. E non lo sarà finché non si avranno i dati per scrivere una grammatica del cinema. Dire, per es., che l'im-segno o monade del linguaggio cinematografico è un "sintassema" cioè un insieme coordinato di fotogrammi (o di inquadrature?) è ancora arbitrario. Com'è ancora arbitrario dire, per es., che il cinema è una lingua totalmente "verbale ": ossia che nel cinema non esistono sostantivi, congiunzioni, interiezioni, se non fusi coi verbi. E che quindi il nucleo della lingua cinematografica, l'im-segno, è un taglio in movimento di immagini, dalla durata indeterminabile e informe, magmatica. Onde una grammatica "magmatica" per definizione, descrivibile attraverso paragrafi e capitoli inusitati nelle grammatiche scritto-parlate.

Ciò che non è arbitrario è invece dire che il cinema è fondato su un "sistema di segni" diverso da quello scritto-parlato, ossia che il cinema è un'altra lingua.

Ma non un'altra lingua come il bantu è diverso dall'italiano, per es., tanto per accostare due lingue difficilmente accostabili: e a ragion veduta, se anche la traduzione implica un'operazione analoga a quella che abbiamo visto per lo scena-testo (e per certe scritture come la poesia simbolista): richiede cioè una collaborazione speciale del lettore e i suoi segni hanno due canali di riferimento al significato. Si tratta del momento della traduzione letterale con testo a fronte. Se su una pagina vediamo il testo bantu, e sull'altra il testo italiano, i segni da noi percepiti (letti) del testo italiano eseguono quella doppia carambola che solo delle raffinatissime macchine per pensare, come sono i nostri cervelli, possono seguire. Essi cioè rendono il significato direttamente (il segno "palma" che mi indica la palma) e indirettamente, rimandando al segno bantu che indica la stessa palma in un mondo psico-fisico o culturale diverso. Il lettore, naturalmente, non comprende il segno bantu, che è per lui lettera morta: tuttavia si rende conto almeno che il significato reso dal segno "palma" va integrato, modificato..., come? magari senza sapere come, da quel misterioso segno banni: comunque il sentimento che esso va modificato in qualche modo lo modifica. L'operazione di collaborazione tra traduttore e lettore è quindi doppia: segno-significato, e segno-segno di un'altra lingua (primitiva)-significato.

L'esempio di una lingua primitiva si avvicina a quello che vogliamo dire del cinema: tale lingua primitiva ha infatti strutture anche immensamente diverse dalle nostre, appartenenti, mettiamo, al mondo del "pensiero selvaggio ". Tuttavia il "pensiero selvaggio" è in noi: e c'è una struttura fondamentalmente identica fra le nostre lingue e quelle primitive: ambedue sono costituite da linsegni, e sono quindi a vicenda compatibili. Le due rispettive grammatiche hanno degli schemi analoghi. (Se siamo

dunque abituati a interrompere le nostre abitudini grammaticali per rispetto alle strutture di un'altra lingua, anche la più compromettente e diversa, non siamo, invece, capaci di interrompere le nostre abitudini cinematografiche. B questo fin che non si sarà scritta una grammatica scientifica del cinema, come potenziale grammatica di un "sistema di im-segni" su cui il cinema si fonda.)

Ora, dicevamo che il "segno" della sceneggiatura segue una doppia strada (segno-significato; segno-segno cinematografico-significato). Bisogna ripetere che: anche il segno dei metalinguaggi letterari segue la stessa strada, suscitando immagini nella mente collaboratrice del lettore: il grafema accentua ora il proprio essere fonema ora il proprio essere cinèma, a seconda della qualità musicale o pittorica della scrittura. Ma abbiamo detto che nel caso dello sceno-testo la caratteristica tecnica è una speciale e canonica richiesta di collaborazione del lettore a vedere nel grafema soprattutto il cinèma, e quindi a pensare per immagini, ricostruendo nella propria testa il film alluso nella sceneggiatura come opera da farsi.

Dobbiamo ora completare questa osservazione iniziale, precisando che il cinèma così accentuato e funzionalizzato, come dicevamo, non è un mero elemento, sia pur dilatato, del segno, ma è il segno di un altro sistema linguistico. Non solo dunque il segno della sceneggiatura esprime oltre che la forma " una volontà della forma a essere un'altra ", cioè coglie "la forma in movimento ": un movimento che si conclude liberamente e variamente nella fantasia dello scrittore e nella fantasia collaboratrice e simpatetica del lettore" liberamente e variamente coincidenti: tutto questo avviene normalmente nell'ambito della scrittura, e presuppone solo nominalmente un'altra lingua (in cui la forma si compia). E insomma una questione che mette in rapporto metalinguaggio con metalinguaggio, e le forme reciproche.

Ciò che è più importante notare è che la parola della sceneggiatura è, così, contemporaneamente, il segno di due strutture diverse, in quanto il significato che esso denota è doppio: e appartiene a due lingue dotate di strutture diverse.

Se, formulando una definizione nel campo artatamente limitato della scrittura, il segno dello sceno-testo si presenta come il segno che denota una "forma in movimento ", una " forma dotata della volontà di diventare un'altra forma ", formulando la definizione nel campo più completo e più oggettivo della lingua, il segno dello sceno-testo si presenta come il segno che esprime significati di una "struttura in movimento ", ossia di " una struttura dotata della volontà di divenire un'altra struttura ".

Stando così le cose, qual è la struttura tipica del metalinguaggio della sceneggiatura? Essa è una " struttura diacronica " per definizione, o meglio ancora, per usare quel termine che pone in crisi lo strutturalismo (soprattutto se inteso convenzionalmente, come da certi gruppi italiani), un termine del Murdock, un vero e proprio " processo ". Ma un processo particolare, non trattandosi di un'evoluzione, di un passaggio da uno stadio A a uno stadio B : ma di un puro e semplice " dinamismo ", di una " tensione ", che si muove, senza partire e senza arrivare, da una struttura stilistica, quella della narrativa, a un'altra struttura stilistica, quella del cinema, e, più profondamente, da un sistema linguistico a un altro.

La "struttura" dinamica ma senza funzionalità, e fuori dalle leggi dell'evoluzione, dello sceno-testo, si presta perfettamente come oggetto per uno scontro tra il concetto ormai tradizionale di " struttura" e quello critico di " processo". Murdock e Vogt si troverebbero davanti a un " processo che non procede ", a una struttura che fa del processo la propria caratteristica strutturale; Lévi-Strauss si troverebbe davanti non ai

valori di una " filosofia ingenua", che determinano i processi " direzionali ", ma davanti a una vera e propria volontà di movimento, la volontà dell'autore che designando i significati di una struttura linguistica come i segni tipici di quella struttura, nel tempo stesso designa i significati di un'altra struttura. Tale volontà è precisa: è un dato di fatto, che l'osservatore può osservare dall'esterno, di cui è egli stesso testimone. Non è una volontà ipotizzata e ingenuamente provata. La sincronia del sistema degli sceno-testi pone come elemento fondamentale la diacronia. Ossia, ripeto, il processo. Abbiamo così nel laboratorio una struttura morfologicamente in movimento.

Che un individuo, in quanto autore, reagisca al sistema costruendone un altro, mi sembra semplice e naturale; così come gli uomini, in quanto autori di storia, reagiscono alla struttura sociale costruendone un'altra, attraverso la rivoluzione, ossia alla volontà di trasformare la struttura. Non intendo quindi parlare, secondo la critica sociologica americana, di valori e volizioni "naturali" e ontologici: ma parlo di " volontà rivoluzionaria " sia nell'autore in quanto creatore di un sistema stilistico individuale che contraddice il sistema grammaticale e letterario-gergale vigente, sia negli uomini in quanto sovvertitori di sistemi politici.

Nel caso di un autore di sceno-testi, e, più ancora, di film, siamo davanti a un fatto curioso: la presenza di un sistema stilistico là dove non è ancora definito un sistema linguistico, e dove la struttura non è cosciente e descritta scientificamente. Un regista, mettiamo, come Godard, distrugge la " grammatica " cinematografica, prima che si sappia qual è. Ed è naturale, perché ogni sistema stilistico personale urta più o meno violentemente contro i sistemi istituzionali. Nel caso del cinema, ciò avviene per analogia con la letteratura. L'autore cioè è cosciente che il suo sistema stilistico (o forse meglio "scrittura" come suggerisce Barthes) contraddice alla norma e la sovverte, ma non sa di che norma si tratti. C'è per esempio ormai una vera e propria scuola internazionale, una " internazionale stilistica" che adotta per il cinema i canoni della " lingua della poesia ", e quindi non può non deludere, sfidare, frantumare, giocare la grammatica (che non conosce, perché è la grammatica di un'altra lingua, di un "sistema di segni visivi" non ancora ben chiaro nella coscienza critica). Tale lingua della poesia, nel cinema, è già una vera e propria istituzione stilistica recente, con le sue leggi proprie e qualità, come si dice, solidali: riconoscibili in un film parigino o in un film praghese, in un film italiano o in un film brasiliano. Essi già, come genere cinematografico, tendono ad avere

i loro circuiti, e i loro canali specifici di distribuzione (è recente un convegno dei Cinéma d'essai in Italia, dove tale esigenza sta diventando cosciente: così, insomma, come un editore ha il suo modo e la sua strada per smerciate libri preventivamente considerati di piccola tiratura, per destinatari eletti: che però non è detto siano un cattivo affare commerciale, se la distribuzione avviene entro i limiti ragionevolmente preventivati).

La distinzione tra " lingua della prosa " e " lingua della poesia" è un vecchio concetto tra i linguisti. Ma se dovessi indicare un capitolo recente di tale distinzione, indicherei alcune pagine a questo dedicate del Grado zero di Barthes, dove la distinzione è radicale e elettrizzante. (Dovrei solo aggiungere che Barthes ha come background il classicismo francese, che è molto diverso da quello italiano, e soprattutto ha alle sue spalle la serie di sequenze progressive della lingua francese, mentre gli italiani hanno alle loro spalle un caos, che rende sempre indefinito e sensuale il loro classicismo. Inoltre osserverei

ancora che l'" isolamento delle parole ", tipico della lingua della poesia " decadente", ha risultati solo apparentemente anti-classicistici, ossia di prevalenza della parola isolata come mostruosità e mistero – sul tutto solidale del periodo. Infatti, se un analista paziente fosse in grado di ricostruire i "nessi" tra le parole "isolate" della lingua della poesia del Novecento, ricostruirebbe sempre dei nessi classicistici – come ogni operazione estetica in quanto tale presuppone).

In conclusione, nel cinema si hanno indubbiamente dei sistemi o strutture, con tutte le caratteristiche tipiche di ogni sistema e di ogni struttura: un esame stilistico paziente, come quello di un etnologo tra le tribù australiane, ricostruirebbe i dati permanenti e solidali di quei sistemi, sia in quanto "scuole " (il " cinema di poesia" internazionale, come una specie di gotico squisito) sia in quanto veri e propri sistemi individuali.

La stessa cosa è possibile fare attraverso una lunga e attenta analisi degli "usi e costumi" delle sceneggiature: anche qui, come intuitivamente o per esperienza non trasformata in ricerca scientifica ognuno di noi sa, una serie di caratteristiche in stretto rapporto fra di loro, e dotate di una continuità costante, costituirebbe una " struttura " tipica delle sceneggiature. Ne abbiamo visto, sopra, la caratteristica " dinamica ", che, mi sembra, è un caso clamoroso di "struttura diacronica " ecc. ecc. (con elemento interno sostanziale il "cronotopo" di cui parla Segre).

L'interesse che offre questo caso è la concreta e documentabile " volontà" dell'autore: il che mi sembra contraddire all'affermazione di Lévi-Strauss: "Non si può insieme e contemporaneamente definire con rigore uno stadio A e uno stadio B (cosa possibile solo dall'esterno e in termini strutturali) e rivivere empiricamente il passaggio dall'uno all'altro (che sarebbe il solo modo intelligibile per capirlo)."

Infatti, davanti alla " struttura dinamica " di una sceneggiatura, alla sua volontà di essere una forma che si muove verso un'altra forma, noi possiamo benissimo, dall'esterno e in termini strutturali definire con rigore lo stadio A (mettiamo la struttura letteraria della sceneggiatura) e lo stadio B (la struttura cinematografica). Ma nel tempo stesso possiamo rivivere empiricamente il passaggio dall'uno all'altro, perché la "struttura della sceneggiatura" consiste proprio in questo: " passaggio dallo stadio letterario allo stadio cinematografico".

Se Lévi-Strauss in questo caso avesse torto, e avessero ragione Gurvitch e la sociologia americana, Murdock, Vogt, allora dovremmo accettare la polemica di questi ultimi, e fare nostra la loro esigenza di puntare più che sulla "struttura" sul "processo ".

Leggere, infatti, né più né meno che leggere, una sceneggiatura significa rivivere empiricamente il passaggio da una struttura A a una struttura B.
(1965)





Curatore, Bruno Esposito

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Pier Paolo Pasolini - IL PENSIERO PERVERSO (1971)

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro



IL PENSIERO PERVERSO (1971)
SATURA, IL PENSIERO PERVERSO, LA BELTA’   

di Pier Paolo Pasolini,
(«Nuovi Argomenti», gennaio-marzo 1971)
 

Quel maledetto timore degli altri! Quel maledetto bisogno di possedere qualche crisma, sorprendente e insieme atteso dagli altri!
Ottieri ha destinato il suo libro di versi agli altri: mentre doveva essere un libro non destinato a nessuno, avrebbe fatto certo un capolavoro: ha fatto tuttavia un libro bellissimo, lo dico esplicitamente e subito, un libro bellissimo. Ma questo è poco rispetto alla scienza o conoscenza che Ottieri possiede su quel qualcosa che è la sua vita. Scienza in cui rientra il sapere che è proprio la forza di non essere vili che manca: e che è proprio da ciò che nasce questo libro. Il primo colpo di sterzo (per usare la terminologia di "difesa" tipica dell’autore) che Ottieri compie rispetto alla propria verità, è lo scherzarci sopra. Ciò gli consente di distaccarsi da sé e di prendere le debite distanze dal proprio essere.
Da ciò l’armamentario lessicale di difesa, appunto. Il momento più delicato della confessione è "corretto" da un richiamo alla complicità col lettore, utente anche lui delle allocuzioni rassicuranti del linguaggio quotidiano, oggi per eccellenza tecnicizzante. Il timido sorriso che affiora negli occhi del professore quando cita "tecnicismi" di altri campi, quelli più comuni: o che almeno comuni appaiono agli altri, mentre per lui sono comunque specialistici e quindi da citare tra virgolette. Tutto il libro di Ottieri è scritto con quell’angoscioso sorriso che cola dagli occhi.
Il secondo colpo di sterzo è l’adozione del lessico di una tecnica speciale, proprio riguardante il suo caso, cioè il lessico psicoanalitico. Il terzo colpo di sterzo è l’adozione di un certo sentimento letterario del "pastiche", che si aggiunge alla scoperta della tecnica della poesia, dello scrivere in versi.
Il quarto colpo di sterzo è la dichiarazione di neutralità nei rapporti fra il proprio male e il proprio lettore: neutralità che si manifesta come arbitrarietà. Invadendo motu proprio un campo finora non suo, quello della poesia in versi. Ottieri vi si aggira con l’aria libera e disponibile di chi non ha ancora alcuna tessera o patente in tasca, cercando accoglienza e perdono- ma con leggerezza e con preventivata rassegnazione in caso di rifiuto. Ottieri ha fatto oggetto della propria poesia qualcosa che per definizione può essere forse descritto, ma certo non espresso. Non credo che nemmeno al suo psicoanalista questo libro potrebbe essere particolarmente utile: esso cioè non aggiungerebbe nulla a quanto del paziente si può sapere: ciò che è fenomeno rimane fenomeno, ciò che è sintomo rimane sintomo. La scienza ha fatto un catalogo, uno schedario e un sistema di tale fenomenologia: il cui mistero resta ontologico e continua a spiegarsi solo se riferito alla fenomenologia della salute. La poesia, a meno a dedurlo dal libro di Ottieri, può fare la stessa cosa: può esprimere meglio della scienza, da una parte, e naturalmente peggio, dall’altra, gli stessi fatti, lasciandoli alla loro sostanziale inesprimibilità. Come ogni contemplazione, però anche quella della poesia è piacevole: Ottieri ha dato alla sua poesia lo stesso grado di piacevolezza che ha la scienza quando contempla. Anche il fatto stesso che sia l’interessato, cioè la vittima, a contemplare il proprio male, non fa altro che aggiungere piacere al piacere. Se Ottieri per caso- consciamente, com’è probabile, o forse inconsciamente- si era proposto di non fare pietà, c’è riuscito. Anzi, si è reso oggetto di un interesse estremamente piacevole.
Naturalmente, tale piacere della contemplazione deve averlo provato anche lui, mentre scriveva del proprio male: perciò l’ironia di cui parlavo prima, se è prima di tutto una difesa, finisce coll’identificarsi con un’altra specie di ironia, che chiamerei primaria e che è la caratteristica non velleitaria del grande spirito borghese, che è razionalistico, e quindi ottimista e felice. L’angoscioso libro di Ottieri è un libro allegro; più allegro della stessa "Satura" di Montale. Perché l’ironia "sporca" della borghesia, ossia quella esercitata unicamente sugli altri, nel libro di Ottieri è del tutto assente.
Essa è esercitata unicamente sull’autor: e non ha importanza se egli ha prima di tutto assente: e non ha importanza se egli ha prima di tutto esercitato su di sé per anestetizzarsi e rendersi presentabile in società: perché, in conclusione, tale fine è andato perduto di vista, e ne è rimasta solo l’ironia buona e innocente – quella appunto delle grandi opere della classicità borghese. Il piccolo ambiente che determina socialmente il momento "perverso" del male di Ottieri (male nato in un ambiente ancora più piccolo e provinciale, reso però cosmico dallo stato infantile), è quello tipico che determina, anzi, vuole e pretende tale ironia: ma alla fine, nel caso di Ottieri, questa "captatio benevolentiae" finisce piuttosto coll’essere un atto d’accusa contro la complicità ambientale. Proprio nel momento in cui Ottieri tende le mani disperatamente dal suo letto per invocare l’attenzione o la stima o la benedizione dei potenti (di qualsiasi specie), egli resta più solo, con quel terribile sorriso che non gli si spegne negli occhi.
Inoltre, piano piano, la scienza – quella scienza della propria vita di intellettuale costretto da una grave nevrosi dell’ozio – il letto, la poltrona, la tapparella da cui filtra la luce, il garage, il weekend – si impone proprio in quanto scienza. Piano piano il libro acquista l’autorità di un’opera di morale, empirica fin che si vuole, ma sempre obiettiva ed "esatta". Ogni atto o oggetto nominato è "reale": proprio come quando uno scienziato vero dà un esempio e si riferisce a un caso. Anzi, ancora di più.
Ogni verso o ogni periodo del libro potrebbe essere una massima, che si riferisce alla cultura da cui nasce, insostituibile come la dichiarazione di un testimone. È vero che tutto quello che Ottieri dice, attraverso la sua scienza morale, ci è in gran parte noto: tuttavia ci interessa come scolari che nella propria materia imparano qualcosa da qualcuno che ne sa più di loro. È l’esperienza. Un’esperienza specializzata che ha trovato il modo di esprimersi brillantemente e con ispirata proprietà: e quindi attraverso nessi continuamente nuovi, piacevolmente sorprendenti. La chiarezza è appunto quella di uno scrittore morale di massime: ma ciò non esclude l’improvvisazione più folle, anche se sempre corretta da quello speciale spirito ludico che il conversare mondano. Chi parla è sempre un competente.
Ed è strano come la buona educazione borghese, che impedisce la generosità dell’errore, l’inopportunità del chiamare le cose col loro nome (a meno di non nominarle tra virgolette) la voglia di aggredire frontalmente il dolore, la tentazione di far sapere la propria malattia mortale e degradante per evitare pettegolezzi – è strano che tale buona educazione abbia potuto coincidere con l’oggettività della poesia, e il suo allontanamento dalla materia assomigli o si identifichi con quello della grazia da cui Ottieri si sente negletto.




Curatore, Bruno Esposito

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Gianfranco Contini, Al limite della poesia dialettale - Recensione a Poesie a Casarsa di P.P.Pasolini

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AL  LIMITE  DELLA  POESIA DIALETTALE 
Lugano, sabato 24 aprile 1943
Gianfranco Contini
Corriere del Ticino, anno IV, numero 9

(Un ringraziamento speciale a Maria Vittoria Chiarelli, per la trascrizione)


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Sembrerebbe un autore dialettale, a prima vista, questo Pier Paolo Pasolini,  per queste sue friulane  Poesie a Casarsa ( Bologna, Libreria Antiquaria Mario Landi ), un librettino di neppur cinquanta pagine, compresa la non bella traduzione letterale che di quelle pagine occupa la metà inferiore. E tuttavia, se si ha indulgenza al gusto degli estremi e alla sensibilità del limite, in questo fascicoletto si scorgerà la prima accessione della letteratura <<dialettale>> all'aura della poesia d'oggi, e pertanto una modificazione in profondità di quell'attributo. Si pensi infatti ai più moderni fra i rimatori in vernacolo, il triestino Giotti, il genovese Firpo - e non dimentichiamo, fra i veneti, Giacomo Ca' Zorzi, alias Noventa: il loro mondo continua a essere più o meno impressionistico-nostalgico, ma d'una malinconia già raccolta nell'aprioristica figura della saggezza; la loro metrica, più o meno tradizionale; e infatti il loro dialetto persiste in una posizione ancillare rispetto alla lingua, della quale è una variazione appena più descrittiva e cromatica.

Come asserire, allora, una loro piena contemporaneità? se anzi giungono, per definizione, con alcuni minuti o un quarto d'ora di ritardo? Con Pasolini le cose vanno in tutt'altro modo; e basti senz'altro raffigurarsi innanzi il suo mondo poetico, per rendersi conto dello scandalo ch'esso introduce negli annali della letteratura dialettale,  posto sempre che questa categoria abbia ragion d'essere. Chiamiamola pure narcissismo, per intenderci rapidamente,  questa posizione violentemente soggettiva; come diremo narcissistico l'angelo biondo che ossessiona l'immaginazione di Campana. Rimpianto narcissistico, però, qui: d'uno che leva un pianto perpetuo sulla morte di sé donzèl, di sé lontàn frut peciadôr, solo vivo nelle fonti e acque del paese ormai altrettanto remoto; attuale come spirito, proprio come soffio d'aria, e attento al varco dove passano i morti, madre morta, fanciulli morti; e che associa queste continue esequie ai crepuscoli e alle intemperie di quella terra leggendariamente serale e pluviale. Tali sentimenti non si possono evidentemente sistemare in un sottoprodotto dell'alta lingua letteraria,  fosse pure privatamente amabile come la già espressione di quel ragazzo e di quella provinciale felicità: occorre una dignità  di lingua , una sorta di equivalenza. E non sarà  per niente un caso che il <<dialetto>> adottato sia precisamente uno di quelli che, per la loro struttura fonetica e specialmente morfologica differenziatissima,  hanno fatto pensare i glottologi a un'unità linguistica distinta dall'italiano.
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Qui occorrerebbe un lungo discorso: ma eccone almeno qualche termine più essenziale, per non allontanarci da questo libro che dopotutto interessa in sé, e non mica come pretesto a digressioni ingegnose. Un'unità linguistica quale veniva tracciata da quegli altissimi naturalisti della glottologia va sempre intesa come unità potenziale. È già indizio d'una relativa autonomia culturale e giuridica, ma d'un'indipendente preistoria piuttosto che d'una storia; quella passiva preistoria cioè natura, solo una coscienza letteraria potrebbe mutarla in storia.  Ciò non è accaduto né per le varietà  retoromanze né per il sardo, che pure fu la prima lingua amministrativa regolarmente costituita in una regione d'Italia, fin dal mille; né per il friulano, che pure sembrò averne larghe possibilità attorno alla curia trecentesca di Cividale.  E la coscienza letteraria, va aggiunto, è qualcosa di molto più profondo dei divertimenti,  anche acuti e federati, dei letterati,  se il provenzale moderno non è sboccato in nulla più che un aneddoto marginale del francese, curioso, e ciò vuol già dire moderatamente vitale. Resta che una varietà fortemente differenziata, come nel caso di Pasolini  friulano ( che ha addirittura un altro modo di formare il plurale, con s ), può momentaneamente diventare <<quasi una lingua>>: la sua natura passa all'atto. Non ci si usi il torto di attribuirci una qualunque fede nelle qualità <<naturali>> d'una lingua. È anzi storia che il milanese di un Porta o il romanesco di un Belli, per citare autori di grandezza non dubbia sul più alto piano nazionale, non nascono senza qualche relazione di polemica o comunque di continuità con la lingua letteraria; non sono espressioni di temperamenti dall'inizio esplicitamente lirici. È  storia l'improbabilità culturale dell'uso autonomo d'un dialetto viciniore, della sua applicazione a necessità liriche immediate. L'esperienza di Pasolini si svolge invece sopra un tendenzialmente pari livello linguistico. E gli facciamo il massimo degli onori in nostro potere se non gli attribuiamo la lettura ( ideale , s'intende ), non diciamo dello Zorutti, ma neppure del Colloredo, meno ameno di quel che si creda ( per quanto pretesto al D'Annunzio d'un elogio della <<sua parlatura nativa, concisa e aguzza, acerba e venusta>> ), e nemmeno delle villotte ( della villotta, celebra sempre il D'annunzio, in tono per hai-kai, << breve come il dardo e come il fiore, breve come il bacio e come il morso, come il singhiozzo e come il sorriso >> ), non insomma dei testi di fiancheggiamento linguistico , anche se eventualmente popolare; bensì delle ( troppo esigue ) tracce del trovadorismo cividalese, dove quei bravi anonimi intendono porsi all'altezza dei giullari di Provenza, dei notai meridionali, del Minnesang austrobavarese. Parità, giovi ripetere, di condizioni: volgare illustre.
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Questa descrizione ideale dell'operazione di Pasolini non ci vieta affatto di riconoscere, quando torniamo a scrutare la carne di Poesie a Casarsa, la presenza, anche qui, di elementi linguistici descrittivi e cromatici; se egli stesso, congedandosi dal volume, attira l'attenzione su vocaboli che in senso larghissimo diremmo onomatopeici - una sorta di nomenclatura dell'azione o del modo di essere, quali sono i conclamati tesori di ogni dialetto: Pasolini insiste sull'intraducibilità, tipico carattere dialettale,  mentre non s'è fatto che sottolineare l'interna traducibilità della lingua.  Altro che sfumature sottratte alla parlata corrente!  Pasolini è in quella sua lingua conclusa , sistematica,  quasi marmorea, che s'affranca senza lotta dai ritmi canonici delle abitudini paesane; e gli consente un descrittivismo semmai di linea e non di colore ( Il nìni muàrt , L'ingannata ) fino al pregevole quasi-parnassianismo di Per il "David" di Manzù. È la vera nobiltà di una lingua minore, come il rumeno o il catalano, nella chiarezza di contorno ( forse eccessiva per una grande lingua ) e nella sua stessa apparenza fonica, senza compromessi e sbavature grammaticali, di questa strofetta: << Tu sôs, David, còme il tòru in di d'Avrîl, - che ta lis mans d'un fi c'al rît,  - al va dóls a la muàrt >>. Questo è l'incanto minimo di Pasolini,  e non vuol dire che noi intendiamo seguirlo fino all'estremo opposto,  fino agli sforzi simbolici del poemetto La domenica uliva e alla violenza fatta al mondo dei morti per strapparne figure sensibili. Pioggia, una <<voce>> pascoliana ( ma che è,  conforme al narcissismo descritto,  del figlio, non della madre! ); e alla fine la <<ciâr, - ciâr di frutìn>> del figlio; tutto riconduce al mondo tracciato più  su, e precisamente a quel centro di ascesi dell'uomo sul proprio corpo che fa l'equilibrio del libretto.

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Non solo, dunque, << il timp  di mè  donzèl >> ( Altàir ), ma il corpo,  anzi, perché importa veramente la lettera, il  <<cuàrp>>, questa tenebrosa cosa portata sotto la chiara, evidenziante luce d'una lingua nuova.  Nelle Litanis dal bièl fi ( bièl fi, cioè un'altra accezione del solito sé oggetto d'amore; e qui è il peccatore infantile che ritorna,  innanzi non per nulla a uno specchio ): << 'I ciàli  il me cuàrp - di quànt ch'ieri frut >>, a contatto delle crepuscolari domeniche trascorse. Infatti, come a una rima a distanza a quel frut del tempo perduto, nella poesia a Dilio: << Tu jódis,  nìni,  tai nùstris cuàrps - la frès-cie rosàde - dal timp pierdût >>. E si aggiunga la << ciâr <<lutáde>> del David,  e il <<fantasùt>> di Pioggia sui confini, sul cui volto si mutano le stagioni: << tal tò  vis di róse e mêl - dut verdút 'a nàs il mèis >>, << tal tò  vis di sanc e fièl - dut sblanciàt 'a mûr il mèis >>.
Quanto a una traduzione qualunque di queste citazioni , ci rifiutiamo di fornirla: essa non è riuscita neppure all'autore; e poi rischieremmo di farle intendere come documenti psicologici,  mentre quello stesso che è in loro di sentimento dominante funziona rigorosamente entro l'equivalenza linguistica. D'altra parte si conceda una certa durata di digestione a questo friulano, che non è cibo di tutti i giorni; lasciate qualche margine allo stupore che uno <<stato d'animo>> à la page si sia rifugiato tra quegli s finali, quelle palatali,  quei dittonghi.

Gianfranco Contini




La fonte di tutto il materiale:  ARCHIWEB




Curatore, Bruno Esposito

Collaborano alla creazione di queste pagine corsare:

Carlo Picca
Mario Pozzi
Alessandro Barbato
Maria Vittoria Chiarelli
Giovanna Caterina Salice
Simona Zecchi

Il diario di lavorazione del film Mamma Roma di Pier Paolo Pasolini - Carlo Di Carlo

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro


“Mamma Roma” scolpito dal 44enne scultore romano, Gianluca Bagliani.
 
 
Il diario di lavorazione del film Mamma Roma
firmato dall’aiuto regista Carlo Di Carlo
[da "L'Europa letteraria", III, n. 17, ottobre 1962, Roma]



 Lunedì, 9 aprile

 "L'Europa letteraria", III, n. 17, ottobre 1962
 Il ciak a Casal Bertone. C’è la troupe al completo: Pasolini, Ettore, la Magnani, Franco Citti e suo fratello Sergio, l’insostituibile aiutante e collaboratore di Pier Paolo, Tonino Delli Colli e suo cugino Franco operatore alla macchina l’assistente Gioacchino Sofia, Lina D’amico, la segretaria di edizione, Boschi, Franchi, Bruno Frascà, Casati della produzione, Mariano il capo, con Gianduia, Alberto, Alfredino, Profili, Conti, Silvio Citti e gli altri. É la stessa troupe di Accattone. Il sole oggi fa nascondino e si girano quindi solo pochi esterni: l’arrivo a casa di Mamma Roma con Ettore. Franco Citti che nel film sarà Carmine, il pappone di Mamma Roma, non si è fatto crescere i baffi come doveva. Li porterà finti e assomiglierà a Don Fefè Cefalù, il personaggio di divorzio all’italiana, interpretato da Mastroianni. C’è una schiera foltissima di fotografi che salutano il ritorno di Nannarella sul set e il ciak di Mamma Roma. – Sarà meglio di Accattone? – Non sanno dire altro. A pranzo Pier Paolo mi parla del prossimo film che girerà prima di quello africano, prima de Il padre selvaggio. Sarà uno sketch per un film a episodi sul vitalismo degli italiani. In breve la storia è questa: si sta girando un film storico, la scena della passione di Cristo. Sul Calvario le tre croci, la Maddalena, due angeli… il protagonista è il ladrone buono. Tutto è pronto; il regista si agita, strilla, urla. Si dispongono gli attori sulle croci, da ultimo il ladrone buono. Ma nell’attimo in cui viene inchiodato, è colpito da un infarto. Gli parlo di Buñuel. Penso anche all’inzio di Mamma Roma. Mi ricorda l’ultima cena di Viridiana. Pasolini mi dice che non conosce nulla di Buñuel e che vorrebbe finalmente vedere il film.


 Lunedì, 9 aprile

 Il ciak a Casal Bertone. C’è la troupe al completo: Pasolini, Ettore, la Magnani, Franco Citti e suo fratello Sergio, l’insostituibile aiutante e collaboratore di Pier Paolo, Tonino Delli Colli e suo cugino Franco operatore alla macchina l’assistente Gioacchino Sofia, Lina D’amico, la segretaria di edizione, Boschi, Franchi, Bruno Frascà, Casati della produzione, Mariano il capo, con Gianduia, Alberto, Alfredino, Profili, Conti, Silvio Citti e gli altri. É la stessa troupe di Accattone. Il sole oggi fa nascondino e si girano quindi solo pochi esterni: l’arrivo a casa di Mamma Roma con Ettore. Franco Citti che nel film sarà Carmine, il pappone di Mamma Roma, non si è fatto crescere i baffi come doveva. Li porterà finti e assomiglierà a Don Fefè Cefalù, il personaggio di divorzio all’italiana, interpretato da Mastroianni. C’è una schiera foltissima di fotografi che salutano il ritorno di Nannarella sul set e il ciak di Mamma Roma. – Sarà meglio di Accattone? – Non sanno dire altro. A pranzo Pier Paolo mi parla del prossimo film che girerà prima di quello africano, prima de Il padre selvaggio. Sarà uno sketch per un film a episodi sul vitalismo degli italiani. In breve la storia è questa: si sta girando un film storico, la scena della passione di Cristo. Sul Calvario le tre croci, la Maddalena, due angeli… il protagonista è il ladrone buono. Tutto è pronto; il regista si agita, strilla, urla. Si dispongono gli attori sulle croci, da ultimo il ladrone buono. Ma nell’attimo in cui viene inchiodato, è colpito da un infarto. Gli parlo di Buñuel. Penso anche all’inzio di Mamma Roma. Mi ricorda l’ultima cena di Viridiana. Pasolini mi dice che non conosce nulla di Buñuel e che vorrebbe finalmente vedere il film.

 Martedì 10 aprile

 Oggi si girano gli interni nella stanza della casa di Casal Bertone. E naturalmente fuori c’è il sole che serve per svelare Pasolini calciatore. La Magnani incontra Citti: “Buongiorno, signor Citti, sempre stanco della vita, no?”. Franco non si scompone. Si gira dodici volte una scena con la Magnani, ma non diventerà una abitudine. Arriveremo a girare cinquantasei inquadrature in una giornata. Pasolini vuole “seguire” Anna nella battute e desidera indicarle le sfumature, i toni che lei ha già trovato ovunque nelle didascalie della sceneggiatura rigorosissima. Quasi non bastasse questa, Pasolini disegna nervosamente ogni inquadratura su dei fogli volanti con accanto il dettaglio tecnico e l’eventuale battuta. Serve anche per Delli Colli, che capisce a volo ciò che Pier Paolo vuole. Tra l’altro, è un abile giocatore di luci. Si prepara la scena del tango, sotto gli occhi di Bini, in visita alla troupe. Il lavoro prosegue fino al tardo pomeriggio. Sarà il ritmo di tutti i giorni. Dopo si andrà a vedere il “girato” del giorno prima. Bini non vuole nessun estraneo – oltre la Magnani, Delli Colli, Salina (l’assistente) e me – tranne Ettore che si abitua da oggi a “vedersi”. Forse non si è proprio reso conto di che cosa sia il cinema. Non nasconde esteriormente una certa ribellione all’immagine, ma in fondo è intimamente soddisfatto e contento.

 Venerdì 13 aprile

 Continuano gli interni a Casal Bertone. La Magnani è di un altro umore, ora che si è “rodata” e si è intesa con Tonino. Ha indovinato le luci per il suo naso, che lei chiama “la sciabola”. Seguita però a discutere con Pier Paolo perché insiste a farle recitare le battute staccate e mai unite. Mai una scena intera. Dice che “recita” e non è naturale come la vuole lui, girando in questo modo inconsueto. L’odio, la rabbia, l’umore, insomma, improvviso e secco com’è richiesto dal copione – non può essere “estratto” battuta per battuta. Ma Pasolini insiste. Le discussioni seguiteranno anche nei giorni a venire e Anna alla fine prenderà l’abitudine e ne sarà contenta. Oggi si girano anche le prime scene con Carmine (Franco Citti). È un attore nato, un temperamento eccezionale. Non occorre dirgli la battuta più di una volta, non occorre che Pasolini gli dica niente oltre alcuni suggerimenti e la posizione fisica. Lo chiamano Fefè; sta al gioco e recita alcune battute in siciliano. Ettore parla con gli amici dell’intervista che hanno strappato a Franco nell’ultima trasmissione di “Cinema d’oggi”. L’artificio televisivo è stato esemplare e sono riusciti a presentarlo come volevano. Franco invece è tutto il contrario: basta rimanere poco tempo con lui e ci si rende conto. È difficile capirlo perché non dà confidenza, è scontroso, ha un habitus esteriore che è esattamente il contrario di se stesso. (Solo Pasolini l’ha capito). Fa il cinema perché Accattone gli ha aperto questa strada, ma fa l’attore così come un altro mestiere. Tutto ciò che guadagna lo spende e non gli interessa; perché – dice – se questa esperienza dovesse finire, ricomincerei tutto da capo.

 Sabato 14 aprile

“Mamma Roma” scolpito dal 44enne scultore romano, Gianluca Bagliani.

 Finiti gli ultimi esterni a Casal Bertone, finalmente ci spostiamo. Sembravamo dei confinati. Gli interni per ora sono finiti e si va, nonostante l’inclemenza del tempo – un cielo grigio e buio che promette pioggia, un sottile e continuo vento di tramontana che agita mulinelli di polvere – a Torre Spaccata, al villaggio Ina-Casa, dietro Cinecittà. Ogni giorno scopriamo una Roma inedita, che Pasolini in questi anni è andato a cercare con la pazienza, l’attenzione e l’osservazione di un esploratore. Si gira la scena della “fontanella” dove Ettore, preso a botte dai compagni, arriva grondante di sangue e incontra un vecchio “frocio” che lo spaventa, e scappa. Sarà una scena che ci perseguiterà giorni e giorni. Infatti il tempo non ci darà pace quasi fino agli ultimi giorni di riprese. Alla fine poi questa scena sarà tolta, al montaggio. C’è un prato lunghissimo che pare una collina e un deserto contemporaneamente. Un muretto, vicino, a strisce nere e bianche. In fondo una torraccia e, ai lati, enormi caseggiati popolari – una distesa – che paiono un muro. In proiezione vediamo tutto il girato. Ci sono delle scene stupende, quella del tango soprattutto. La Magnani è molto contenta e Pier Paolo questa volta non sa nascondere la sua soddisfazione e il suo compiacimento.


 Lunedì 16 aprile

 Pier Paolo mi dice che il commento musicale di Mamma Roma sarà costituito da brani del Cimento dell’armonia e dell’invenzione e del Concerto di San Lorenzo di Antonio Vivaldi. Si parla di musica. Chiedo se gli piace la musica elettronica, “Non mi piace Antonioni, non mi piace l’arte astratta e nemmeno la musica elettronica”. Nei prossimi giorni ci saranno accese discussioni.

 Giovedì 19 aprile

 Dopo alcuni esterni – siamo stati a Guidonia, nei giorni scorsi – eccoci di nuovo in interno. Siamo alla cava Aurelia, dietro San Pietro, per girare le scene del ricatto. C’è Luisa Orioli che nel film sarà Biancofiore, la compagna di vita di Mamma Roma. Lui, il ricattato è un certo signor Pellissier (La Paglia è il vero nome) proprietario di un ristorante, il quale darà a Ettore un posto di cameriere nel suo locale. È altissimo con una faccia allungata e grassoccia, la fronte molto alta e i capelli tutti dietro. Lo si trova sempre in un bar e non si sa bene cosa faccia nella vita. Non è stato scelto casualmente da Pier Paolo – come d’altronde non lo è stato nessun altro dei suoi personaggi – ma questo in modo particolare. Assomiglia a Qualcuno…

Venerdì 20 aprile

 Come Accattone ebbe la Morante, così Mamma Roma avrà Paolo Volponi. Sarà il prete, a cui Mamma Roma andrà a chiedere di sistemare suo figlio. Rifiuta il posto di manovale che il prete le offre e Mamma Roma cercherà qualcosa di più degno. Siamo ancora nella casa di Biancofiore: una stanzetta di poco più di quattro metri quadrati. Incredibile davvero che in questa superficie trovino posto la troupe, Biancofiore, Pellisier, la Magnani, Zaccaria, Pasolini e noi, oltre a quel cimitero di luci e di croci-sostegno appesi alle pareti e al soffitto. Vengono Moravia e Levi a trovare Pasolini. Ma Moravia è impaziente, non riesce a fermarsi più di pochi minuti, mentre invece Levi scopre luoghi bellissimi da dipingere, è divertito della definizione di Pier Paolo: Geova onirico e preconfessionale.

 Sabato 28 aprile

 Franco Citti è stato arrestato. Pasolini sapeva solo del fatto, ma non dell’arresto. È accaduto ieri sera a Piazzale Flaminio che a beneficio degli automobilisti è stato mosso e rimosso, coperto di bianco e di nero, di strisce e di zebre e pare diventato un parco per le automobiline dei ragazzini. Franco e un amico, ubriachi, in macchina, avrebbero “assalito”, con ingiurie, due dipendenti comunali che stavano rinfrescando di bianco alcune strisce, nel nuovo caos del piazzale, insultato pubblici ufficiali e fatto gesti osceni. Domani si scatenerà un’altra delle solite vergognose campagne della nostra stampa perbene. Non sembrerà vero a questi giornalisti di avere in mano il nuovo caso di quello che viene definito “il suo pupillo”, per sputare sulla figura e sull’opera di Pasolini. Quanti meriteranno, domani, un epigramma?

 Giovedì 3 maggio

 A Cecafumo. Laggiù l’acquedotto con una fila interminabile di baracche, le baracche degli umili – penso ai Rudy di via Veneto che ubriachi e molestatori, ma di altra condizione sociale… vengono accompagnati alla loro casa dopo gli schiamazzi notturni, dagli agenti che chiedono scusa ai loro genitori – un prato lunghissimo, verde con l’erba alta e qualche rudere sparso qua e là, circondato da una cintura di case enormi, bianche, a ventaglio: un paesaggio stranissimo, il più strano che ho visto qui a Roma. Il sole è infuocato e bruciante. Mi viene in mente una poesia di Pasolini: Al sole. “No, non a noi: tu manchi / a loro, che pure vivono a livelli / d’esistenza di sole, in pienezza, / e tra le baracche e sterri, / prati zeppi di canne e d’immondezza, / sentono in questa disorientata brezza, / con altro cuore, il tuo non esserci… Io sono qui, nel loro / mondo (ma sempre al mio impoetico / livello d’uomo colto, come sopra / un muro che si sgretola): / col vero cuore sento che tu manchi, sole”. Con Pier Paolo in macchina parliamo di Franco. Si confesserà, con la bocca amara e i ricordi vivi, al registratore, con me, isolato dagli altri.

 Venerdì 4 maggio

 Il ritmo del film sembrava essersi rallentato. La notizia di Franco ci ha tutti un po’ sconvolti. Si parla con Sergio, suo fratello, si domandano notizie ad altri amici. Il 15 ci sarà il processo. Pier Paolo è sempre più preoccupato. Franco, come ogni altro personaggio, è insostituibile. Non sono molte le scene da girare con lui, ma devono essere girate ancora quasi tutte. Ora siamo alle prese col mercato. Il mercato lunghissimo di Cecafumo.

 Venerdì 11 maggio

“Mamma Roma” scolpito dal 44enne scultore romano, Gianluca Bagliani.

 Da mercoledì fermi nei pressi di un ospedale, dietro a piazza dei Navigatori a girare tutte le scene di Ettore con i compagni, l’ingresso, la corsia, il furto della radiolina all’ammalato Roscio. Durante le pause parlo con Maggiorani. Farà la parte di un malato, a cui Ettore ruberà la radiolina. Sul suo volto si legge tristezza e malinconica rassegnazione. I suoi ricordi migliori sono ancora fermi a Ladri di biciclette, per la cui interpretazione prese seicentocinquantamila lire. Mi dice che la sua debolezza è di non essere capace di chiedere. Non fu capace di chiedere allora, non è stato capace dopo. [...]
Spera che l’incontro con Pasolini segni il nuovo incontro col cinema che gli sta tanto a cuore. Di Pier Paolo mi ha detto: “Non mi è nuovo, ma lo credevo più vecchio”. [...]


Martedì 15 maggio

 Siamo di nuovo in interni, agli stabilimenti De Paolis, dove è stata ricostituita, fredda e d’un biancore spettrale, la cella di segregazione che vede Ettore legato ad un tavolaccio di pietra, disteso come un crocefisso. Sono gli ultimi momenti di vita di Ettore, che, delirante invoca la madre. Pasolini stamattina usa per la prima volta il dolly sul corpo di Ettore, in inquadrature simmetriche di evidente ispirazione figurativa. Masaccio e Vivaldi si accomuneranno in una delle sequenze del film, forse la più bella.

 Mercoledì 16 maggio

 Franco Citti è stato condannato per i fatti del Flaminio a un anno e tre mesi di reclusione. A Ciampini, che uccise un uomo, daranno tre anni e alcuni mesi. La stampa si è scatenata. Ma la perla, in questo processo che riempie colonne e colonne di piombo, è la requisitoria del P.M., dottor Pedote. Un atto d’accusa, un processo alla letteratura e al cinema… [...]

Venerdì 18 maggio

 Siamo all’anulare olimpico, in fondo alla Flaminia vicino al Palazzetto dello sport. Sono le 20. Di sera, questo posto sembra un cimitero; c’è solo più luce. Alberi al neon fittissimi e tante strisce bianche per terra. Ne avremo per alcuni giorni; si devono girare gli esterni-notte più spettacolari del film ed anche i più tipici. Una carrellata continua, ininterrotta, un camera-car di oltre un chilometro e mezzo che segue Mamma Roma in una camminata piena di folgorazioni inventive, mentre “batte e balla il cha-cha-cha della vita”. Lo scenario è allucinante: sullo schermo si vedrà un nero assoluto, stagliato da figure che paiono ombre, da tanti punti di luce e da una croce, quella del Calvario. Freddo. Umido. Si rimane fino alle quattro di mattina. Prove su prove, chilometri di strada. Per alcune sere è stata abbandonata l’Arriflex per la Mitchell…[...]

Sabato 26 maggio

 Due ragazzi che scompaiono e riappaiono, mentre lavoriamo hanno visto ieri sera Una vita violenta, in un cinema di periferia. Pensando a Citti, hanno detto a Pasolini: «Si era quasi salvato e invece ha voluto fare lo stronzo un’altra volta».

Lunedì 28 maggio

 Un grande salone – enorme, bianchissimo, vuoto – in uno dei tanti palazzoni dell’Eur è stato scelto come interno della Chiesa. Qui gli incontri di Mamma Roma col prete e altre scene d’ambiente. C’è Volponi, dopo il clamoroso successo del Memoriale, che non ha difficoltà a vestire la tonaca e ad entrare immediatamente nel personaggio. Deve essere un prete apparentemente sincero e dall’aria dimessa, ma con un fondo sostanzialmente ipocrita, che reagisce freddamente al dolore di Mamma Roma.

 Lunedì 4 giugno

 Finalmente Franco è uscito. Le ansie e le preoccupazioni – siamo ormai agli ultimi giorni delle riprese e non in molti abbiamo creduto alla sua scarcerazione – sono finite. Pasolini è piuttosto freddo con lui, quando lo rivede. L’incontro rientra nella normalità. Anna lo accoglie calorosamente e scherza. “Se le do uno schiaffo Citti, lei me lo restituisce?”. “No, le porgo l’altra guancia: è così che mi hanno insegnato”.

Giovedì 7 giugno

 Non ho mai domandato alla Magnani, prima d’ora, cosa pensa di Mamma Roma e come avvenne l’incontro con Pasolini. È giunto il momento: siamo agli ultimi giorni ed è stato visto quasi tutto il “girato” che è stato quotidianamente montato con l’aiuto del bravissimo Baragli. “Molti hanno parlato del “ritorno” della Magnani” – mi ha detto Nannarella. “Non c’è nulla di eccezionale nel fatto che abbia accettato la parte di Mamma Roma, dopo due anni. Non ho mai interpretato più di un film in un simile intervallo di tempo, altrimenti sarei un’attrice ricca e invece non lo sono. Faccio solo i film che mi interessano, che giudico adatti a me, nonostante le continue, insistenti offerte che ho avuto e che seguito ad avere. “L’incontro con Pier Paolo: andai a Venezia per Castellani, la sera della prima de Il brigante. Fu lì che vidi Accattone e ne uscii sconvolta. Avevo conosciuto casualmente Pasolini, una volta, in casa di Elsa De Giorgi, e mi aveva detto che stava pensando a una storia – che sarebbe poi stata quella di Mamma Roma. Me ne parlò sommariamente e mi propose di interpretarla. Dopo la proiezione di Accattone, al Palazzo del cinema, ci fu l’incontro definitivo. Una sera, in macchina, dopo essere stati a cena, Pasolini mi raccontò come sarebbe stato in definitiva il vero volto di Mamma Roma. Nacque così il film. Il rapporto con Pier Paolo, nei primi tempi”, continua la Magnani, “è stato difficile, ma si è risolto subito in un rapporto di cordialità e di amicizia, come avviene di solito tra persone intelligenti che si capiscono. Sono contenta di lavorare con questi straordinari personaggi, soprattutto perché, quando posso, preferisco lavorare con i non attori”. La domanda che le pongo è imbarazzante, ma alla fine risponde: “Sono molto affezionata ai personaggi di Roma città aperta, di Amore, de La rosa tatuata, ma se non sbaglio credo che questo sia il personaggio più “grosso” che ho interpretato finora”.

Venerdi 8 giugno

 Una sala, appena rinfrescata di calce, all’interno di una fattoria abbandonata, nei pressi di Frascati, è il luogo scelto per girare il pranzo di nozze, la prima scena del film. La tavola è a ferro di cavallo, piena di invitati: da Mamma Roma a Zaccaria, da Biancofiore ai papponi. Al centro, Carmine, lo sposo, la sposa e il padre. Mamma Roma deve entrare con tre maialetti vestiti con le giarrettiere, con un giglio in testa e col nastrino rosa. C’è da faticare. Ma in fondo anche questo problema è risolto felicemente. Sarà l’exploit comico del film: una sarabanda di battute, di invenzioni, di stornelli “burini” su arrangiamenti musicali dei “pezzi” di Vivaldi, in una cornice da ultima cena. [...]

 Giovedì 14 giugno

 Da oggi, e per alcuni giorni, siamo confinati in un luogo terribile: è chiamato “canalone”. Sembra il letto di un fiume, abbastanza largo, con l’erba gialla, arido, infuocato dal sole bruciante di questa estate senza vegetazione. Dobbiamo girare “le scene del prato”, cioè gli incontri di Ettore con Bruna, con gli amici, la lotta. L’altro luogo, ancora per queste scene, sarà quel meraviglioso prato di Cecafumo attorno al quale abbiamo ruotato per tanti giorni, all’inizio. Ci si ripara sotto miseri ombrelloni da spiaggia, cercando ognuno di noi di rubare all’altro un centimetro d’ombra o comunque di riparo, tranne Pasolini che imperterrito seguita a stare ore e ore sotto il sole romano di piena. A Cecafumo non è stato dato il permesso alla produzione per girare sul prato. È di proprietà di persone che qualcuno di tanto in tanto ha letto nelle cronache romane, nei pettegolezzi su via Veneto. L’odio per Pasolini è un odio viscerale, categorico. Forse quell’epigramma? “Non siete mai esistiti, vecchi pecoroni papalini / ora un po’ esistete, perché un po’ esiste Pasolini”. Ma giriamo ugualmente, alla macchia, tra pochi giorni il film sarà finito.

“Mamma Roma” scolpito dal 44enne scultore romano, Gianluca Bagliani.





Curatore, Bruno Esposito

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