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Biografia, lavori in corso - a breve anche il 1974 e il 1975

lunedì 9 dicembre 2013

Pier Paolo Pasolini : Langage et poésie - di Dale Zaccaria

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro





Pier Paolo Pasolini : Langage et poésie.
di Dale Zaccaria

Sul vuoto che Pasolini ha lasciato permane la difficoltà di cancellarne l’ombra, e più si tenta di cancellarla e più si proietta nella realtà che stiamo vivendo” Enzo Golino
 


Itinerari Pasoliniani. La dissoluzione dei corpi.
 


L’omicidio di Pasolini segna i territori delle debolezze collettive, divenendo egli vittima sacrificale del cannibalismo dei linguaggi giornalistici e neo-televisivi;

l’evento luttuoso viene esteriorizzato, tolto dalla sua aura intima e dolorosa dagli apparati comunicazionali e della cultura di massa.

Lo stesso corpo martorizzato assunto ad icona dell’inconscio collettivo rappresenta i rischi della modernità: la dissoluzione dei corpi, mutazione e disgregazione sociale.

Pasolini nel suo ultimo atto vive e fa vivere paradossalmente la crisi, l’atonia di una destorificazione dell’individuo dove la stessa morte è spettacolarizzata. 

Il pensiero postmoderno francese con Baudrillard, sottolinea come la logica della rappresentazione diventi prioritaria rispetto all’oggetto rappresentato: “non l’estasi della comunicazione dove tutto è sottoposto all’estroversione forzata di ogni interiorità e all’introiezione forzata di ogni esteriorità.” 

A difendere il dolore dello scrittore che affermava “ sento la mia tensione verso un mondo che io rifiuto, che non ha ragione” interverrà l’urlo di Moravia a Campo dei Fiori: “il poeta dovrebbe essere sacro.” 

Nel saggio

 Empirismo Eretico, l’autore si dibatte, nella prima parte sulla storia dei rapporti dello scrittore italiano con la lingua media, constatando le problematiche inerenti ad essa: la non esistenza di una lingua nazionale o “imperfettamente nazionale.”
La koinè come entità dualistica, italiano letterario e italiano strumentale, il tutto intessuto in un modello borghese o piccolo borghese a cui soprattutto la letteratura alta e media s’intreccia All’orizzonte intanto “ si profila la lingua del futuro(…)quella voluta dai tecnocrati, dai neocapitalisti (…).” 

Così il linguaggio giornalistico, anticreativo, che si deve completamente adeguare alla richiesta di massa, ritagliando dalla grammatica italiana solo gli elementi che concernono la comunicazione. O quello politico, segno evidente dell’omologazione della nuova società neocapitalistica.

La cultura tecnocratica-tecnologica si accinge ad espropriare afferma il poeta “tutto il passato classico e classicistico dell’uomo: ossia l’umanesimo.” Pasolini testimonia con il proprio corpo questo passaggio epocale fino a giungere a quel livellamento linguistico dovuto alla diffusione dei mezzi mass-mediali (radio, televisione). 

Come annota Andrea Miconi “ relativamente precoce è dunque in Pasolini, la coscienza del ribaltamento globale delle culture, degli investimenti estetici ed effettivi e dei modi dell’esperienza vissuta, della de-erotizzazione dell’agire creativo e della meccanizzazione dei modi e delle tecniche di espressione.”

Stiamo assistendo alla formazione di un nuovo regime antropologico, una nuova cultura che sopprime quella popolare con istanze consumistiche e di mercificazione.

La polemica dell’ eretico antimoderno contro l’influenza e la manipolazione sociale dei mezzi di comunicazione di massa, la mercificazione estetica da essi compiuta e avvertita come l’erosione auratica dell’opera d’arte, la desacralizzazione dell’immagine ormai fruita quotidianamente, passivamente dallo spettatore non è più epifania delle radici mitiche dell’espressione. Quest’ultima sarà riscattata nell’innesto compiuto da Pasolini tra il dialetto romano e il suo italiano letterario, dove la lingua della borgata diviene il territorio di una “naturalità espressiva” come afferma De Benedectis, inscritta nei corpi e nei luoghi dei propri parlanti.

 

Esprimersi è esistere.

Pasolini è un infaticato sperimentatori di linguaggi. Egli può esistere solo esprimendosi, così la scrittura, così anche il cinema, sono i mezzi con i quali egli può liberarsi da questa ossessione, ma al contempo gli strumenti necessari per recuperare quel mondo primigenio ed innocente.

Tullio De Mauro in un suo saggio “Pasolini critico dei linguaggi” ripercorre questa iniziazione. Il poeta è legato essenzialmente ad un’ ambiente in cui si esprime l’altarità dialettale, da un lato della madre friulana e dall’altro del padre romagnolo, a fare da traid d’union a queste componenti eterogenee sarà l’obbligo d’apertura ad una strada verso l’italofonia. La figura paterna è legata a quel complesso edipico analizzato e superato 
nel film del 1967 Edipo Re, dove in un primo tempo il regista riscrive la tragedia sofoclea in chiave autobiografica, cercando il superamento necessario a questa condizione. Scrive Pasolini: “questo è ciò che Sofocle mi ha ispirato: il contrasto tra la totale  innocenza e l’obbligo di sapere. Non tanto la crudeltà della vita che determina i crimini quanto il fatto che la gente che non tenta di comprendere la storia, la vita, la realtà.”
 

Tra feticci metropolitani e la disgregazione di un unitario passato. 


L’arrivo di Pasolini a Roma è dettato più che da una scelta personale, dagl’eventi traumatici che si susseguirono nella vita del poeta: leggiamo nel saggio di Andrea Miconi, PPP, la poesia, il corpo e illinguaggio : “ a Roma era approdato rocambolescamente nel Dicembre del 1949, al termine da una vera fuga da Casarsa, in Friuli, il paesino della famiglia materna, dove egli viveva e lavorava. La fuga, un trasloco organizzato in fretta e furia con la madre Susanna Colussi, seguiva di un paio di mesi la prima traversa giudiziaria subita dal poeta: un processo per atti osceni in luogo pubblico e corruzione di minorenne che gli aveva fruttato l’espulsione dal PCI per “indegnità morale e politica” e il licenziamento dalla scuola media di Valvasone dove Pasolini insegnava italiano, e dove pare fosse avvenuto il fatto.”

L’incontro con Roma e soprattutto con la borgata corrisponde in Pasolini alla scoperta di nuovi linguaggi e di forme espressive alternative, dal romanzo al cinema; ma segna anche il passaggio dal modello Pascoliano assunto nel periodo friulano a un “linguaggio più spettacolare”.

Se nel processo letterario pasoliniano era già inscritto l’evento cinematografico esso diventa anche il modo di confrontarsi con un mondo che conosceva solo lateralmente e che gli permette così di riformulare il proprio ruolo d’intellettuale.

Come afferma lo studioso Serafino Murri “ confrontarsi con l’immediatezza di uno degli allori principali mezzi di comunicazione di massa, molto meno “aulico” e gravato dai cliché  borghese della solipsistica inaccessibilità alle masse dell’espressione letteraria, significava, in qualche modo “scendere in campo”. Utilizzare quello che negl’ anni Sessanta era il mezzo di comunicazione dell’etica borghese per eccellenza significava accettare la sfida aperta da quella cultura.”

Certo Pasolini non era “un perfetto uomo di cinema”, le sue immagini non erano strutturate sulla maniacalità tecnica, erano spesso “sgrammaticate” e la logica della loro costruzione era più poetica che strettamente cinematografica. De Benedictis sintetizza l’immagine (cinematografica) pasoliniana in un termine “feticistica”, poiché l’autore preferisce spezzare l’andamento del film in inquadrature nette e distinte. Proponendo la sua teoria di un linguaggio cinematografico della vita, o meglio, della vita come cinema in “natura”.

Le prime esperienze cinematografiche di 
Accattone e Mamma Roma si formano “sulle dilatazioni di una poetica ancora sospesa tra la dimensione artigianale e locale dell’esperienza creativa e quella istituzionale della produzione della cultura di massa.” (cfr. Miconi)


Il cinema di Pier Paolo Pasolini consacrato da una vocazione regressiva non può che determinarsi in una frattura drammatica e lacerante, nell’annullamento individuale, nel decadimento di corpi e dell’esperienza sociale. Le inquadrature che isolano feticisticamente la realtà esprimono il transito di luoghi, oggetti, corpi, da un prima ad un dopo, ma anche il passaggio dello stesso autore, da una adesione passionale al rigetto furioso e indignato della realtà.

La conclusione sarà la distruzione dell’oggetto e l’autodistruzione dell’autore stesso: 
Salò o le centoventi giornate di Sodoma.

Dietro questo film sembra disgregarsi il tempo storico, il passaggio epocale dei corpi, “umiliati e distrutti”. Metafora il film della decadenza del regime fascista e della repubblica di Salò simbolo per Pasolini di quella perversione – che trae il suo leitmotiv da De Sade-  perversione che come afferma il poeta è già inscritta nella società attuale e che  vede ovunque (1): trattandosi appunto di quel gioco perverso che compie il Potere nella mercificazione, manipolazione e  distruzione dei corpi e quindi dell’individuo. E tutto questo non può che riflettersi nell’allegoria pregnante della dissoluzione-disintegrazione dell’uomo nella modernità, dell’antico sapere nei circuiti o meglio corto-circuiti della cultura massmediale.
Note
 
1) Rispetto al suo ultimo lavoro cinematografico Salò o le 120 giornate di Sodoma, Pasolini afferma in una nota a questo lavoro “vedo perversione ovunque” in Salò o le 120 giornate di Sodoma versione dvd  I grandi successi del cinema Italiano in contenuti.
 

Riferimenti Bibliografici 

Tullio De Mauro, Pasolini critico dei linguaggi, in P.P. Pasolini, a cura di R. Tordi, «Galleria», XXXV (1985), 1-4, 7-20. 
Maurizio De Benedectis, Fellini e Pasolini linguaggi dell’aldilà, Edizioni Lithos.
Andrea Miconi, P.P. Pasolini, la poesia, il corpo ed il linguaggio, Edizioni Costa e Nolan. 
Serafino Murri, Pier Paolo Pasolini, edizioni Castoro.

@Eretico e Corsaro - Le Pagine Corsare

Curatore, Bruno Esposito

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Pier Paolo Pasolini - Affabulazione... - video

"ERETICO & CORSARO"




Pier Paolo Pasolini - Affabulazione...

Composta in una prima stesura nel 1966. Il testo fu messo in scena, vivente l'autore, da un gruppo di giovani a Torino, il 30 gennaio del '75; nel dicembre 77 fu Vittorio Gassman, regista e protagonista, a rappresentarlo a Roma, al Teatro Tenda, altri interpreti Corrado Gaipa, Silvia Monelli, Luca Dal Fabbro. Fra gli ulteriori allestimenti, si segnalano quelli con la regia di Luca Ronconi.

Affabulazione, in versi liberi, è articolata in otto episodi, un prologo e un epilogo. Nel prologo appare l'Ombra di Sofocle (come in certi drammi e commedie umanistico-rinascimentali che affidavano l'introduzione allo spirito di una auctoritas classica), che invita il pubblico a seguire «le vicende un po' indecenti / di questa tragedia che finisce ma non comincia», in «un linguaggio troppo difficile e troppo facile» (è subito evidente la propensione per le formule ossimoriche).

Nel primo episodio il Padre è immerso in un sogno angoscioso, ambientato in una stazione ferroviaria, con un «ragazzo grande» che sembra essere suo padre e suo figlio insieme: il ragazzo fugge, irraggiungibile, e il sogno viene interrotto bruscamente dalla Madre, cioè la moglie del Padre, che gli domanda cosa sognasse. Il Padre non sa dirlo, il mistero onirico prelude a tutta la vicenda. In due monologhi il Padre esprime la propria confusione e il proprio ossessivo interrogarsi sul figlio: perché è così biondo, quel «biondo terribile», così meravigliosamente estraneo al padre? Sopraggiunge il Figlio; in un dialogo con il Padre egli dimostra tutta la propria obbedienza al genitore e, insieme, la sua continua pulsione di fuga da lui; in una battuta cruciale lo invita a diventare come lui, se proprio vuole che siano uguali.

Nel secondo episodio il Padre, dopo un ulteriore monologo, in cui soffre per l'incapacità di comprendere e ricordare appieno il sogno, ha un colloquio con il Prete, presto interrotto dall'arrivo del Figlio con la sua Ragazza; il Prete esce, e il dialogo fra i tre è guidato dall'istrionismo stravolto del Padre, che comincia con una "chiacchierata" ironica e tagliente, e poi trasforma la scena in una "scenata di gelosia" in cui insulta la Ragazza dandole della puttana, mentre nel frattempo è arrivata anche la Madre. I ragazzi escono, e la Madre rimprovera il Padre di essersi comportato così, «senza un po' di spirito»: è stato un dolore terribile, che lo stordisce, a farlo agire in quel modo violento e il Padre se ne rende conto; è la sofferenza per un'esclusione dall'essere misteriosamente giovane e insieme virile del figlio, un'invidia e un desiderio miscelati spaventosamente. Il Padre sa di essere ridicolo, privo di dignità, e lo confessa a Dio in un grottesco monologo da Christus patiens che chiude l'episodio.

L'episodio seguente vede in scena la Madre che confida al Prete la propria costernazione: il marito non lavora più, si comporta come un pazzo, da industriale milanese modello che era. L'arrivo del Padre e l'uscita degli altri preludono a un nuovo dialogo con il Figlio: il Padre dichiara disperatamente di volere «assomigliare» a lui, e il Figlio risponde sempre con dolce e spiazzante condiscendenza; il Padre ottiene da lui la promessa di tornare quella sera alle sette precise e di recarsi direttamente nello studio, per stare insieme loro due soli, poi gli fa un dono simbolico, allusivo e premonitore: un coltello.

Il quarto episodio contiene un dialogo tra Padre e Madre. Il Padre supplica la donna di venire nello studio alle sette e di fare l'amore con lui, nuda, sul tappeto; la Madre rifiuta, lo trova ormai privo di umorismo, debole, quasi un pagliaccio. Il Padre allora capisce che lei non c'entra nulla in questa storia, che è «un mezzo inutile» di cui può fare a meno («l'edipo di Affabulazione è un rebus che esclude dalla compromissione tragica la figura di puro ruolo della madre, mentre stringe nella spirale sesso-potere la coppia padre-figlio come nel viluppo serpentino di Laocoonte, del quale il padre riproduce l'urlo di orrore con i suoi prolungati, ricorrenti "aaaaah, aaaaah..."», scrive Nino Borsellino); nel monologo conclusivo dell'episodio decide di attendere solo il figlio e di mostrarsi a lui con il sesso in mano, nell'atto esibizionistico onanistico. Spera così, implicitamente, di assimilare a sé quella «inconfessata / voglia di fecondare che rende il ragazzo, / così giovane, più uomo di un uomo», sconvolto però sempre dalla sua grazia e dalla sua misteriosa, terribile obbedienza e fedeltà.

II quinto episodio si svolge in un commissariato: il Figlio è fuggito di casa, ed è stato recuperato alla stazione di La Spezia. Un ulteriore dialogo padre-figlio fa sì che il Padre si dichiari sempre più apertamente e sconvenientemente: «Cosi davanti alla tua giovinezza, / piena di seme e di voglia di fecondare, / il padre sei tu. / E io sono il bambino. L'ho capito adesso. / uccidi, uccidi il bambino / che vuole vedere il tuo cazzo!». Ma il figlio ripete per due volte «tu vuoi passare ogni limite, / ma io non ti seguirò!».

Nel sesto episodio il Padre, ferito con il coltello dal Figlio esasperato, è sul letto e dialoga con l'Ombra di Sofocle, che gli rivela un dato fondamentale. Suo figlio non è un «enigma» come quello posto dalla Sfinge a Edipo), è piuttosto un «mistero». Non è cioè qualcosa che possa essere risolto dalla luce della ragione e quindi posseduto; è invece un groppo di oscurità insolubile che può essere conosciuto ma non illuminato. Il Padre ha compreso: «mio figlio è dunque la realtà, / la realtà che mi sfugge: / E io non devo risolverla, perché non è un enigma: / ma conoscerla - cioè toccarla,. vederla e sentirla - / perché è un mistero».

Nell'episodio seguente il Padre è in visita da una Negromante che gli rivela, leggendo in una palla di vetro, il luogo dove si trova ora il Figlio nuovamente scappato di casa; la Negromante vede nella sua sfera anche altre cose, misteriose, un consesso di Padri (fra cui il protagonista) che discutono di guerra prossima, «o comunque di cose / che riguardano insieme i giovani e la morte».

Nell'ultimo episodio il Padre è giunto nella casa dove abita la Ragazza, che ospita il Figlio: ottiene da lei la concessione di poter spiare, attraverso il buco della serratura, i due giovani che fanno l'amore: sopraggiunge il Figlio e, dopo un dialogo con la Ragazza, va nella camera da letto con lei. Il Padre, scrutando dal buco della serratura, recita un monologo in cui dichiara che i padri «sono tutti impotenti», offesi e trafitti irrimediabilmente dal corpo giovane dei figli, dallo scandalo del loro «membro fresco, umile, assetato», vero scettro di un potere irrazionale: «Ci sono delle epoche nel mondo», conclude, «in cui i padri degenerano / e se uccidono i loro figli / compiono dei regicidi». Fuori scena, infatti, il Padre accoltellerà a morte il Figlio, come Edipo uccise Laio, in una inversione patente dei ruoli.

L'epilogo si svolge in una stazione ferroviaria: il Padre è diventato un barbone che vive nel vagone di un treno abbandonato; dialoga con un mendicante dal comico nome Cacarella e rammenta il passato, come un Edipo cieco e ridicolo: la Madre, Giocasta sullo sfondo, si è impiccata, ed egli ha trascorso anni in prigione per aver assassinato il figlio, da cui non era riuscito a farsi uccidere. Ed è lo Spirito del Figlio a chiamarlo con il suo attuale soprannome, Bersagliere, e a invitarlo a rientrare nel suo vagone: «sta per piovere e è quasi notte».

Affabulazione dialoga in modo esplicito col teatro di Sofocle, costruendo una sorta di parodia dell'Edipo Re (parodia anche di Freud, come suggerisce Franca Angelini), nonché richiamandosi alle Trachinie, soprattutto al dialogo finale di Eracle con Illo, dove il padre supplica il figlio di deporlo sul rogo e bruciarlo (è proprio l'Ombra di Sofocle a evocare il dramma di Ercole, nel sesto episodio). Di là da ogni interpretazione politica e sociologica, certamente legittima, il nucleo essenziale della tragedia è tutto nell'epifania stravolgente del mistero della giovinezza maschile, della sua bionda bellezza e della sua ingenua e assoluta potenza sessuale; il Padre è figura fortemente autobiografica, nel suo far coincidere desiderio erotico con invidia e desiderio frustrato di identificazione: l'oggetto amato non è fruito come alterità complementare con cui congiungersi, ma come paradigma inarrivabile in quanto non fagocitabile e inassimilabile, mistero che stordisce e offende con la sua grazia e obbedienza-potere. Incarnazione quindi della contraddizione insolubile, quell' "ossimoro permanente", quello scandalo dell'irrazionale che ossessiona Pasolini in tutta la sua opera e in tutta la sua vita: opera e vita concentrate disperatamente non su un "enigma", aristotelicamente solubile, ma su un "mistero" che si può soltanto esperire fino allo strazio e alla gloria estremi. Le strutture del teatro pasoliniano, inoltre, si rifanno ora alla tragedia greca, ora alla sacra rappresentazione medievale, scavalcando così sia il teatro tradizionale borghese, in putrefazione, sia quello avanguardistico, basato sul corpo e sull'urlo, antiborghese ma comunque interno alla logica del sistema: Pasolini propone un teatro di parola, un rito culturale che si rivolge agli intellettuali (anche se non nega valenze didattiche per «operai» o «giovani fascisti»), come si legge nel Manifesto per un nuovo teatro del '68.

Fonte:
http://spazioinwind.libero.it/letteraturait/opere/pasolini.htm




Affabulazione è uno dei sei testi teatrali che Pasolini scrisse negli anni Sessanta, durante un periodo di convalescenza, ma già da molti anni egli pensava a quest’opera che definiva "un po’ mostruosa e folle" e progettava di intitolare – opportunamente – Storia interiore. La vicenda che si sviluppa nel dramma è questa: un industriale milanese sonnecchia in giardino, sogna, si risveglia di soprassalto frastornato per un incubo terribile che sembra riportarlo all’infanzia. Da questo momento inizia a vivere una grave crisi esistenziale. È spinto a indagare la vita, l’intimità del figlio adolescente in cui improvvisamente scopre fattezze enigmatiche che gli procurano ansie, domande, attrattive, voglie di verifica. Vorrebbe scoprire il mistero del figlio e rinnovarsi in lui, recuperando lo stato edenico dell’adolescenza, vorrebbe identificarsi con lui, sostituirlo. Ma il figlio gli è estraneo, gli si sottrae, lo evita, non lo comprende; non è un figlio ribelle, ma si oppone al padre con affettuoso e annoiato disinteresse. Il padre ha la necessità disperata di riconoscersi nel figlio fino a negare la differenza anagrafica e vuole coinvolgerlo in un adolescenziale confronto dei sessi. Vorrebbe farsi sorprendere mentre si congiunge con la moglie ma questa rifiuta; allora si esibisce di fronte al figlio in una masturbazione, implora il figlio di mostrargli il sesso, ma questi si ribella, lo ferisce con un coltello e fugge di casa. Il padre cerca aiuto da una negromante che gli rivela dove il fuggitivo si nasconde; raggiunge questo rifugio e spia il figlio e la sua ragazza durante un amplesso. I ruoli sono ormai invertiti, perché l’adulto ridiventato bambino spia i giovani diventati ai suoi occhi genitori adulti. Si scatena una furente reazione del figlio che si ribella, ma viene ucciso dal padre. Dopo anni di carcere, l’assassino finisce come un barbone su un vagone ferroviario abbandonato, mentre malinconicamente ancora non riesce a mettere ordine nel mistero dell’esistenza.
Pasolini ha scritto Affabulazione in versi, come fosse una tragedia e vi inserisce tutti gli elementi della tragedia primaria – che secondo alcuni studiosi sono le leggi universali, gli elementi alla base di ogni testo drammaturgico e di ogni film –: il mito di Crono che divora i suoi figli e quello di Edipo che uccide il padre e si congiunge con la madre. Affabulazione sviluppa dunque le scorie di un fatto antico quanto indicibile (l’incesto, l’omicidio) e cita direttamente il teatro di Sofocle, costruendo una sorta di parodia dell’Edipo Re (e soprattutto una parodia dell’interpretazione freudiana del mito di Edipo). Sofocle stesso – anzi la sua "Ombra" – in Affabulazione è addirittura un personaggio che ha la funzione sia di "coro", sia di raddoppiamento del personaggio del padre per tradurre in dialogo le sue intime riflessioni, sia di Super-io, o – come dice Pasolini – di voce di Dio.
Come in La prossima volta il fuoco, anche qui la vicenda inizia con un sogno che conferisce un marchio preciso a tutto lo sviluppo drammaturgico. Infatti il padre non riesce a ricordare in maniera precisa il sogno che ha fatto, è incapace di attribuirgli un senso, e per questo vive in uno stato angoscioso, riconoscendo la propria inadeguatezza esistenziale e la propria impotenza. Sentiamo che mentre dorme dice parole sconnesse: parla di ginocchia, tendini, volti, ragazzi, piedini di un bambino, mamma. Siamo del campo del mistero, che è il mistero della vita del protagonista e di tutti noi. Proprio questo viene espresso nel finale da una battuta del padre apparentemente contraddittoria: «La mia vita? La storia di un solo padre? Ah no, come avrai capito, / questa non è la storia di un solo padre»[1]. Inoltre, come in La prossima volta il fuoco, anche qui abbiamo alla fine un cerchio che si chiude: là avevamo un altro sogno simile a quello iniziale, qui emerge il dubbio che non sia accaduto nulla, che il padre non si sia mai mosso dalla poltrona in cui dormiva e abbia avuto una lunga allucinazione.
Come tutti i lavori letterari e cinematografici di Pasolini, anche Affabulazione non può essere interpretato in maniera univoca, perché si offre a molte diverse chiavi di lettura: non a caso si conclude con l’affermazione che la vicenda esposta «non ha un solo senso». Mi limito naturalmente ad approfondire soltanto quel senso dell’opera che mi sembra rilevante ai fini del discorso sull’incesto che è argomento del Convegno di studi.
Certamente in Affabulazione è presente il tema del confronto/scontro tra padri e figli. Proprio scrivendo Affabulazione Pasolini sentì mutare dentro di sé l’immagine dell’antica rivalità col proprio padre[2]. Egli stesso dichiarò di aver voluto esprimere la propria folle, religiosa nostalgia di un padre vero, il bisogno di rimettere a lui le proprie angosce, mettendo in scena la propria ferita di figlio che, arrivato alla maturità, chiede una comprensione e partecipazione che nessuno gli può dare. Nelle sue opere Pasolini ha spesso espresso la coscienza di non voler essere padre – cioè di non volersi assimilare né a suo padre, né ai padri in genere – anche per negare i loro diritti ai figli, a coloro che erano più giovani di lui e vivevano in un mondo disumano, "post-umanistico". Ma al tempo stesso ha sempre rifiutato il ruolo di figlio-vittima di ragazzi-padri (gli amici di borgata, i sessantottini…) ed ha accusato sia i padri che i figli di essere i carnefici che lo conducevano all’annientamento.
La coppia padre-figlio in Affabulazione è stretta in una spirale di sesso e di potere. Infatti il padre dichiara la propria impotenza sessuale e al tempo stesso la sconfitta della propria autorità generazionale. È sconvolto non solo dalla grazia, dalla bellezza e vitalità del figlio, ma anche dalla sua misteriosa, terribile obbedienza e fedeltà, dal suo rifiuto a ribellarsi e disobbedire. Davanti a questo adolescente, indecente «e insieme così puro»[3], davanti al suo«membro, fresco, umile, assetato, / [che] scandalizza per se stesso»[4], il Potere paterno riconosce la sconfitta. Egli invidia la forza del giovane, regredisce ad una fase infantile, diventa figlio di se stesso, figlio del proprio figlio, invoca lo scambio delle parti (ricordiamo che in La prossima volta il fuoco avevamo uno scambio di ruoli multiplo) e dice:

Così davanti alla tua giovinezza
piena di seme e di voglia di fecondare,
il padre sei tu.
E io sono il bambino. L’ho capito adesso.
uccidi, uccidi il bambino
che vuole vedere il tuo cazzo![5]

Il sesso è strumento di conoscenza, ma anche oltraggio che comporta la morte. Pertanto il padre uccide il figlio obbediente che rifiuta di uccidere il padre; sembra che voglia in qualche modo vendicarsi di non essere stato ucciso da lui. Laio sa di essere necessariamente sconfitto da Edipo, e così attua un rovesciamento, rivela la sua seconda faccia, quella di Crono dicendo:

Migliaia di figli sono uccisi dai padri: mentre,
ogni tanto, un padre è ucciso dal figlio – ciò è noto.
Ma come avviene l’assassinio dei figli da parte
dei padri? Per mezzo di prigioni, di trincee, di campi
di concentramento, di città bombardate.
Come avviene invece l’assassinio dei padri da parte
dei figli? Per mezzo della crescita di un corpo innocente,
che è lì, nuovo venuto nella vecchia città, e, in fondo,
non chiederebbe altro che d’esservi ammesso.
Egli, il figlio, getta nella lotta contro il padre
- che è sempre il padre a cominciare -
il suo corpo, nient’altro che il suo corpo[6].

Nell’inversione dei ruoli, Laio-Crono uccide Edipo. Il padre diventato figlio deve detronizzare il suo antagonista, divorarlo, ucciderlo. L’omicidio perciò assume un valore liberatorio, è un passaggio obbligato che va compiuto, ma è anche una follia, uno scandalo che provoca angoscia e disperazione.
Al di là del rapporto omicida fra padre e figlio, che poi non è nient’altro che il dissidio insanabile tra passione e ideologia, cioè tra ciò che si è e ciò che si vorrebbe essere, una tematica che Affabulazione condivide con La prossima volta il fuoco è quella del tempo. Il padre infatti soffre la tragica impossibilità di fermare il tempo, di negare il futuro. Al di fuori di qualsiasi interpretazione psicoanalitica, politica e sociologica, pare che il nucleo centrale del testo sia proprio il mistero della giovinezza, della bellezza e della sua potenza sessuale. In questo senso il figlio, rispetto al padre, non è affatto un "altro", un oggetto di desiderio omosessuale incestuoso, ma rappresenta la dolorosa contraddizione che caratterizza tutta la vita e l’opera di Pasolini, cioè la coscienza di soffrire non a causa di un problema che può essere risolto, ma a causa di un "mistero" esistenziale che può soltanto essere sperimentato fino allo strazio estremo. In questo senso Affabulazione è un testo profondamente autobiografico.
L’Ombra di Sofocle rivela al padre che il figlio non è un «enigma» – come quello posto dalla Sfinge a Edipo – ma un «mistero»:

Bene: tu cerchi di sciogliere l’enigma
di tuo figlio. Ma egli non è un enigma.
Questo è il problema. […]
Non si tratta, purtroppo, di una verità
della ragione: la ragione
serve, infatti, a risolvere gli enigmi…
Ma tuo figlio – ecco il punto, ti ripeto -
non è un enigma.
Egli è un mistero[7].

Il mistero non può essere risolto dalla ragione, perciò il figlio non può essere posseduto. Siamo di fronte ad un grumo di oscurità insolubile che può essere contemplato ma non chiarito, spiegato. Il padre comprende questa verità:

mio figlio è dunque la realtà,
la realtà che mi sfugge […]
E io non devo risolverla, perché non è un enigma:
ma conoscerla – cioè toccarla, vederla e sentirla -
perché è un mistero…[8]

Neppure il mitico Edipo ebbe alcun vantaggio dalla soluzione dell’enigma, dalla presa di coscienza della realtà. L’Ombra di Sofocle, infatti, afferma:

Dimmi tu! A cos’è servito, al mio Edipo
risolvere l’enigma? A prendere il potere?
L’ha preso e l’ha perduto.
E, questo io voglio sottolineare, l’ha perduto
senza aver saputo nulla del mistero[9].

Non c’è nessuna verità da scoprire, dunque. Freud e Jung non servono a nulla, perché non si sono mai occupati della sofferenza dei padri in quanto padri; le parole (come ne La prossima volta il fuoco) non servono a capire, perché non riescono neppure a tradurre razionalmente la realtà onirica del sogno iniziale. Il padre ha la possibilità di venire in contatto con il mistero solo accoltellando il figlio, rivelando una volta per tutte l’oscenità nascosta dentro se stesso e dentro ognuno di noi. Pasolini dal canto suo viene in contatto con il mistero attraverso la stesura del suo testo teatrale: infatti fa dire al padre: «La realtà non può essere detta, ma solo rappresentata»[10] e fa dire all’’Ombra di Sofocle: «l’uomo si è accorto della realtà / solo quando l’ha rappresentata. / E niente meglio del teatro ha mai potuto rappresentarla»[11].
Attraverso il personaggio del padre, Pasolini confessa che le proprie presunte certezze di marxista, di cristiano e di omosessuale, sono condizionamenti, travestimenti, false coscienze che vengono smascherati e messi in crisi dal profondo mistero della vita che emerge alla coscienza attraverso un sogno. Con Affabulazione l’autore non pone allo spettatore problemi, quesiti, dilemmi su cui riflettere, perché sa che sono insolubili. Sa di poter rappresentare l’avvicinamento al mistero soltanto con monologhi lirici, con un’oratoria affabulatrice, allucinata, oscena.
In un bellissimo spettacolo messo in scena a Torino da Luca Ronconi qualche anno fa[12], la tragedia di Pasolini diventa una commedia borghese in cui gli elementi drammatici si mescolano con note ironiche e talvolta addirittura farsesche. Nel mondo di oggi, secondo il regista, la tragedia è impensabile non soltanto perché non è più presente l’idea di fato che informava le tragedie classiche, ma anche perché oggi viviamo in un mondo privo di quella profonda coscienza civile che spingeva Pasolini nelle sue battaglie culturali. Così Affabulazione diventa un dramma astratto, metaforico, "a stazioni". Potremmo ancora chiamarlo tragedia solo citando il titolo di un film di Bernardo Bertolucci: La tragedia di un uomo ridicolo.
Fino dalla scena iniziale sembra che la vicenda si svolga in una dimensione astratta, irreale, falsa, onirica. Il protagonista compare con un foglio di giornale sulla faccia, assopito su una poltrona posta sulla sommità di un declivio erboso (come non pensare al sogno finale di La prossima volta il fuoco, in cui Amedeo è seduto su una poltrona nel giardino della casa materna?). Il colore freddo e innaturale dell’erba denuncia chiaramente la sua artificialità; il fondale è inondato da una luce azzurra abbagliante, il foglio di giornale si solleva in volo quando il padre inizia ad urlare nel sonno e volteggia in aria fino a cadere a terra sostenuto da fili facilmente visibili dal pubblico; l’arrivo del figlio è poi preceduto da quello di un pallone da foot-ball ancorato al suolo e mosso avanti e indietro su un binario. Per tutto lo spettacolo il piano fortemente inclinato del palcoscenico denuncia la condizione di precarietà, instabilità, squilibrio dei personaggi e chiarisce che la terra calcata da loro è sostanzialmente diversa da quella calcata dagli spettatori. Allo stesso modo le bellissime luci colorate designano un mondo concettuale, metaforico, diverso da quello in cui vivono gli spettatori.
Ronconi trasforma la parola poetica di Pasolini in un linguaggio sintetico, alieno, chiedendo agli attori – e in particolare ad uno straordinario Umberto Orsini – di declamare i monologhi del testo in modo ironico, segnalando con forza la distanza esistente tra il testo e l’umanità nevrotica, terremotata, impotente del mondo odierno. In questa dimensione astratta, onirica, le linee rette della scenografia iperrealista, le macchine teatrali, i movimenti geometrici degli attori sono perfettamente adeguati a riprodurre un universo finto, artefatto, artificiale, in cui la realtà orribile – come dice l’Ombra di Sofocle – si può solo rappresentare, ma non vivere.
Questo pare essere, per Ronconi e Pasolini, come per Carpi, il destino odierno della tragedia: essa può ancora esistere soltanto come tragedia di uomini ridicoli.

[1] Pier Paolo Pasolini, Affabulazione, in Id., Teatro, Milano, Garzanti, 1988, p. 276.
[2] Cfr. Nico Naldini, Pasolini, una vita, Torino, Einaudi, 1989.
[3] Pier Paolo Pasolini, Affabulazione, cit., p. 265.
[4] Ivi, p. 266.
[5] Ibidem.
[6] Ivi, pp. 266-267.
[7] Ivi, pp. 229-231.
[8] Ivi, p. 237.
[9] Ivi, pp. 232-233.
[10] Ivi, p. 197.
[11] Ivi, p. 236.
[12] Affabulazione di Pier Paolo Pasolini; regia di Luca Ronconi; scene di Carmelo Giammello; costumi di Ambra Danon; musiche a cura di Paolo Terni; luci di Giancarlo Salvatori; interpreti: Umberto Orsini (il Padre), Paola Quattrini (la Madre), Carlo Montagna (Ombra di Sofocle, prete, medico, commissario, mendicante, ferroviere), Alberto Mussap (il Figlio), Martina Guideri (la Ragazza), Marisa Fabbri (la Negromante); produzione: Teatro Stabile di Torino e Teatro di Roma, stagione teatrale 1992/1993.

di Franco Prono

Fonte:
http://crepuscoli.wordpress.com/2012/05/06/affabulazione-di-pasolini-la-tragedia-di-un-padre-ridicolo/




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Pasolini, attacco al potere - Processo ai politici e alla politica

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro




Processo ai politici e alla politica

Creato il 21 giugno 2012 da Peppinoimpastatoproject 


a cura di Bruno Esposito, Angela Molteni e Dale Zaccaria

In una situazione di crisi economica, frutto di decenni di politiche volutamente indirizzate verso un profitto di classe e di casta, che vede oggi un allargamento della forbice tra poveri e ricchi, privilegiati e discriminati, con un continuo processo di erosione dei diritti sociali, a vantaggio dei privilegi di alcuni, crediamo che una tale riflessione sia importante anche in vista delle elezioni previste per il 2013…
A tale fine e per iniziare un’adeguata riflessione, proponiamo uno scritto di P.P. Pasolini, come punto di partenza…

Da Pier Paolo Pasolini, “Perché il processo”, in “Saggi sulla politica e sulla società”, Meridiani Mondadori, Milano 1999 (“Corriere della Sera”, 28 settembre 1975; poi in “Lettere luterane”)


Nel settembre 1975 Pier Paolo Pasolini chiedeva un processo pubblico a carico di chi aveva governato l’Italia nell’ultimo decennio. Egli scriveva:


“Che cosa è necessario sapere, o meglio, che cosa i cittadini italiani vogliono sapere, affinché i prossimi dieci anni della loro vita non siano loro sottratti (come è stato per gli ultimi dieci)?
 
Ecco, qui di seguito è riprodotto ciò che Pasolini disse nel 1975.
Fatti i debiti “aggiornamenti” (per cui ai fatti elencati da Pasolini ciascuno di noi potrebbe indicarne molti altri…), ci sembra opportuno riportare integralmente l’intero “elenco” pasoliniano. Come momento di riflessione, di amara meditazione riferita a una situazione, quella attuale, che ha fatto retrocedere i cittadini italiani a situazioni di cinquant’anni fa


Ed ecco il testo pasoliniano.

[...]
I cittadini italiani vogliono consapevolmente sapere perché in questi dieci anni di cosiddetto benessere si è speso in tutto fuorché nei servizi pubblici di prima necessità: ospedali, scuole, asili, ospizi, verde pubblico, beni naturali cioè culturali.

I cittadini italiani vogliono consapevolmente sapere perché in questi dieci anni di cosiddetta tolleranza si è fatta ancora più profonda la divisione tra Italia Settentrionale e Italia Meridionale, rendendo sempre più, i meridionali, cittadini di seconda qualità.

I cittadini italiani vogliono consapevolmente sapere perché in questi dieci anni di cosiddetta civiltà tecnologica si siano compiuti così selvaggi disastri edilizi, urbanistici, paesaggistici, ecologici, abbandonando, sempre selvaggiamente, a se stessa la campagna.

I cittadini italiani vogliono consapevolmente sapere perché in questi dieci anni di cosiddetto progresso la «massa», dal punto di vista umano, si sia così depauperata e degradata.

I cittadini italiani vogliono consapevolmente sapere perché in questi dieci anni di cosiddetto laicismo l’unico discorso laico sia stato quello, laido, della televisione (che si è unita alla scuola in una forse irriducibile opera di diseducazione della gente).

I cittadini italiani vogliono consapevolmente sapere perché in questi dieci anni di cosiddetta democratizzazione (è quasi comico il dirlo: se mai «cultura» è stata più accentatrice che la «cultura» di questi dieci anni) i decentramenti siano serviti unicamente come cinica copertura alle manovre di un vecchio sottogoverno clerico-fascista divenuto meramente mafioso.

Ho detto e ripetuto la parola «perché»: gli italiani non vogliono infatti consapevolmente sapere che questi fenomeni oggettivamente esistono, e quali siano gli eventuali rimedi: ma vogliono sapere, appunto, e prima di tutto, perché esistono.

Voi dite, cari colleghi della «Stampa», che a far sapere tutte queste cose agli italiani provvede il gioco democratico, ossia le critiche che i partiti si muovono a vicenda – anche violentemente – e, in specie, le critiche che tutti i partiti muovono alla Democrazia cristiana. No. Non è così. E proprio per la ragione che voi stessi (contraddicendovi) sostenete: e cioè per la ragione che, ognuno in diversa misura e in diverso modo, tutti gli uomini politici e tutti i partiti condividono con la Democrazia cristiana cecità e responsabilità.

Dunque, prima di tutto, gli altri partiti non possono muovere critiche oggettive e convincenti alla Democrazia cristiana, dal momento che anch’essi non hanno capito certi problemi o, peggio ancora, anch’essi hanno condiviso certe decisioni.
Inoltre su tutta la vita democratica italiana incombe il sospetto di omertà da una parte e di ignoranza dall’altra, per cui nasce – quasi da se stesso – un naturale patto col potere: una tacita diplomazia del silenzio.

Un elenco, anche sommario, ma, per quanto é possibile, completo e ragionato, dei fenomeni, cioè delle colpe, non è mai stato fatto. Forse la cosa è considerata insostenibile.

Perché, ai capi di imputazione che ho qui sopra elencato, c’è molto altro da aggiungere – sempre a proposito di ciò che gli italiani vogliono consapevolmente sapere.

Gli italiani vogliono consapevolmente sapere quale sia stato il vero ruolo del Sifar.
Gli italiani vogliono consapevolmente sapere quale sia stato il vero ruolo del Sid.
Gli italiani vogliono consapevolmente sapere quale sia stato il vero ruolo della Cia.
Gli italiani vogliono consapevolmente sapere fino a che punto la Mafia abbia partecipato alle decisioni del governo di Roma o collaborato con esso.
Gli italiani vogliono consapevolmente sapere quale sia la realtà dei cosiddetti golpe fascisti.
Gli italiani vogliono consapevolmente sapere da quali menti e in quale sede sia stato varato il progetto della «strategia della tensione» (prima anticomunista e poi antifascista, indifferentemente).
Gli italiani vogliono consapevolmente sapere chi ha creato il caso Valpreda.
Gli italiani vogliono consapevolmente sapere chi sono gli esecutori materiali e i mandanti, connazionali, delle stragi di Milano, di Brescia, di Bologna.

Ma gli italiani – e questo è il nodo della questione – vogliono sapere tutte queste cose insieme: e insieme agli altri potenziali reati col cui elenco ho esordito. Fin che non si sapranno tutte queste cose insieme – e la logica che le connette e le lega in un tutto unico non sarà lasciata alla sola fantasia dei moralisti – la coscienza politica degli italiani non potrà produrre nuova coscienza. Cioè l’Italia non potrà essere governata.

Il Processo Penale di cui parlo ha (nella mia fantasia di moralista) la figura, il senso e il valore di una Sintesi. La cacciata e il processo (istruito – dicevo – se non celebrato) di Nixon dovrebbe pur voler dire qualcosa per voi, che credete in questo gioco democratico. Se contro Nixon in America si fosse svolto un gioco democratico, quale sembra esser da voi concepito, Nixon sarebbe ancora lì, e l’America non saprebbe di sé ciò che sa: o almeno non avrebbe avuto la conferma, sia pur formale (ed è importante) della bontà di ciò che essa reputa buono: la propria democrazia.

Ma se (come mi pare evidente, con immedicabile mortificazione) l’opinione pubblica italiana – che anche voi rappresentate – non vuole sapere – o si accontenta di sospettare -, il gioco democratico non è formale: è falso.
Inoltre se la consapevole volontà di sapere dei cittadini italiani non ha la forza di costringere il potere ad autocriticarsi e a smascherarsi – se non altro secondo il modello americano -, ciò significa che il nostro è un ben povero paese: anzi, diciamo pure, un paese miserabile.

Ci sono inoltre delle cose (e a questo punto continuo, più che mai, nel puro spirito della Stoà) che i cittadini italiani vogliono sapere, pur senza aver formulato con la sufficiente chiarezza, io credo, la loro volontà di sapere: fatto che si verifica là dove il gioco democratico, appunto, è falso; dove tutti giocano con il potere; e dove la cecità dei politici è ormai ben assodata.

Gli italiani vogliono dunque sapere ancora cos’è con precisione la «condizione» umana – politica e sociale – in cui sono stati e sono costretti a vivere quasi come da un cataclisma naturale: prima, dalle illusioni nefaste e degradanti del benessere e poi dalle illusioni frustranti, no, non del ritorno della povertà, ma del rientro del benessere.

Gli italiani vogliono ancora sapere che cos’è, che limiti ha, che futuro prevede, la «nuova cultura» – in senso antropologico – in cui essi vivono come in sogno: una cultura livellatrice, degradante, volgare (specie nell’ultima generazione).

Gli italiani vogliono ancora sapere che cos’è, e come si definisce veramente, il «nuovo tipo di potere» da cui tale cultura si è prodotta: visto che il potere clerico-fascista è tramontato, e ormai esso ad altro non costringe che a «lotte ritardate» (la condanna a morte degli antifranchisti, i rapporti tra la vecchia e la nuova generazione mafiosa nel Mezzogiorno ecc.).

Gli italiani vogliono ancora sapere, soprattutto, che cos’è e come si definisce il «nuovo modo di produzione» (da cui sono nati quel «nuovo potere» e, quindi, quella «nuova cultura»): se per caso tale «nuovo modo di produzione» – introducendo una nuova qualità di merce e perciò una nuova qualità di umanità – non produca, per la prima volta nella storia, «rapporti sociali immodificabili»: ossia sottratti e negati, una volta per sempre, a ogni possibile forma di “alterità”.

Senza sapere che cosa siano questo «nuovo modo di produzione», questo “nuovo potere” e questa «nuova cultura», non si può governare: non si possono prendere decisioni politiche (se non quelle che servono a tirare avanti fino al giorno dopo, come fa Moro).

I potenti democristiani che ci hanno governato in questi ultimi dieci anni, non hanno saputo neanche porsi il problema di tale «nuovo modo di produzione», di tale «nuovo potere» e di tale «nuova cultura», se non nei meandri del loro Palazzo di pazzi: e continuando a credere di servire il potere istituito clerico-fascista. Ciò li ha portati ai tragici scompensi che hanno ridotto il nostro paese in quello stato, che più volte ho paragonato alle macerie del 1945.

È questo il vero reato politico di cui i potenti democristiani si sono resi colpevoli: e per cui meriterebbero di essere trascinati in un’aula di tribunale e processati.
Non dico, con questo, che anche altri uomini politici non si siano posti i problemi che non si son posti i sacrestani al potere, o che, come loro, non abbiano saputo risolverli. Anche i comunisti hanno per esempio confuso il tenore di vita dell’operaio con la sua vita, e lo sviluppo col progresso. Ma i comunisti hanno compiuto – se hanno compiuto – degli errori teorici. Essi non erano al governo, non detenevano il potere. Essi non derubavano gli italiani. Sono coloro che si sono assunti delle responsabilità che devono pagare, cari colleghi della «Stampa», che, sono certo, siete perfettamente d’accordo con me…
Un’ultima osservazione che mi sembra, del resto, capitale.

L’inchiesta sui golpe (Tamburino, Vitalone…), l’inchiesta sulla morte di Pinelli, il processo Valpreda, il processo Freda e Ventura, i vari processi contro i delitti neofascisti… Perché non va avanti niente? Perché tutto è immobile come in un cimitero? È spaventosamente chiaro. Perché tutte queste inchieste e questi processi, una volta condotti a termine, ad altro non porterebbero che al Processo di cui parlo io. Dunque, al centro e al fondo di tutto, c’é il problema della Magistratura e delle sue scelte politiche.

Ma, mentre contro gli uomini politici, tutti noi, cari colleghi della «Stampa», abbiamo coraggio di parlare, perché in fondo gli uomini politici sono cinici, disponibili, pazienti, furbi, grandi incassatori, e conoscono un sia pur provinciale e grossolano fair play, a proposito dei Magistrati tutti stiamo zitti, civicamente e seriamente zitti. Perché? Ecco l’ultima atrocità da dire: perché abbiamo paura.

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Curatore, Bruno Esposito

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