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Biografia, lavori in corso - a breve anche il 1974 e il 1975

lunedì 3 dicembre 2012

TOLSTOJ, PASOLINI e il TAGLIAMENTO

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro



Sergio Michilini, Gli scomunicati, 2010, olio su tela cm 80x80

TOLSTOJ, PASOLINI e il TAGLIAMENTO

Ho dipinto il fiume Tagliamento come sfondo di questi due grandi personaggi della storia umana: Lev Nikolaevič Tolstoj e Pier Paolo Pasolini
Due SCOMUNICATI dalle loro rispettive chiese: la Cristiana e la Comunista… appunto il titolo del dipinto può anche essere “GLI SCOMUNICATI”, olio su tela, cm.80×80

«Ho voglia di essere al Tagliamento, a lanciare i miei gesti uno dopo l’altro nella lucente cavità del paesaggio. Il Tagliamento qui è larghissimo. Un torrente enorme, sassoso, candido come uno scheletro. Ci sono arrivato ieri in bicicletta, giovane indigeno, con un più giovane indigeno di nome Bruno…» (Pasolini)

Tolstoj e Pasolini, entrambi attenti osservatori delle trasformazioni delle società in cui hanno vissuto con una partecipazione e tensione morale assoluta, hanno sempre espresso giudizi critici polemici, intransigenti, radicali e assolutamente profetici, pagandone duramente le conseguenze fino alla morte.
Contro la guerra, la miseria, le ingiustizie sociali, gli abusi del potere, la corruzione, il clero e i loro dettami dogmatici, la pena di morte
Contro la caccia e in favore dei diritti degli animali e del vegetarismo... Abbraccia con fervore ideali radicalmente pacifisti, nella convinzione che solo l’amore e il perdono, possano unire le genti e dar loro la felicità... Tolstoj è l’antesignano della filosofia non-violenta contemporanea.

Sergio Michilini, Il Tagliamento (particolare)

Scriverà Alberto Moravia su L’espresso:
« L’accusa era quella di vilipendio alla religione. Molto più giusto sarebbe stato incolpare il regista Pasolini di aver vilipeso i valori della piccola e media borghesia italiana
Pasolini scriveva:…”Per questo provoco i giovani: essi sono presumibilmente l’ultima generazione che veda degli operai e dei contadini: la prossima generazione non vedrà intorno a sé che l’entropia borghese“.

Io ricordo quando bambini si andava a giocare nelle “grave” e campagne del Tagliamento, costellate di montagnole che nascondevano i bunker con i carri armati della “guerra fredda” (stavamo quasi alla frontiera con “i nemici” dell’est). Tra le fessure delle porte di ferro si vedevano, nella penombra, questi mostri di acciaio. E noi correvamo su e giù di queste montagnole, e lungo le stradicciole e i sentieri con i “fosaals”, i canali d’acqua per la irrigazione a un lato, sempre verdi di alberi, erbe e fiori, costeggiando infiniti filari di uva e di grano dove noi bambini accompagnavamo gli adulti al lavoro e passavamo ore e ore tra le erbe alte, la polvere e il sudore, in attesa delle nostre madri o zie o nonne che portavano la colazione ai loro uomini…e a noi, affamati e assetati e felici. E poi ricordo i sassi bianchissimi delle “grave” distesi all’infinito e i rigagnoli di acqua limpida e trasparente, che si faceva azzurra e turchese nelle zone profonde dove, spesso i più grandicelli, come i miei fratelli, o gruppi di ragazzi dei paesi vicini, usavano tuffarsi…
(Sergio Michilini)

Fonte: LA BOTTEGA DEL PITTORE.

PASOLINI PARTIVA PER PRIMO

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro


PASOLINI PARTIVA PER PRIMO
di Wu Ming 1
PasoliniSu "Vie nuove" n.40, anno XVII, 4 ottobre 1962, Pasolini racconta nella sua rubrica quel che è successo alla prima di Mamma Roma

«...Il pivello fanatico che, in cima alle scale della galleria del Quattro Fontane, nel silenzio che seguiva la morte di Ettore appena accaduta sullo schermo, mi ha affrontato con l'urlo stentoreo che sapete ("Pasolini, in nome della gioventù nazionale, ti dico che fai schifo") [...] L'ingiustizia dell'iniziativa patriottica è stata largamente compensata dagli incivili schiaffi che ho allentato all'eroe, non appena, sicuro dell'impunità, ha chiuso quella povera bocca di minus habens strillante il nulla. Dovrei vergognarmi di quella mia reazione improvvisa, degna della giungla: sono "partito per primo", come dicono i tanto disapprovati ragazzacci del suburbio, e gli ho dato "un sacco di botte". Dovrei vergognarmi, e invece devo constatare che, date le circostanze che mi riducono a questo - a ragionare coi pugni - provo una vera soddisfazione: finalmente il nemico ha mostrato la sua faccia, e gliel'ho riempita di schiaffi, com'era mio sacrosanto diritto.»
(Le belle bandiere. Dialoghi 1960-1965, Editori Riuniti, Roma 1977).

In una lettera a Panorama del 7 novembre 1974, Pasolini commenta insinuazioni sul suo conto fatte dal giornalista della Stampa Carlo Casalegno (tre anni dopo verrà ucciso dalle BR, ma questa è un'altra storia) e conclude: 

«Quanto all'affermazione di Casalegno su una mia "nostalgia di un passato anche tinto di nero", sia ben chiaro: se egli osa ripetere qualcosa di simile, prendo il treno, salgo a Torino e passo alle vie di fatto.» 
(Scritti corsari, Garzanti, Milano 1975).

In un frammento inedito di fine '74, Pasolini afferma di non aver mai esercitato «un atto di violenza, né fisica né morale» (Ibidem). Mica per non-violenza, anzi, la non-violenza «se è una forma di autocostrizione ideologica, è anch'essa violenza». Ne consegue che Pasolini non considera affatto violenza gli "schiaffi incivili" e le possibili "vie di fatto" di cui sopra. Di seguito, però, racconta "una sola eccezione", risalente a dieci anni prima. Aggredito da alcuni fascisti, Pasolini reagisce e ne insegue uno, "il più scalmanato": 

«La nostra corsa è durata per più d'un chilometro attraverso il quartiere San Lorenzo», 
tra diverse peripezie, salti su e giù da un tram in corsa, calci etc. Alla fine, il fascista riesce a fuggire. 
«A quel punto, però, probabilmente, anche se lo avessi acciuffato, non avrei fatto più niente. La rabbia cieca mi era ormai passata.» 

Pasolini fa capire che, se avesse acciuffato quel "miserabile" prima del calare dell'ira, sarebbe parsa poca cosa la reazione "degna della giungla" al cinema Quattro Fontane (altrimenti perché definire "violenza" quest'inseguimento e non quell'alterco?).
Il trentennio seguito alla sua morte ci ha restituito un Pasolini tenero e fragile, saggio e ieratico, eccessivamente ingentilito, "indebolito", "postmodernizzato". Lui, invece, era uno a cui saltava la mosca al naso, uno che poteva pure menarti, nulla da invidiare a Hemingway o Norman Mailer. Si teneva in forma, giocava a calcio e poteva inseguire un fascista per oltre un chilometro, prendere un tram al volo etc.
Anche per questo, fin da subito, ben pochi credettero alla prima versione di Pino Pelosi. Se Pelosi fosse stato solo, Pasolini gli avrebbe come minimo incrinato tre costole, fatto ingoiare qualche dente. All'Idroscalo, infatti, lo scrittore si difese: il corpo reca vistose tracce di colluttazione.



Curatore, Bruno Esposito

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mercoledì 28 novembre 2012

Roberta Cordisco: L’industria culturale di Fortini e l’industria cinematografica di Pasolini

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro

 
L'industria culturale di Fortini
e l'industria cinematografica di Pasolini.
La mutazione degli strumenti intellettuali
Roberta Cordisco


1.


Durante gli anni del boom economico e della rivoluzione dei consumi Pasolini e Fortini ne hanno inquadrato gli effetti nelle ormai note categorie di “mutazione antropologica” e “surrealismo di massa”. Spesso si è discusso sulle ripercussioni che il moderno capitalismo ha avuto in ambito sociale ma è interessante, sempre attraverso questi due autori, esaminare il problema da un’altra prospettiva, ossia quella che si sofferma a riflettere sugli sconvolgimenti che la mutazione ha operato anche all’interno della produzione culturale e del lavoro intellettuale.

In molte pagine della saggistica di Franco Fortini risuonano le note francofortesi della critica alla cosiddetta industria culturale. È fondamentale capire l’influenza che tale nozione esercita sull’analisi di Fortini anche per coglierne un’importante differenza con la critica di Pasolini. Quest’ultimo ebbe sempre «un atteggiamento di rifiuto e di ignoranza procurata nei confronti della critica della cultura e della industria culturale»  (1) poiché essa lo avrebbe costretto al compito spiacevole di «una critica dei propri strumenti di comunicazione che prevedeva paralizzante» (2).
Così Fortini coglie il punto esatto in cui la teoria dell’amico cade in contraddizione: è vero che Pasolini denuncia la minaccia di un «Potere senza volto» e invita a combatterlo, ma il suo grido d’allerta promana dalle strutture comunicative interne a quello stesso Potere. Egli è sceso a patti con le logiche del mercato letterario e dei nuovi strumenti di comunicazione di massa, per questo non può che criticare il sistema capitalistico rimanendo in parte impigliato alle sue reti. Dissertare più approfonditamente sui meccanismi dell’industria culturale avrebbe significato, per lui, ammettere una certa complicità.
Fortini, invece, guarda ad essi dal di fuori e cerca di dare un volto al nuovo Potere invitando a non accontentarsi di ricevere il sapere come un prodotto finito di cui non si conosca la provenienza; vivere nel mondo ad occhi aperti e non da “sonnambuli” significa, infatti, interrogarsi assiduamente su cosa si nasconda dietro la manipolazione dell’informazione che gli organismi istituzionali tentano di celare. Dunque per Fortini il “falso progresso”, che tanta parte aveva avuto nella riflessione dell’ultimo Pasolini, è evidente soprattutto nelle condizioni del mercato a lui contemporaneo:



Per dirla con enfasi sintetica: inserire qualche altro milione di italiani nel circuito di consumatori di periodici, libri, esposizioni e dibattiti, ‘stante il mercato quale è oggi’ è, secondo me, falso progresso ossia la più subdola forma di regresso. La vittoria sul semianalfabetismo non può conseguire a battaglia diversa da quella contro lo sviluppo della “industria delle coscienze” e contro l’annichilimento di intelligenze e volontà compiuto dalla “cultura” e dai suoi addetti (3) .




La cultura diviene merce al pari delle altre e si apre ad ampie fasce di consumatori; non a caso l’ennesimo inganno del sistema occidentale è quello di far credere che la democrazia delle diverse società possa misurarsi in base alla quantità di informazioni, mentre per Fortini bisognerebbe impostare il discorso in termini di qualità e capire chi è interessato, eventualmente, ad impedire il miglioramento di quest’ultima e perché. Tuttavia la domanda continua ad essere rimossa e si è costretti a vivere «il sapere senza democrazia, cioè fondato sul privilegio o su di una sua anche miserabile frazione, e la democrazia senza sapere, cioè fatta di menzogna e impotenza» (4) .




Le politiche internazionali traggono beneficio da quel circuito sempre più allargato di consumatori poiché diffondere l’illusione, a livello popolare, di un sapere interamente posseduto e saziare quella fame di status culturale del ceto medio, aiuta a mantenere assopite le coscienze e a distogliere l’attenzione degli individui dalle reali problematiche della società, scoraggiando così ogni altro possibile interrogativo sul funzionamento dei poteri multinazionali. Autorità politiche e mediatiche sono artefici di un falso sapere comune finalizzato a tenere lontano il «muro del rischio», ossia quell’area della consapevolezza critica che nessuno osa avvicinare; sono numerose le vie traverse offerte dal sistema per evitare che gli individui decidano di affrontare con responsabilità la zona del rischio. Scrive Fortini che i dibattiti televisivi, le conferenze e le tavole rotonde non sono mai state così vivaci, si può parlare confusamente di tutti quei temi che la sinistra degli anni Sessanta «aveva strappato alla ipocrisia generale» (5), la droga, l’eros e così via, purché facciano da diversivo e allontanino dalle vere questioni del Paese. Così l’informazione mediatica pretende di essere democratica «perché di tutti come la legge, e come di fronte alla legge oggi si proclama l’eguaglianza del cittadino di fronte alle enciclopedie» (6) .

Ricordando Habermas Fortini avverte che nel momento in cui l’informazione è diventata diritto-dovere di tutti la sua manipolazione si è affermata come vera industria del secolo; eppure la democraticità del sapere è anche, contraddittoriamente, oligarchica. Ciò vuol dire che il numero sempre crescente degli specialisti e degli esperti dei vari settori del sapere serve a persuadere l’opinione pubblica che molte questioni non possono che essere materia adatta esclusivamente agli addetti ai lavori, ossia a minoranze che si accaparrano il diritto di scegliere; il proliferare delle varie specialità consente anche di poter continuamente scaricare su altri “esperti”, con la scusa di ritenerli più adatti, il rischio e l’onere di smascherare i nessi conoscitivi del sistema. Per Fortini aderire a questa «gerarchia delle conoscenze» significa assecondare le logiche del potere e la più subdola ideologia della modernizzazione; sono tanti, egli sostiene, i «don Ferranti e i don Abbondi pronti al peggio purché non venga meno la fiducia nella gerarchia fondata sul sapere e l’informazione, né vacilli la certezza che le cose di stato sono troppo complesse perché se ne occupi la gente comune senza la mediazione di un compatto e crescente corpo di specialisti» (7).
Si creano di conseguenza varie corporazioni intellettuali che sono, di fatto, al servizio delle strategie di mercato del potere politico-economico. Come già Pasolini aveva denunciato la falsa tolleranza delle democrazie occidentali così Fortini mette in guardia contro le «maschere della tolleranza», ossia contro la libertà illusoria che le pubbliche autorità fingono di concedere nella scelta dei consumi. La modernizzazione e il progresso tecnologico hanno fatto sì che la mercificazione della cultura, insieme alla comunicazione mediatica, plasmasse un’opinione pubblica a immagine e somiglianza delle volontà dei poteri che quella stessa cultura hanno prodotto.
La difficoltà sta proprio nel comprendere come, essendo tale «la condizione della libertà in un universo di merci», l’oppressione possa somigliarle allo stesso modo in cui «una perla coltivata somiglia ad una autentica» (8) .
Se tutto questo vuol dire democrazia Fortini non teme di autodefinirsi antidemocratico:

È autoritario, è nemico della libertà chiunque ritenga che il mercato non debba essere il regolatore supremo della circolazione delle informazioni, del sapere, della cultura? In questo senso, sono autoritario. È antidemocratico chi pensa che, esistendo di fatto una censura indotta dal mercato e, in definitiva, dal potere economico-politico, si debba agire perché ai livelli della formazione intellettuale (la scuola ma anche i “media”) si prepari la gente a usare con astuzia gli strumenti del mercato e a resistere alla manipolazione? In questo senso sono antidemocratico  (9).



Ricordando un motto di Adorno Fortini rammenta che «di quello di cui non si può parlare bisogna parlare» (10); l’invito è a sfidare l’omertà collettiva e il silenzio. Si crea infatti una solidarietà negativa tra informatori e informati che contribuisce all’annullamento di un’autentica opinione pubblica, e più questa scompare più è necessario mantenerne la finzione tramite assordanti ed inutili «ciarle culturali» da specialisti; causa della sua scomparsa è l’improvvisa sovrapposizione «degli strumenti e delle sedi in cui dovrebbe manifestarsi con quelli che la inducono» (11). Sono soprattutto due i mercati dell’opinione che si integrano a vicenda: uno è quello più tradizionale che rispetta le gerarchie istituzionali e tiene conto dei diversi livelli di prestigio e autorità intellettuale, l’altro è quello prodotto dai media che punta al controllo indiscriminato dei consumatori. Dunque la requisitoria fortiniana è contro l’informazione inutile che non costituisce un valido incentivo alla ribellione e all’azione politica, bensì lo strumento attraverso il quale si diffonde la menzogna del sapere come potere. Il «moto caotico delle opinioni» (12), così come Fortini lo definisce, genera impotenza e frustrazione; è anch’esso una maschera di tolleranza dietro la quale si nasconde non un’autentica libertà d’espressione, ma una controllata diffusione del consenso. «Puoi dire e scrivere quel che vuoi, è vero, ma a condizione che quel che dici non si faccia strumento di aggregazione» (13) poiché chi gestisce il sistema sa fiutare un simile pericolo.

In un simile scenario il ceto intellettuale non può che perdere la sua originaria funzione di guida morale e Fortini prende atto che ormai l’intellettuale-massa è una realtà più che consolidata. Anch’egli, come Pasolini, percepisce la minaccia di un potere tecnologico sempre più invasivo che si maschera da scienza per sedere a fianco della classe dirigente e mettersi al suo servizio. I media non sono, come invece furono gli intellettuali, latori di consapevolezza, ma concorrono all’elaborazione della falsa coscienza (nozione hegeliana presente nel pensiero di Marx) e all’imposizione di quella ideologia globale che è il mercato capitalistico. È dunque necessario creare veri spazi d’opposizione in cui siano finalmente chiari i volti e i «nomi dei nemici» così da poter combattere la demoralizzazione culturale e la colonizzazione dell’inconscio promossa dalle industrie del sapere e dall’informazione mediatica.
A tal fine si è detto quanto sia necessario, secondo il parere di Fortini, l’affermarsi di una critica dettagliata della produzione editoriale che incoraggi i lettori ad interrogarsi sull’origine dei propri consumi culturali e su quali interessi politici essi soddisfano. Egli racconta, in una intervista rilasciata a Franco Brioschi, di essersi avvicinato al mondo dell’editoria tramite le riviste e i suoi lavori di traduzione; così ha potuto avere accesso ai segreti meccanismi economici che regolano un simile ambiente. Nonostante il rapporto con questa attività non sia mai stato portato avanti dall’“interno”, essa suscita comunque un certo interesse per lo stretto legame che intrattiene con la nozione gramsciana di «organizzazione della cultura» (così scrive Fortini in Dieci inverni: «col termine organizzazione della cultura si vuole intendere l’insieme dei rapporti che intercorrono tra la produzione di cultura e le strutture economico-politiche di una società. Così che la coscienza della organizzazione della cultura equivale non solo a coscienza della sua storicità ideale, ma del suo concreto condizionamento» (14)). Fortini sostiene però che quest’ultima, nel caos moderno della comunicazione e dell’informazione di massa, è andata incontro alla propria fine; d’altronde già a partire dagli anni Sessanta, dopo il miracolo economico, il mondo dell’editoria ha iniziato a trasformarsi:

A partire dagli inizi degli anni sessanta il panorama è ormai cambiato, e comincia a somigliare sempre più a quello attuale. Le case editrici hanno perduto quel loro carattere, immaginario, per cui credevano di essere veicoli della cultura, e quindi di essere investite di una sorta di missione. E invece diventano sempre più organi che veicolano delle mode. […] In quegli anni cambia totalmente il panorama dell’editoria italiana, e cambia in questo senso la nostra funzione di intellettuali all’interno di essa. Comincia allora a formarsi un tipo di intellettuale, o di attività intellettuale, di secondo rango […] Nel nostro paese manca una critica dell’editoria, una critica che sia anche storia delle collezioni e delle scelte editoriali. Di questo argomento non si parla. E non si parla perché non esiste una forza sociale ed economica che possa farlo[…]Dall’altro lato c’è un fenomeno più generale, che investe tutte le forme di comunicazione: la fine dell’opinione pubblica, nel senso di Habermas. Non esistendo più un’opinione pubblica, non esiste più una critica letteraria propriamente detta. Esistono finzioni. Tutti parlano di libri: ma appunto non c’è mai un discorso che non si appoggi a un libro (15).



Fortini ribadisce che sono stati gli anni Sessanta a metterci con le spalle al muro. È chiaro che da allora l’editoria non è più sinonimo di cultura autentica bensì cassa di risonanza per le mode, così come la lettura è ridotta ormai ad uno squallido «mattatoio» (16). Perfino le antologie dell’ editoria scolastica sono, in realtà, le armi del potere (17). Inoltre Fortini ricorda le due principali tendenze del tardo capitalismo per poi rivelarne la contraddittorietà solo apparente: da un lato, infatti, la cultura moderna aspira ad un pubblico di massa reso omogeneo dal consumo di prodotti uguali per tutti, dall’altro, invece, soprattutto attraverso le pubblicità televisive, si regala l’illusione dell’unicità, ossia si propone un «modello di individuazione estrema» (18) che invita a distinguersi dagli altri. Il risultato è uno «snobismo di massa, una corsa di topi» (19) culturale dove ognuno finge di essere quello che non è. Questo doppio movimento ha un unico scopo: fare gli interessi del mercato capitalistico e controbilanciare la manipolazione delle coscienze con la concessione di libertà controllate. Dunque la realtà dell’industria culturale, sinonimo per Fortini di «fabbrica della coscienza», costituisce per lui uno degli aspetti più allarmanti del falso progresso; è un punto cruciale sul quale non smetterà mai di insistere dal momento che l’unica cultura di cui ci si può occupare è «quella che smonta e spiega il processo produttivo della cultura circostante e che cerca di farci capire come funziona» (20). Bisogna comprendere qual è la cooperazione di poteri che presiede al modo di produrre, vendere e consumare la merce del sapere così da avere sempre chiara la «pianta topografica del mercato» (21).



2.
C’è da dire che il pericolo della commercializzazione letteraria non è più un pericolo. È una vecchia realtà che muta forme. Noi ne siamo leggermente sfiorati perché il nostro Paese è ancora scarsamente industrializzato. D’altra parte pericolo commerciale e politico sono una cosa sola. Grave è che siamo affatto impreparati di fronte a tutti e due; ne è la prova il fatto che, nella piccola proporzione in cui la industrializzazione letteraria ha colpito il nostro Paese, noi l’abbiamo già totalmente subita. Da noi, essa si esprime attraverso la subordinazione politico-commerciale degli scrittori ai periodici e agli editori da cui traggono in massima parte i mezzi di sostentamento (22).

Si è visto come svelare il volto delle forze che governano le formazioni culturali sia una delle ossessioni di Fortini. Quest’ultimo svolge la sua funzione intellettuale consapevole che il mercato della cultura ha ormai affidato agli organi tradizionali della mediazione tra pubblico e scrittore, come appunto l’editoria, i giornali e le riviste, un aspetto completamente diverso. Per Fortini il boom economico ha significato anche la riproposizione dello stato di alienazione, lo stesso che Marx aveva descritto in merito al lavoro meccanico delle grandi industrie, all’interno dell’universo culturale. La mercificazione del sapere e le sue forme di organizzazione sul mercato decretano la fine di una ‘mediazione’ autentica tra l’intellettuale e il suo pubblico. È il grande potere economico che gestisce la circolazione delle idee, manipolandole a proprio piacimento e fornendo, nello stesso tempo, l’illusione di una democraticità di pensiero ed espressione.

L’industria culturale, in accordo col potere politico, riesce ad alimentare l’illusione dell’ indipendenza critica sebbene l’intellettuale sia ormai del tutto asservito al sistema. Secondo Fortini è addirittura impossibile distinguere la cultura di massa da quella d’élite dal momento che esiste una notevole similarità tra le loro strutture e una certa omogeneità fra i loro produttori e destinatari. Il venir meno di una simile distinzione può «essere un modo per affermare che le distinzioni di classe stanno per scomparire o per venir introiettate, sì che in ognuno di noi convivrebbero ormai il padrone e il servo, il capitalista e lo sfruttato, il produttore e il consumatore di sub-cultura» (23).
Ma ciò che qui si vuole sottolineare è che Fortini ha piena coscienza della deformazione degli strumenti culturali operata dal potere capitalistico; nel momento in cui egli ne fa uso, si tratta comunque di un uso critico, consapevole della strumentalizzazione a cui è sottoposto da parte del sistema economico e dei nuovi condizionamenti in campo culturale. In uno scritto intitolato Per i nemici della libertà risalente all’ottobre del 1976, Fortini chiarisce quale sia il suo pensiero riguardo al lavoro intellettuale:


... Lo so:

mangio nel piatto

dell’amministrazione pubblica e anche in quello

dell’editoria. E ci sputo

dentro, seguendo l’esempio perverso
dei bidelli, dei reclusi e dei tipografi.
Eppure sono proprio persuaso:
non è bene lasciare gli editori
soli a decidere quali
libri possiamo leggere e quali ignorare […] (24)




Fortini sottopone l’attività intellettuale e gli strumenti che essa utilizza ad una severa autocritica. Costringe la cultura a ragionare su se stessa e ad interrogarsi sui propri canali di trasmissione. Se il lavoro letterario è ormai diviso tra i tanti «addetti ai lavori», è necessario ricercare le radici della nuova gestione del sapere e ricostruirne i processi per essere sempre critici attenti nel mercato delle lettere. In altre parole il volto del potere economico deve essere sottratto al suo anonimato e per far questo un passo obbligato è appunto la riflessione della cultura sul funzionamento e la manipolazione dei propri strumenti divulgativi, ossia, se così si può dire, una sorta di riflessione metaculturale.

Si è visto come una differenza fondamentale tra l’analisi di Fortini e quella di Pasolini consista nel fatto che quest’ultimo, nella sua violenta denuncia degli effetti della mutazione, tralascia la critica ai meccanismi dell’industria culturale per il semplice motivo che egli stesso ha saputo sfruttarla per trasmettere al pubblico una precisa immagine di sé.
Pasolini arriva a patteggiare con il mercato letterario e con le grandi comunicazioni di massa. Nel lungo iter della sua produzione intellettuale un’importante fase di svolta è segnata, ad esempio, dall’inizio dell’attività cinematografica. Questo non vuol dire che egli manchi di analizzare criticamente e coscientemente la situazione della cultura nella modernità capitalistica, ma è tuttavia innegabile la sua capacità di sapersi meglio destreggiare con le nuove tecnologie offerte dal progresso. L’ambiguità del suo operato sta in un’aspra requisitoria contro il processo di modernizzazione che è però contraddittoriamente fronteggiata da una buona capacità di adeguamento alle nuove forme di espressione che quella stessa modernità propone.
Pasolini accetta di entrare nel complicato groviglio dei processi di produzione che Fortini cerca così faticosamente di sciogliere e chiarire. Sebbene sia lecito sostenere, in accordo con quest’ultimo, che il lavoro cinematografico e il contatto con «l’universo parassitario» della città di Roma abbiano trasmesso a Pasolini quel «senso di facile onnipotenza che somministrano i milioni o i miliardi dei produttori» (25), facendogli dimenticare l’importante interrogativo sui rapporti di produzione, lo stesso che Fortini si è posto in merito all’editoria, non bisogna sottovalutare il fatto che il ricorso al cinema è anche e soprattutto uno dei tanti aspetti che hanno reso la figura intellettuale di Pasolini ancor più completa e complessa.
Lo strumento cinematografico non è, banalmente, il tacito consenso che Pasolini dà alla modernità, ma un linguaggio attraverso il quale egli arricchisce la sua figura di artista:

In breve: il sentire di non poter più scrivere usando la tecnica del romanzo si è trasformato subito in me, per una specie di autoterapia inconscia, nella voglia di usare un’altra tecnica, ossia quella del cinema. L’importante era non stare senza far niente o fare negativamente. Tra la mia rinuncia a fare il romanzo e la mia decisione di fare il cinema, non c’è stata soluzione di continuità. L’ho presa come un cambiamento di tecnica. Ma era vero? Non si trattava piuttosto dell’abbandono di una lingua per un’altra lingua? Dell’abbandono della maledetta Italia per un’Italia almeno…transnazionale? Della vecchia rabbiosa voglia di rinunciare alla cittadinanza italiana? Ma in fondo non si trattava neanche di questo; no, non si trattava neanche dell’adozione di un’altra lingua… Facendo il cinema io vivevo finalmente secondo la mia filosofia. Ecco tutto (26).



Il cinema, dunque, come «autoterapia inconscia». Una reazione agli sconvolgimenti della modernità, non solo il complice sfruttamento di uno dei suoi strumenti di comunicazione. Significativo è, infatti, il riferimento all’Italia transnazionale, la stessa che veniva espressa, a suo parere, dalle antiche culture sottoproletarie con le loro parlate dialettali. Il cinema è, in un certo senso, uno strumento del mondo moderno il cui linguaggio serve anche a ritrovare quell’essenza transnazionale che un tempo era appartenuta all’universo preborghese, anche se in una veste differente.

Nel saggio La fine dell’avanguardia, risalente al 1966, Pasolini riflette sulla funzionalità dello strumento cinematografico in relazione all’esperienza avanguardistica. Tra le cause che hanno indotto la fine dell’avanguardia Pasolini insiste sull’evidente incapacità di quest’ultima di divincolarsi dall’ambito piccolo-borghese risolvendosi, di fatto, in un implicito consenso al sistema. Il cinema, invece, è il solo strumento di comunicazione che permette di non rassegnarsi ad «essere fatalmente omologhi nella propria opera alla società piccolo-borghese» (27) dal momento che il suo linguaggio, ossia la riproduzione audiovisiva del reale, è transnazionale, dunque la sua struttura sociale corrispondente deve essere pensata come l’intera umanità civile. Per questo il cinema, considerato sotto tale aspetto, permette di superare l’errore commesso dall’avanguardia che ha visto esaurire la sua effimera funzione proprio perché ha fatto “orecchio da mercante” di fronte alla necessità di odiare la condizione borghese per riuscire a superarla e per potersi da essa riscattare.
Pasolini vuole dimostrare che il cinema rappresenta una eccezione alle leggi dell’omologia esposte da Goldmann in Sociologia del romanzo (28). Secondo tali leggi esiste una diretta corrispondenza tra struttura romanzesca e struttura sociale. Ebbene il cinema, linguaggio che riproduce la realtà, non può possedere strutture strettamente omologhe a quelle della società storica dove il film è stato prodotto. Questo perché la riproduzione audiovisiva del reale è un linguaggio identico ovunque, transnazionale appunto. Ecco perché le strutture della lingua del cinema «prefigurano una possibile situazione socio-linguistica di un mondo reso tendenzialmente unitario dalla completa industrializzazione e dal conseguente livellamento implicante la scomparsa delle tradizioni particolaristiche e nazionali» (29). Dunque il cinema come prefigurazione di una società ormai completamente industrializzata. La sua transnazionalità non è più quella genuina dell’antico universo contadino, ma quella che riflette la piatta e alienante uniformità del mondo capitalistico. Eppure non per questo il poeta di Casarsa rinuncia a saggiarne le potenzialità.
Forse è proprio nell’immediatezza viscerale con cui il Pasolini “antimoderno” ha respinto l’avvento del neocapitalismo che è possibile ritrovare una ragione della sua successiva compromissione nella nuova industria delle telecomunicazioni. La requisitoria che non ammette mediazioni ed è salda nelle sue posizioni estreme può forse cogliere in anticipo, e senza dubbio con straordinario acume, le contraddizioni del presente; tuttavia se poi viene meno la fase della dialettica lucida e razionale, quella che non è mancata a Fortini e che svela il volto e il «nome dei nemici», andrà essa stessa incontro alla contraddizione e sarà inevitabilmente invertita di segno. Il rifiuto senza compromesso del sistema si risolve, così, nel patteggiamento con la modernità. L’immediatezza e l’urgenza della negazione implicano il controsenso dell’accettazione.

3.

È evidente che dinnanzi al fenomeno della mutazione antropologica lo sperimentalismo di Pasolini non teme di misurarsi con i più svariati linguaggi e di adeguarsi, seppur contraddittoriamente, alla mutazione degli strumenti intellettuali, accettando così di lasciare senza volto il potere economico che spesso li condiziona La “metacritica” di Fortini, come giustamente l’ha definita Pier Vincenzo Mengaldo (30), non può, al contrario, riflettere sulla mutazione senza prima interrogare se stessa e i propri mezzi espressivi. Ciò significa che non si può denunciare il cambiamento se non si porta avanti, di pari passo, un’indagine sulle interferenze del sistema politico ed economico sugli organi della cultura addetti alla trasmissione del sapere e all’informazione. La critica non è solo un linguaggio che chiama in causa la realtà esterna, ma deve anche essere dotata di uno sguardo introspettivo che la porti a farsi critica di se stessa e consapevole delle proprie condizioni nel secolo della scienza e della globalizzazione. Non si può ignorare il funzionamento dell’industria culturale né tantomeno le dinamiche del mercato editoriale se l’intenzione è quella di ricercare coscientemente spazi ancora utili all’attività critico-intellettuale. Nell’invito a riconsiderare l’importanza della nozione gramsciana di “organizzazione della cultura” e a capire il nesso tra sistema economico e produzione culturale si nasconde uno dei messaggi più attuali di Franco Fortini. Non basta essere consapevoli che nel mondo moderno, compreso il nostro, la cultura è ormai merce, bisogna anche essere in grado di riconoscere le influenze politiche e gli interessi economici che l’hanno immessa sul mercato. Per questo non si può che avallare l’allora «perplessa richiesta di una critica della produzione editoriale» (31) avanzata da Fortini.


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1 F. Fortini, Attraverso Pasolini, Torino, Einaudi, 1993, p. 199.
Ibid.
3 Id., La strage dei libri, in Insistenze. Cinquanta scritti 1976-1984, Milano, Garzanti, 1987.
4 Id., Del sapere comune, ivi, p. 151.
5 Id., Il muro del rischio, ivi, p. 16.
6 Id., Del sapere comune, cit., p. 152.
7 Ibid.
8 Id. , L’ignoranza volontaria, ivi, p. 262.
9 Id., Quattro questioni di frontiera, ivi, p. 95.
10 Id., Contro il silenzio, in Extrema ratio. Note per un buon uso delle rovine, Milano, Garzanti, 1990.
11 Id., Dare e togliere la parola, in Insistenze, cit., p. 77.
12 Id., Contro il silenzio, cit., p. 29.
13 Ibid.
14 Id., Per una critica come servizio, in Dieci inverni (1947-1957). Contributi ad un discorso socialista, Milano, Feltrinelli, 1957 (II ed. Bari, De Donato, 1974).
15 Id., Editoria di cultura e editoria di moda, in Un dialogo ininterrotto, interviste 1952-1994, a cura di Velio Abati, Torino, Boringhieri, 2003.
16 Id., La strage dei libri, cit., p. 228.
17 Nel 1948 Togliatti appoggia L’Universale Economica e Fortini ricorda la discussione sorta a proposito dell’editoria a cui egli prende parte sostenendo, data la fase di depressione di un’Italia ancora prevalentemente analfabeta, la necessità di puntare non tanto sulla ripresa di classici in edizioni economiche, bensì su una manualistica a carattere enciclopedico che non escluda una dimensione scientifica contro l’ipotesi di una cultura prevalentemente letteraria. In merito poi all’editoria scolastica Fortini denuncia un’organizzazione del sapere che vive all’ombra di “sempre più babeliche torri antologiche” dove si perdono le vere coordinate del testo letterario. Tutto ciò spinge Fortini ad affermare che, a questo punto, l’ignoranza vera è sempre preferibile alla pratica del “tutto e male”, ossia alla ignoranza falsa.
18 F. Fortini, Contro lo snobismo di massa, in Un dialogo ininterrotto, cit., p. 549.
19 Ivi, p. 554.
20 Id., Il caso Karenina, in Id., Un giorno o l’altro, Macerata, Quodlibet, 2006, p. 474.
21 Ibid.
22 Id., Industria culturale, ivi, pp. 71-72.
23 Id., Cultura di massa, ivi, p. 348.
24 Id., Per i nemici della libertà, in Disobbedienze I. Gli anni dei movimenti. Scritti sul Manifesto 1972-1985, Roma, Manifestolibri, 1997.
25 Id., Pasolini politico, in Attraverso Pasolini, cit., p. 196.
26 P.P. Pasolini, La fine dell’avanguardia, in Saggi sulla letteratura e sull’arte, Milano, Mondadori, 1999.
27 Ivi, p. 1415.
28 L. Goldmann, Per una sociologia del romanzo: una ricerca esemplare sui rapporti tra letteratura e società, Milano, Bompiani, 1981.
29 P.P. Pasolini, La fine dell’avanguardia, cit., p. 1404.
30 Pier Vincenzo Mengaldo, Appunti su Fortini critico, edito in «Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia», Università degli studi di Siena, VII, 1986 (“Seminario in onore del prof. Franco Fortini”) ora in Id., La tradizione del Novecento, seconda serie, Torino, Einaudi, 2003.
31 F. Fortini, Per uno stato civile del libro, in Insistenze cit., p. 89.
FONTE:  L'ospite ingrato

@Eretico e Corsaro - Le Pagine Corsare

Curatore, Bruno Esposito

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sabato 17 novembre 2012

Pasolini e la "voce addolorata" della tragedia

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro





Pasolini e la "voce addolorata" della tragedia


L’archetipo tragico della Grecia interviene a più riprese a strutturare e a orientare il sostrato linguistico e ideologico dell’opera di Pasolini, mostrando l’efficacia di una scrittura che rielabora continuamente, distanziandola nello spazio senza tempo del mito, l’attualità stringente della storia. Le interferenze dell’immaginario pasoliniano con la classicità greca sono state ampiamente individuate, e quindi preferiamo non indugiare oltre in tale direzione; piuttosto il tentativo del nostro studio è quello di porre in risalto la singolare evidenza – nella drammaturgia dello scrittore bolognese – del flauto, del mandolino e dell’arpa come figure metalinguistiche. La forte vocazione della parola pasoliniana verso il canto, la consapevolezza di voler tradurre attraverso la poesia la propria voce, costituiscono i primi indizi di una probabile ‘musicalità’ tragica, capace di mimare in absentia le modulazioni del registro del lutto. Del resto – come chiosa Nicole Loraux nel suo La voce addolorata. Saggio sulla tragedia greca (2001) – è nell’irriducibile tensione tra logos e phonè che la tragedia sembra interrogarsi sulla rappresentazione del proprio rapporto con la musica, mentre nei ritorni di canti e treni il genere tragico mostra una tendenza alla riflessione metateatrale sulle proprie origini e sul proprio significato. L’intreccio di parola, canto, musica e danza, che nell’interazione del coro con gli attori raggiunge il massimo grado di espressività, si trova ad essere investito di una forte carica di autoriflessività, che trasforma lo spettacolo in una sorta di continua attualizzazione dei meccanismi generativi del testo e, in senso lato, del genere. In questo percorso di configurazione della mescolanza delle voci nella tragedia, la Cassandra del primo episodio eschileo dell’Orestea si impone come figura obbligatoria ed emblematica, perché riassume, nella visionarietà allucinata della sua profezia l’eccesso metaforico di apollineo e dionisiaco, ridisegnando come in accelerazione la breve storia del genere tragico. Cassandra è, infatti, figura metateatrale, legata intimamente alla lingua della tragedia, alla norma e allo scarto tra visione e ascolto, mirabile incarnazione del dissidio tra luce e tenebre nella duplice natura apollinea e dionisiaca di cui non resta se non la traccia fantasmatica della sua voce, nella indeclinabile identità di parola e canto, metafora l’uno dell’altro.
È proprio nel segno di Cassandra che ha inizio la nostra incursione nell’orizzonte drammaturgico pasoliniano, alla ricerca di quei fantasmi musicali che sembrano rinnovare il mistero della lira e dell’aulos. La possessione divinatoria della parola, l’urlo bruciante del threnos vengono traslati, nella traduzione pasoliniana dell’Orestiade, in una ‘presunzione di canto’ che disaliena lo spettro sonoro del logos, riconsegnando alla voce tutto lo spazio della sua articolazione.
Ne venne un suono crudo e terrificante, indescrivibile. Ma, in realtà, non era un suono. Nulla. Era il suono del silenzio assoluto. Un silenzio che gridava e gridava in tutto il teatro, costringendo il pubblico a chinare il capo come sotto una raffica di vento. E quel grido racchiuso nel silenzio, mi parve il medesimo grido di Cassandra, quando vaticina l’odore di sangue nella casa di Atreo. Era il medesimo grido selvaggio con cui la fantasia tragica ha marcato la prima volta il nostro senso della vita. Il medesimo lamento puro e selvaggio sull’inumanità dell’uomo e sull’inutilità degli sforzi dell’uomo. La parabola della tragedia, forse, è intatta. 
G. Steiner, Morte della tragedia, 2005, p. 304

La continuità tra antico e moderno, la praticabilità del tragico nel tempo saturo del Dopostoria, è data dallo spazio in cui una lingua incontra una voce. L’identità del grido primordiale, che nasce dalle viscere, restituisce l’immagine intatta dell’esistenza prima della violazione della storia, della ‘ferita’ del linguaggio: in questa direzione procede la trascrizione degli Appunti per un’Orestiade africana. Nello stile senza stile del documentario, Pasolini rilegge, a quasi dieci anni di distanza dalla traduzione, la trilogia eschilea, i cui materiali si sono sedimentati nel suo immaginario poetico e si ripropongono nella forma frammentaria ed episodica dell’appunto, del cartone preparatorio. Il mito barbarico della Grecia arcaica si dilata fino a spostarsi alle latitudini dell’estremo continente africano in cui sembra rivivere il rito antropologico della natura e della storia, del lutto e della guerra. La paleografia del mito epifanico delle Erinni trasformate in Eumenidi è affidata alla concretezza didascalica del documento, alla tenacia coesiva della poesia per immagini e voci che è il cinema di Pasolini, lingua che sutura la lirica e il canto. La dicotomia tragica di logos e phonè viene sublimata dal proposito di sostituire la recitazione con il canto, trasformando il dramma in un musical tragico in stile jazz.
Non è un caso, forse, che il primo appunto – di fatto l’unico perché il progetto resta allo stato provvisorio di sopralluogo – sia "la grande scena di Cassandra all’inizio della tragedia", visualizzata come una jam session in un polveroso "studio semi-clandestino di una vecchia città dell’Occidente".
La sequenza è composta da immagini in primo piano degli strumenti della band di Gato Barbieri – sax, batteria e contrabbasso – e piani ravvicinati sui musicisti e sulla cantante/Cassandra che ‘dialoga in musica’ col coro improvvisato di vocalist afro-americani. Al cupo fremito dell’aulos si sostituisce la calda vibrazione del sax, metonimico richiamo della musica assente della tragedia, che esalta la sublime potenza vocale del canto, a metà strada tra jazz e spiritual.
Si tratta di un vero e proprio raptus mistico in cui risuona l’estasi divinatoria e profetica di Cassandra, smaterializzata nella "grana della voce".
Un’altra suggestione proviene dalla lugubre voce di Cassandra che intona, da viva, il proprio threnos, il compianto funebre per la morte ormai imminente:
Ancora una sola parola… No, non voglio cantare
da me la mia veglia funebre! Al sole,

alla sua luce suprema, rivolgo questa preghiera
EschiloAgamennone, trad. it. di P.P. Pasolini, 2001, p. 913 

Il suono del flauto e l’invocazione alla luce, come consolazione estrema di fronte all’approssimarsi della morte, richiamano le ultime parole di Edipo che, dopo aver attraversato i silenzi di "una strada che non ha fine, una strada che porta verso un tutto che ha la forma del nulla", prende congedo dal mondo: 



O luce che non rivedrò più,
che eri prima in qualche modo mia,
mi illumini ora per l’ultima volta.
Sono giunto. La vita finisce dove comincia
P.P. Pasolini, Edipo re (film), 1967

La luce accecante (del sole e della coscienza) è il senhal dell’Edipo interpretato da Citti, una vera ossessione visiva accentuata dalla persistente eco del flauto, che si propaga per tutta la durata del film a segnare l’inesorabile destino di morte del personaggio. Dentro l’assolata vertigine del mito l’immagine del mondo e la voce del poeta sono gli indizi del precipitare lento della storia nella spirale del tempo.
C’era qualcosa di meraviglioso in quel canto reale, comune segreto, canto semplice e quotidiano, che tutto a un tratto si dava da riconoscere… canto dell’abisso: che inteso una volta, apriva in ogni parola un abisso e invitava con forza a sparirvi dentro 
(M. Blanchot, Il libro a venire, 1969, p. 13).
"È inutile, l’abisso in cui mi spingi è dentro di te": l’Edipo re di Pasolini precipita dentro il baratro della conoscenza perché "quello che non si vuole sapere non esiste, ma quello che si vuole sapere esiste". La riscrittura pasoliniana dell’Edipo sofocleo, al di là dell’evidente intersezione con i materiali autobiografici dell’autore, è un duplice percorso di attualizzazione che si divarica tra sceneggiatura e film, nel rispetto della superiore unità tragica del teatro che si riverbera nella filigrana della voce, nel continuum del suono "doloroso, funebre e severo del flauto". Alla circolarità cronotopica della ‘piazza’, spazio aperto, prepotentemente teatrale, Pasolini sostituisce la linearità della ‘strada’, in cui si parla una parola selvaggia, blasfema, imprudente. La logica consequenzialità del destino oracolare, che in Sofocle si fa racconto in-scenandosi nello spazio-tempo assoluto e misurabile della piazza, si dissolve lungo una strada polverosa e accecante, "la via dell’esilio", che conduce Edipo verso "l’immenso buco dove comincia la vita". Alla forte concentrazione di eventi, il ‘doppio’ testo pasoliniano sostituisce la nudità e la rarefazione del cronotopo, il silenzio invaso dalla luce e dal tempo della ri-nascita. A segnare il confine è insieme un canto e un suono, la voce addolorata della tragedia che si fa poesia, che si incarna nel destino di un nuovo aedo, inascoltato profeta del passato e dell’avvenire.
I due sono uno di fronte all’altro: Edipo coi suoi occhi di ragazzo, Tiresia coi suoi occhi di cieco. Tutto quello che hanno da dirsi non è che un lungo silenzio. Poi Tiresia ricomincia a suonare. Le note del flauto risuonano alte e pure: il loro dolore è il dolore del mondo. […]
VOCE INTERIORE DI EDIPO - Canta, ma non canta di sé. Qualcuno gli ha dato l’incarico di cantare, è cieco, è cieco, qualcuno gli ha dato l’incarico di vedere, in questi giorni, in queste notti della sua città… È per gli altri che canta, è degli altri che canta, è per me che canta, è di me che canta. Sa di me, e si rivolge a me! Poeta! Tu, poeta, col tuo incarico di cogliere il dolore degli altri e di esprimerlo come se fosse lo stesso dolore, a esprimersi… Il destino continua oltre ciò che il destino riserva. Io ascolto ciò che è al di là del mio destino. 
P.P. Pasolini, Edipo re (sceneggiatura), 2001, pp. 1006-1007
La scrittura provvisoria, seppur straordinariamente compiuta, della sceneggiatura pasoliniana recupera la funzione sovrastrutturale della musica e del canto codificata dalla spettacolarità tragica; il cammino erratico di Edipo è scandito dal risuonare di voci e di suoni selvaggi e arcaici, che riempiono il vuoto metaforico della sua conoscenza, fino all’emergere del sublime e doloroso lamento del flauto, che sembra ricomporre gli eventi e orientare il destino dell’inconsapevole ‘eroe’ verso il nulla della storia e del tempo.
Nel testo filmico, invece, il dialogo fra Edipo e il profeta è costruito attraverso la pregnante contrapposizione attoriale fra Julian Beck e Franco Citti: la possente dizione di Beck, la sua fisicità asciutta ma vibrante, si alterna alla rude fisionomia di Citti, agli scatti nervosi di una regalità vacillante, sferzata dalla nuda verità del logos.

Nel contrappuntare la sequenza, però, Pasolini non rinuncia alla dimensione evocativa della musica e affida al ragazzo-nunzio (interpretato da Ninetto Davoli) il compito di suonare il flauto, liberando così le note di uno straziante canto di dolore. Poco più avanti, quando ormai tutto è compiuto, assistiamo a una fatale passaggio di consegne, che avvia ormai la parabola tragica di Edipo verso un finale inconsolabile.
Ed ecco venire verso di lui il ragazzo-nunzio, con la sua umile faccia pietosa: tiene in mano qualcosa, però. È un flauto. Un flauto come quello di Tiresia. Il flauto di chi è cieco. Il flauto che fa tornare le cose nelle regole, che codifica lo scandalo.
Il ragazzo abituato agli umili servizi, non ha paura di avvicinare quell’uomo ridotto così male, con quelle piaghe ancora fresche e sanguinanti. Gli si avvicina, e gli allunga il flauto che Edipo non vede, ignora.

Allora il ragazzo gli prende una mano, e gliela mette sul flauto: la mano di Edipo cerca, riconosce. Stringe il flauto e, sorretto dal ragazzo, si incammina con lui. […]

Ed ecco che ora Edipo suona – mendicante cieco, profeta – ancora faticosamente e puerilmente, una melodia, la melodia della sua infanzia, la melodia del misterioso canto d’amore di Tiresia, la melodia che è prima e dopo il destino.
I due si perdono lontano, in fondo alla strada polverosa
 
(P.P. Pasolini, Edipo re (sceneggiatura), 2001, pp. 1047-1048).
È qui che avviene lo slittamento dall’immutabile ed eterna grammatica del mito all’urgenza magmatica e sconfessata della storia, nel ritornare della melodia dell’infanzia, misteriosa ferita mai rimarginata, nella ricreazione della cornice che trasforma il tempo mitico di Sofocle in un sogno iniziatico al dolore e alla testimonianza della poesia, che ha il senso sconvolgente di una ripetizione, di un ritorno.
Nel disadattamento morfologico del mito tragico dell’Edipo visuale e visionario di Pasolini, la rapsodia del canto e della musica non rimangono puro commento extradiegetico, ma investono e strutturano la fabula, nel continuum sonoro del flauto che dà senso al "rumoreggiare dolce della storia". Il flauto che "codifica lo scandalo" è insieme la condanna e la salvezza della voce, il segno del martirio e la speranza di sopravvivenza nell’epica voragine della vita, ma resta, soprattutto, come traccia metonimica e metalinguistica del teatro, che è già teatro di poesia, significante simbolico della sublime vertigine tragica. A richiamare il teatro in funzione straniante e quindi ancora epica (in senso brechtiano), non interviene solo il senhal del flauto, ma anche il corpo e la mimica di Tiresia e Creonte, interpretati rispettivamente da Julian Beck e Carmelo Bene, vere e proprie icone di un ‘palcoscenico’ della crudeltà e della contestazione che ancora in quegli anni affascinava Pasolini, prima della definitiva abiura da ogni tradizione o poetica drammaturgia.
Negli anni della laboriosa scrittura delle tragedie, il teatro di Pasolini esce fuori dagli schemi di un’abusata e logora abitudine spettacolare, per divenire segno e forma di un "sogno dentro un sogno", in cui l’illusione di un tempo ‘sospeso’ ammette la ripetizione di simboli gravidi di storia. Se la musica dolente del flauto rivive la dialettica del canto senza lira della tragedia greca, nell’inesprimibile frizione tra parola e voce, il suono pizzicato del mandolino diviene l’organon di un’altra identificazione, disegnando una linea parabolica che dalla Grecia giunge a Brecht.
Io sono un capitalista, e lo so.
Deboli, nani, mediocri, falliti,

anormali, servi, decadenti, miti

immorali, porci, miseri: li do

al tuo Brecht, nuove maschere politiche
 
P.P. Pasolini, Ballate della violenza, 1962
È l’urlo espressionistico della ‘giaguara’ Laura Betti a violare la scena brechtiana e a contaminare la dizione drammaturgica pasoliniana. La mediazione fra Brecht e Pasolini avviene infatti nell’ambito della frequentazione con un’artista come la Betti, che interpreta la Anna I dei Sette vizi capitali sulla base delle proprie esperienze di ‘confine’ come attrice di prosa e cabaret, e di cantante. L’assunzione della maschera brechtiana sposta l’attenzione di Pasolini verso nuovi impasti stilistici, in direzione di una teatralità contaminata dal plurilinguismo di prosa, canto e danza, dall’espressività ‘bloccata’ di una gestualità da marionetta, dall’uso didascalico e straniante dei ‘cartelli’ esplicativi.
Il sublime tragico del dramma greco sembra trovare in Brecht un nuovo epigono, un aedo/menestrello capace di variare, tra le corde vibrate del ‘mandolino’, la melodia funebre del mito in fabula, in apologo graffiante e apocalittico. È ancora la metaforica compresenza di parola e voce a riempire l’ellissi tra antico e moderno, a rendere possibile e praticabile il genere tragico, seppur nel carnevalesco travestimento della favola e del grottesco. Grottesco è il film Uccellacci e uccellini, e insieme la "ricerca degradata di valori autentici in un mondo degradato" di cui si incaricano i protagonisti della storia, Innocenti Marcello e Innocenti Ninetto, rispettivamente Totò e Ninetto Davoli. Il favolistico peregrinare dei due personaggi (clowns non ancora burattini) dentro gli scenari improvvisati di un’umanità alla ricerca di se stessa, fonda la metafora del viaggio come parabola di conoscenza. La fiera fisicità dei "ragazzi di vita" del primo cinema di Pasolini lascia il posto all’aerea leggerezza di Ninetto e alla snodata mimica di Totò, straordinari saltimbanchi di una farsa ideo-comica, di "un triste girotondo, di un lieto girotondo" in cui bruciano le ideologie – e il mandato dell’intellettuale engagé – e si addensa il crepuscolo delle grandi speranze. Lo "spettacolo volante" di Uccellacci e uccellini segna un punto di non ritorno nella traversata pasoliniana dei generi letterari: "uscendo dalla scena di Brecht, / per ritirarsi nei bui retroscena, / dove impara nuove parole reali l’eroe incerto", Pasolini ritrova il magma incandescente della lingua, tra pastiche ideografico e cabaret, prima della danza macabra del "teatro di Parola".
Al di là delle episodiche e volutamente scoperte "citazioni brechtiane", disseminate ed esibite tra poesia, cinema e teatro, fino al definitivo congedo dal drammaturgo tedesco nella perentoria affermazione "che i tempi di Brecht sono finiti per sempre", ciò che emerge è la continuità e lo spessore di una riflessione sul ‘fantasma ontologico del teatro’ che attraversa ogni pregiudiziale distinzione in generi e categorie, ricercando ossessivamente ciò che l’inferno dell’omologazione e del capitale annienta: la presenza del corpo e della voce. Il travestimento umorale e umoristico della tragedia, il rovesciamento dei canoni stilistici nella mescolanza di alto e basso, sacro e profano, trova l’ultima straordinaria realizzazione nel cortometraggio Che cosa sono le nuvole?, che sintetizza in un solo movimento dello sguardo tutte le istanze dell’imagery pasoliniana.
5 TEATRO
Interno. Notte.
Ed eccoci all’ora della rappresentazione.
Davanti c’è la platea, poco più grande dello sgabuzzino o del ripostiglio. Le pareti color giallo sporco, scrostate e patinate di antiche stratificazioni d’unto e di fumo. […] Sotto il palcoscenichetto, col sipario tirato, c’è un gobbetto e una gobbetta con i mandolini.

Il gobetto comincia a suonare il mandolino, e il sipario si apre.

Nel palcoscenichetto non c’è niente: c’è tutto buio.

Dall’alto giunge la voce del Burattinaio:


VOCE DEL BURATTINAIO - Questa non è solo la commedia che si vede e che si sente; ma anche la commedia che non si vede e non si sente. Questa non è solo la commedia di ciò che si sa, ma anche di ciò che non si sa. Questa non è soltanto la commedia delle bugie che si dicono, ma anche della verità che non si dice. 
P.P. Pasolini, Che cosa sono le nuvole?, 2001, pp. 939-940
"La commedia che si vede e si sente" è in realtà la tragedia shakespeariana di Otello, degradata a spettacolo di burattini di dimensioni umane, che restano inchiodati, nel buio claustrofobico di un palcoscenico/ripostiglio, alla recita straniata di una parte, distratti appena dai rumori del mondo.

Otello osa ancora chiedere spiegazioni al suo nuovo amico Jago. Lo incuriosisce tutto quel brusio che giunge da oltre le pareti, dal mondo esterno:
OTELLO Signor maestro, ma che sono tutti quei rumori…
JAGO Sono i rumori del mondo…

OTELLO Ma non è questo il mondo?

JAGO Sì, ma quello è l’altro mondo…

OTELLO E che sarebbe l’altro mondo, sor maestro?

JAGO Il mondo dove si va quando si muore...
P.P. Pasolini, Che cosa sono le nuvole?, 2001, p. 938
"La commedia che non si vede e non si sente", se non in lontananza, è, dunque, il lento e inesorabile declinare della vita, il teatro naturale dell’esistenza che si capovolge nell’illusione della scena, invertendo l’ordine consueto delle cose, per cui la vita è la prigione della forma (la marionetta) e la morte è la libertà del sogno (la bellezza). A muovere gli ingranaggi della giostra, c’è il Burattinaio, artifex e demiurgo, voce fuori campo della consapevolezza e dell’inganno, che muove e orchestra il linciaggio del pubblico per "il trionfo dell’onestà e dell’innocenza". La canzone dell’Immondezzaio Domenico Modugno di antica tradizione italo-canora, e le melodie tragiche e romantiche del mandolino, suonato da due gobbetti, restano segni simbolicamente pieni, metafore di un teatro nel teatro che continua a interrogare se stesso, a passo di danza. La stravagante leggerezza della favola è il «can-can» indiavolato di un’esecuzione provvisoria, un trucco che scolora e imputridisce, a contatto con le cicatrici della storia.
E proprio da una delle ferite mai rimarginate della storia – la Seconda Guerra mondiale, con l’immane catastrofe dell’Olocausto – scaturisce l’immagine fantasmatica dell’arpa, strumento metamorfico di una nuova incarnazione antropologica, quella del poeta-bonzo. Se il flauto e il mandolino rimandano a un’origine scopertamente drammaturgica, a metà strada fra archetipo classico e straniamento brechtiano, l’arpa (che pure potrebbe richiamare il dominio apollineo della lira, e quindi rivaleggiare dialetticamente con l’aulos) rivela precise ascendenze orientali ed esotiche, legate a un crescente interesse mostrato da Pasolini verso pratiche e culture dell’est, a cui è debitrice l’ultima fase della sua produzione artistica.
La suggestione figurativa e tematica del film L’arpa birmana, del giapponese Kon Ichikawa, crea infatti un fecondo corto circuito nell’immaginario pasoliniano che dà vita a una delle figure, ma sarebbe meglio dire delle maschere, più emblematiche del suo teatro, quella di Jan, protagonista di Bestia da stile. L’arpa birmana è un’opera intimamente elegiaca, costruita attraverso un montaggio che possiamo definire epico, di un’epica del dolore e della necessità della memoria. L’incanto del film si sedimenta nell’imagery pasoliniana, viene filtrato dalla sua fantasia poetica e infine trasformato in tragedia: il nucleo generativo di Bestia da stile è infatti legato alla persistenza e alla fascinazione del motivo dell’arpa.
Un mio protagonista potrebbe essere un poeta ceco.
Tuttavia questi morti vivono ancora.
Ma evidentemente vanno visti dal punto di vista dell’Africa.

Come un suonatore d’arpa birmana voglio seppellirli e non dimenticarli.

Quando avrò compiuto il dovere di becchino non battezzato

affidando a Garzanti l’incarico di allestire tombe e bare,

andrò per l’Italia con occhi non meno consacranti.

Mentre i cadaveri dei napoletani fischiettano ancora a Roma

e ballano l’high life a Lagos...

Comunque anche i vivi sono altrettanto cari

al cuore del suonatore birmano.

[…]

Ringrazio
la Cecoslovacchia per il suo dolore
che le proviene dall’interruzione della Rivoluzione,

dalla sua paura di distruggere la famiglia e lo Stato.

L’idea di libertà vi sanguina irrelata

(è prodotto della cultura precedente).

L’amore per essa e per la sua libertà di lingua e di stile

è dunque intrattenibile rimpianto per il passato.

E il suonatore di Arpa birmana in Cecoslovacchia

ha altre migliaia di morti da seppellire
.
P.P. Pasolini, Da "Versi introduttivi al Rio della Grana", 2001, pp. 1445-1447
Questa è la prima elaborazione del progetto di Bestia da stile, che ancora si chiama nelle intenzioni di Pasolini Il poeta ceco o Poesia; è facile intuire che, se il suono dolente del flauto ricrea il sentimento tragico del mito, l’eternità inconsolabile della tragedia, il vibrato dell’arpa emerge dal baratro della realtà, dall’urgenza della storia e si incarica di sublimarne il rumore sordo, il basso continuo, attraverso l’azione espressiva della poesia.
JAN
Voglio essere poeta: e non distinguo questa decisione

dagli odori bui della cucina

nell’ora di inverno che precede la cena

(e fa tanto male – un male per sempre inspiegabile –

al cuore dei bambini)

[…]

Poeta di cosa?

Del mio sesso e del mio paese

[…]

Sarò con la mia gente;

accoglierò, con pietà, i suoi odi

– gli odi che non sono nemmeno suoi

ma quelli che i padroni le insegnano –

odierò gli eretici di ogni specie,

e le nazioni comuniste – ma di un odio

illuminato, per cui potrei essere pronto a morire

(con dolcezza, come devono fare i giovani santi!).
P.P. Pasolini, Bestia da stile, 2001, pp. 769-770
La vocazione poetica di un barbarico ragazzo della Boemia è l’ultima grande scommessa della drammaturgia pasoliniana; Bestia da stile è probabilmente il testo più complesso del corpus tragico, quello in cui più esplicitamente Pasolini fa i conti con la propria scrittura e cerca di mettere in pratica quell’idea di poesia vissuta, di linguaggio come azione espressiva che già dai primi anni Sessanta andava perseguendo. Per fare questo sceglie di rappresentare la vocazione poetica di Jan, dietro cui si intravede in filigrana la propria autobiografia drammatizzata, una vocazione vissuta in modo scandaloso, attraverso l’umiliazione della carne e del sesso, nell’assunzione del modello cristologico e nella riattualizzazione del tema dell’arpa.
Ho il cuore ferito da un’idea.
Un’idea di stile: uno stilo!

piantata nel cuore

fin dove vibrano le corde più segrete

della mia arpa ceca.

È un’idea che riguarda il rosso.
P.P. Pasolini, Bestia da stile, 2001, pp. 790
Il rosso è il colore della bandiera, della storia ma anche del sangue e della morte e costituisce la lezione più alta della poesia barbarica e musicale di Jan, perché si identifica con uno degli esempi più emblematici di poesia vissuta, quello di Jan Palach, che rappresenta il fantasma di identificazione di Jan/Pasolini. Nel suicidio di Jan Palach, infatti, Pasolini intravede un vero e proprio modello di tecnica religiosa, Palach è un santo vietnamita moderno, un bonzo arso vivo per la rivendicazione di un’atroce libertà di espressione.
Se io dovessi, ora, dare un giudizio razionale-realistico su tale suicidio, non potrei dunque che dare un giudizio cinicamente negativo. Userei, però, in tal caso, come metro di giudizio, l’utilità e l’opportunità. […] Ma io non uso il metro dell’utilità e dell’opportunità. Se Jan avesse fatto questi calcoli, forse avrebbe salvato la sua vita: ma non sarebbe stato libero di esprimersi. Anche se nel suo caso la libertà di esprimersi è stata atroce.
Egli ha attuato, invece, implacabilmente, la propria volontà suicida e la propria disperazione. Ha portato a termine fino in fondo la sua decisione follemente idealistica. Ho scritto fino all’ultima riga il suo terribile poema.
P.P. Pasolini, Praga: un’atroce libertà, 1969, pp. 1180-1182
Dall’ouverture metalinguistica del flauto si è giunti, attraverso la metamorfosi straniata del mandolino, al requiem dolcissimo dell’arpa che, sublimando l’immagine mitopoietica del suonatore-bonzo Mizushima nel corpo martoriato di Jan, sembra ricomporre i "segni fatti musica" della scrittura pasoliniana dentro il margine di una dizione sacrificale estrema, che ancora oggi – a oltre trent’anni dalla morte dello scrittore – fa risuonare l’eco della verità inviolabile dell’arte.


Bibliografia


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Stefania Rimini


Fonte: http://www.engramma.it/eOS/index.php?id_articolo=415


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