"Le pagine corsare "
dedicate a Pier Paolo Pasolini
Eretico e Corsaro
"Niente è più possibile, ormai"
Sostituzione e oggetto del desiderio nella Medea di Pasolini
3. Destino e tragedia in Pasolini
In assenza (o in attesa?) di una chiara risposta, Pasolini è così consegnato a una situazione di lucida ambiguità in cui si dibatte, rilanciandocela con un gesto che ha del disarmante, consegnandosi nudo al suo desiderio e ostendendolo verso noi che guardiamo, in una sorta di esibizionismo erotico-conoscitivo a sfondo sacrificale e sacrale, ma insieme inclusivo di ciò che più ci caratterizza come moderni. Dobbiamo sondare le sinistre profondità dello spazio rappresentativo che il gesto pasoliniano ci apre, o su cui attira il nostro sguardo, per dirla forse più esattamente. L’oscillazione rappresentativa del film, il suo dualismo esplorativo, avvicina difatti al regista stesso la posizione del ragazzo immolato, la cui fisionomia desiderabile da ragazzo di borgata lo certifica espressione del suo mondo immaginario e affettivo, con la duplice connotazione dell’oggetto reso più desiderabile dalla violenza che gli viene inflitta e del simbolo proiettivo in cui identificarsi.
La ierofania del corpo presuppone il rito del corpo, il rito dello smembramento che permette alla comunità di ricomporre il proprio “corpo sociale”. Medea desidera Giasone con la stessa intensità con cui esegue il rito di smembramento del ragazzo immolato, ma nello stesso tempo il desiderio della donna comincia a individualizzarsi quando incontra Giasone, non perdendo per questo la sua carica violenta e totalizzante. Il suo desiderio si può perciò alimentare solo se continua a applicare la logica sostitutiva del sacrificio, rivolta verso un terzo che fondi e rafforzi la sua unione col nuovo venuto. Il sacrificio del terzo permette di mantenere la carica trasfigurante della ierofania desiderativa e di custodire l’oggetto del corpo desiderato.
Quando l’oggetto si sottrae, la rabbia vendicatrice si esercita su nuove vittime sostitutive, ma il meccanismo conferma il desiderio dell’oggetto corporeo. Quindi la Medea di Pasolini deve uccidere tutti coloro che stanno intorno a Giasone, ma non Giasone stesso, a differenza della Medea di Euripide, che lascia in vita Giasone solamente per farlo meglio soffrire. La Medea pasoliniana preferisce uccidere se stessa piuttosto che distruggere l’oggetto del desiderio, poiché uccidersi diventa l’ultimo modo di mantenere la spinta della ierofania. La conclusione del film, infatti, è perfettamente interpretabile come un suicidio, e le fiamme che ardono intorno a Medea sono le stesse che bruciano Glauce e Creonte. Mentre la sua collega antica dice a Giasone di aver seminato la strage per farlo soffrire [14], la Medea moderna dice alla fine: “…io voglio soffrire” [15]. Questo è sufficiente per sostenere che Medea rappresenta il desiderio dello stesso autore. Ella vede Giasone con l’occhio desiderante con cui Pasolini l’avrebbe guardato, e consuma in se stessa un destino che Pasolini sente agitarsi dentro di sé, da cui egli si sente sinistramente chiamato. Questo passaggio consente di trarre una conclusione, benché provvisoria e da approfondire, circa il significativo complessivo di Medea nell’arcata creativa del suo autore, della quale esprime una tappa di grande maturità.
Lo scambio e gioco simbolico Medea/Pasolini sembra mettere in questione uno dei punti fermi nell’interpretazione del film secondo le differenze di genere, nel senso che in ultima istanza ne prescinde, alludendo a una sorta di sostituzione reciproca, che non funziona perché sostituisce a un tempo troppo e troppo poco. La differenza sessuale nella vicenda gioca sicuramente un ruolo, ma non nell’accezione
“fissista” delle interpretazioni psicanalitiche e femministe, bensì in quello di una destabilizzazione originaria delle differenze. Il desiderio rivela di corrispondere a questa indistinzione originaria, e il desiderio omosessuale, in quanto propone una duplicazione simmetrica, sottolinea codesta matrice indifferenziante. Il desiderio omosessuale appare così come la rotazione e indifferenziazione simmetrica del desiderio eterosessuale, e a sua volta l’alternanza sadomasochistica, adombrata nell’ambivalenza verso il giovanotto immolato e nella caratterizzazione passiva di Giasone come “oggetto sessuale”, ne rappresenta la manifestazione ulteriore. Questo è l’esito dell’indifferenziazione distruttiva che predomina in Orgia, Teorema, Porcile, fino al tragico apologo di Salò, e l’elenco potrebbe continuare, con una inconfondibile mescolanza di opere teatrali, filmiche e narrative, variamente mescolate e combinate in una feconda indifferenziazione dei mezzi espressivi e dei generi.
Ma ciò significa anche che, se si vuole mantenere l’adorazione dell’oggetto, l’autodistruzione masochistica può apparire l’unica soluzione, come emerge nel destino della stessa Medea, e come risulta con urtante chiarezza in Orgia e Porcile. Medea anticipa in tal modo il destino del suo regista, la sua lotta mortale col proprio desiderio. Una dinamica esasperata e rivelatrice che si sovrappone “felicemente”, ma di una felicità espressiva che si alimenta di due tragedie personali, col personaggio della Callas, mostrando la sua verità di donna teatrale, di dominatrice dionisiaca delle scene consegnata da ultimo all’isolamento del suo stesso successo, alla solitudine spaventosa testimoniata dalla conclusione della sua carriera e della sua vita (la grande cantante morirà nel 1977, due anni dopo Pasolini). Per questo Maria Callas, nell’elaborazione finale, non deve cantare, perché la rappresentazione deve attingere a una dimensione più originaria, alle ragioni desiderative e rituali, rigorosamente collettive, che presiedono al canto, e che presiedono al suo di canto, che aveva nella Medea di Cherubini, da lei riscoperta, il suo cavallo di battaglia (ragione che deve aver subito guidato su di lei la scelta di Pasolini, con un’associazione logica, quasi scontata, intimamente necessaria). L’unico canto nel film è collettivo, e coincide col sacrificio, a cui si unisce l’attesa della ierofania di Giasone. Tutto ciò ci parla della Callas, e del suo stesso destino, come da lei magnificamente compreso in un’interpretazione ieratica quanto personale che resta memorabile, poiché a parlarci, nel suo viso immutabile più ancora che nelle parole, è una maga della scena e del canto consegnata a una condizione di incomprensione umana di cui morirà. Ma alla fine, attraverso l’immagine torturata e grandiosa di questo suo alter ego femmineo e vittimario, gli indizi disseminati ovunque nel testo filmico non possono non convergere sulla persona del sapiente e disperato regista.
La battuta conclusiva di Medea: “Niente è più possibile, ormai” indica questo chiudersi di una struttura di desiderio che è il chiudersi del destino di Pasolini, senza più alternative rappresentabili, conformemente al fragoroso silenzio canoro della Callas. Anche se l’assenza di alternative rappresentabili, vale a dire sganciate dalle ambiguità ricattatorie della rappresentazione, non significa che un’alternativa non ci sia, e che non sia raggiungibile proprio mediante ciò che pare negarla. Il che mi induce a un’ultima rapida riflessione, in sé non necessaria alla conclusione della mia lettura, ma che mi si impone con una sorta di batailliana “sovranità”, esclusivamente affidata all’attenzione, e intenzione, di chi voglia pensare il problema. Un problema che non è mai stato assente dall’orizzonte del regista del Vangelo secondo Matteo e di quel superbo apologo vittimario che è La ricotta, forse la punta di diamante della sua intera produzione filmica. Come un avvocato d’ufficio, voglio essere breve.
Una residua speranza, ma non di quelle minori (la sua stessa paradossalità testimonia in suo favore), è che precisamente nel destino di vittima comunque subìto da Pasolini si nasconda il segreto della redenzione, cioè dell’espiazione, come intuito con obliqua insistenza da Bataille. Se così non fosse, la diversità/ somiglianza tra Dioniso e Cristo non avrebbe valore, e ciò sarebbe contrario sia alla struttura del rito, sia al lucido riscontro della ragione, dove le due dimensioni del film pasoliniano vengono singolarmente a convergere, non più a giustapporsi. In questo Pasolini, come Bataille, rimane rigorosamente cristiano, e cattolico. Attraverso la “caduta”, vivendo fino in fondo il “peccato originale” del suo desiderio, Pasolini potrebbe aver realizzato in se stesso il movimento in corpore vivo dell’eucarestia, dell’offerta sacrificale di Cristo. Un’eucarestia empia e desolata, non c’è dubbio, ma forse egualmente efficace, perché, se fosse inefficace nella desolazione, cosa, chi sarebbe venuto a salvare il sacramento cristiano?
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14 Medea, 1398.
15 P.P. Pasolini,.Per il cinema, cit., p. 1288 (corsivo mio).
Giuseppe Fornari, Università di Bergamo -
Fonte: INDA
Sostituzione e oggetto del desiderio nella Medea di Pasolini
3. Destino e tragedia in Pasolini
In assenza (o in attesa?) di una chiara risposta, Pasolini è così consegnato a una situazione di lucida ambiguità in cui si dibatte, rilanciandocela con un gesto che ha del disarmante, consegnandosi nudo al suo desiderio e ostendendolo verso noi che guardiamo, in una sorta di esibizionismo erotico-conoscitivo a sfondo sacrificale e sacrale, ma insieme inclusivo di ciò che più ci caratterizza come moderni. Dobbiamo sondare le sinistre profondità dello spazio rappresentativo che il gesto pasoliniano ci apre, o su cui attira il nostro sguardo, per dirla forse più esattamente. L’oscillazione rappresentativa del film, il suo dualismo esplorativo, avvicina difatti al regista stesso la posizione del ragazzo immolato, la cui fisionomia desiderabile da ragazzo di borgata lo certifica espressione del suo mondo immaginario e affettivo, con la duplice connotazione dell’oggetto reso più desiderabile dalla violenza che gli viene inflitta e del simbolo proiettivo in cui identificarsi.
La ierofania del corpo presuppone il rito del corpo, il rito dello smembramento che permette alla comunità di ricomporre il proprio “corpo sociale”. Medea desidera Giasone con la stessa intensità con cui esegue il rito di smembramento del ragazzo immolato, ma nello stesso tempo il desiderio della donna comincia a individualizzarsi quando incontra Giasone, non perdendo per questo la sua carica violenta e totalizzante. Il suo desiderio si può perciò alimentare solo se continua a applicare la logica sostitutiva del sacrificio, rivolta verso un terzo che fondi e rafforzi la sua unione col nuovo venuto. Il sacrificio del terzo permette di mantenere la carica trasfigurante della ierofania desiderativa e di custodire l’oggetto del corpo desiderato.
Quando l’oggetto si sottrae, la rabbia vendicatrice si esercita su nuove vittime sostitutive, ma il meccanismo conferma il desiderio dell’oggetto corporeo. Quindi la Medea di Pasolini deve uccidere tutti coloro che stanno intorno a Giasone, ma non Giasone stesso, a differenza della Medea di Euripide, che lascia in vita Giasone solamente per farlo meglio soffrire. La Medea pasoliniana preferisce uccidere se stessa piuttosto che distruggere l’oggetto del desiderio, poiché uccidersi diventa l’ultimo modo di mantenere la spinta della ierofania. La conclusione del film, infatti, è perfettamente interpretabile come un suicidio, e le fiamme che ardono intorno a Medea sono le stesse che bruciano Glauce e Creonte. Mentre la sua collega antica dice a Giasone di aver seminato la strage per farlo soffrire [14], la Medea moderna dice alla fine: “…io voglio soffrire” [15]. Questo è sufficiente per sostenere che Medea rappresenta il desiderio dello stesso autore. Ella vede Giasone con l’occhio desiderante con cui Pasolini l’avrebbe guardato, e consuma in se stessa un destino che Pasolini sente agitarsi dentro di sé, da cui egli si sente sinistramente chiamato. Questo passaggio consente di trarre una conclusione, benché provvisoria e da approfondire, circa il significativo complessivo di Medea nell’arcata creativa del suo autore, della quale esprime una tappa di grande maturità.
Lo scambio e gioco simbolico Medea/Pasolini sembra mettere in questione uno dei punti fermi nell’interpretazione del film secondo le differenze di genere, nel senso che in ultima istanza ne prescinde, alludendo a una sorta di sostituzione reciproca, che non funziona perché sostituisce a un tempo troppo e troppo poco. La differenza sessuale nella vicenda gioca sicuramente un ruolo, ma non nell’accezione
“fissista” delle interpretazioni psicanalitiche e femministe, bensì in quello di una destabilizzazione originaria delle differenze. Il desiderio rivela di corrispondere a questa indistinzione originaria, e il desiderio omosessuale, in quanto propone una duplicazione simmetrica, sottolinea codesta matrice indifferenziante. Il desiderio omosessuale appare così come la rotazione e indifferenziazione simmetrica del desiderio eterosessuale, e a sua volta l’alternanza sadomasochistica, adombrata nell’ambivalenza verso il giovanotto immolato e nella caratterizzazione passiva di Giasone come “oggetto sessuale”, ne rappresenta la manifestazione ulteriore. Questo è l’esito dell’indifferenziazione distruttiva che predomina in Orgia, Teorema, Porcile, fino al tragico apologo di Salò, e l’elenco potrebbe continuare, con una inconfondibile mescolanza di opere teatrali, filmiche e narrative, variamente mescolate e combinate in una feconda indifferenziazione dei mezzi espressivi e dei generi.
Ma ciò significa anche che, se si vuole mantenere l’adorazione dell’oggetto, l’autodistruzione masochistica può apparire l’unica soluzione, come emerge nel destino della stessa Medea, e come risulta con urtante chiarezza in Orgia e Porcile. Medea anticipa in tal modo il destino del suo regista, la sua lotta mortale col proprio desiderio. Una dinamica esasperata e rivelatrice che si sovrappone “felicemente”, ma di una felicità espressiva che si alimenta di due tragedie personali, col personaggio della Callas, mostrando la sua verità di donna teatrale, di dominatrice dionisiaca delle scene consegnata da ultimo all’isolamento del suo stesso successo, alla solitudine spaventosa testimoniata dalla conclusione della sua carriera e della sua vita (la grande cantante morirà nel 1977, due anni dopo Pasolini). Per questo Maria Callas, nell’elaborazione finale, non deve cantare, perché la rappresentazione deve attingere a una dimensione più originaria, alle ragioni desiderative e rituali, rigorosamente collettive, che presiedono al canto, e che presiedono al suo di canto, che aveva nella Medea di Cherubini, da lei riscoperta, il suo cavallo di battaglia (ragione che deve aver subito guidato su di lei la scelta di Pasolini, con un’associazione logica, quasi scontata, intimamente necessaria). L’unico canto nel film è collettivo, e coincide col sacrificio, a cui si unisce l’attesa della ierofania di Giasone. Tutto ciò ci parla della Callas, e del suo stesso destino, come da lei magnificamente compreso in un’interpretazione ieratica quanto personale che resta memorabile, poiché a parlarci, nel suo viso immutabile più ancora che nelle parole, è una maga della scena e del canto consegnata a una condizione di incomprensione umana di cui morirà. Ma alla fine, attraverso l’immagine torturata e grandiosa di questo suo alter ego femmineo e vittimario, gli indizi disseminati ovunque nel testo filmico non possono non convergere sulla persona del sapiente e disperato regista.
La battuta conclusiva di Medea: “Niente è più possibile, ormai” indica questo chiudersi di una struttura di desiderio che è il chiudersi del destino di Pasolini, senza più alternative rappresentabili, conformemente al fragoroso silenzio canoro della Callas. Anche se l’assenza di alternative rappresentabili, vale a dire sganciate dalle ambiguità ricattatorie della rappresentazione, non significa che un’alternativa non ci sia, e che non sia raggiungibile proprio mediante ciò che pare negarla. Il che mi induce a un’ultima rapida riflessione, in sé non necessaria alla conclusione della mia lettura, ma che mi si impone con una sorta di batailliana “sovranità”, esclusivamente affidata all’attenzione, e intenzione, di chi voglia pensare il problema. Un problema che non è mai stato assente dall’orizzonte del regista del Vangelo secondo Matteo e di quel superbo apologo vittimario che è La ricotta, forse la punta di diamante della sua intera produzione filmica. Come un avvocato d’ufficio, voglio essere breve.
Una residua speranza, ma non di quelle minori (la sua stessa paradossalità testimonia in suo favore), è che precisamente nel destino di vittima comunque subìto da Pasolini si nasconda il segreto della redenzione, cioè dell’espiazione, come intuito con obliqua insistenza da Bataille. Se così non fosse, la diversità/ somiglianza tra Dioniso e Cristo non avrebbe valore, e ciò sarebbe contrario sia alla struttura del rito, sia al lucido riscontro della ragione, dove le due dimensioni del film pasoliniano vengono singolarmente a convergere, non più a giustapporsi. In questo Pasolini, come Bataille, rimane rigorosamente cristiano, e cattolico. Attraverso la “caduta”, vivendo fino in fondo il “peccato originale” del suo desiderio, Pasolini potrebbe aver realizzato in se stesso il movimento in corpore vivo dell’eucarestia, dell’offerta sacrificale di Cristo. Un’eucarestia empia e desolata, non c’è dubbio, ma forse egualmente efficace, perché, se fosse inefficace nella desolazione, cosa, chi sarebbe venuto a salvare il sacramento cristiano?
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14 Medea, 1398.
15 P.P. Pasolini,.Per il cinema, cit., p. 1288 (corsivo mio).
Giuseppe Fornari, Università di Bergamo -
Fonte: INDA