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Biografia, lavori in corso - a breve anche il 1974 e il 1975

giovedì 10 dicembre 2020

Pasolini - Tempo, 6 agosto 1968 - inizia la rubrica "Il Caos"

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro


Tempo, Milano 6 agosto 1968 - anno XXX, numero 32

Pasolini inizia la rubrica "Il Caos"

Tempo, Milano 6 agosto 1968
anno XXX, numero 32

Pagina 20 e pagina 73  

(Trascrizione curata da Bruno Esposito)



Tempo, Milano 6 agosto 1968 - pag. 20
Perché ho accettato di scrivere per "Tempo" la presente rubrica? 
     É una domanda che faccio a me stesso, più che per rispondere preventivamente a coloro, che con simpatia o con antipatia, me la porranno.
     Ci sono molte ragioni: la prima è il mio bisogno di disobbedire a Budda. Budda insegna il distacco dalle cose (per dirla all'occidentale) e il disimpegno (per continuare con il grigio linguaggio occidentale): due cose che sono nella mia natura. Ma c'è in me, appunto, un irresistibile bisogno di contraddire a questa mia natura.
     Naturalmente, un tale bisogno di contraddirmi, ha bisogno anche di giustificazioni. Queste giustificazioni provvede a dettarmele tutto il mio conformismo, che è molto difficile, del resto, da definire, essendo fenomeno dal carattere maledettamente composito e ambiguo (esso ha forse i suoi punti di contatto più compatibili con un certo conformismo comunista, quale si è presentato nel dopoguerra: una cosa, dunque, quasi lontana come la mia infanzia).

Il perché di questa rubrica

Le giustificazioni, ad ogni modo, che il mio enigmatico conformismo mi detta - a proposito di questo impegno settimanale che mi sono preso - sono molto semplici: invoco a giustificarmi la necessità "civile" di intervenire, nella lotta spicciola e quotidiana, per conclamare quella che secondo me è una forma di verità. Dico subito che non si tratta di una verità affermativa: si tratta piuttosto di un atteggiamento, di un sentimento, di una dinamica, di una prassi, quasi di una gestualità: essa dunque non può non essere piena di errori, e magari anche di qualche stupidità (a questa ammissione sento già il ghigno dei giornalisti divenuti da oggi in poi miei colleghi). So vagamente che la mia opera, letteraria e cinematografica, mi pone, quasi d'ufficio, nell'ordine delle persone pubbliche. Ebbene, ecco: io mi rifiuto, intanto, di comportarmi da persona pubblica. Se una qualche autorità ho ottenuto, malamente, attraverso quella mia opera, sono qui per rimetterla del tutto in discussione: come del resto ho sempre cercato di fare. Si potrà dire che il mio è uno sforzo inutile; che ci sono certi poteri che, una volta raggiunti, bisogna tenerseli; che non c'è possibilità di dimissioni; e che io, dunque, avendo ottenuto un certo, sia pur minimo e discusso, potere di prestigio - attraverso poesie, romanzi, film e volonterosi saggi linguistici e semiologici - appartengo fatalmente a una indifferenziata "Autorità": né più né meno che come chi l'ha cercata di proposito: un burocrate, un uomo politico, un generale dei carabinieri, un professore, un industriale. Un giovane che apra gli occhi oggi alla luce (culturale), non può non vedermi inserito in questa sorta di Autorità paterna che lo sovrasta. Ebbene, io non voglio ammetterlo.
     Ecco perché questa rubrica non avrà - almeno nelle mie intenzioni - nulla di autorevole, e io non avrò nessuno scrupolo nello scriverla: nessun timore, intendo dire, di contraddirmi, o di non proteggermi abbastanza.
     A questo punto credo che sia chiara anche la ragione per cui ho voluto intitolare queste mie pagine settimanali "Il caos", il cui sottotitolo ideale potrebbe essere: "Contro il terrore": l'autorità, infatti, è sempre terrore, anche quando è dolce. Un padre dice dolcemente, cameratescamente a un figlio piccolo: "Non calpestare le aiuole": ebbene, questo comandamento negativo entrerà a far parte di un insieme di comandamenti negativi che regoleranno il comportamento di quel bambino; sicché la buona educazione, essendo in gran parte fondata su una serie di regole negative, è, per sua natura, terroristica: infatti essa, quasi a risarcire i sacrifici dell'obbedienza, diventa immediatamente un diritto, e, in nome di tale diritto, il bambino, ben educato, divenuto grande, eserciterà i suoi ricatti morali.
     Ho preso questo mio esempio dal "Cuore" o dal "Talmud" del mondo borghese: che è, in qualche modo il mondo. Ma ci sono terrorismi alla destra, clerico-fascista, di questo mondo; e terrorismi alla sinistra. E non parlo solo del terrorismo staliniano (la delineazione del "marxista perfetto" di moda tra i gesuiti rossi degli anni cinquanta), ma anche del terrorismo della nuova sinistra (lo snobismo estremistico di certi adepti del Psiup è la cosa peggiore che abbia prodotto la borghesia italiana dopo il fascismo).

Nessun patto o patteggiamento     

     Io non sono un qualunquista, e non amo neanche quella che (ipocritamente) si chiama posizione indipendente. Se sono indipendente, lo sono con rabbia, dolore e umiliazione: non aprioristicamente, con la calma dei forti, ma per forza. E se dunque mi preparo - in questa rubrica, frangia della mia attività di scrittore - a lottare, come posso, e con tutta la mia energia, contro ogni forma di terrore, è, in realtà, perché sono solo. Il mio non è qualunquismo né indipendenza: è solitudine. Ed è questo, del resto, che mi garantisce una certa, magari folle e contraddittoria, oggettività. Non ho alle spalle nessuno che mi appoggi, e con cui io abbia interessi comuni da difendere. Il lettore certamente sa che io sono comunista: ma sa anche che i miei rapporti di compagno di strada col Pci non implicano nessun impegno reciproco (e anzi, sono abbastanza tesi: ho tanti avversari tra i comunisti quanti tra i borghesi ecc.). Se provo delle simpatie politiche (certo radicalismo - ma non tanto quello dell'"Espresso" - da una parte, e certa Nuova Sinistra cattolica, che si va delineando, molto più sotto il segno di Don Milani che di Giovanni XXIII) sono simpatie che non comportano nessun patto o patteggiamento. Resta l'editore di questa rivista che, evidentemente, è un capitalista. Ma, alla buonora, proprio ieri, uno studente marocchino, uno dei capi del movimento "22 Maggio", mi ha detto che bisogna approfittare del tipo di produzione attuale, finché non ce ne sarà un'altra. E noi del resto leggiamo Marx e Lenin perché pubblicati da editori capitalisti borghesi.     
     Personalmente io, dunque, mi comporto con Tofanelli, il direttore di questa rivista (2), e Palazzi, l'editore, come ci si comporta con degli amici: al di fuori del rapporto personale, però, io mi riservo di comportarmi con loro cinicamente.     
     Un lettore che mi abbia seguito fin qui, con un po' d'attenzione, si stupirà di questa espressione, "cinicamente" che non ha nulla a che fare con quanto ho detto finora, soprattutto col sentimento con cui l'ho detto. Io, infatti, non sono cinico, in nessun modo: e il mio voler essere cinico ha addirittura qualcosa di buffo, tanto è sproporzionato e incompatibile con la mia persona.

Una malattia molto contagiosa

     Ma quest'avverbio "cinicamente" si riferisce al mio comportamento pubblico, non personale: è un'affermazione ideologica: io approfitto delle strutture capitalistiche per esprimermi: e lo faccio, perciò, cinicamente (verso le figure pubbliche dei miei "datori di lavoro", non verso la loro identità personale).     
     Un'altra cosa che vorrei dire come prefazione a questa mia serie di interventi, è la seguente: spesso parlerò con violenza contro la borghesia: anzi, sarà questo il tema centrale del mio discorso settimanale. E so benissimo che il lettore resterà "sconcertato" (si dice così?) da questa mia furia: ebbene, la cosa sarà chiara quando avrò specificato che io per borghesia non intendo tanto una classe sociale quanto una vera e propria malattia. Una malattia molto contagiosa: tanto è vero che essa ha contagiato quasi tutti coloro che la combattono: dagli operai settentrionali, agli operai immigrati dal Sud, ai borghesi all'opposizione, ai "soli" (come son io). Il borghese - diciamolo spiritosamente - è un vampiro, che non sta in pace finché non morde sul collo la sua vittima per il puro, semplice e naturale gusto di vederla diventar pallida, triste, brutta, devitalizzata, contorta, corrotta, inquieta, piena di senso di colpa, calcolatrice, aggressiva, terroristica, come lui.

Dov'è l'intellettuale?

     Quanti operai, quanti intellettuali, quanti studenti sono stati morsi, nottetempo, dal vampiro, e, senza saperlo, stanno diventando vampiri anche loro!     
     É giunto dunque il momento in cui non è più sufficiente riconoscere la borghesia come classe sociale, ma come malattia: ormai, riconoscerla come classe sociale è anche ideologicamente e politicamente sbagliato (sia pure se lo si fa attraverso gli strumenti del più puro e intelligente marxismo-leninismo). Infatti, la storia della borghesia - attraverso una civiltà tecnologica, che né Marx né Lenin potevano prevedere - si accinge, ora, in concreto, a coincidere con l'intera storia del mondo. Ciò è male o è bene? Né l'una cosa né l'altra, credo; non voglio pronunciare degli oracoli. É semplicemente un fatto. Tuttavia penso che sia necessario avere la coscienza del male borghese, per intervenire efficacemente su questo fatto, e contribuire a far sì che sia un po' più positivo che negativo.  
     Dalla mia solitudine di cittadino, io dunque cercherò di analizzare questa borghesia come male dovunque essa si trovi: cioè ormai quasi dappertutto (è un modo "vivace" per dire che il "sistema" borghese è in grado di assorbire ogni contraddizione: anzi, crea esso stesso le contraddizioni, come dice Lukács, per sopravvivere, superandosi). Sintomo sicuro della presenza del male borghese è appunto il terrorismo, moralistico e ideologico: anche nelle sue forme ingenue (per es. tra gli studenti).
     Mi caccio con questo, lo so, in un'impresa ingrata e disperata; ma è naturale, è fatale, del resto, che, in una civiltà in cui conta più un gesto, un'accusa, una presa di posizione, che un lavoro letterario di anni, uno scrittore scelga di comportarsi in questo modo. Deve pure cercar di essere presente, almeno pragmaticamente e esistenzialmente, se in linea teorica la sua presenza sembra indimostrabile! In un bellissimo saggio di Rossana Rossanda ("L'anno degli studenti", De Donato editore), mi trovo infatti davanti a una immagine dell'intellettuale che mi mozza il fiato. Descrivendo la differenza che, nell'atto di prender coscienza dell'ingiustizia borghese, divide l'intellettuale classico (cioè l'umanista che ha fatto la Resistenza) dagli studenti, la Rossanda osserva come gli studenti esperimentino nella propria persona e nella propria condizione la miseria della mercificazione e l'alienazione: mentre l'intellettuale no: egli si limita a esserne testimone: in esso, semplicemente, "si tratta del risveglio d'una coscienza alle ragioni di una classe non sua, e ne deriva la collocazione di compagno di strada, con i suoi margini di libertà e i suoi conflitti, la sua irriducibile alterità di testimone esterno".
     Cacciato, come traditore dai centri della borghesia, testimone esterno al mondo operaio: dov'è l'intellettuale, perché e come esiste?
  
Pier Paolo Pasolini
Tempo, Milano 6 agosto 1968
anno XXX, numero 32
Pagina 20 e pagina 73  

Tempo, Milano 6 agosto 1968 - pag. 73



Curatore, Bruno Esposito

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Pasolini, "Ai margini di Babilonia" - Il popolo di Roma, giovedi 30 agosto 1951

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro

Biblioteca Nazionale Centrale di Roma


Ai margini di Babilonia
Pier Paolo Pasolini

Il popolo di Roma 
Giovedi 30 agosto 1951

È molto difficile incontrarsi, nelle letture dialettali in un libro come questo di Franco de Gironcoli (F.d.G.: Elegie in friulano, Edizioni di Treviso, 1 95 1 ). C'è tanta asciuttezza nei suoi ritmi elementari, nelle sue piccole quartine perdute in mezzo alla pagina, nate a stento si direbbe, ma intere, tutte d'un pezzo, che quanto di volgare solitamente in torbida i testi in Volgare - rispetto alla koinè letteraria - pur senza una sua poetica viene tutto depositato nel fondo; ne risulta un libretto onesto e delizioso, impacciato e squisito. Che già il friulano non sia un dialetto dell'italiano, è molto - apparterrebbe per l'Ascoli al ceppo delle lingue ladine - ma se pure si accreditasse la nuova teoria del Battisti che lo vuole dialetto alpino, ossia veneto in una fase anteriore, la sua arcaicità è tale che praticamente lo differenzia in modo determinante: è molto nel senso che permette un immediato distacco dai colorismi plebei del vernacolo. Ha già potenziale una sua pronuncia letteraria. Tanto più per il de Gironcoli, che dà alla sua varietà goriziana una patina arcaica, presa dal friulano del Seicento usata dai barocchi dialettali e in specie dal Colloredo. In queste poesie, scritte come casualmente dal '43 al '45 - diciotto in tutto, e molto brevi - il fondo sentimentale è unico, indistinto, si direbbe addirittura informe: da un amaro risentimento per la prosaicità del mondo a una elementare nostalgia per l'infanzia perduta insieme con la particolare Gorizia dell'infanzia. De Gironcoli è forse incapace di darsi altro che le immagini ultime, già fatte di questo a priori sentimentale. Qualcosa che si avvicina a certa stupefacente, insolubile paratassi dei temi dei fanciulli: ma coltivata nel magma non certo tenero di un medico ormai cinquantenne venuto ai versi senza aloni sentimentali, con lucida ingenuità.

Da Gorizia, scendendo giù con l'Isonzo all'Adriatico, dietro a valli e bonifiche, in vista ideale di Trieste, ma di luce veneziana, si incontra l'isola di Grado. A Trieste un secolo fa si parlava ladino: a Grado, in ritardo nei confronti del grande porto, si parla un dialetto che non è più friulano e non è ancora veneto, un dialetto che avrebbe fatto fremere di entusiasmo linguistico il D'Annunzio della Nave (e, naturalmente, del francese arcaicizzante). E dai Fiuri de tapo, pubblicati nel ' 1 2 alla recente <<Ultima refolada>>, dunque quasi quarant'anni di attenzione poetica, Biagio Marin ha ridato fuori dal tempo la vicenda della sua «isola» (l canti de l'isola, Del Bianco editore, Udine 1 95 1 ) , vicenda minima, annate inconsistenti come ore, ma ore interminabili come annate, che finisce con l'elidersi in un tempo indifferenziato, il non-tempo del mare. È una lingua senza colori e senza sorprese, nobile e elementare: prigioniero di questa lingua isolata, caduto nella sua mancanza di tempo, nella sua marginalità, nel suo albore, Marin rimane quasi privo di un contenuto, preso in una ripetizione di piccoli motivi, piccoli come i progressi del tempo. È un minimo Pascoli dialettale (finalmente), oggettivato nelle cose o persone che sono poco più che cose di cui si occupa, amalgamato col suo malinconico e bianco Adriatico. Tecnicamente la sua immagine è sempre un po' sfuocata, in leggera dissolvenza, troppo aperta e facile (da «la luna bianca lumina la tera» in Fiuri de tapo a «bianco e pesante navega un corcal - sora i fondali vasti e le barene>> ne L'ultima refolada non c'è come si vede evoluzione di tecnica), la massima dote di questa sua immagine è una eleganza e un candore che fanno pensare a certo Saba, o a quel Giotti che è di Saba l'ideale supplemento, in un certo senso la purificazione. Potendo antologizzare citare potremmo raccogliere da questo immobile canzoniere di Marin una dozzina di poesie veramente belle: del resto anche tutto l'abbondante connettivo non poetico possiede una dignità e una purezza che lo tengono quasi sempre al di fuori dall'orbita dialettale.

Cosa che non si può dire invece per questo nuovo libretto di E.A. Mario <<Pampuglie>> ed. R. Pironti, Napoli 195 1 ), chiuso tutto dentro il limite che il dialetto impone a chi lo usa secondo la tradizione (che è idealmente orale). Pieno di una facile e puerile saggezza, di una facilissima polemica di costume, inutilmente svuotato, in fondo, dei colori napoletani, quando al loro posto è stato poi usato un colore genericamente vernacolo. Resta però da dire che al Mario non manca qualche buona carta: intanto i suoi novenari duri, inamabili, prosaici, potevano già essere una notevole scoperta tecnica per cogliere una Napoli che sarebbe piaciuta per esempio a Rea (cfr. Le due Napoli, «Paragone» n. 19) così, senza rima, o rimati a caso, con qualche pezzo linguistico privo dei soliti canori chiaroscuri napoletani, ma agro, romanzo. E c'è poi una poesia 'E miracule d' 'o sole tutta risolta, che si potrebbe adoperare per una raccolta di poesia dialettale moderna. Forse polemicamente, la . tradizione digiacomiana qui manca: purtroppo, del resto, questa tradizione è passata ai canzonettisti pseudo-anonimi, è divenuta la tradizione tout court, con quanto di immorale e di stupido esso comporta.

Pier Paolo Pasolini
Il popolo di Roma
giovedi 30 agosto 1951
Oggi anche in:
Saggi sulla letteratura e sull'arte Tomo I
Meridiani _ Mondadori
Walter Siti e Silvia De Laude

(trascrizione curata da Bruno Esposito)

Biblioteca Nazionale Centrale di Roma



Curatore, Bruno Esposito

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Pasolini, "progetti per il 1957" - L'Unità, martedi 1 gennaio 1957

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro


L'Unità, martedi 1 gennaio 1957


Pasolini, Progetti per il 1957

L'Unità, martedi 1 gennaio 1957
pagina 4

( Trascrizione curata da Bruno Esposito ) 

L'Unità,
martedi 1 gennaio 1957

L'augurio che faccio a me stesso per il "57" è quello di lavorare. Ho un piano molto vasto per cui certo un anno non basterà: è un piano biennale, insomma, non annuale.

Prima di tutto vorrei almeno finire la prima stesura del romanzo che è il seguito e il compimento di << Ragazzi di vita >>, e che si intitola << Una vita violenta >>:  la storia di un ragazzo molto bello e non sano e per questo non privo di un mondo interiore, di un disperato e confuso bisogno di esistere anche moralmente.

Vorrei poi finire entro primavera un libro di versi, che si intitola << Le ceneri di Gramsci >> , ed è composto da una dozzina di poemetti, di cui tre ancora molto incompleti.

Vorrei anche continuare il lavoro critico, specialmente quello che si concreta nel lavoro redazionale della rivista << Officina >>. Ma ho in mente anche un'antologia romanze minori ...(?), provenzale e catalana.

Naturalmente dovrò anche lavorare per vivere: il mio secondo mestiere, per ora, è quello dello sceneggiatore. Mi auguro quindi che la crisi del cinema italiano si risolve, o meglio che che si risolvano tutte le crisi: se è poi possibile vivere al di fuori di uno stato di crisi. 
E io non lo credo. Ma lo spero.

Pier Paolo Pasolini

L'Unità, martedi 1 gennaio 1957



Curatore, Bruno Esposito

Collaboratori:

Carlo Picca
Mario Pozzi
Alessandro Barbato
Maria Vittoria Chiarelli
Giovanna Caterina Salice
Simona Zecchi

Pasolini sulla morte di Togliatti - L'Unità, 22 agosto 1964 - pag. 9

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro


L'Unità, 22 agosto 1964


Pasolini sulla morte di Togliatti



Aggiungi didascalia
Intellettuali," direttori di giornali, esponenti della cultura, dell'arte, del cinema hanno espresso ieri con larga, commossa partecipazione i loro sentimenti nei confronti della personalità politica e culturale del compagno Togliatti. Telefonate, dichiarazioni, e messaggi sono cominciati a pervenire subito dopo il primo drammatico annuncio della scomparsa di Togliatti. Diamo un primo elenco di queste importanti testimonianze del prestigio che il compagno Togliatti aveva negli ambiti culturali, anche in quelli non strettamente legati al partito comunista o al movimento operaio.

 Il 21 agosto, muore Palmiro Togliatti e il 22 agosto, sulle pagine dell'Unità, Pasolini scrive:

 Non posso veramente dire in poche parole
quello che significa per me la morte di Togliatti. Vuol dire la fine e il principio di un'epoca, la conferma e la delusione di una ideologia, la nostalgia e la stanchezza del passato, la riscoperta e là noia del futuro, la dimostrazione di ciò che non importa dimostrare. 
Se n'è andato dopo aver sempre vinto e non avere mai vinto: amaramente, in fondo, benché con, l'idea cosi radicata del giusto e del bene che può avere solo un trionfatore. E amaramente gli diciamo addio, noi destinati a un'epoca che forse nessuno più di lui avrebbe potuto razionalmente dominare.

L'Unità, 22 agosto 1964 - pag. 9
(Trascrizione dell'art., 
curata da Bruno Esposito)

22 agosto 1964 - pagina 9

Il testo che segue, è tratto da: 

Pasolini su Pasolini
Conversazioni con Jon Halliday
 Uccellacci e uccellini


H. – Ma prenda la morte di Togliatti, ad esempio, che ha una grossa parte nel film: non ha segnato un grosso cambiamento nella vita italiana, per quanto mi è dato capire.

   P. – No, di per sé no, ma è stata il simbolo di un cambiamento. Un’epoca storica, l’epoca della Resistenza, delle grandi speranze nel comunismo, della lotta di classe, è finita. Quello che abbiamo adesso è il boom economico, lo stato del benessere, e l’industrializzazione, che usa il Sud come riserva di manodopera a buon mercato e incomincia perfino a industrializzarlo. Vi è stato un vero cambiamento che ha coinciso grosso modo con la morte di Togliatti. È stata una semplice coincidenza, da un punto di vista cronologico, ma per me andava bene come simbolo.    

   H. – In quel contesto, tuttavia, la cosa più importante è il distacco fra le generazioni, perché il comunismo della Resistenza e l’antifascismo in particolare sono qualcosa che è stato tenuto in vita artificialmente dalla vecchia generazione del Partito: l’antifascismo è qualcosa che costoro avrebbero dovuto superare.    

   P. – Sono d’accordo con lei: il sentimento della Resistenza e della lotta di classe è alquanto sopravvissuto a se stesso, ma questa è cosa che riguarda il Comitato Centrale e la dirigenza del Partito Comunista, cioè un particolare gruppo; mentre Totò e Ninetto rappresentano la massa di italiani che è estranea a tutto questo: gli italiani ingenui che ci stanno attorno, che non sono coinvolti nella storia, che stanno solo acquisendo un primissimo iota di coscienza; è quello che accade quando i due incontrano il marxismo, sotto le sembianze del corvo.    

   H. – Però subito dopo i funerali di Togliatti incontrano la ragazza lungo la strada: cioè, una volta finito il comunismo (o tramontata quest’epoca), subito loro se ne vanno con una donna.    

   P. – No, non è proprio così. La donna rappresenta la vitalità. Le cose muoiono e noi ne proviamo dolore, ma poi la vitalità ritorna: ecco che cosa rappresenta la donna. In realtà, la storia di Togliatti non finisce qui, perché dopo che loro sono stati via con la donna ricompare il corvo. I due compiono un atto di cannibalismo, quello che i cattolici chiamano comunione: ingoiano il corpo di Togliatti (ossia dei marxisti) e lo assimilano; dopo averlo assimilato proseguono per la loro strada, così che anche se uno non sa dove la strada porta, è ovvio che hanno assimilato il marxismo.

”tanto se non lo mangiamo noi se lo mangia qualcun altro”


Curatore, Bruno Esposito

Collaboratori:

Carlo Picca
Mario Pozzi
Alessandro Barbato
Maria Vittoria Chiarelli
Giovanna Caterina Salice
Simona Zecchi

Pasolini, Piccola Antologia Friulana - La fiera letteraria 1947

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro



(Trascrizione curata da Bruno Esposito)

«Alle nostre fantasie letterarie è 
[...] necessaria una tradizione non unicamente orale. 
E questa non potrà essere la tradizione friulana, che, 
se ha qualche discreto poeta, è poi tutta vernacola 
[...]. La nostra vera tradizione, dunque, andremo a 
cercarla là dove la storia sconsolante del Friuli 
l’ha disseccata, cioè il Trecento 
[...]. Infine, la tradizione che naturalmente dovremo 
proseguire si trova nell’odierna letteratura 
francese ed italiana, che pare giunta a un punto 
di estrema consumazione di quelle lingue».
(Stroligut N. 1 - agosto 1945)


Piccola Antologia Friulana


Fiera letteraria 1947
Davanti a questa « Piccola antologia friulana veniamo a trovarci in una posizione veramente curiosa. Diciamo subito ad ogni modo che ci sarà necessario senz'altro rinunciare a ogni richiesto criterio di oggettività, per le tre seguenti ragioni : primo, in questa antologia figuriamo anche noi, con tre liriche, secondo siamo amici del D'Aronco, e legati a lui nella battaglia per l'autonomia friulana, terzo non andiamo affatto d'accordo con l' Autore (ed egli lo sa) in cose di poesia e non condividiamo il gusto che l'ha guidato nella scelta di questi friulani. Dimenticate le prime due ragioni dobbiamo pronunciarci: il lettore non « appassionato » di poesia dialettale (una passione, per intenderci, avvicinabile alla filatelia), il quale per caso abbia avuto o avrà tra le mani questa raccolta. sappia che sarebbe anche possibile imbattersi in una poesia friulana molto diversa da quella che è qui presentata. A piena difesa di D'Aronco sta il fatto che egli si rivolge a un pubblico vario e presumibilmente medio: questa concessione ci dispensi dal sentirci inopportuni. Ciò non toglie ad ogni modo che le poesie qui presentate dello Zorutti siano di una povertà desolante (ahimè, quei versi : 
<<Al è un gran s'ciafoiâz: / 'e mi colin i brâz>>
oppure 
<<La nestr'anime aflite/ dai dolôrs de la vite>>, 
dove è chiarissimo come la puerilità del moralismo zoruttiano sia connessa a una sua sostanziale incapacità tecnica). Da queste righe facile intuire come tutto un nostro discorso si impernierebbe sulla stroncatura dello Zorutti e sulla valorizzazione di certi motivi 
<<inediti del Colloredo o di altri minori. Intorno al Novecento molto ci sarebbe ancora dire: l'assenza più notevole è quella di Argeo, il miglior poeta friulano degli ultimi decenni (sappia il lettore non "appassionato" che ciò che diciamo è scandaloso)>>.
 Tuttavia, dal punto di vista in cui il D'Aronco si è messo  questo volumetto di leggera e piacevole lettura è senz'altro raccomandabile.
P.P.Pasolini
(Trascrizione curata da B. Esposito)


Successivamente riprende l'argomento anche su "Quaderno romanzo,3"

Dissensi per un sommario di letteratura friulana

Bel servizio davvero facciamo al nostro amico D'Aronco, intitolando tout court «Dissensi ecc.» questa rapida notizia sul suo Breve sommario storico della letteratura ladina del Friuli (Edizioni del «Momento», Udine) ! Del resto l'ultimo a stupirsene sarà lo stesso D' Aronco, che già conosce a meraviglia le nostre riserve sulla sua interpretazione dei Friulani: riserve espresse t:ton solo con sommarie ironie orali, ma affidate ormai allo scritto, sia su «Libertà», a varie riprese, che sulla <<Fiera letteraria>>, e a proposito, appunto, della Piccola antologia friulana curata dallo stesso D' Aronco per Gastaldi. Naturalmente il punto morto della questione - il piano su cui non riusciremo mai a incontrarci - resta sempre quel buon diavolo dello Zorutti; e non ci si accusi di essere inopportuni se ritorniamo sulla questione, e con intenti esplicitamente e sempre polemici, visto che nessun appassionato dello Zorutti si decide ancora a prendere la penna in mano per difenderlo dalle nostre deplorevoli accuse ! E vero che dei friulani è nota una loro settentrionale freddezza, tuttavia ci nasce il sospetto che nel nostro caso si tratti piuttosto di insufficienza di argomenti: e come spiegare in altro modo la resa degli zoruttiani di fronte alle nostre ripetute insinuazioni? Ma, poiché la questione deve essere sistemata una buona volta, si dovrà pure discuterne, se, come vogliamo dimostrare, ci troviamo a vivere in una piccola patria, vale a dire entro i limiti di una civiltà. Il succo del discorso di D' Aronco sullo Zorutti consiste forse nella valorizzazione di una presumibile mediocritas zoruttiana. Ma noi ci chiediamo se per avventura questa mediocritas, da Orazio in poi, non sia stata altro che una posa o quantomeno un pretesto di alcuni poeti che abbiano voluto consentirsi la più composita delle eleganze, cioè la semplicità. In tal caso accetteremmo senz'altro uno Zorutti mediocre (psicologicamente: gaiezza venata di malinconia ecc.), salvo a parlare. Per lui di una mediocrità niente affatto cosciente, o aurea, ma naturale-ereditaria, se proprio si voglia insistere sul valore rappresentativo dello Zorutti come tipo friulano. Ma, ahimè, è anche sulla friulanità dello Zorutti che abbiamo dei dubbi: ci sembra invero che il piccolo borghese di Udine non sia affatto il friulano o che per lo meno non sia tutto il friulano; sospetto convalidato in modo perentorio
dall'unica misura. valida di cui siamo in possesso per giudicare lo Zorutti: il suo modo poetico, il quale consiste appunto in un pastiche arcadico-romantico, cioè in un sostanziale italianesimo. Gl'italianismi particolari, poi, sia mentali che lessicali e sintattici, sono reperibili a decine nella produzione idillico-sentimentale del Nostro. Non si salverebbero dunque che i suoi testi burleschi e macaronici? Ebbene, si salvino, purché non invadano il campo della Poesia, mantenendosi dentro i limiti che una storia del costume friulano potrebbe concedere loro.
Stranamente gratuita ci suona dunque una frase del D' Aronco che dice: 
«Eppure i suoi versi ... contengono della poesia». 
Da dove piove questa poesia in corsivo?
Quale invidiabile dono il D'Aronco si consente di fare allo Zorutti, così, senz'altra deducibile autorizzazione?
Messo in dubbio il valore dell'interpretazione (che è poi quella ufficiale) del D' Aronco sullo Zorutti, è tutto il «gusto» di questo sommario che noi, in sede critica, condanneremmo, se non ci si presentasse chiaramente come un opuscolo informativo, ad usum delphini, d'altra parte molto utilizzabile per la nota bibliografica, di cui l'Autore, con la sua solita preziosa e appassionata puntualità, l'ha corredato.

P.P.Pasolini
Quaderno romanzo", 3 , giugno 1947
(Oggi in Saggi sulla letteratura e sull'arte, Walter Sitti)





Curatore, Bruno Esposito

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Pier Paolo Pasolini - "Mi ribello alla morte di Elisei" - Noi donne, 27 dicembre 1959

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro



Noi donne, 27 dicembre 1959 

"Mi ribello alla morte di Elisei" 

Noi donne
anno XIV, n° 51, 
pag. 17

27 dicembre 1959 


Noi donne, 27 dicembre 1959 

Noi donne, 27 dicembre 1959 

Noi donne, 27 dicembre 1959 
Noi donne, 27 dicembre 1959 






Curatore, Bruno Esposito

Collaboratori:

Carlo Picca
Mario Pozzi
Alessandro Barbato
Maria Vittoria Chiarelli
Giovanna Caterina Salice
Simona Zecchi


Comizi d'amore - Interrogazione parlamentare del 10 maggio 1966, contro Comizi d'amore, di Pier Paolo Pasolini

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro




Comizi d'amore
Interrogazione parlamentare del 10 maggio 1966

 contro Comizi d'amore, 
di Pier Paolo Pasolini

(Trascrizione curata da Bruno Esposito)



PRESIDENTE. 
Le due seguenti interrogazioni dell'onorevole Greggi, dirette la prima al ministro del turismo e dello spettacolo e la seconda ai ministri del turismo e dello spettacolo e dell'interno, trattando argomenti simili, saranno svolte congiuntamente :
« 'per sapere se sia stato escluso dai contributi statali e se sia vietato ai minori il film Comizi d'amore. L'interrogante chiede anche di sapere se film come quello sopra, citato, che dalla stessa critica cinematografica ha avuto qualificazioni largamente negative ( e valga per tutte una citazione per la quale il film è una povera cosa, perciò una cosa inutile. Come ha potuto arrivare fino al pubblico delle normali sale cinematografiche? Incoscienza, sfida o dispetto?) soprattutto ora, con la nuova legge del cinema, che dal competente ministro e dai relatori favorevoli è stata presentata come una legge di rinnovamento culturale e di progresso morale, non dovrebbero essere riguardati e giudicati con molta severità dagli organi statali competenti per la concessione dei vari benefici di legge » '(3146) ;

« per avere notizie circa il gravissimo episodio verificatosi in Roma (suscitando reazioni di una parte notevolissima dell'opinione pubblica) della rappresentazione al Teatro stabile di quella città di un'opera unanimemente ritenuta dalla critica come di scarsissimo valore artistico (e invece di notevole immoralità), contenente, anche, scene e battute di carattere propriamente blasfemo . L'interrogante gradirebbe conoscere: 
1) se almeno la rappresentazione sia stata vietata ai minori di anni 18; 
2) in quale modo possa conciliarsi il carattere e il finanziamento pubblico con rappresentazioni che dovrebbero elevare il livello culturale del popolo, e che' invece risultano non soltanto da vietare ai minori ma anche offensive degli adulti; 
3) per quali ragioni le autorità di pubblica sicurezza non ritengano di dover intervenire nel caso di rappresentazioni contenenti battute e scene di carattere propriamente blasfemo; 
4) quale intervento il Governo intenda effettuare per garantire che iniziative teatrali, finanziate con denaro pubblico, rispondano effettivamente e rigorosamente a finalità di " sviluppo culturale, artistico, spirituale e civile ", anche al fine di non veder ripetere nel settore teatrale , e addirittura nel settore del teatro " pubblico ", la vergognosa esperienza della dilagante immoralità, volgarità e idiozia di tanta
parte del cinema italiano di oggi » (3535).

L'onorevole sottosegretario 'di 'Stato per turismo e lo spettacolo ha facoltà di rispondere.

SARTI
Sottosegretario di Stato per il turismo e lo spettacolo: 

Circa la prima interrogazione preciso all'onorevole Greggi che la visione del film Comizi d'amore è stata vietata ai minori di anni 18, su conforme parere della competente commissione di revisione cinematografica, parere che - come l'onorevole Greggi ben sa, è vincolante per l'amministrazione, ai sensi della legge 21 aprile 1962, n. 161, sulla revisione dei film e dei lavori teatrali. Il nulla osta per la proiezione in pubblico del suddetto film con la condizione, appunto, del divieto di visione ai minori degli anni 18, è stato rilasciato con decreto ministeriale n. 42787 del 18 aprile 1964 .

Il film è stato effettivamente ammesso alle provvidenze statali, in base, però, alle norme vigenti fino al 31 dicembre 1964, vale a dire anteriormente alla emanazione della nuova legge sulla cinematografia, che, come è noto, porta la data del 4 novembre 1965, n. 1213, ed è stato ammesso su conforme parere del comitato di esperti che era allora competente.
Al riguardo è ancora da rilevare che le norme vigenti fino al 31 dicembre 1964 prevedevano esclusione dei film nazionali a lungometraggio dalla programmazione e dalle connesse provvidenze statali esclusivamente nel caso che risultassero sforniti dei « requisiti minimi di idoneità tecnica artistica », secondo l'articolo 19 della legge 31 luglio 1956, n. 897, modificato dall'articolo 4 della legge 22 dicembre 1960, n. 1565. Come è altresì noto all'onorevole Greggi, la nuova legge sulla cinematografia all'articolo 5 richiede invece, per l'ammissione e la programmazione obbligatoria dei film nazionali a lungometraggio, la sussistenza di maggiori requisiti al fine di mantenere la produzione cinematografica nazionale ad un elevato livello qualitativo.

Circa la seconda interrogazione, ...
...

PRESIDENTE. 
L'onorevole Greggi ha facoltà di dichiarare se sia soddisfatto.

GREGGI. 
Ringrazio innanzitutto l'onorevole sottosegretario per avermi dato risposte così dettagliate . Quanto alla prima, riguardante il film Comizi d'amore, vorrei anzitutto dichiarare (una condizione strana per me in materia) che non ho visto il film; e non l'ho visto per la semplice ragione che, dopo aver letto le critiche alla pellicola e dopo la proiezione avvenuta in una piccola città italiana, mi ripromettevo di vederlo quando fosse arrivato in prima o in seconda visione in una grande città: a Roma. Ho atteso qualche tempo il film del 1964, perché esso non era neanche comparso nelle prime visioni delle grandi città. Questa mi pare la conferma più chiara dell'assoluta nullità tecnico-artistica del film. Sono lieto pertanto di sentire che esso, col suo titolo e con la sua pochezza tecnica (evidentemente dev'essere un film assolutamente negativo e direi anche degradante per lo spettatore), sia stato per lo meno evitato ai minori dei 18 anni .
Vorrei fare qualche osservazione sull'ammissione ai benefici dello Stato, giacché siamo qui in presenza di questa situazione assurda: c'è un film che i produttori non ritengono nemmeno di poter presentare ai pubblici, d'una certa maggiore cultura o capacità critica, delle grandi città; c'è un film che la stampa definisce « una cosa inutile » e per cui si domanda: « Come ha potuto arrivare fino al pubblico delle normali sale cinematografiche? », aggiungendo: « Incoscienza, sfida o dispetto? » . Questa è la critica; questi sono i produttori che non affrontano il pubblico normale, cioè quello delle prime visioni nelle grandi città. In queste condizioni a me pare che sarebbe stato opportuno, anche in base alla vecchia legge, forse, negare il contributo a questo film, perché è evidente che film come questo riescono ad essere prodotti e a sopravvivere unicamente grazie agli ampi benefici di legge .
Mi pare che lo Stato a questo punto non dovrebbe prestarsi ad assolvere a certe funzioni che son ben lungi dall'essere funzioni di elevazione tecnica, di stimolo ai valori estetici .
Comunque, ripeto, ringrazio l'onorevole rappresentante del Governo per la risposta e mi auguro che con la nuova legge, che fa riferimento ad altri criteri di esclusione, film di questo genere possano essere esclusi. Desidero però ribadire il concetto che film di questo genere dovrebbero essere comunque esclusi a prescindere dal loro contenuto morale o sociale ed unicamente, a causa della loro nullità artistica.

Per quanto riguarda quella commedia rappresentata dal Teatro stabile di Roma...
... 

PRESIDENTE. 
E' così esaurito lo svolgimento delle interrogazioni all'ordine de l
giorno.





Curatore, Bruno Esposito

Collaboratori:

Carlo Picca
Mario Pozzi
Alessandro Barbato
Maria Vittoria Chiarelli
Giovanna Caterina Salice
Simona Zecchi