"Le pagine corsare "
dedicate a Pier Paolo Pasolini
Eretico e Corsaro
«Piove un fuoco scuro nel mio petto: non è sole e non è luce. Giorni dolci e chiari volano via, io sono di carne, carne di fanciullo. Se piove un fuoco scuro nel mio petto, Cristo mi chiama, ma senza luce ».
«Piove un fuoco scuro nel mio petto: non è sole e non è luce. Giorni dolci e chiari volano via, io sono di carne, carne di fanciullo. Se piove un fuoco scuro nel mio petto, Cristo mi chiama, ma senza luce ».
Il film non è uscito nei circuiti commerciali. E’ stato proiettato l’11 luglio 1965 nella serata conclusiva del Festival del Cinema di tendenza, promosso dalla rivista FILMCRITICA nell’ambito dell’VIII Festival dei Due Mondi di Spoleto.
STORIA:
Dal 27 giugno all’11 luglio 1963 si recarono in Israele e in Giordania, per visitare i luoghi originari del Vangelo, Pier Paolo Pasolini, don Andrea Carraro e il dottor Lucio Settimio Caruso della Pro Civitate Christiana, Walter Cantatore dell’Arco Film, la casa produttrice di Alfredo Bini, l’operatore Aldo Pennelli. Lo scopo era duplice: da un lato riconfermare un’ispirazione che in Pasolini era già profonda e angosciosa, ricontrollare da vicino cose e momenti visti solo nella lettura, nella fantasia, nell’arte figurativa, nella musica; dall’altro esaminare la possibilità di girare là il film, del tutto o in parte, di controllare i costumi, la scenografia esistente e quella «possibile», per un «Il monte delle Beatitudini sembra uno dei luoghi più desolati della Calabria e delle Puglie (...) mi aspettavo luoghi favolosi, ho avuto una lezione di umiltà, la vita, la
morte di Cristo sta tutta dentro in un pugno (...) ci sono montagne molto simili a quelle sullo Jonio, fra Cutra e Crotone, ci sono tipici uliveti pugliesi (...) Bari vecchia può essere il luogo di uno dei miracoli di Cristo (...) ma mi occorrerà una grotta dell’Annunciazione sulla quale non sia in costruzione una chiesa moderna, e dovrò trovare una Betlemme “vera” che sia il surrogato delle Betlemme di oggi (...) forse
l’unico problema sarà la ricostruzione del deserto, con questa luce, questa immensità di orizzonti, queste zolle spelacchiate, che ricordano un po’ l’Etna (...) e la ricostruzione delle rive del Mar Morto, uno dei pochissimi paesaggi che abbia in sé la grandiosità, un tremendo paesaggio lunare».
«aria di provvisorietà armistiziale»,
«Davanti alla basilica costantiniana del Santo Sepolcro mi ha colpito un leggero moto di Pasolini, come. di ripulsa. Il motivo – l’ho capito subito e poi lui stesso me lo ha confermato – è nel suo voler ricercare, al di sotto delle stratificazioni architettoniche successive, il volto della Terra santa quale Gesù lo vedeva. Mi sembra sempre più chiaramente che il film vuol farlo nella viva prospettiva del contemporaneo, non in quella svaporata del lontano postero che attinge alla ricostruzione storica o che indulge alle fantasie popolari»
«Gerusalemme è indubbiamente grandiosa e sublime. Se il film sarà semplice e scandito, in precedenza, all’arrivo a Gerusalemme dovrò mutare registro, per riassorbire l’allegria e la varietà dei luoghi sottoproletari e poveri e la grandiosità di una folla e di una capitale».
Un altro problema che sarebbe rimasto insoluto, qualora il film si fosse girato inIsraele e Giordania, e che appunto il sopraluogo ha contribuito ad eludere, sarebbe stato probabilmente quello delle comparse, della impossibilità di trovare comparse in Israele, dove il lavoro in prevalenza industriale assorbe pressoché tutta la popolazione; e in Giordania dove «le faccie degli arabi sono precristiane: indifferenti, allegre, animalesche, e un po’ funeree, su di esse non è passata, neanche da lontano, la predicazione di Cristo».
Pasolini era sempre colpito, in modo vivissimo, dall’«assoluto, estremo ordine della testa di don Andrea»,
il quale non si sorprendeva di niente, nel nuovo come nel vecchio, nel noto e nell’ignoto, nello straordinario e nel consueto. «Don Andrea», aggiunge Lucio Caruso, «con precisione di studioso dava sobrie spiegazioni traducendo in linguaggio
semplice la sua complessa terminologia esegetica. Quasi non riconoscevo più in lui il mio severo professore di Bibbia. Mai una concessione al sentimento, neppure nell’inflessione della voce. Dava soltanto una spiegazione a quei luoghi, faceva udire la loro voce. E dall’espressione dei volti mi accorgevo che a parlare all’intimo di ognuno erano proprio quelle pietre che duemila anni fa furono
bagnate dal sangue dell’Innocente. Via dolorosa: per qui è passato Gesù, l’uomo-Dio, con la croce sulle spalle in mezzo a una umanità allora come oggi indifferente. Ho chiesto a Pasolini»,
aggiunge Caruso, «se ancora gli sembrasse attuale la frase del Battista: “In mezzo a voi è qualcuno che voi non conoscete”. Mi ha risposto di sì.»
E Pasolini tendeva continuamente a sottolineare – ricevendo da don Andrea la conferma di un pensiero di san Paolo – che quanto più le cose apparivano, erano piccole e brulle («le solite ristrette misure di tutto il Vangelo»), tanto più erano per lui belle esteticamente. «Pasolini», osserva ancora nelle sue impressioni immediate Lucio Caruso, «ha una capacità di lavoro impressionante. Sembra non accorgersi del caldo atroce, anzi appare freschissimo, teso nell’attenzione, pronto a cogliere i più minuti particolari e a commentarli. Mi ha fortemente sorpreso in lui un interesse, più che sociologico, psicologico. Di fronte a questa gente misera, in ambienti malsani, lui non pensa agli enormi loro problemi sociali, alla mortificazione di tuttaquesta cenciosa comunità presa nel suo insieme, piuttosto sente il dramma del singolo individuo, il suo mondo spirituale, il rapporto individuo-alimentazione, individuo-stracci, ricerca i sintomi esteriori del loro fatalismo orientale, rileva che l’allegria della gente di qui poggia su un sottofondo o di mestizia o di bestialità, mai di serena gioia. Abbiamo visitato l’orto del Getzemani e quindiabbiamo proseguito per Emmaus, a un’ora d’auto. Il Getzemani è il luogo della paura e dell’angoscia di Gesù, qui sudò sangue, fu tradito da Giuda, abbandonato dagli apostoli. Pasolini ha ammirato gli ulivi, enormi, millenari, con i loro tronchi accartocciati e contorti che sono gli stessi di duemila anni fa. Ha parlato degli ulivi e non d’altro. Sembra un atteggiamento di difesa di fronte alla fortecarica spirituale che questi luoghi sembrano emanare.»
Per parte sua Pasolini, nel commento al documentario (sempre esposto in forma di piana relazione-lettera a Bini), a un certo punto, giustificando indirettamente l’osservazione di Caruso, nota: «Essere qui brutalmente e fisicamente davanti al Giordano mi dà un senso di imbarazzo e di mancanza dirispetto: sono imbarazzato soprattutto per ragioni estetiche».
Continua Caruso: «Gli ho detto che proprio qui, nell’orto del Getzemani, Gesù “si è fatto peccato”, si caricò cioè di tutti i nostri peccati per poi espiarli sulla croce. Nel suo sguardo mi è sembrato di notare un lampo di commozione». Il documentariodel «sopraluogo» termina sull’ambiente dell’Ascensione, che Pasolini, per parte sua, identifica con «il momento più sublime di tutta la storia della Chiesa, il momento in cui Egli ci lasciò soli a cercarlo».
(Tratto da: Il vangelo secondo Matteo, Edipo Re, Medea - Garzanti) H. – In origine, Sopralluoghi in Palestina era destinato alla proiezione in pubblico, o era invece concepito come un film di ricerca ad uso personale?
P. – Fu una cosa del tutto casuale, e in realtà io non ebbi alcuna parte nella scelta dei luoghi o nei movimenti di macchina o nel girare e tutto il resto. Quando andammo in Medio Oriente c’era con noi un operatore inviato al nostro seguito dalla casa produttrice. Io non gli suggerii mai niente, anche perché non pensavo affatto di servirmi del materialehe lui girava per farne un film; volevo solo raccogliere un po’ di documentazione che mi aiutasse a impostare Il Vangelo. Quando tornai a Roma, il produttore mi chiese di mettere assieme un po’ del materiale girato e di farci su un commento, in modo da poter mostrare il tutto ad alcuni distributori e capoccia democristiani che avrebbero potuto essere utili ai produttori. Io non controllai neppure il montaggio. Lo feci fare da qualcuno e mi limitai a dargli un’occhiata, ma lasciai tutto quello che c’era, compresi certi brutti tagli fatti da quello che avevo incaricato, e che nonera nemmeno uno specialista. Me lo feci portare in sala di doppiaggio e improvvisai un commento. Insomma, è stata una faccenda così, ripeto, improvvisata.
H. – Le conversazioni fra lei e don Andrea devono essere state registrate in quel periodo.
P. – Sì, quelle erano vere, ma fu sempre l’operatore a decidere quali registrare e quali no.H. – Dopo la faccenda della Ricotta avrà avuto qualche difficoltà nel ristabilire buone relazioni con i rappresentanti della Chiesa, immagino.P. – Ero stato in buoni rapporti con don Giovanni Rossi e altri della Pro Civitate Christiana, e con alcune persone della sinistra cattolica, ma questo, diciamo, prima dell’affare della Ricotta. Tutto fu reso più facile, però, grazie all’ascesa al soglio di Papa Giovanni XXIII , che obiettivamente rivoluzionò la situazione. Se Pio XII fosse vissuto altri H. – Un punto che a me è sembrato un po’ strano, in Sopralluoghi, è quello in cui lei trova alcuni bambini arabi e dice qualcosa come: «Questi non andranno bene per il film, perché si vede che la parola di Cristo non è passata sui loro visi». Non l’ho capito, veramente.
P. – La cosa è piuttosto difficile da spiegare; è una di quelle cose chevengono dal cuore. Ma storicamente è vero, non può dirmi che non lo è. È una cosa che ho detto così, per ispirazione, anche se nel contempo è banale; è vera nel senso più pratico e brutale della parola, come è vera per noi nell’Italia meridionale: si vede che la parola di Cristo non è passata di là perché la loro moralità non è evangelica, non è fondata sull’amore ma sull’onore. Non c’è pietismo; fondamentalmente non c’è nemmeno pietà, nell’accezione cristiana del termine... cioè in senso lievemente ricattatorio. Se la pietà c’è è perché c’è, non perché dovrebbe esserci e ci si H. – Quanto tempo ci ha messo a capire che quel materiale era tutto inutilizzabile? Nel film, credo che sia don Andrea Carraro a dirlo per primo, ma si ha la netta impressione che lei se ne fosse già reso conto.
P. – Quando atterrai a Tel Aviv, non distinsi niente, naturalmente. Era notte.Tutto quello che riuscii a vedere fu un aeroporto e una città. Noleggiai una macchina e mi recai nell’interno. All’inizio, proprio all’inizio, fissai alcune immagini di un mondo antico, prevalentemente arabo. In un primo tempo ho pensato che avrei potuto servirmene, ma subito dopo cominciarono a comparire i kibbutzim, e cantieri di rimboschimento, industrie leggere e così via, e allora mi resi conto che era inutile: lo capii dopo poche ore di auto.
H. – Di recente, dopo la guerra dei Sei Giorni,23 lei ha pubblicato delle poesie che aveva scritto durante il suo soggiorno in Palestina ma che non aveva pubblicato a quell’epoca, insieme con un testo su Israele che era più o meno un attacco all’«Unità». È un po’ difficile dedurne che cosa ha pensato di Israele come società; perciò me lo dica adesso, per favore.
P. – Le poesie pubblicate su «Nuovi Argomenti» sono poesie che non ho incluso nel volume Poesia in forma dirosa, dove c’è una sezione intitolata «Israele» nella quale si rende l’idea dell’impressione che ha destato in me quella società. È stata un’impressione contraddittoria, nel senso che io la disapprovo radicalmente in quanto si fonda su un’idea sostanzialmente razzista, messianica e religiosa, l’idea di una Terra Promessa basata su ragioni religiose vecchie di tremila anni, cosa completamente folle. Non accetto la premessa, che è nazionalistico-religiosa: è una cosa orribile, anche se in fondo è lo stesso principio su cui si fondano tutti gli stati.Però, su questa premessa, è stata costruita una nazione che ispira grande simpatia; ad esempio i kibbutzim, benché siano luoghi tristissimi che fanno venire in mente i campi di concentramento, e la propensione degli ebrei per il masochismo e l’autoesclusione, nello stesso tempo sono qualcosa di nobilissimo, uno degli esperimenti più democratici e socialmente avanzati che abbia mai visto. Inoltre, ho sempre amato gli ebrei perché sono stati degli emarginati, perché sono tuttora oggetto Ma una volta fondato il loro proprio stato non sono più dei diversi, non sono più una minoranza, non sono degli emarginati; sono la maggioranza, sono i normali. E questo mi ha dato una piccola delusione, non saprei esattamente come spiegarla. Loro, che sono sempre stati i paladini della diversità, del martirio, della lotta dell’altro contro il normale, ora sono diventati la maggioranza, i normali: questa è stata una cosa che ho trovato un po’ difficile da digerire...Pasolini su PasoliniConversazioni con Jon Halliday
Il film non è uscito nei circuiti commerciali. E’ stato proiettato l’11 luglio 1965 nella serata conclusiva del Festival del Cinema di tendenza, promosso dalla rivista FILMCRITICA nell’ambito dell’VIII Festival dei Due Mondi di Spoleto.
STORIA:
Dal 27 giugno all’11 luglio 1963 si recarono in Israele e in Giordania, per visitare i luoghi originari del Vangelo,
Pier Paolo Pasolini, don Andrea Carraro e il dottor Lucio Settimio Caruso della Pro Civitate Christiana, Walter Cantatore dell’Arco Film, la casa produttrice di Alfredo Bini, l’operatore Aldo Pennelli. Lo scopo era duplice: da un lato riconfermare un’ispirazione che in Pasolini era già profonda e angosciosa, ricontrollare da vicino cose e momenti visti solo nella lettura, nella fantasia, nell’arte figurativa, nella musica; dall’altro esaminare la possibilità di girare là il film, del tutto o in parte, di controllare i costumi, la scenografia esistente e quella «possibile», per un
«Il monte delle Beatitudini sembra uno dei luoghi più desolati della Calabria e delle Puglie (...) mi aspettavo luoghi favolosi, ho avuto una lezione di umiltà, la vita, la
morte di Cristo sta tutta dentro in un pugno (...) ci sono montagne molto simili a quelle sullo Jonio, fra Cutra e Crotone, ci sono tipici uliveti pugliesi (...) Bari vecchia può essere il luogo di uno dei miracoli di Cristo (...) ma mi occorrerà una grotta dell’Annunciazione sulla quale non sia in costruzione una chiesa moderna, e dovrò trovare una Betlemme “vera” che sia il surrogato delle Betlemme di oggi (...) forse
l’unico problema sarà la ricostruzione del deserto, con questa luce, questa immensità di orizzonti, queste zolle spelacchiate, che ricordano un po’ l’Etna (...) e la ricostruzione delle rive del Mar Morto, uno dei pochissimi paesaggi che abbia in sé la grandiosità, un tremendo paesaggio lunare».
«aria di provvisorietà armistiziale»,
«Davanti alla basilica costantiniana del Santo Sepolcro mi ha colpito un leggero moto di Pasolini, come. di ripulsa. Il motivo – l’ho capito subito e poi lui stesso me lo ha confermato – è nel suo voler ricercare, al di sotto delle stratificazioni architettoniche successive, il volto della Terra santa quale Gesù lo vedeva. Mi sembra sempre più chiaramente che il film vuol farlo nella viva prospettiva del contemporaneo, non in quella svaporata del lontano postero che attinge alla ricostruzione storica o che indulge alle fantasie popolari»
Un altro problema che sarebbe rimasto insoluto, qualora il film si fosse girato inIsraele e Giordania, e che appunto il sopraluogo ha contribuito ad eludere, sarebbe stato probabilmente quello delle comparse, della impossibilità di trovare comparse in Israele, dove il lavoro in prevalenza industriale assorbe pressoché tutta la popolazione; e in Giordania dove
«le faccie degli arabi sono precristiane: indifferenti, allegre, animalesche, e un po’ funeree, su di esse non è passata, neanche da lontano, la predicazione di Cristo».il quale non si sorprendeva di niente, nel nuovo come nel vecchio, nel noto e nell’ignoto, nello straordinario e nel consueto. «Don Andrea», aggiunge Lucio Caruso,
Pasolini era sempre colpito, in modo vivissimo, dall’«assoluto, estremo ordine della testa di don Andrea»,
«con precisione di studioso dava sobrie spiegazioni traducendo in linguaggio
semplice la sua complessa terminologia esegetica. Quasi non riconoscevo più in lui il mio severo professore di Bibbia. Mai una concessione al sentimento, neppure nell’inflessione della voce. Dava soltanto una spiegazione a quei luoghi, faceva udire la loro voce. E dall’espressione dei volti mi accorgevo che a parlare all’intimo di ognuno erano proprio quelle pietre che duemila anni fa furono
bagnate dal sangue dell’Innocente. Via dolorosa: per qui è passato Gesù, l’uomo-Dio, con la croce sulle spalle in mezzo a una umanità allora come oggi indifferente. Ho chiesto a Pasolini»,
aggiunge Caruso,
«se ancora gli sembrasse attuale la frase del Battista: “In mezzo a voi è qualcuno che voi non conoscete”. Mi ha risposto di sì.»
E Pasolini tendeva continuamente a sottolineare – ricevendo da don Andrea la conferma di un pensiero di san Paolo – che quanto più le cose apparivano, erano piccole e brulle («le solite ristrette misure di tutto il Vangelo»), tanto più erano per lui belle esteticamente.
«Pasolini», osserva ancora nelle sue impressioni immediate Lucio Caruso,
«ha una capacità di lavoro impressionante. Sembra non accorgersi del caldo atroce, anzi appare freschissimo, teso nell’attenzione, pronto a cogliere i più minuti particolari e a commentarli. Mi ha fortemente sorpreso in lui un interesse, più che sociologico, psicologico. Di fronte a questa gente misera, in ambienti malsani, lui non pensa agli enormi loro problemi sociali, alla mortificazione di tuttaquesta cenciosa comunità presa nel suo insieme, piuttosto sente il dramma del singolo individuo, il suo mondo spirituale, il rapporto individuo-alimentazione, individuo-stracci, ricerca i sintomi esteriori del loro fatalismo orientale, rileva che l’allegria della gente di qui poggia su un sottofondo o di mestizia o di bestialità, mai di serena gioia. Abbiamo visitato l’orto del Getzemani e quindiabbiamo proseguito per Emmaus, a un’ora d’auto. Il Getzemani è il luogo della paura e dell’angoscia di Gesù, qui sudò sangue, fu tradito da Giuda, abbandonato dagli apostoli. Pasolini ha ammirato gli ulivi, enormi, millenari, con i loro tronchi accartocciati e contorti che sono gli stessi di duemila anni fa. Ha parlato degli ulivi e non d’altro. Sembra un atteggiamento di difesa di fronte alla fortecarica spirituale che questi luoghi sembrano emanare.»
Per parte sua Pasolini, nel commento al documentario (sempre esposto in forma di piana relazione-lettera a Bini), a un certo punto, giustificando indirettamente l’osservazione di Caruso, nota:
«Essere qui brutalmente e fisicamente davanti al Giordano mi dà un senso di imbarazzo e di mancanza dirispetto: sono imbarazzato soprattutto per ragioni estetiche».
Continua Caruso:
«Gli ho detto che proprio qui, nell’orto del Getzemani, Gesù “si è fatto peccato”, si caricò cioè di tutti i nostri peccati per poi espiarli sulla croce. Nel suo sguardo mi è sembrato di notare un lampo di commozione». Il documentariodel «sopraluogo» termina sull’ambiente dell’Ascensione, che Pasolini, per parte sua, identifica con «il momento più sublime di tutta la storia della Chiesa, il momento in cui Egli ci lasciò soli a cercarlo».
(Tratto da: Il vangelo secondo Matteo,
Edipo Re, Medea - Garzanti)
H. – In origine, Sopralluoghi in Palestina era destinato alla proiezione in pubblico, o era invece concepito come un film di ricerca ad uso personale?
P. – Fu una cosa del tutto casuale, e in realtà io non ebbi alcuna parte nella scelta dei luoghi o nei movimenti di macchina o nel girare e tutto il resto. Quando andammo in Medio Oriente c’era con noi un operatore inviato al nostro seguito dalla casa produttrice. Io non gli suggerii mai niente, anche perché non pensavo affatto di servirmi del materiale
P. – Fu una cosa del tutto casuale, e in realtà io non ebbi alcuna parte nella scelta dei luoghi o nei movimenti di macchina o nel girare e tutto il resto. Quando andammo in Medio Oriente c’era con noi un operatore inviato al nostro seguito dalla casa produttrice. Io non gli suggerii mai niente, anche perché non pensavo affatto di servirmi del materiale
he lui girava per farne un film; volevo solo raccogliere un po’ di documentazione che mi aiutasse a impostare Il Vangelo. Quando tornai a Roma, il produttore mi chiese di mettere assieme un po’ del materiale girato e di farci su un commento, in modo da poter mostrare il tutto ad alcuni distributori e capoccia democristiani che avrebbero potuto essere utili ai produttori. Io non controllai neppure il montaggio. Lo feci fare da qualcuno e mi limitai a dargli un’occhiata, ma lasciai tutto quello che c’era, compresi certi brutti tagli fatti da quello che avevo incaricato, e che non
era nemmeno uno specialista. Me lo feci portare in sala di doppiaggio e improvvisai un commento. Insomma, è stata una faccenda così, ripeto, improvvisata.H. – Le conversazioni fra lei e don Andrea devono essere state registrate in quel periodo.
P. – Sì, quelle erano vere, ma fu sempre l’operatore a decidere quali registrare e quali no.
H. – Dopo la faccenda della Ricotta avrà avuto qualche difficoltà nel ristabilire buone relazioni con i rappresentanti della Chiesa, immagino.
P. – Ero stato in buoni rapporti con don Giovanni Rossi e altri della Pro Civitate Christiana, e con alcune persone della sinistra cattolica, ma questo, diciamo, prima dell’affare della Ricotta. Tutto fu reso più facile, però, grazie all’ascesa al soglio di Papa Giovanni XXIII , che obiettivamente rivoluzionò la situazione. Se Pio XII fosse vissuto altri
P. – La cosa è piuttosto difficile da spiegare; è una di quelle cose chevengono dal cuore. Ma storicamente è vero, non può dirmi che non lo è. È una cosa che ho detto così, per ispirazione, anche se nel contempo è banale; è vera nel senso più pratico e brutale della parola, come è vera per noi nell’Italia meridionale: si vede che la parola di Cristo non è passata di là perché la loro moralità non è evangelica, non è fondata sull’amore ma sull’onore. Non c’è pietismo; fondamentalmente non c’è nemmeno pietà, nell’accezione cristiana del termine... cioè in senso lievemente ricattatorio. Se la pietà c’è è perché c’è, non perché dovrebbe esserci e ci si
H. – Quanto tempo ci ha messo a capire che quel materiale era tutto inutilizzabile? Nel film, credo che sia don Andrea Carraro a dirlo per primo, ma si ha la netta impressione che lei se ne fosse già reso conto.
P. – Quando atterrai a Tel Aviv, non distinsi niente, naturalmente. Era notte.
Tutto quello che riuscii a vedere fu un aeroporto e una città. Noleggiai una macchina e mi recai nell’interno. All’inizio, proprio all’inizio, fissai alcune immagini di un mondo antico, prevalentemente arabo. In un primo tempo ho pensato che avrei potuto servirmene, ma subito dopo cominciarono a comparire i kibbutzim, e cantieri di rimboschimento, industrie leggere e così via, e allora mi resi conto che era inutile: lo capii dopo poche ore di auto.H. – Di recente, dopo la guerra dei Sei Giorni,23 lei ha pubblicato delle poesie che aveva scritto durante il suo soggiorno in Palestina ma che non aveva pubblicato a quell’epoca, insieme con un testo su Israele che era più o meno un attacco all’«Unità». È un po’ difficile dedurne che cosa ha pensato di Israele come società; perciò me lo dica adesso, per favore.
P. – Le poesie pubblicate su «Nuovi Argomenti» sono poesie che non ho incluso nel volume Poesia in forma dirosa, dove c’è una sezione intitolata «Israele» nella quale si rende l’idea dell’impressione che ha destato in me quella società. È stata un’impressione contraddittoria, nel senso che io la disapprovo radicalmente in quanto si fonda su un’idea sostanzialmente razzista, messianica e religiosa, l’idea di una Terra Promessa basata su ragioni religiose vecchie di tremila anni, cosa completamente folle. Non accetto la premessa, che è nazionalistico-religiosa: è una cosa orribile, anche se in fondo è lo stesso principio su cui si fondano tutti gli stati.
Però, su questa premessa, è stata costruita una nazione che ispira grande simpatia; ad esempio i kibbutzim, benché siano luoghi tristissimi che fanno venire in mente i campi di concentramento, e la propensione degli ebrei per il masochismo e l’autoesclusione, nello stesso tempo sono qualcosa di nobilissimo, uno degli esperimenti più democratici e socialmente avanzati che abbia mai visto. Inoltre, ho sempre amato gli ebrei perché sono stati degli emarginati, perché sono tuttora oggetto
Ma una volta fondato il loro proprio stato non sono più dei diversi, non sono più una minoranza, non sono degli emarginati; sono la maggioranza, sono i normali. E questo mi ha dato una piccola delusione, non saprei esattamente come spiegarla. Loro, che sono sempre stati i paladini della diversità, del martirio, della lotta dell’altro contro il normale, ora sono diventati la maggioranza, i normali: questa è stata una cosa che ho trovato un po’ difficile da digerire...