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Biografia, lavori in corso - a breve anche il 1974 e il 1975

giovedì 11 febbraio 2021

Pasolini, "Il vuoto del potere" ovvero "l’articolo delle lucciole"

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro

Pasolini, "Il vuoto del potere" 
ovvero 
"l’articolo delle lucciole"

La distinzione tra fascismo aggettivo e fascismo sostantivo risale niente meno che al giornale “Il Politecnico”, cioè all’immediato dopoguerra…” Così comincia un intervento di Franco Fortini sul fascismo (“L’Europeo, 26-12-1974): intervento che, come si dice, io sottoscrivo tutto, e pienamente. Non posso però sottoscrivere il tendenzioso esordio. Infatti la distinzione tra “fascismi” fatta sul “Politecnico” non è né pertinente né attuale. Essa poteva valere ancora fino a circa una decina di anni fa: quando il regime democristiano
era ancora la pura e semplice continuazione del regime fascista. Ma una decina di anni fa, è successo “qualcosa”. “Qualcosa” che non c’era e non era prevedibile non solo ai tempi del “Politecnico”, ma nemmeno un anno prima che accadesse (o addirittura, come vedremo, mentre accadeva).

Il confronto reale tra “fascismi” non può essere dunque “cronologicamente”, tra il fascismo fascista e il fascismo democristiano: ma tra il fascismo fascista e il fascismo radicalmente, totalmente, imprevedibilmente nuovo
che è nato da quel “qualcosa” che è successo una decina di anni fa.

Poiché sono uno scrittore, e scrivo in polemica, o almeno discuto, con altri scrittori, mi si lasci dare una definizione di carattere poetico-letterario di quel fenomeno che è successo in Italia una decina di anni fa. Ciò servirà a semplificare e ad abbreviare il nostro discorso (e probabilmente a capirlo anche meglio).
Nei primi anni sessanta, a causa dell’inquinamento dell’aria, e, soprattutto, in campagna, a causa
dell’inquinamento dell’acqua (gli azzurri fiumi e le rogge trasparenti) sono cominciate a scomparire le lucciole. Il fenomeno è stato fulmineo e folgorante. Dopo pochi anni le lucciole non c’erano più. (Sono ora un ricordo, abbastanza straziante, del passato: e un uomo anziano che abbia un tale ricordo, non può riconoscere nei nuovi giovani se stesso giovane, e dunque non può più avere i bei rimpianti di una volta).

Quel “qualcosa” che è accaduto una decina di anni fa lo chiamerò dunque “scomparsa delle lucciole”.
Il regime democristiano ha avuto due fasi assolutamente distinte, che non solo non si possono confrontare tra loro, implicandone una certa continuità, ma sono diventate addirittura storicamente incommensurabili. La prima fase di tale regime (come giustamente hanno sempre insistito a chiamarlo i radicali) è quella che va dalla fine della guerra alla scomparsa delle lucciole, la seconda fase è quella che va dalla scomparsa delle lucciole a oggi. Osserviamole una alla volta.

 Prima della scomparsa delle lucciole


La continuità tra fascismo fascista e fascismo democristiano è completa e assoluta. Taccio su ciò, che a questo proposito, si diceva anche allora, magari appunto nel “Politecnico”: la mancata epurazione, la continuità dei codici, la violenza poliziesca, il disprezzo per la Costituzione. E mi soffermo su ciò che ha poi contato in una coscienza storica retrospettiva. La democrazia che gli antifascisti democristiani opponevano alla dittatura fascista, era spudoratamente formale.

Si fondava su una maggioranza assoluta
ottenuta attraverso i voti di enormi strati di ceti medi e di enormi masse contadine, gestiti dal Vaticano. Tale gestione del Vaticano era possibile solo se fondata su un regime totalmente repressivo. In tale universo i “valori” che contavano erano gli stessi che per il fascismo: la Chiesa, la Patria, la famiglia, l’obbedienza, la disciplina, l’ordine, il risparmio, la moralità. Tali “valori” (come del resto durante il fascismo) erano “anche reali”: appartenevano cioè alle culture particolari e concrete che costituivano
l’Italia arcaicamente agricola e paleoindustriale. Ma nel momento in cui venivano assunti a “valori” nazionali non potevano che perdere ogni realtà, e divenire atroce, stupido, repressivo conformismo di Stato: il conformismo del potere fascista e democristiano. Provincialità, rozzezza e ignoranza sia delle “élites” che, a livello diverso, delle masse, erano uguali sia durante il fascismo sia durante la prima fase del regime democristiano. Paradigmi di questa ignoranza erano il pragmatismo e il formalismo vaticani.

Tutto ciò che risulta chiaro e inequivocabilmente oggi, perché allora si nutrivano, da parte degli intellettuali e degli oppositori, insensate speranze. Si sperava che tutto ciò non fosse completamente vero, e che la democrazia formale contasse in fondo qualcosa. Ora, prima di passare alla seconda fase, dovrò dedicare qualche riga al momento di transizione.



Durante la scomparsa delle lucciole


In questo periodo la distinzione tra fascismo e fascismo operata sul “Politecnico” poteva anche funzionare. Infatti sia il grande paese che si stava formando dentro il paese – cioè la massa operaia e contadina organizzata dal PCI – sia gli intellettuali anche più avanzati e critici, non si erano accorti che “le lucciole stavano scomparendo”. Essi erano informati abbastanza bene dalla sociologia (che in quegli anni aveva messo in crisi il metodo dell’analisi marxista): ma erano informazioni ancora non vissute, in sostanza formalistiche. Nessuno poteva sospettare la realtà storica che sarebbe stato l’immediato futuro; né identificare quello che allora si chiamava “benessere” con lo “sviluppo” che avrebbe dovuto realizzare in Italia per la prima volta pienamente il “genocidio” di cui nel “Manifesto” parlava Marx.

Dopo la scomparsa delle lucciole


I “valori” nazionalizzati e quindi falsificati del vecchio universo agricolo e paleocapitalistico, di colpo non contano più. Chiesa, patria, famiglia, obbedienza, ordine, risparmio, moralità non contano più. E non servono neanche più in quanto falsi. Essi sopravvivono nel clerico-fascismo emarginato (anche il MSI in sostanza li ripudia). A sostituirli sono i “valori” di un nuovo tipo di civiltà, totalmente “altra” rispetto alla civiltà contadina e paleoindustriale. Questa esperienza è stata fatta già da altri Stati. Ma in Italia essa è del tutto
particolare, perché si tratta della prima “unificazione” reale subita dal nostro paese; mentre negli altri paesi essa si sovrappone con una certa logica alla unificazione monarchica e alla ulteriore unificazione della rivoluzione borghese e industriale. Il trauma italiano del contatto tra l'”arcaicità” pluralistica e il livellamento industriale ha forse un solo precedente: la Germania prima di Hitler. Anche qui i valori delle diverse culture particolaristiche sono stati distrutti dalla violenta omologazione dell’industrializzazione: con la
conseguente formazione di quelle enormi masse, non più antiche (contadine, artigiane) e non ancor moderne (borghesi), che hanno costituito il selvaggio, aberrante, imponderabile corpo delle truppe naziste.

In Italia sta succedendo qualcosa di simile: e con ancora maggiore violenza, poiché l’industrializzazione degli anni Settanta costituisce una “mutazione” decisiva anche rispetto a quella tedesca di cinquant’anni fa. Non siamo più di fronte, come tutti ormai sanno, a “tempi
nuovi”, ma a una nuova epoca della storia umana, di quella storia umana le cui scadenze sono millenaristiche. Era impossibile che gli italiani reagissero peggio di così a tale trauma storico. Essi sono diventati in pochi anni (specie nel centro-sud) un popolo degenerato, ridicolo, mostruoso, criminale. Basta soltanto uscire per strada per capirlo. Ma, naturalmente, per capire i cambiamenti della gente, bisogna amarla. Io, purtroppo, questa gente italiana, l’avevo amata: sia al di fuori degli schemi del potere (anzi, in
opposizione disperata a essi), sia al di fuori degli schemi populisti e umanitari. Si trattava di un amore reale, radicato nel mio modo di essere. Ho visto dunque “coi miei sensi” il comportamento coatto del potere dei consumi ricreare e deformare la coscienza del popolo italiani, fino a una irreversibile degradazione. Cosa che non era accaduta durante il fascismo fascista, periodo in cui il comportamento era completamente dissociato dalla coscienza. Vanamente il potere “totalitario” iterava e reiterava le sue
imposizioni comportamentistiche: la coscienza non ne era implicata. I “modelli” fascisti non erano che maschere, da mettere e levare. Quando il fascismo fascista è caduto, tutto è tornato come prima. Lo si è visto anche in Portogallo: dopo quarant’anni di fascismo, il popolo portoghese ha celebrato il primo maggio come se l’ultimo lo avesse celebrato l’anno prima.

È ridicolo dunque che Fortini retrodati la distinzione tra fascismo e fascismo al primo dopoguerra: la distinzione tra il fascismo fascista e il fascismo di questa
seconda fase del potere democristiano non solo non ha confronti nella nostra storia, ma probabilmente nell’intera storia.

Io tuttavia non scrivo il presente articolo solo per polemizzare su questo punto, benché esso mi stia molto a cuore. Scrivo il presente articolo in realtà per una ragione molto diversa. Eccola.
Tutti i miei lettori si saranno certamente accorti del cambiamento dei potenti democristiani: in pochi mesi, essi sono diventati delle maschere funebri. È vero: essi continuano a sfoderare radiosi
sorrisi, di una sincerità incredibile. Nelle loro pupille si raggruma della vera, beata luce di buon umore. Quando non si tratti dell’ammiccante luce dell’arguzia e della furberia. Cosa che agli elettori piace, pare, quanto la piena felicità. Inoltre, i nostri potenti continuano imperterriti i loro sproloqui incomprensibili; in cui galleggiano i “flatus vocis” delle solite promesse stereotipe. In realtà essi sono appunto delle maschere. Son certo che, a sollevare quelle maschere, non si troverebbe nemmeno un mucchio d’ossa
o di cenere: ci sarebbe il nulla, il vuoto. La spiegazione è semplice: oggi in realtà in Italia c’è un drammatico vuoto di potere. Ma questo è il punto: non un vuoto di potere legislativo o esecutivo, non un vuoto di potere dirigenziale, né, infine, un vuoto di potere politico in un qualsiasi senso tradizionale. Ma un vuoto di potere in sé.

Come siamo giunti, a questo vuoto? O, meglio, “come ci sono giunti gli uomini di potere?”.
La spiegazione, ancora, è semplice: gli uomini di potere democristiani sono
passati dalla “fase delle lucciole” alla “fase della scomparsa delle lucciole” senza accorgersene. Per quanto ciò possa sembrare prossimo alla criminalità la loro inconsapevolezza su questo punto è stata assoluta; non hanno sospettato minimamente che il potere, che essi detenevano e gestivano, non stava semplicemente subendo una “normale” evoluzione, ma sta cambiando radicalmente natura.

Essi si sono illusi che nel loro regime tutto sostanzialmente sarebbe stato uguale: che, per esempio, avrebbero
potuto contare in eterno sul Vaticano: senza accorgersi che il potere, che essi stessi continuavano a detenere e a gestire, non sapeva più che farsene del Vaticano quale centro di vita contadina, retrograda, povera. Essi si erano illusi di poter contare in eterno su un esercito nazionalista (come appunto i loro predecessori fascisti): e non vedevano che il potere, che essi stessi continuavano a detenere e a gestire, già manovrava per gettare la base di eserciti nuovi in quanto transnazionali, quasi polizie tecnocratiche. E lo stesso si dica
per la famiglia, costretta, senza soluzione di continuità dai tempi del fascismo, al risparmio, alla moralità: ora il potere dei consumi imponeva a essa cambiamenti radicali nel senso della modernità, fino ad accettare il divorzio, e ormai, potenzialmente, tutto il resto, senza più limiti (o almeno fino ai limiti consentiti dalla permissività del nuovo potere, peggio che totalitario in quanto violentemente totalizzante).

Gli uomini del potere democristiani hanno subito tutto questo, credendo di amministrarselo e soprattutto di
manipolarselo. Non si sono accorti che esso era “altro”: incommensurabile non solo a loro ma a tutta una forma di civiltà. Come sempre (cfr. Gramsci) solo nella lingua si sono avuti dei sintomi. Nella fase di transizione – ossia “durante” la scomparsa delle lucciole – gli uomini di potere democristiani hanno quasi bruscamente cambiato il loro modo di esprimersi, adottando un linguaggio completamente nuovo (del resto incomprensibile come il latino): specialmente Aldo Moro: cioè (per una enigmatica correlazione) colui che
appare come il meno implicato di tutti nelle cose orribili che sono state, organizzate dal ’69 ad oggi, nel tentativo, finora formalmente riuscito, di conservare comunque il potere.

Dico formalmente perché, ripeto, nella realtà, i potenti democristiani coprono con la loro manovra da automi e i loro sorrisi, il vuoto. Il potere reale procede senza di loro: ed essi non hanno più nelle mani che quegli inutili apparati che, di essi, rendono reale nient’altro che il luttuoso doppiopetto.
Tuttavia nella storia il “vuoto” non può
sussistere: esso può essere predicato solo in astratto e per assurdo. È probabile che in effetti il “vuoto” di cui parlo stia già riempiendosi, attraverso una crisi e un riassestamento che non può non sconvolgere l’intera nazione. Ne è un indice ad esempio l’attesa “morbosa” del colpo di Stato. Quasi che si trattasse soltanto di “sostituire” il gruppo di uomini che ci ha tanto spaventosamente governati per trenta anni, portando l’Italia al disastro economico, ecologico, urbanistico, antropologico.

In realtà la falsa sostituzione di queste “teste di legno” (non meno, anzi più funereamente carnevalesche), attuata attraverso l’artificiale rinforzamento dei vecchi apparati del potere fascista, non servirebbe a niente (e sia chiaro che, in tal caso, la “truppa” sarebbe, già per sua costituzione, nazista). Il potere reale che da una decina di anni le “teste di legno” hanno servito senza accorgersi della sua realtà: ecco qualcosa che potrebbe aver già riempito il “vuoto” (vanificando anche la possibile partecipazione al governo del grande paese comunista che è nato nello sfacelo dell’Italia: perché non si tratta di “governare”). Di tale “potere reale” noi abbiamo immagini astratte e in fondo apocalittiche: non sappiamo raffigurarci quali “forme” esso assumerebbe sostituendosi direttamente ai servi che l’hanno preso per una semplice “modernizzazione” di tecniche. Ad ogni modo, quanto a me (se ciò ha qualche interesse per il lettore) sia chiaro: io, ancorché multinazionale, darei l’intera Montedison per una lucciola.

Fonte: Corriere della Sera, 1 febbraio 1975




Curatore, Bruno Esposito

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Eduardo De Filippo e Pier Paolo Pasolini, un'amicizia e un premio.

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro




Eduardo De Filippo e Pier Paolo Pasolini, 
un'amicizia e un premio.


Amicizia e grande stima reciproca tra Pier Paolo Pasolini ed Eduardo De Filippo che molto probabilmente inizia nel 1950. Infatti, in quell'anno Pier Paolo Pasolini partecipa al primo concorso di poesie dialettali del dopoguerra, "Premio Cattolica "organizzato da "Il Calendario del Popolo". Pasolini partecipa con una poesia intitolata "El Testament Coran"(1) e per la quale fu premiato. Un componimento di 72 versi nei quali impone un elevato livello di lirismo che dona alla lingua friulana una elegante musicalità.
Pasolini autore dialettale premiato alla prima edizione dal dopoguerra del "Premio Cattolica", proprio da Eduardo De Filippo che in quell'occasione fa parte della giuria insieme a Salvatore Quasimodo, Ernesto De Martino e Antonello Trombadori ed altri. Forse è da quel momento che l'amicizia e la stima tra i due dialettali inizia a crescere. Eduardo attore e autore dialettale non poteva non ammirare quel Poeta tanto attratto dal popolo napoletano "unica tribù che resisteva" all'omologazione culturale e linguistica della civiltà dei consumi che aveva ormai soffocato tutte le realtà culturali popolari del nostro paese. La Napoli dialettale di cui Eduardo era la più autorevole espressione artistica, per Pasolini era una Tribù che resisteva(2).



Ma non era solo questo che legava questi due tra i più grandi artisti e intellettuali del nostro novecento. Oltre alla stima artistica, l'amore per le tradizioni culturali popolari, l'affetto e una umana sensibilità che li avvicinava, vi era qualcosa di più:
… Perché io so distinguere morti da morti e vivi da vivi. E Pasolini era veramente un uomo adorabile, indifeso; era una creatura angelica che abbiamo perduto e che non incontreremo più come uomo; ma come Poeta diventa ancora più alta la sua voce e sono sicuro che anche gli oppositori di Pasolini oggi cominceranno a capire il suo messaggio".(3)

La notevole consonanza ideologica e religiosa espressione di un anticlericalismo-marxista - il valore del sacro e la loro visione della fede -; la sintonia perfetta sul valore di un Cristianesimo tradito da una chiesa troppo distante da esso e troppo coinvolta con il potere politico-economico, verso la quale sia Eduardo che Pasolini spesso esprimevano una critica esplicita e a tratti feroce, li avvicinava ulteriormente. La loro visione religiosa del mondo e il loro rapporto con l'umile e al tempo stesso elevata cultura popolare, li avvicinava affascinati, entrambi, alla figura di Cristo e di San Francesco; entrambi avevano contatti con religiosi, ai quali esprimevano le loro critiche e le loro perplessità sulla storia della Chiesa cattolica. Pasolini aveva rapporti con Don Cordero e dopo la morte di quest'ultimo, con la Cittadella di Assisi, mentre Eduardo aveva come amico Mons. Donato De Bonis al quale, chiedeva un'apertura verso la "Vera parola di Cristo":
"Queste voci che strillano lasciando smarrire le coscienze innocenti delle generazioni di oggi, al mio caro Donato dedico, affinché egli – sacerdote del pensiero limpido, responsabile e cosciente di un futuro aperto verso la VERA parola di Cristo – condanni senza pietà alcuna i remoti peccati commessi da remotissimi responsabili. Il suo Eduardo (4)
Pier Paolo

Non li toccate
quei diciotto sassi
che fanno aiuola
con a capo issata
la ‹‹spalliera›› di Cristo.
I fiori,
sì,
quando saranno secchi,
quelli toglieteli,
ma la ‹‹spalliera››,
povera e sovrana,
e quei diciotto irregolari sassi,
messi a difesa
di una voce altissima,
non li togliete più!
Penserà il vento
a levigarli,
per addolcirne
gli angoli pungenti;
penserà il sole
a renderli cocenti,
arroventati
come il suo pensiero;
cadrà la pioggia
e li farà lucenti,
come la luce
delle sue parole;
penserà la ‹‹spalliera››
a darci ancora
la fede e la speranza
in "Cristo povero".(5)
( I diciotto sassi erano quelli che inizialmente delimitavano, sul terreno dell'Idroscalo di Ostia, il punto esatto in cui fu ritrovato Pier Paolo Pasolini ucciso. Formavano un ovale, a un'estremità del quale era stata piantata una croce sul cui braccio orizzontale era scritto PIER PAOLO PASOLINI )

 Dunque, il "Cristo povero" la "VERA parola di Cristo" di Eduardo sono un sottile filo che si congiunge con i "ruderi e le chiese", il "Cristo che viene a portare la spada e non la pace" ... "quei famosi duemila anni di "imitatio Christi" e quell'irrazionalismo religioso" di Pasolini. Una consonanza ideologico-religiosa che porta alle stesse conclusioni pur partendo da percorsi differenti. I ragazzi del "Filangieri" di Eduardo e i "Ragazzi di vita" di Pasolini, l'amore per le borgate romane dell'uno e quella per i bassi di Napoli dell'altro, sono esempi di attenzione e amore condiviso verso determinati strati di una società che man mano sta perdendo le sue radici e il suo calore umano, la sua identità.


Pasolini non va spesso a teatro:

"Non vado quasi mai a teatro: gli spettacoli a cui ho assistito in questi ultimi anni si possono contare sulle dita. Una specie di profonda, radicata avversione me ne tiene distante"(6)
"Per una causale eccezione, proprio in queste ultime settimane, sono andato a teatro, invece, tre volte"(7)
"Il secondo spettacolo a cui ho assistito, è stato "Il sindaco del rione Sanità", scritto, diretto e interpretato da Eduardo De filippo. Premesso subito, per il lettore polacco, che si tratta di un testo in dialetto napoletano, non esiterei a definire questa commedia, almeno per tre quarti, un piccolo capolavoro. Vi ho assistito come incantato. Non c’era un gesto, una parola, uno sguardo che fosse in più, che stonasse: nei suoi limiti ristretti, tutto era di un assoluto rigore. Le parole, i modi di dire, le intonazioni del dialetto napoletano, non avevano nulla di colorito, di paesano, di folcloristico, mai. Erano quasi di uno spento grigiore, di una immota tetraggine. Il dramma era passato attraverso un filtro linguistico così rigoroso da depurarlo del tutto, da renderlo materia pura, e, essa sì preziosa. E pensare che la storia del vecchio fuori legge napoletano, assassino a diciott’anni, emigrato in America, tornato a Napoli ricco e potente, a fare giustizia da sé nel sottomondo della camorra napoletana, presentava tutti i rischi possibili per diventare una storia sguaiata e vernacola. De Filippo ha invece dominato stupendamente tutta questa materia, ripeto, fino a renderla quasi impalpabile"(8)
"Il lettore Polacco avrà notato anche, in una graduazione di valori, io darei senza il minimo dubbio il primo posto alla commedia tutta in dialetto, quella napoletana di De filippo"(9)
"Al di fuori cosi delle grandi eccezioni dialettali (De Filippo), o delle piccole o infime tradizioni estrose o sqisite (Franca Valeri, e, adesso, Laura Betti), non vedo futuro per il teatro italiano: non vedo richiesta, non vedo destinatari"(10)
"In questo momento la comicità nazionale coincide in gran parte con quella di Sordi. Totò e Fabrizi invecchiati e cadenti, gli altri quasi tutti fuori moda (a parte, più aristocratico, il caso di Eduardo De Filippo) è Sordi che ha il monopolio del riso"(11)

"Eduardo De Filippo che non è solo il nostro migliore attore, ma un grande attore in assoluto, recita in dialetto. Ma con ciò non fa del naturalismo. Egli parla in realtà, più che il dialetto napoletano, l’italiano medio parlato dai napoletani, cioè un italiano reale. Ma non ne fa una mimesis naturalistica: vi ha creato sopra una convenzione che gli dà assolutezza e lo libera da ogni particolarismo. Quella di De Filippo è una purissima lingua teatrale".(12)
Nel 1972, Eduardo lavora per Pasolini dando la voce ad uno dei personaggi dei Racconti di Canterbury - un vecchio viandante (doppiato da Eduardo De Filippo) molto triste per la perdita della giovinezza.

Nel 1975, Pasolini scrive ad Eduardo:

Roma, 24 settembre 1975


Caro Eduardo,

eccoti finalmente per iscritto il film di cui ormai da anni ti parlo. In sostanza c'è tutto. Mancano i dialoghi, ancora provvisori, perché conto molto sulla tua collaborazione, anche magari improvvisata mentre giriamo.

Epifanio lo affido completamente a te: aprioristicamente, per partito preso, per scelta. Epifanio sei tu. Il "tu" del sogno, apparentemente idealizzato, in effetti reale.

Ho detto che il testo è per iscritto. In realtà non è così. Infatti l'ho dettato al registratore (per la prima volta in vita mia). Resta perciò, almeno linguisticamente, orale. Ti accorgerai subito infatti, leggendo, di una certa sua aria un po' plumbea, ripetitiva, pedante. Passaci sopra. Mi era impossibile - per ragioni pratiche - fare altrimenti.

Io stesso l'ho letto per intero oggi - poco fa - per la prima volta. E sono rimasto traumatizzato: sconvolto per il suo impegno "ideologico", appunto, da "poema", e schiacciato dalla sua mole organizzativa.

Spero, con tutta la mia passione, non solo che il film ti piaccia e che tu accetti di farlo: ma che mi aiuti e m'incoraggi ad affrontare una simile impresa.

Ti abbraccio con affetto, tuo

Pier Paolo


 
Dopo la morte di Pasolini, circa due anni dopo, Eduardo dona alla "mamma De Bonis", in occasione del suo ottantesimo compleanno. Una scultura in argento intitolata "Il popolo che vuole Cristo", mostra un Pulcinella, metafora dell’arte, in atteggiamento di supplica su un suolo arido e brullo, che davanti alla Croce chiede misericordia per l’anima dell’illustre letterato ( Pasolini ), scomparso tragicamente in una triste sera di novembre.


(La scultura, opera del romano Virgilio Mortet, è stata donata dal Dott. Mario De Bonis alla città di Napoli e alla napoletanità storica. Oggi la piccola scultura è esposta nella sezione teatrale Lucchesi Palli
della Biblioteca Nazionale di Napoli)


El testament Coràn

In ta l’an dal quaranta quatro
fevi el gardon dei Botèrs:
al era il nuostri timp sacro
sabuìt dal sòul dal dover.
Nùvuli negri tal foghèr
thàculi blanci in tal thièl
a eri la pòura e el piathèr
de amà la falth e el martièl.

Mi eri un pithu de sèdese ani
con un cuòr rugio e pothale
cui vuoj coma rosi rovani
e i ciavièj coma chej de me mare.
Scuminthievi a dujà a li bali,
a ondi i rith, a balà de fiesta.
Scarpi scuri! ciamesi clari!
dovenetha, tiara foresta!

Chela vuolta se ‘ndava a rani
de nuòt col feràl e la fòssina.
Rico al sanganava li ciani
e i bruscànduj col feral ros
ta l’umbrìa ch’a inglassava i vuos.
Tal Sil se trovava pissìguli
a mijars in ta li pothi.
Se ’ndava plan thentha un thigu.

In ta la boscheta dai poj
’pena magnàt se ingrumava
duta la compagnia dai fiòj,
e lì spes se bestemava
e coma uthiej se ciantava.
Dopo se dujava a li ciarti
a l’umbrìa da la blava.
La mare e il pare a eri muarti.

De Domènia, òmis dal cuòr gredo,
se coreva via in bicicleta
par loucs de un inciànt sensa pretho.
E na sera mi ài vist la Neta
in tal lustri da la boscheta
ch’a menava a passòn la feda.
Liena co la sova bacheta
a moveva l’aria de seda.

Mi nasavi de arba e ledàn
e dei sudòurs rassegnadi
tal me cialt stomi de corbàn;
e li barghessi impiradi
tai flancs, da l’alba dismintiadi,
a no cujerdavin la vuoja
sglonfa de albi insumiadi
e seri thenta fresc de ploja.

Par la prima vuolta ài provàt
cun chela fiola de tredese ani
e plen de ardòur soj s-ciampàt
par cuntalu ai me cumpagni.
Al era Sabo, e nancia un cian
no se vedeva par li stradi.
Al brusava el loùc de Selàn.
Li luci duti distudadi.

In mieth da la platha un muàrt
ta na potha de sanc glath.
Tal paese desert coma un mar
quatro todèscs a me àn ciapàt
e thigànt rugio a me àn menàt
ta un camio fer in ta l’umbrìa.
Dopo tre dis a me àn piciàt
in tal moràr de l’osteria.

Lassi in reditàt la me imàdin
ta la cosientha dai siòrs.
I vuòj vuòiti, i àbith ch’a nasin
dei me tamari sudòurs.
Coi todescs no ài vut timòur 
de lassà la me dovenetha.
Viva el coragiu, el dolòur
e la nothentha dei puarèth!


IL TESTAMENTO CORAN

Nel mille novecento quarantaquattro facevo il famiglio dei Boter: era il nostro tempo sacro arso dal sole del dovere.
Nuvole nere sul focolare, macchie bianche nel cielo, erano la paura e il piacere di amare la falce e il martello.
Io ero un ragazzo di sedici anni, con un cuore ruvido e disordinato, con gli occhi come rose roventi e i capelli come quelli di mia madre. Cominciavo a giocare alle carte, a ungere i ricci, a ballare di festa. Scarpe scure, camicia chiara, giovinezza, terra straniera!
In quel tempo si andava a rane di notte col fanale e la fiocina. Rico insanguinava le canne e le erbacce col fanale rosso, nell’ombra che gelava le ossa. Nel Sile si trovavano pesciolini a migliaia dentro le pozze. Andavamo piano senza un grido.
Nel boschetto dei pioppi appena mangiato si radunava tutta la compagnia dei ragazzi, e lì spesso si bestemmiava e come uccelli si cantava. Dopo giocavamo alle carte all’ombra del granoturco. La madre e il padre erano morti.
Di Domenica, uomini dal cuore rozzo, si correva via in bicicletta per luoghi di un incanto senza prezzo. E una sera ho visto la Neta, nella luce del boschetto, che conduceva al pascolo la pecora. Con il suo ramoscello essa muoveva l’aria di seta.
Io odoravo di erba e letame e dei sudori rassegnati nel mio caldo torace di corame; e i calzoni infilati sui fianchi, dimenticati dall’alba, non coprivano la voglia gonfia di albe assopite e di sere senza fresco di pioggia.
Per la prima volta ho provato con quella ragazza di tredici anni, e pieno di ardore sono scappato a raccontarlo ai miei compagni.
Era Sabato ma per le strade non si vedeva neanche un cane. La casa dei Sellàn bruciava. Le luci erano tutte spente.
In mezzo alla piazza c’era un morto in una pozza di sangue agghiacciato. Nel paese deserto come un mare quattro tedeschi mi hanno preso e gridando rabbiosi mi hanno condotto su un camion fermo nell’ombra. Dopo tre giorni mi hanno impiccato al gelso dell’osteria.



Lascio in eredità la mia immagine 
nella coscienza dei ricchi. 
Gli occhi vuoti, i vestiti che odorano 
dei miei rozzi sudori.
Coi tedeschi non ho avuto paura 
di lasciare la mia giovinezza. 
Viva il coraggio, il dolore 
e l’innocenza dei poveri!

"La meglio gioventù (1954)
ROMANCERO (1947-1953) 

IL TESTAMENTO CORÀN (1947-1952)"

Note:

1 - El Testament Coran, un componimento di 72 versi da la Suite friulana-ROMANCERO ( 1947-1952) inserita nella raccolta La meglio gioventù, oggi in Pasolini Tutte le poesie, tomo I di "I Meridiani Mondadori", a cura di Walter Siti.

2 - Gennariello, Lettere Luterane.

3 - Eduardo De Filppo, tratto da intervista televisiva dopo la morte di Pasolini.

4 - Lettera-dedica "Le voci di dentro", del 25 dicembre 1977.

5 - Eduardo De Filippo, 1975 - poesia dedicata a Pasolini dopo la sua morte
.
6 - P.P. Pasolini, Il teatro in Italia, in Id., Saggi sulla letteratura e sull’arte, Mondadori, I meridiani Tomo II,a cura di Walter Siti - cit., pp. 2359-2363

7 - Ivi ... cit., pp. 2359-2363

8 - Ivi ... cit., pp. 2359-2363

9 - Ivi ... cit., pp. 2359-2363

10 - Ivi ... cit., pp. 2359-2363

11 - Cfr. P.P. Pasolini, La comicità di Alberto Sordi: gli stranieri non ridono, in Id., Saggi sulla letteratura e sull’arte, vol. 2, cit., 2245

12 - Ivi ... p. 2784.




Curatore, Bruno Esposito

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