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Biografia, lavori in corso - a breve anche il 1974 e il 1975

lunedì 28 dicembre 2020

Pasolini Prossimo Nostro, di Giuseppe Bertolucci

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro




Pasolini Prossimo Nostro, di Giuseppe Bertolucci

Presentato come Evento Speciale nella Sezione Orizzonti della 63° Mostra del Cinema di Venezia, "Pasolini prossimo nostro", un documentario realizzato da Giuseppe Bertolucci, che prende il via da un’intervista rilasciata dal regista friulano a Gideon Bachmann durante la lavorazione di "Salò: le 120 giornate di Sodoma".

L’intervista è alternata alle foto in bianco e nero scattate da Deborah Imogen Beer sul set, che scorrono dando quasi il tempo alle parole di Pasolini e che raccontano, come fosse un fotoromanzo, quello che si rivelerà essere l’ultimo film girato dal regista. 
"Salò" è stato il film dello scandalo e ha subito censure che ne hanno posticipato l'uscita in sala di alcuni anni, quasi gli stessi disagi e ingiustizie inflitte al suo autore, assassinato il 2 novembre del 1975 all'Idroscalo di Ostia poco prima di finirne il montaggio definitivo.
A trentun’anni dalla scomparsa di Pasolini, se ne torna dunque a parlare attraverso un'intervista amara e disarmante, come lo stesso regista fa notare al suo interlocutore, una confessione sulla dannazione del consumismo. Un manifesto contro i giovani omologati e senza virtù, una dura accusa all'anarchia del potere, una cristallizzazione delle idee nichiliste che tormentavano il Poeta di Casarsa. 
"Salò" è il fine ultimo delle ideologie, un viaggio senza speranza, tratto liberamente dal romanzo del Marchese de Sade e ambientato nell'elegante cittadina lombarda durante il secondo conflitto mondiale. 
Le sue parole sono sorprendenti per la modernità del pensiero che esprimoni - estremamente attuale e che il titolo del
documentario coglie con quell’espressione "prossimo nostro" - e per la profondità dei concetti. Mentre osserviamo le immagini di "Salò", testamento spirituale ed artistico di Pasolini, lo ascoltiamo scagliarsi contro il potere "che mercifica i corpi" in nome del consumismo di cui non si può più fare a meno.

Il tono impassibile e statico dell’opera originaria viene qui esasperato dall’esclusivo ricorso al fotogramma fisso. Il bianco e nero porta le immagini all’ambientazione temporale del film rendendo più evidenti certe connessioni che ovviamente Pasolini aveva chiare: come l’uso di due icone del cinema dei telefoni bianchi, Caterina Boratto e Elsa De’ Giorgi, nel ruolo di turpi narratrici.
Un documentario asciutto e privo di retorica per far apprezzare, a chi ancora non lo avesse fatto, la figura di uno dei più grandi e geniali intellettuali del secolo scorso e che invoglia, chi già lo conoscesse, a rivedere i capolavori pasoliniani.
Bertolucci non vuole dire la parola definitiva su "Salò", ma riportarlo all’attenzione mediante una sintesi che è speculare, nel suo piccolo, a quella che Pasolini ha compiuto su de Sade. E l’utilità del suo documentario è soprattutto quella di ricordare, cosa non sempre recepita, come l’estremo, disperato addio di Pasolini non sia solo una sdegnosa chiusura verso il mondo, ma un testo aperto e ancora denso di problematiche da affrontare.
Emanuela Semeraro

Fonte: aise



CAST ARTISTICO E TECNICO

  • Regia: Giuseppe Bertolucci 
  • Interpreti: Pier Paolo Pasolini
  • Il cast e la troupe di “Salò o le 120 giornate di Sodoma” 
  • Voce: Pier Paolo Pasolini 
  • Fotografie: Deborah Imogen Beer 
  • Interviste: Gideon Bachmann 
  • Montaggio: Federica Lang 
  • Supervisione montaggio HD: Paolo Benassi 
  • Supervisione musicale: Fabio Venturi 
  • Musiche: F. Ansaldo, C. A. Bixio, F. Chopin, A. Moretti, C. Orff Musiche eseguite da: Nanni Civitenga, Monica Ficarra, Ensemble Roma Sinfonietta diretta da Claudio Casini e Nuovo Coro Lirico Sinfonico Romano diretto da Francesco Lanzillotta 
  • Montaggio suono e mix musiche: Damiano Antinori 
  • Studio di registrazione: In A Box Studio, Roma 
  • HD film mastering: Digital Film Lab, Copenhagen 
  • Digitalizzazione foto: Studio Grafite,Roma 
  • Montaggio SDI e HD: ID4, Roma 
  • Postproduzione audio: In A Box Studio, Roma 
  • Mix: Francesco Tuminello - Technicolor Sound Services, Roma Trascrizione dialoghi: Claude Woznick 
  • Organizzazione: Angelo Palmieri, Laura Scarinzi, Cristina D’Osualdo 
  • Produzione esecutiva: Angelo S. Draicchio 
  • Produzione: Ripley’s Film Srl / Cinemazero 
  • Origine: Italia/Francia 
  • Anno: 2006 
  • Formato: 1:1.33 
  • Supporto: HDCAM SR / 35mm 
  • Durata: 63’



Nota del produttore.

50 ore di interviste audio, 3.000 metri di negativo cinematografico, 7.200 fotografie, centinaia di pagine di trascrizioni audio, 23 mesi di lavoro, tra preparazione, riflessioni, pause, discussioni e ripensamenti, un risultato di 63 minuti circa.

Sono trascorsi poco più di 2 anni dal momento in cui Andrea Crozzoli e Piero Colussi mi proposero di realizzare insieme un documentario su Pasolini, utilizzando l’enorme quantità di materiale girato da Gideon Bachmann e Deborah Beer sul set di Salò o le 120 giornate di Sodoma, e sono trascorsi quasi due anni dal giorno in cui, con Giuseppe Bertolucci, a cui avevamo deciso di affidare la regia, saggiammo i primi materiali a Pordenone.
Nonostante questi avessero un forte impatto emotivo - e fossero in buona parte assolutamente inediti -, altrettanto forte fu la sensazione di incertezza che provammo nell’immaginarne un film, per di più l’ennesimo, su una delle più importanti personalità della cultura italiana del ‘900.
Decidemmo comunque di provarci, trascrivendo dapprima tutto l’audio a nostra disposizione e analizzandolo, quasi fosse un testo incompiuto, abbandonato dall’autore. Un puzzle confuso da cui emergeva, a tratti tenera, la voce inconfondibile, potente, di un Pasolini amarissimo e disilluso che abiura la Trilogia della vita e, lucidamente, non lascia speranza alcuna. Un testo a cui abbiamo voluto dare voce, contestualizzandolo, con le immagini del regista alle prese con quella che sarà la sua ultima e straziante opera.

Piaccia o meno, Pasolini prossimo nostro ha la valenza di un definitivo testamento intellettuale; vuole essere un ulteriore tassello nella memoria collettiva, vuole dar voce, ancora una volta, a una delle intelligenze più vive e lucide della nostra cultura e, in generale, del secolo scorso.
Angelo S. Draicchio



Riassunto della trama.

Una voce, calma ed inconfondibile, emerge dal rumore di un operoso, disciplinato set cinematografico. È la voce di Pier Paolo Pasolini, al lavoro per completare la sua ultima, contestatissima (e postuma) opera cinematografica: Salò o le 120 giornate di Sodoma.

Nonostante le enormi, preventive polemiche suscitate dal film, un Pasolini tranquillo, quasi gioioso, si lascia seguire sul set da una piccola troupe capeggiata dal giornalista Gideon Bachmann, che lo coinvolge in una lunga, straordinaria intervista/conversazione.
Inizialmente perplesso, Pasolini trasforma l’intervista in un lucido e violento attacco alla società; un grido d’allarme che assieme alle immagini del set da vita ad una sorprendente sovrapposizione tra film e realtà a svelare la metaforica messa in scena pasoliniana della modernità.
È un Pasolini inedito, drammaticamente disperato e sdoppiato nel suo non concedere/si un futuro,una possibilità, seppure accennata, nel catartico e liberatorio primo finale del film, eliminato dal regista e qui ricostruito fotograficamente.




Note del regista

Il termine fotoromanzo, associato a un film “maledetto” come il Salò di Pasolini, sembra incongruo e quasi inopportuno. E invece a me pare assolutamente appropriato, perché di un foto-romanzo si tratta. Con Federica Lang abbiamo rivisitato il piccolo tesoro delle foto di scena di Deborah Beer (impeccabili sul piano della fedeltà e della qualità) e abbiamo creato una sorta di sintesi dell’ultima opera di Pasolini: sostituendo le immagini fisse alle sequenze cinematografiche. Ma l’archivio di

Gideon Bachmann conteneva anche alcune preziose testimonianze (filmate e sonore) dell’autore, che abbiamo posto a commento del nostro fotoromanzo. Arrivando, io credo, a una rilettura  inedita, assolutamente attendibile, di uno dei film più sconvolgenti degli anni settanta. Dalla quale emerge,potente, la spietata analisi pasoliniana di una società italiana sempre in bilico sulla voragine del fascismo. Il suo grido d’allarme fu strozzato la notte del 2 novembre 1975, ma continua ad  arrivarci,nitido e straziante, a trent’anni di distanza.


Fonte: https://docs.google.com/file/d/0B7DAI2JRpAZmZnFfSG1tWWhZT00/edit




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Pier Paolo Pasolini, racconto la mia vita - Autobiografia

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro





Pier Paolo Pasolini, racconto la mia vita
Autobiografia
l'Unità 
Martedì 4 novembre 1975 

Piar Pialo Pasolini  scrisse, nel 1960, la scheda autobiografica che ripubblichiamo qui di seguito. Lo scritto apparve In una raccolta di profili di narratori Italiani edita dal « Sodalizio del Libro » di Venezia, a cura di Elio Filippo Accrocca. 

... Mio padre , quando  sono nato, era tenente di fanteria: apparteneva  a un' un'antica famiglia dì  Ravenna, e aveva  sperperato tutto il patrimonio — passionale, sensuale e  violento di carattere: ed era finito in Libia, senza , un soldo; cosi aveva cominciato la carriera militare; da cui sarebbe poi  stato deformato e represso fino al conformismo più definitivo. Questo non lo potè accontentare e quindi lo angosciò sempre , fino a una forma  quasi paranoidea negli ultimi anni,  al ritorno  dalla sua terza guerra. Aveva puntato su di me, sulla mia carriera letteraria, fin da quando ero piccolo, dato che ho scritto le prime poesie a sette anni: aveva intuito, pover'uomo, ma non aveva previsto, con le soddisfazioni, le umiliazioni.

Credeva di poter conciliare la vita di un figlio scrittore col suo conformismo. L'inconciliabilità lo ha fatto impazzire:  nell'atto stesso di capire non capiva più niente... La sua acutissima intelligenza non gli serviva:  era uno strumento che non a mai il «suo o uso. E ci esasperava, ruggiva,  smaniava: a al mondo per soffrire, e quanto ci ha fatti soffrire, me e mia  ! Quando nel 1942  usci il mio primo libretto, Poesie a  Casarsa (in friulano! Fatto assurdo per lui, che, ufficialetto di promo pelo, era capitato a Casarsa, e li  aveva conosciuto mia madre, impadronendosene  subito,  con la sua  prepotenza infantile e centralistica): lo ricevette nel Kenia, dove era prigioniero. Ma, malgrado la assurdità del linguaggio  usato, era dedicato a lui, e questo lo consolava, lo faceva gongolare. Quando tornò io ero a Casarsa, sfollato con mia madre: ero perduto come in una sconfinata intimità i che faceva del Friuli la mia folle sede oggettiva. Mio fratello Guido era morto, partigiano. Mia madre ed io eravamo mezzi distrutti dal dolore. Egli fini cosi a Casarsa, in una specie di nuova prigionia: e cominciò la sua angoscia lunga una dozzina di anni. Vide a uno a uno uscire i  miei primi libretti, in friulano, segui i miei primi piccoli successi critici,  mi vide laureato in lettere: e intanto mi capiva sempre meno. Il contrasto era feroce: se uno si ammalasse di cancro e poi , guarisse, avrebbe della sua malattia lo stesso ricordo che ho io di quegli anni. Nei primi mesi del '50 ero a Roma, con mia madre: mio sarebbe venuto anche lui, quasi due anni dopo, e da piazza Costaguti saremmo andati ad abitare a Ponte Mammolo: già nel cinquanta avevo cominciato a scrivere le prime pagine di Ragazzi di vita. Ero disoccupato, ridotto in condizioni di vera disperazione: avrei potuto anche morire. Poi con l'aiuto del poeta in dialetto abruzzese  Vittorio  Clemente trovai un posto d'insegnante in una scuola privata di Cìampino, per  venticinquemila  lire al mese. Due anni di lavoro accanito, di pura lotta: e mio padre sempre là, in attesa, solo nella a cucinetta, coi gomiti sul tavolo e la faccia contro i pugni, immobile, cattivo, dolorante; riempiva lo spazio del piccolo vano con la grandezza che hanno i corpi morti. Poi Bassani mi fece entrare nella prima sceneggiatura cinematografica:  e avevo finito i  Ragazzi di vita che Bertolucci segnalò a Garzanti. Mio padre potè finalmente occuparsi di un trasloco che gli dava soddisfazione, che vellicava in lui il piacere del comando, della vanità, del decoro borghese. Andammo a stare a Monteverde, in via Fonteiana: lasciai la scuola, continuai a lavorare, a scrivere versi, a andare avanti con Una vita violenta, a sceneggiare, quando capitava: con la collaborazione a Le notti di Cabiria potei comprarmi anche una «seicento»: che poi diventò una millecento. Ebbi qualche premio, il premio «Città di Parma» per Ragazzi dì vita, il «Viareggio» per Le ceneri di Gramsci (prima ne avevo avuti una dozzina di altri minori: per versi dialettali, critica ecc.). Ma la vita nella mia casa era sempre la stessa, sempre uguale alla morte. Mio padre soffriva, ci faceva soffrire: odiava il mondo che aveva ridotto a due tre dati ossessivi e inconciliabili: era uno che batteva continuamente, disperatamente, la testa contro un muro. La sua agonia vera durò molti mesi: respirava a fatica, con un continuo lamento. Era malato di fegato, e sapeva che era grave, che solo un dito di vino gli faceva male, e ne beveva almeno due litri al giorno. Non si voleva curare, in nome della sua vita retorica. Non ci dava ascolto, a me e a mia madre, perché ci disprezzava. Una notte tornai a casa, appena in tempo per vederlo morire. 

Io ora continuo la solita vita: lavoro la mattina a casa: ho da mete a posto un nuovo volume di versi, La ricchezza: sto buttando giù gli appunti per il terzo romanzo, Il Rio della Grana, comincio a tradurre l'Eneide. E poi i lavori pratici, il cinema, la redazione di « Officina » ecc. Il dopopranzo esco, e vado a spasso, quasi sempre almeno fino alle  due di notte: passo dalle borgate e dalla periferia più affamata, a qualche, non frequente, riunione con gli amici. Bertolucci, Bassani, Gadda, Moravia, la Morante, Citati... Oppure, anche, qualche volta nei salotti della Bellonci, della De Giorgi, della Mastrocinque, della Astaldi... Ma la maggior parte della mia vita la trascorro al di là del confine della città, oltre i capolinea, come direbbe, ermetizzando, un cattivo poeta neorealista. 

Amo la vita ferocemente, cosi disperatamente, che non me ne può e bene, dico i dati fisici della vita, il sole, l'erba, la giovinezza: è un vizio molto più tremendo di quello della cocaina, non mi costa nulla, e ce n'è un'abbondanza sconfinata, senza limiti: e io divoro, divoro... 
Come andrà a finire, non lo so...
Pier Paolo Pasolini.




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Leonardo Sciascia, Todo modo - Pasolini in Descrizioni di descrizioni

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Eretico e Corsaro






Leonardo Sciascia, Todo modo


Dopo circa cento, centocinquanta settimane in cui regolarmente ho scritto ogni settimana un «pezzo» su un libro, prendo congedo dal mio lettore, per un periodo di sosta. Per alcuni mesi sarò occupato a fare un film. È vero che mentre ero occupato a girare, a montare e a doppiare Il fiore delle mille e una notte, ho continuato puntualmente a scrivere le mie recensioni. Ma ciò si spiega prima di tutto col fatto che avevo da poco tempo iniziato questo lavoro, e c’era dunque in me uno slancio che non poteva brutalmente essere interrotto. Inoltre il film che stavo facendo, anche se terribilmente faticoso e avventuroso, era molto gradevole, e mi lasciava dunque, la sera, quasi sempre, in un’ottima disposizione di spirito. Infine ero lontano dall’Italia, in luoghi dove, appunto, la sera, o nei giorni di festa, leggere e scrivere era l'unica possibile occupazione. Ora invece mi accingo a girare quando è già il terzo anno del mio lavoro di critico militante: e mi accingo a girare un film estremamente sgradevole (De Sade e la Repubblica Sociale mescolati insieme) che certamente la sera mi lascera sfinito e magari nauseato di lavoro; e lo girerò, oltre tutto, nel cuore dell’Italia, tra Salò e Marzabotto: né sere né giorni di festa saranno per me liberi e beatamente vuoti.
Dico tutto questo per giustificarmi, credo, più di fronte a me stesso che ai miei lettori (i quali non saranno poi tanti e così affezionati). Infatti, dopo quel numero sterminato di settimane in cui ogni settimana dovevo scrivere il mio «pezzo», e leggere dunque almeno tre libri, non sono affatto stanco di «militare». La cosa continua ad apparirmi ancora piacevolmente eccitante, benché faticosa, come le prime volte. Ecco perché sento il bisogno di giustificare a me stesso la mia temporanea diserzione.
Questo del «divertimento», è il primo «dato» che trovo voltandomi indietro e ripensando al mio lavoro. Il secondo «dato» è altrettanto piacevole. In circa tre anni mai, nessuno ha cercato di esercitare su me qualche pressione perché io scrivessi di un libro anziché di un altro. Né gli autori, né gli editori, né il direttore del giornale. Era la cosa che più temevo cominciando questo lavoro. Io, di solito, non sono viziato quanto a elogi, non sono il primo della classe. I segni di stima sono taciti, forse impliciti, e certo mai pubblicamente compromettenti... Il migliore di tali segni a cui potessi aspirare era quello di non essere considerato un uomo a cui poter raccomandarsi o con cui stabilire un rapporto meno che assolutamente corretto.
C’è ancora un terzo «dato»: questo né piacevole né spiacevole, né positivo né negativo, ma semplicemente problematico, e si può riassumere in una domanda: che cos’è e com’è fatta la critica? Naturalmente questo è un problema molto vecchio, benché neanche lontanamente risolto. Tuttavia pensavo che facendo io personalmente della critica e per tanto tempo, questo «mistero» mi si sarebbe almeno un po’ e almeno pragmaticamente chiarito. Invece no. Quanto alla critica ne so meno di Blanchot (il suo bellissimo Lautréamont e Sadey per esempio, va letto molto più per i due saggi che per la prefazione in cui l'autore si pone appunto, ancora una volta, il problema della critica: problema superato poi agnosticamente e in concreto, nei saggi).
Ho fatto delle «descrizioni». Ecco tutto quello che so della mia critica in quanto critica. E «descrizioni» di che cosa? Di altre «descrizioni», che altro i libri non sono.
L’antropologia l’insegna: c’è il «drómenon», il fatto, la cosa occorsa, il mito, e il «legómenon», la sua descrizione parlata.
Nella vita accadono dei fatti; i libri li descrivono: : ma in quanto libri sono anch’essi dei fatti: e quindi possono essere anch’essi descritti: dalla critica. Che è «legómenon» quindi, di secondo grado. S’intende che chi descrive, descrive dal suo angolo visuale. Che non vuol sempre rigidamente dire soggettivo: esso è il punto di incontro di una infinità vorticosa di elementi, che in realtà appartengono ad universi distinti (esistenza e cultura, preistoria e storia, professionismo e dilettantismo, fenomenologia e psicologia: e altre simili coppie più o meno antitetiche, all'infinito). È per questo che la «critica» non è definibile, né, quasi, parlabile.
Certo è che se dovessi infine raccogliere questi miei brevi saggi in un volume, non potrei trovare titolo più pertinente che: Descrizioni di descrizioni...
Altra cosa gradevole. È parlando dell’ultimo libro di Sciascia che prendo congedo dal lettore per la mia sosta filmica. Sciascia non ha mai smesso di essere attuale, fin dal suo primo apparire come autore all’inizio degli anni Cinquanta: e generalmente essere attuale vuol dire, in qualche modo, ricattare. Inoltre Sciascia ha sempre anche avuto quello che si chiama successo: e anche il successo è ricattatorio. Invece Sciascia ha saputo con assoluta eleganza evitare in ogni caso l’ambigua implicazione del ricatto. Si è mantenuto sempre purissimo, come un esordiente. Se, fatalmente, egli non ha potuto non raggiungere una certa forma di autorità, tale autorità è soltanto personale: e cioè legata a quel qualcosa di debole e di fragile che è un uomo solo. Si aggiunga a ciò la sua decisione di restare in Sicilia, centro del mondo per lui, ma periferia ed esilio per gli altri.
Questo ha finito per patinare la sua solitudine, corroderla come la salsedine fa di un tronco. Lo straordinario è poi che Sciascia è un moralista: i suoi romanzi sono guidati da un «sentimento» — del resto indefinito e forse non effabile - derivante da un giudizio sul mondo. Ma il moralismo meridionale — il grande ramo in cui quello di Sciascia si innesta — non è, non può essere moralistico, perché non e cristiano; e se è cattolico, lo è nelle forme esteriori, sinistre, funeree, spagnolesche, assimilate in profondità dove si amalgamano con chissà quali substrati (per dirla a braccio). La cultura storica, cioè non quella coatta delle dominazioni — e generalmente depositata in un popolo totalmente estraneo alle classi dirigenti — non conosce la falsa morale cristiana dell’amore (falsa in quanto cattolica, in quanto appartenente al mondo del potere): si fonda piuttosto su una più arcaica morale dell’onore.

Perciò il moralismo meridionale, e quello di Sciascia, quindi, ha un carattere civico, appunto, piuttosto che moralistico. Il «buono», in Sciascia, è chi non accetta una condizione tradizionale fondata sull’ingiustizia, e l’infinità delle sue abitudini: ma non può manifestare la sua «bontà» se non attraverso una forma conoscitiva di carattere pragmatico (facendosi testimone o detective, per esempio: o, infine, giustiziere). Il suo giudizio è dunque il giudizio di un tribunale finalmente giusto: è un giudizio legale. E tale è appunto il giudizio che Sciascia dà sugli uomini.
Egli non si disperde in giustificazioni, in comprensioni, in odii, in rancori, in falsi amori, in perdoni. Egli consulta un codice ideale: e formula la sua condanna, con le eventuali aggravanti o attenuanti. Ciò implica anche una specie di stima per i «cattivi» giudicati.
I «cattivi», cioè, altri non sono che dei «buoni» a cui non è saltata in mente l’idea che il potere è ingiusto, è diabolico: ma ne hanno accettato innocentemente le regole, affermandosi attraverso le occasioni che esso fornisce all'uomo forte. Ci sono tra i «cattivi», naturalmente, anche coloro che, rispetto al potere, sono gerarchicamente inferiori: e costoro sono quindi visti come miserabili, meschini e soprattutto, sia pur oscenamente, ridicoli. C’è cioè una «nuance» moralistica nel dipingerseli nella fantasia. Ma è tutto. In Todo modo, questa concezione quasi dantesca del mondo ritorna a riproporre la sua forma: la piramide del potere, monolitica all’esterno, estremamente complicata, labirintica, mostruosa all’interno. C’è fuori, di fronte a tale piramide, l’uomo «buono» che giudica senza moralismo. Ma in Todo modo c’è una novità: il giudice, quasi casuale — posto cioè di fronte alla piramide per caso, e per caso condotto all’interno di essa, tra i suoi incomprensibili meccanismi - si fa giustiziere. Decide che alcuni dei componenti di quel «club» del potere debbano morire, a scadenze regolari, da romanzo giallo. La citazione finale di Gide fa supporre a Enzo Siciliano, che il protagonista «giudice» sia anche l’autore materiale dei delitti (che in tal caso non sarebbero gratuiti). È probabile. Certo è che quei «mafiosi» muoiono per volontà dell’autore. Ma non gratuitamente; bensì perché condannati a morte a causa della criminalità con la quale essi detengono e gestiscono il potere. O forse in quanto il potere è di per se stesso un crimine.

Questo romanzo giallo metafisico di Sciascia (scritto tra l’altro magistralmente, come diranno Ì futuri critici letterari ad usum Delphini, perché Todo modo è destinato a entrare nella storia letteraria del Novecento come uno dei migliori libri di Sciascia) è anche, credo, una sottile metafora degli ultimi trent’anni di potere democristiano, fascista e mafioso, con un'aggiunta finale di cosmopolitismo tecnocratico (vissuta però solo dal capo, non dalla turpe greggia alla greppia). Si tratta di una metafora profondamente misteriosa, come ricostituita in un universo che elabora fino alla follia i dati della realtà. I tre delitti sono le stragi di Stato, ma ridotte a immobile simbolo. I meccanismi che spingono ad esse sono a priori preclusi a ogni possibile indagine, restano sepolti nell’impenetrabilità della cosca, e soprattutto nella sua ritualità.


P.P.P., Tempo 24 gennaio 1975





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Pasolini - Sciascia, la tragedia che uni due scrittori

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro




Pasolini - Sciascia, un fratello ucciso un altro suicida.
La tragedia che uni due scrittori
Di Adriano Sofri
L'Unità, martedì 21 giugno 1994 - pag. 11










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Leonardo Sciascia - Il Salò di Pasolini

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Eretico e Corsaro



 
Il rapporto di stima e di amicizia tra Leonardo Sciascia e Pier Paolo Pasolini risale ai primi anni Cinquanta, quando l’uno e l’altro erano parimenti ignoti al grande pubblico. Il poeta friulano recensì su una rivista romana “La libertà” il primo libro del maestro di Racalmuto, le Favole della dittatura.
“Dieci anni fa queste favolette sarebbero servite unicamente a mandare al confino il loro autore. Quanti italiani sarebbero stati in grado di capirle? Adesso, con un fondo di amarezza tutta scontata, Sciascia condanna, nel ricordo, quei tempi di abiezione, e proprio con un gusto della forma chiusa, fissa, quasi ermetica, insomma: che a quei tempi era proprio uno dei rari modi di passiva resistenza”.
P.P.Pasolini 

 … da quel momento siamo stati amici. Ci scrivevamo assiduamente e ogni tanto ci incontravamo, nei dieci anni che seguirono, e specialmente nel periodo in cui lui lavorava all'antologia della poesia dialettale italiana. Poi la nostra corrispondenza si diradò, i nostri incontri divennero rari e casuali (l'ultimo nell'atrio dell'albergo Jolly, qui a Palermo: quando lui era venuto a cercare attori per Le mille e una notte). Ma io mi sentivo sempre un suo amico; e credo che anche lui nei miei riguardi.
C'era però come un'ombra tra noi, ed era l'ombra di un malinteso. Credo che mi ritenesse alquanto -come dire? - razzista nei riguardi dell'omosessualità. E forse era vero, e forse è vero: ma non al punto da non stare dalla parte di Gide contro Claudel, dalla parte di Pier Paolo Pasolini contro gli ipocriti i corrotti e i cretini che gliene facevano accusa. E il fatto di non essere mai riuscito a dirglielo mi è ora di pena, di rimorso. Io ero — e lo dico senza vantarmene, dolorosamente - la sola persona in Italia con cui lui potesse veramente parlare. Negli ultimi anni abbiamo pensato le stesse cose, detto le stesse cose, sofferto e pagato per le stesse cose. Eppure non siamo riusciti a parlarci, a dialogare. Non posso che mettere il torto dalla mia parte, la ragione dalla sua.
E voglio ancora dire una cosa, al di là dell'angoscioso fatto personale: la sua morte - quali che siano i motivi per cui è stato ucciso, quali che siano i sordidi e torbidi particolari che verranno fuori — io la vedo come una tragica testimonianza di verità, di quella verità che egli ha concitatamente dibattuto scrivendo, nell'ultimo numero del «Mondo», una lettera a Italo Calvino.

Da Nero su nero, Einaudi, 1980


*****
 

Leonardo Sciascia
Il Salò di Pasolini

 

[...] Ho visto una volta, per cinque minuti, un film pornografico. A differenza di Catone nell’epigramma di Marziale (tradotto da Concetto Marchesi: “Tu conoscevi il dolce rito della giocosa Flora /e l’allegria della festa e la libertà della gente / E allora perché sei venuto al teatro, o severo Catone? / O sei venuto solo per questo: per uscirne?”), non sapevo quali sarebbero state le mie reazioni di fronte a un simile spettacolo. Presumevo anzi mi sarebbe piaciuto, piacendomi la letteratura erotica e libertina. Mi sono invece trovato davanti a dei corpi umani ridotti a pura e triste meccanica e ho fatto l’immediata constatazione che di pornografico, in un film pornografico, ci sono soltanto gli spettatori. Se fossi rimasto oltre, mi sarei molto annoiato e un po’ vergognato.

Giorni addietro, a Roma, vedendo l’ultimo film di Pasolini mi sono trovato in una condizione del tutto diversa. Questo per dire subito che se sono arrivato a sperare che questo film lo vedano in pochi, ci sono arrivato da ben altra parte. Mentre le immagini scorrevano sullo schermo, non mi sono sentito pornografo ma vittima. Vittima del dovere di vederlo, vittima dell’attenzione con cui ho sempre seguito Pasolini, vittima - perché non dirlo? - del mio cristiano amore per lui, di un amore che forse sfiora il concetto - cristiano e cattolico - della reversibilità. Ho sofferto maledettamente, durante la proiezione. Per quanto mi sforzassi, non riuscivo a non chiudere gli occhi, davanti a certe scene: e nel buio diciamo fisico che si faceva in me, precario conforto a quell’altro, morale e intellettuale, che dilagava dallo schermo, disperatamente e come annaspando, cercavo nella memoria immagini d’amore. Poi venne, da una delle vittime, da una di quelle che anche nelle didascalie iniziali, coi loro nomi anagrafici, sono definite vittime - venne l’invocazione- chiave, l’invocazione che spiegò il senso del film e l’impressione che produceva in me: “Dio, perché ci hai abbandonati?”. Lo stesso grido di Cristo nel Vangelo di Marco: “Eloi, Eloi, lama sabactani?”. A questo punto, a spezzare provvidenzialmente l’effetto del film, mi affiorò il ricordo di una battuta di Jean Paulhan quando testimoniando a favore di Jean-Jacques Pauvert, imputato per la ristampa delle opere di Sade che veniva facedo, alla domanda del giudice: “Dunque lei non crede che le opere di Sade siano pericolose?”, aveva risposto: “Pericolosissime: conosco una ragazza che dopo averle lette si è fatta monaca”. Questa battuta, meno paradossale di quanto sarà parsa al giudice (nella migliore delle ipotesi: che è possibile l’abbia intesa a carico invece che a discarico di Pauvert), veniva a porre la questione del film di Pasolini in rapporto alla censura, e il problema stesso della censura, nei termini più esatti e più giusti. Il film di Pasolini è senza dubbio importante: importante come conclusione della sua autobiografia, importante per chi come me sente il bisogno di ricostruire la sua vita, di spiegarsela, di capirla con umiltà e insieme con pietà; di capire la sua scelta, di capire il suo “suicidio”. Ma a che serve, per la generalità degli spettatori; a che serve per le masse che lo consumeranno? Lasciando da parte i pochissimi che a vederlo possono sentirsi insorgere delle latenti perversioni o trovare una forma di appagamento a quelle coscienti, i più non ne avranno che nausea e dolore: e o sentiranno l’impulso di ripagare con la violenza tanta violenza (magari sfasciando il cinema) o sentiranno tanta disperazione e dannazione da trovarsi ad invocare Dio come nel film la vittima, come la ragazza di cui dice Paulhan che si è fatta monaca dopo aver letto Sade. Ora, decisamente, tanto per stare alla battuta di Paulhan, è appunto questo che non vogliamo: che le ragazze si facciano monache.

Facendo il film che ha fatto, Pasolini ci ha avvertito di questo pericolo. E anche morendo come è morto: di una morte in cui gli elementi “libertari” sono sovrastati e annichiliti dagli elementi “cattolici”. Ma noi dobbiamo difendercene. E non dico noi per questa società, questo Stato, tutto quello che Vittorini chiamerebbe morte e putredine - che hanno se mai non il diritto di difendersi ma il dovere di dissolversi; ma noi che ormai sappiamo quello che siamo e quello che vogliamo: anche se stretti tra le delusioni storiche nuove e le tentazioni metafisiche vecchie.
 
Di Leonardo Sciascia
(Rinascita, n. 49, 12 dicembre 1975)
 


  

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18 febbraio 1975. I Nixon italiani

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro




18 febbraio 1975. I Nixon italiani
(Sul «Corriere della sera» col titolo «Gli insostituibili Nixon italiani»)
(Scritti Corsari Editore Garzanti, 1975)

Ho visto alla televisione per qualche istante la sala in cui erano riuniti in consiglio i potenti democristiani che da circa trent'anni ci governano. Dalle bocche di quei vecchi uomini, ossessivamente uguali a se stessi, non usciva una sola parola che avesse qualche relazione con ciò che noi viviamo e conosciamo. Sembravano dei ricoverati che da trent'anni abitassero un universo concentrazionario: c'era qualcosa di morto anche nella loro stessa autorità, il cui sentimento, comunque, spirava ancora dai loro corpi.

richiami di Fanfani all'ancien régime, pieni di ampollosa spregiudicatezza, erano talmente insinceri da rasentare il delirio; i giovani descritti da Moro erano fantasmi quali possono essere immaginati solo dal fondo di una fossa dei serpenti; il silenzio di Andreotti era intriso di un cereo sorriso di astuzia terribilmente insicura e ormai timida senza riparo...

Appunto Andreotti. E' alla sua risposta che dovrei replicare.
Naturalmente non senza esitazioni. Ciò che temo è che egli mi abbia a bella posta - con l'abilità ch'è naturale al potere - trascinato nella sua palude. Dunque, se in tale palude - in tale grigiore - io gli rispondo, faccio il suo gioco.

Se non rispondo, però, non faccio il mio gioco.

In cosa consisterebbe l'abilità di Andreotti (se c'è)? Nell'avere risposto a un articolo che io non ho scritto. Infatti a me non potrebbe mai nemmeno venire in mente di scrivere qualcosa che concerna il malgoverno o il sottogoverno. Ci sono centinaia di giornalisti e di politici, molto più informati di me, che scrivono appunto, e da trent'anni, sul malgoverno e il sottogoverno democristiano. Andreotti, secondo l'ipotesi che sto qui formulando, avrebbe finto di annoverarmi tra coloro che scrivono del malgoverno e del sottogoverno democristiano, e di conseguenza avrebbe scritto una finta difesa d'ufficio. In questo «gioco di finzioni» io non avrei potuto che perdermi.

Invece voglio escludere - almeno per ora - questa attendibilissima ipotesi del «gioco delle finzioni» in cui Andreotti mi avrebbe, non senza cortesia, impantanato: voglio accettare la lettera della sua risposta, voglio credere nella sua sincerità. Voglio credere che, anche parlando con lui a quattr'occhi - e con l'ipotetica certezza della massima sua buonafede - egli mi avrebbe dato la risposta che mi ha dato pubblicamente sul «Corriere».

In tal caso egli non avrebbe finto di non aver capito ciò che io ho scritto a proposito della Democrazia cristiana: egli non avrebbe realmente capito ciò che io ho scritto.

In cosa consiste infatti, onestamente, la sua difesa della Democrazia cristiana (contro chi, in questo senso, non si è mai sognato di attaccarla)? Consiste in un lungo, prevedibile e diligente elenco dei meriti, appunto della Democrazia cristiana. Tale elenco non è privo, tecnicamente, di una certa allure liturgica: si sa che tutte le religioni hanno un debole per gli elenchi, il cui schema è il comandamento, la litania, il rosario. Ciò depone in un certa senso a favore di Andreotti, perché dimostra inequivocabilmente - come ogni prova linguistica - che la sua buonafede cattolica, risalendo all'infanzia, ha qualcosa di sincero.

Tuttavia, per quanto ci riguarda, tale elenco andreottiano dei meriti della Democrazia cristiana ci si presenta essenzialmente, e fatalmente, come un elenco di Opere del Regime. Non lo dico tanto per polemica (c'è anche questa, s'intende, visto che io ho sinceramente voluto accettare la sincerità della risposta di Andreotti), ma lo dico soprattutto per rilevare un fenomeno che è oggettivamente comune a tutte le Opere del Regime, e che è il seguente: le Opere del Regime non sono Opere del Regime. Sono soltanto Opere che il Regime non può non fare. Le fa, naturalmente, nel modo peggiore (e in questo la Democrazia cristiana non si distingue dagli altri Regimi) ma, ripeto, non può non farle. Qualsiasi governo in Italia verso la fine degli anni trenta avrebbe bonificato le Paludi Pontine: il Regime Fascista ha elencato tale bonifica, di comune amministrazione, tra le proprie Opere. Di tutte le Opere che Andreotti liturgicamente elenca come meritevoli Opere del Regime Democristiano, si potrebbe ripetere la stessa cosa: il Regime Democristiano non poteva non farle. E, ripeto, le ha fatte malissimo. Ma io non mi occupo di malgoverno o di sottogoverno. Solo se io mi occupassi di malgoverno o di sottogoverno potrei notare come nell'elenco di Andreotti manca ogni accenno agli ospedali e alle scuole (si accenna alla «popolazione scolastica» facendone una petizione di principio: come se cioè gli italiani fossero migliorati dalle scuole italiane e non invece peggiorati).

Prendo due delle più rilevanti delle Opere elencate da Andreotti, cioè la costruzione di case («gli italiani che abitano una casa di cui sono proprietari hanno superato il cinquanta per cento») e lo spostamento di grandi masse dalle campagne alla città («milioni di contadini sono passati al lavoro industriale o a quello autonomo»).

Si tratta di due fenomeni che Andreotti vede da un punto di vista strettamente pragmatico, fattuale, materiale, quasi direi nomenclatorio. Essi si presentano nell'elenco come freddamente privi di significato al di fuori del loro mero esserci (od essere attuali).

Puro nominalismo amministrativo. Andreotti non si cura, quasi non fosse affar suo, degli effetti umani, culturali, politici di tali fenomeni. Pare non aver sentito neanche mai parlare della degradazione antropologica derivante da uno «sviluppo senza progresso», qual è stato quello italiano con le sue case e il suo urbanesimo. A parte il fatto che le case costruite in Italia negli anni del Trentennio democristiano sono una vergogna, e che le condizioni di vita a cui sono costretti i contadini emigrati nel Nord o in Germania sono atroci. (Ma io non sono uno che si occupa di malgoverno o di sottogoverno.) Per restare dunque al gioco che in realtà non dovrei accettare, farò a proposito dei due fenomeni assunti ad esempio, le seguenti osservazioni.

A proposito della costruzione di case e dell'abbandono delle campagne, si possono verificare con particolare precisione e pertinenza - credo anche statisticamente - le due «fasi delle lucciole» di cui parlavo nel mio vero articolo.

Infatti, durante la «fase della presenza delle lucciole» (anni cinquanta) le case, che attraverso una serie di scandali edilizi memorabili, la Democrazia cristiana ha tuttavia costruito, sono un'opera a cui la Democrazia cristiana è stata costretta dalla più normale e tradizionale lotta di classe. E lo stesso vale per la politica agraria. La Democrazia cristiana vi ha messo di proprio, di originale, appunto, le speculazioni, e gli spari della polizia.

Durante la «fase della scomparsa delle lucciole» (anni sessanta e settanta) si ha un completo rovesciamento della situazione: si ha cioè quella «soluzione di continuità» che io non ho esitato, e non esito ora, a dichiarare millenaristica: il passaggio da un'epoca umana a un'altra, dovuta all'avvento del consumismo e del suo edonismo di massa: evento che ha costituito, soprattutto in Italia, una vera e propria rivoluzione antropologica. In questa «fase» a spingere la Democrazia cristiana alle Opere non è stata (se non relativamente, all'inizio) la classe operaia guidata dal pci: sono stati, al contrario, i padroni, con la loro inarrestabile «espansione economica». La quale ha appunto costruito - attraverso un'inebbriata Democrazia cristiana - miriadi di case e ha risucchiato dalla campagna milioni di contadini.

Anche in questo la Democrazia cristiana non c'entra. Tanto non c'entra che (pare) non si è nemmeno accorta di nulla. Non si è accorta di essere divenuta, quasi di colpo, nient'altro che uno strumento di potere formale sopravvissuto, attraverso cui un nuovo potere reale ha distrutto un paese. Andreotti non spende naturalmente che due parole, rispondendomi, a proposito della Chiesa. Ma la Chiesa è appunto uno di quei valori che il nuovo potere reale ha distrutto, compiendo un vero e proprio genocidio di preti, che rientra nel quadro di un ben più imponente e drammatico genocidio di contadini. Non voglio passare io dalla parte della Chiesa e degli analoghi valori, cancellati pragmaticamente dallo «sviluppo». Ma Andreotti non può certo venirmi ad accusare che io non me ne faccia un problema.

Lui infatti ride delle lucciole io no.

Ma, fatto il mio grigio dovere, ecco che è giunto il momento ch'io torni sulla prima ipotesi che ho formulato: l'assai più divertente ipotesi, cioè, che Andreotti abbia finto di non avermi capito, dandomi quindi una risposta che ha fuorviato e seppellito tutto. Che tale ipotesi abbia serie probabilità di essere quella giusta può essere dimostrato dal fatto che Andreotti - verso la fine del suo intervento - nel punto più retoricamente delicato, quello che precede la perorazione, abbia fatto una oscura allusione alla sorte di Nixon. Il senso diplomatico di tale oscura allusione è tuttavia chiaro, ed è il seguente: qui in Italia, miei cari, non si può fare come si è fatto in America con Nixon, cioè cacciare via chi si è reso responsabile di gravi violazioni al patto democratico: qui in Italia i potenti democristiani sono insostituibili.

C'è una sfida quasi luciferina in questa oscura allusione di Andreotti dal senso così chiaro. I potenti democristiani sono paragonabili (anzi, sono paragonati) a Nixon: e con ciò?

Non solo - sembra dire Andreotti - i successori di Nixon seguono la stessa politica di Nixon e continuano dunque a sostenere per quanto riguarda almeno l'Italia, gli equivalenti di Nixon; non solo, qui in Italia, non ci sarebbe un mediocre Ford pronto eventualmente a sostituire i nostri Nixon (tutti sanno cosa sia divenuta una carriera politica in Italia, e come gli avvocatucci provinciali e volgari eletti deputati fino a una diecina di anni fa, siano dei giganti rispetto ai loro possibili successori di oggi), non solo, ma i nostri Nixon sono infinitamente più potenti del Nixon americano: essi hanno trovato appunto, a quanto pare, il modo di rendersi insostituibili. Il legame che unisce infatti questa allusione di Andreotti a una sua altrettanto significativa omissione è di una perfetta logicità.

Voglio dire che - pur accennando alla criminalità, comune e politica, che, quasi caduta dal cielo, caratterizza l'odierna vita italiana - Andreotti ha omesso nel suo articolo di parlare della «strategia della tensione» e delle stragi.

Dunque gli uomini che decidono la politica italiana - e in definitiva la nostra vita - primo: non sanno nulla, o fingono di non saper nulla, di ciò che è radicalmente cambiato nel «potere» che essi servono, praticamente detenendolo e gestendolo, secondo, non sanno nulla, o fingono di non saper nulla, sull'unica «continuità» di tale potere, cioè sulla serie di stragi. Ciò è scandaloso. E io sono scandalizzato: a rischio di essere anche ingeneroso e conformista (come è sempre chi è scandalizzato, e si fa, quindi, portavoce di un sentimento comune e maggioritario, non privo di qualunquismo). E' chiaro comunque che fin che i potenti democristiani taceranno sul cambiamento traumatico del mondo avvenuto sotto i loro occhi, un dialogo con loro è impossibile.

Ed è altrettanto chiaro che fin che i potenti democristiani taceranno su ciò che invece, in tale cambiamento, costituisce la continuità cioè la criminalità di Stato, non solo un dialogo con loro è impossibile, ma è inammissibile il loro permanere alla guida del paese. Del resto c'è da chiedersi cos'è più scandaloso: se la provocatoria ostinazione dei potenti a restare al potere, o l'apolitica passività del paese ad accettare la loro stessa fisica presenza («...quando il potere ha osato oltre ogni limite, non lo si può mutare, bisogna accettarlo così com'è», Editoriale del «Corriere della sera», 9-2-1975).




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Pasolini “chi mi ama mi segua” - Analisi linguistica di uno slogan

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Pasolini “chi mi ama mi segua” 
Analisi linguistica di uno slogan

Articolo di Pasolini apparso nel 1973 sul “Corriere della Sera” a proposito del famoso slogan “chi mi ama mi segua” sulle natiche di Donna Jordan (inventato da un giovanissimo Oliviero Toscani).


Il linguaggio dell’azienda è un linguaggio per definizione puramente comunicativo: i “luoghi” dove si produce sono i luoghi dove la scienza viene “applicata”, sono cioè luoghi del pragmatismo puro. I tecnici parlano fra loro un gergo specialistico, sì, ma in funzione strettamente, rigidamente comunicativa. Il canone linguistico che vige dentro la fabbrica, poi, tende ad espandersi anche fuori: è chiaro che coloro che producono vogliono avere con coloro che consumano un rapporto d’affari assolutamente chiaro.
C’è un solo caso di espressività -ma di espressività aberrante- nel linguaggio puramente comunicativo dell’industria: è il caso dello slogan. Lo slogan infatti deve essere espressivo, per impressionare e convincere. Ma la sua espressività è mostruosa perché diviene immediatamente stereotipa, e si fissa in una rigidità che è proprio il contrario dell’espressività, che è eternamente cangiante, si offre a un’interpretazione infinita.
La finta espressività dello slogan è così la punta massima della nuova lingua tecnica che sostituisce la lingua umanistica. Essa è il simbolo della vita linguistica del futuro, cioè di un mondo inespressivo, senza particolarismi e diversità di culture, perfettamente omologato e acculturato. Di un mondo che a noi, ultimi depositari di una visione molteplice, magmatica, religiosa e razionale della vita, appare come un mondo di morte.
Ma è possibile prevedere un mondo così negativo? È possibile prevedere un futuro come “fine di tutto”? Qualcuno - come me - tende a farlo, per disperazione: l’amore per il mondo che è stato vissuto e sperimentato impedisce di poter pensarne un altro che sia altrettanto reale; che si possano creare altri valori analoghi a quelli che hanno resa preziosa una esistenza. Questa visione apocalittica del futuro è giustificabile, ma probabilmente ingiusta.
Sembra folle, ma un recente slogan, quello divenuto fulmineamente celebre, dei jeans “Jesus”: “Non avrai altri jeans all’infuori di me”, si pone come un fatto nuovo, una eccezione nel canone fisso dello slogan, rivelandone una possibilità espressiva imprevista, e indicandone una evoluzione diversa da quella che la convenzionalità - subito adottata dai disperati che vogliono sentire il futuro come morte - faceva troppo ragionevolmente prevedere.

[...]

Coloro che hanno prodotto questi jeans e li hanno lanciati nel mercato, usando per lo slogan di prammatica uno dei dieci Comandamenti, dimostrano - probabilmente con una certa mancanza di senso di colpa, cioè con l’incoscienza di chi non si pone più certi problemi - di essere già oltre la soglia entro cui si dispone la nostra forma di vita e il nostro orizzonte mentale.
C’è, nel cinismo di questo slogan, un’intensità e una innocenza di tipo assolutamente nuovo, benché probabilmente maturato a lungo in questi ultimi decenni (per un periodo più breve in Italia). Esso dice appunto, nella sua laconicità di fenomeno rivelatosi di colpo alla nostra coscienza, già così completo e definitivo, che i nuovi industriali e nuovi tecnici sono completamente laici, ma di una laicità che non si misura più con la religione. Tale laicità è un “nuovo valore” nato nell’entropia borghese, in cui la religione sta deperendo come autorità e forma di potere, e sopravvive in quanto ancora prodotto naturale di enorme consumo e forma folcloristica ancora sfruttabile.
Ma l’interesse di questo slogan non è solo negativo, non rappresenta solo il modo nuovo un cui la Chiesa viene ridimensionata brutalmente a ciò che essa realmente ormai rappresenta: c’è in esso un interesse anche positivo, cioè la possibilità imprevista di ideologizzare, e quindi rendere espressivo, il linguaggio dello slogan e quindi presumibilmente, quello dell’intero mondo tecnologico. Lo spirito blasfemo di questo slogan non si limita a una apodissi, a una pura osservazione che fissa la espressività in pura comunicatività. Esso è qualcosa di più che una trovata spregiudicata (il cui modello è l’anglosassone “Cristo super-star”): al contrario, esso si presta a un’interpretazione, che non può essere che infinita: esso conserva quindi nello slogan i caratteri ideologici e estetici della espressività.
Vuol dire - forse - che anche il futuro che a noi - religiosi e umanisti - appare come fissazione e morte sarà, in un modo nuovo, storia; che l’esigenza di pura comunicatività della produzione sarà in qualche modo contraddetta. Infatti lo slogan di questi jeans non si limita a comunicarne la necessità del consumo, ma si presenta addirittura come la nemesi - sia pur incosciente - che punisce la Chiesa per il suo patto col diavolo. L’articolista dell’“Osservatore” questa volta sì è davvero indifeso e impotente: anche se magari magistratura e poliziotti, messi subito cristianamente in moto, riusciranno a strappare dai muri della nazione questo manifesto e questo slogan, ormai si tratta di un fatto irreversibile anche se forse molto anticipato: il suo spirito è il nuovo spirito della seconda rivoluzione industriale e della conseguente mutazione dei valori.
Pier Paolo Pasolini
 
Fonte:
http://www.doppiozero.com/materiali/fuori-busta/ikea-i-jeans-i-gay-e-pasolini


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