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Biografia, lavori in corso - a breve anche il 1974 e il 1975

domenica 7 febbraio 2021

Pier Paolo Pasolini, da La nuova gioventù - Saluto e augurio

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro



Pier Paolo Pasolini, da La nuova gioventù
Saluto e augurio 


A è quasi sigùr che chista

a è la me ultima poesia par furlàn;

e i vuèj parlàighi a un fassista
prima di essi (o ch’al sedi) massa lontàn.


È quasi sicuro che questa è la mia ultima poesia in friulano: e voglio parlare a un fascista, prima che io, o lui, siamo troppo lontani.


Al è un fassista zòvin,

al varà vincia un, vincia doi àins:
al è nassùt ta un paìs,
e al è zut a scuela in sitàt.

È un fascista giovane, avrà ventuno, ventidue anni: è nato in un paese ed è andato a scuola in città.


Al è alt, cui ociàj, il vistìt

gris, i ciavièj curs:
quand ch’al scumìnsia a parlàmi
i crot ch’a no’l savedi nuja di politica

È alto, con gli occhiali, il vestito grigio, i capelli corti: quando comincia a parlarmi, penso che non sappia niente di politica


e ch’al serci doma di difindi il latìn

e il grec, cuntra di me; no savìnt
se ch’i ami il latin, il grec - e i ciavièj curs.
Lu vuardi, al è alt e gris coma un alpìn.

e che cerchi solo di difendere il latino e il greco contro di me; non sapendo quanto io ami il latino, il greco - e i capelli corti. Lo guardo, è alto e grigio come un alpino.


"Ven cà, ven cà, Fedro.

Scolta. I vuèj fati un discors
ch’al somèa un testamìnt.
Ma recuàrditi, i no mi fai ilusiòns

"Vieni qua, vieni qua, Fedro. Ascolta. Voglio farti un discorso che sembra un testamento. Ma ricordati, io non mi faccio illusioni


su di te: jo i sai ben, i lu sai,

ch’i no ti às, e no ti vòus vèilu,
un còur libar, e i no ti pos essi sinsèir:
ma encia si ti sos un muàrt, ti parlarài.

su di te: io so, io so bene, che tu non hai, e non vuoi averlo, un cuore libero, e non puoi essere sincero: ma anche se sei un morto, io ti parlerò.


Difìnt i palès di moràr o aunàr,

in nomp dai Dius, grecs o sinèis.
Moùr di amòur par li vignis.
E i fics tai ors. I socs, i stecs.

Difendi i paletti di gelso, di ontano, in nome degli Dei, greci o cinesi. Muori d’amore per le vigne. Per i fichi negli orti. I ceppi, gli stecchi.


Il ciaf dai to cunpàins, tosàt.

Difìnt i ciamps tra il paìs
e la campagna, cu li so panolis,
li vas’cis dal ledàn. Difìnt il prat

Per il capo tosato dei tuoi compagni. Difendi i campi tra il paese e la campagna, con le loro pannocchie abbandonate. Difendi il prato


tra l’ultima ciasa dal paìs e la roja.

I ciasàj a somèjn a Glìsiis:
giolt di chista idea, tènla tal còur.
La confidensa cu’l soreli e cu’ la ploja,

tra l’ultima casa del paese e la roggia. I casali assomigliano a Chiese: godi di questa idea, tienla nel cuore. La confidenza col sole e con la pioggia, 


ti lu sas, a è sapiensa santa.

Difìnt, conserva prea. La Repùblica
a è drenti, tal cuàrp da la mari.
I paris a àn serciàt, e tornàt a sercià

lo sai, è sapienza sacra. Difendi, conserva, prega! La Repubblica è dentro, nel corpo della madre. I padri hanno cercato e tornato a cercar


di cà e di là, nass’nt, murìnt,

cambiànt: ma son dutis robis dal passàt.
Vuei: difindi, conservà, preà. Tas:
la to ciamesa ch’a no sedi

di qua e di là, nascendo, morendo, cambiando: ma son tutte cose del passato. Oggi: difendere, conservare, pregare. Taci! Che la tua camicia non sia


nera, e nencia bruna. Tas! Ch’a sedi

’na ciamesa grisa. La ciamesa dal siun.
Odia chej ch’a volin dismòvisi
e dismintiàssi da li Paschis...

nera, e neanche bruna. Taci! che sia una camicia grigia. La camicia del sonno. Odia quelli che vogliono svegliarsi, e dimenticarsi delle Pasque...


Duncia, fantàt dai cialsìns di muàrt,

i ti ài dita se ch’a volin i Dius
dai ciamps. Là ch’i ti sos nassùt.
Là che da frut i ti às imparàt

Dunque, ragazzo dai calzetti di morto, ti ho detto ciò che vogliono gli Dei dei campi. Là dove sei nato. Là dove da bambino hai imparato 


i so Comandamìns. Ma in Sitàt?

Scolta. Là Crist a no’l basta.
A coventa la Gl’sia: ma ch’a sedi
moderna. E a coventin i puòrs.

i loro Comandamenti. Ma in Città? Là Cristo non basta. Occorre la Chiesa: ma che sia moderna. E occorrono i poveri


Tu difìnt, conserva, prea:

ma ama i puòrs: ama la so diversitàt.
Ama la so voja di vivi bessòj
tal so mond, tra pras e palàs

Tu difendi, conserva, prega: ma ama i poveri: ama la loro diversità. Ama la loro voglia di vivere soli nel loro mondo, tra prati e palazzi


là ch’a no rivi la peràula

dal nustri mond; ama il cunfìn
ch’a àn segnàt tra nu e lòur;
ama il so dialèt inventàt ogni matina,

dove non arrivi la parola del nostro mondo; ama il confine che hanno segnato tra noi e loro; ama il loro dialetto inventato ogni mattina,


par no fassi capì; par no spartì

cun nissùn la so ligria.
Ama il sorel di sitàt e la miseria
dai laris; ama la ciar da la mama tal fì.

per non farsi capire; per non condividere con nessuno la loro allegria. Ama il sole di città e la miseria dei ladri; ama la carne della mamma nel figlio


Drenti dal nustri mond, dis

di no essi borghèis, ma un sant
o un soldàt: un sant sensa ignoransa,
un soldàt sensa violensa.

Dentro il nostro mondo, dì di non essere borghese, ma un santo o un soldato: un santo senza ignoranza, o un soldato senza violenza.


Puarta cun mans di sant o soldàt

l’intimitàt cu’l Re, Destra divina
ch’a è drenti di nu, tal siùn.
Crot tal borghèis vuàrb di onestàt,

Porta con mani di santo o soldato l’intimità col Re, Destra divina che è dentro di noi, nel sonno. Credi nel borghese cieco di onestà,


encia s’a è ’na ilusiòn: parsè

che encia i parons, a àn
i so paròns, a son fis di paris
ch’a stan da qualchi banda dal momd.

anche se è un’illusione: perché anche i padroni hanno i loro padroni, e sono figli di padri che stanno da qualche parte nel mondo.


Basta che doma il sintimìnt

da la vita al sedi par diciu cunpàin:
il rest a no impuàrta, fantàt cun in man
il Libri sensa la Peràula.

È sufficiente che solo il sentimento della vita sia per tutti uguale: il resto non importa, giovane con in mano il Libro senza la Parola.


Hic desinit cantus. Ciàpiti

tu, su li spalis, chistu zèit plen.
Jo i no pos, nissun no capirès
il scàndul. Un veciu al à rispièt

Hic desinit cantus. Prenditi tu, sulle spalle, questo fardello. Io non posso: nessuno ne capirebbe lo scandalo. Un vecchio ha rispetto


dal judissi dal mond; encia

s’a no ghi impuarta nuja. E al à rispièt
di se che lui al è tal mond. A ghi tocia
difindi i so sgnerfs indebulìs,

del giudizio del mondo: anche se non gliene importa niente. E ha rispetto di ciò che egli è nel mondo. Deve difendere i suoi nervi, indeboliti,


e stà al zoùc ch’a no’l à mai vulùt.

Ciàpiti su chistu pèis, fantàt ch’i ti mi odiis:
puàrtilu tu. Al lus tal còur. E jo ciaminarai
lizèir, zint avant, sielzìnt par sempri

e stare al gioco a cui non è mai stato. Prenditi tu questo peso, ragazzo che mi odii: portalo tu. Risplende nel cuore. E io camminerò leggero, andando avanti, scegliendo per sempre 


la vita, la zoventùt.

la vita, la gioventù".







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Pasolini, LA RESISTENZA E LA SUA LUCE - Con traduzione di Brandon Brown

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro

I contributi dei visitatori

Salvatore Fittipaldi
 
 
 
Pasolini, LA RESISTENZA E LA SUA LUCE
Con traduzione di Brandon Brown
 

L’uomo non è niente altro che quello che progetta di essere.
Jean Paul Sartre


Questa «pura luce», irradiata dal gesto politico, riaccendeva il ricordo di un’altra luce intravista qualche anno prima sulle colline bolognesi di Paderno.È questa la luce originaria, la luminosità Re-esistente, che orienterà l’impegno artistico e civile del poeta, proteso a percorrere una vita che afferma la centralità di quella primigenia fonte luminosa, nella quale egli si era immerso, ancora giovane, per sortirne uomo:

Quella luce era speranza di giustizia:
non sapevo quale: la Giustizia.
La luce è sempre uguale ad altra luce.
Poi variò: da luce diventò incerta alba,
un’alba che cresceva, si allargava
sopra i campi friulani, sulle rogge.
Illuminava i braccianti che lottavano.
Così l’alba nascente fu una luce
fuori dall’eternità dello stile….
Nella storia la giustizia fu coscienza
d’una umana divisione di ricchezza,
e la speranza ebbe nuova luce.

LA RESISTENZA E LA SUA LUCE
da La religione del mio tempo, in Pier Paolo Pasolini, Bestemmia.
Tutte le poesie, vol. I, Garzanti, Milano 1993.


Così giunsi ai giorni della Resistenza
senza saperne nulla se non lo stile:
fu stile tutta luce, memorabile coscienza
di sole. Non poté mai sfiorire,
neanche per un istante, neanche quando
l’Europa tremò nella più morta vigilia.
Fuggimmo con le masserizie su un carro
da Casarsa a un villaggio perduto
tra rogge e viti: ed era pura luce.
Mio fratello partì, in un mattino muto
di marzo, su un treno, clandestino,
la pistola in un libro: ed era pura luce.
Nella soffitta del casolare mia madre
guardava sempre perdutamente quei monti,
già conscia del destino: ed era pura luce.
Coi pochi contadini intorno
vivevo una gloriosa vita di perseguitato
dagli atroci editti: ed era pura luce.
Venne il giorno della morte
e della libertà, il mondo martoriato
si riconobbe di nuovo nella luce…
Quella luce era speranza di giustizia:
non sapevo quale: la Giustizia.
La luce è sempre uguale ad altra luce.
Poi variò: da luce divenne incerta alba,
un’alba che cresceva, si allargava
sopra i campi friulani, sulle rogge.
Illuminava i braccianti che lottavano…
Così l’alba nascente fu una luce
fuori dell’eternità dello stile…
Nella storia la giustizia fu coscienza
d’una umana divisione di ricchezza,
e la speranza ebbe nuova luce.
Pier Paolo Pasolini

 
 
The Resistance and Its Light

Pier Paolo Pasolini
translated by Brandon Brown
 

so I came to the days of the Resistance
I didn’t know anything but style
it was a style made totally of light
memorable recognition
of sun. It could never fade
not even for an instant
even as Europe trembled
on its deadliest evening
we escaped from Casarsa
with our stuff in a cart
to a ruined village
among canals and vineyards it was pure light
my brother left, it was a mute morning
March, in a train, disguised
his pistol in a book it was pure light
he lived a long time in the mountains
which shone like paradise in the blue gloom
of Friulian plains it was pure light
in the attic of our farmhouse my mother
always stared at those mountains
hopeless, she saw the future it was pure light
with a few poor people I lived
a glorious life, persecuted
by despicable rhetoric it was pure light
the day of death came
Independence Day, the martyred world
knew itself again in the light…
the light was the thought of justice
I didn’t know what kind of justice
all light equal to all other light
then it changed, the light like an uncertain morning
a waxing dawn that spread all over
Friulian fields and canals
struggling workers in the light
the rising dawn was a light I mean
beyond the eternity of style
in history, justice has been
the realization of a humane
distribution of money, hope
maybe, brighter than that
new light

Fonte:http://www.poets.org/poetsorg/poem-day?utm_medium=email&utm_campaign=Poem-a-Day%20%20March%204%202015&utm_content=Poem-a-Day%20%20March%204%202015%20CID_05d7b32742832c9f3ff459fb32eef64a


Pier Paolo Pasolini rievoca in una lettera la morte del fratello Guido, iscritto a "Giustizia e libertà", ucciso in un agguato da un gruppo di partigiani di diverso orientamento ideale, comunisti vicini a Tito. Lo scrittore friulano si sente erede degli ideali civili libertari per i quali il fratello è morto.
Nel gennaio del ’45 era con Bolla e Enea a Porzùs, dove gli osovani si stavano riorganizzando dopo il disastroso rastrellamento del novembre. Frattanto Guido si era iscritto al Partito d’Azione. Il giorno in cui Bolla e Enea furono ammazzati egli si trovava a Musi con l’amico D’Orlandi per non so che missione; e stavano tornando insieme verso Porzùs. Ed ecco che alcuni loro compagni (i quali, dislocati in una malga sottostante, si erano accorti del tradimento, e si stavano ritirando), avvisarono i due ragazzi del pericolo. Ma essi non vollero saperne di tornare sui loro passi, e anzi si slanciarono di corsa verso Porzùs per portare aiuto agli amici! […] Spesso penso al tratto di strada tra Musi e Porzùs percorso da mio fratello in quel giorno tremendo; e la mia immaginazione è fatta radiosa da non so che candore ardente di nevi, da che purezza di cielo. E la persona di Guido è così viva. "

Il 21 agosto 1945 così scrisse a Luciano Serra:

"Bisognerebbe essere capaci di piangerlo sempre senza fine, perché solo questo potrebbe essere un poco pari all’ingiustizia che lo ha colpito. Eppure la nostra natura umana è tale che ci permette di vivere ancora, di risollevarci, perfino, in qualche momento. Perciò l’unico pensiero che mi conforta è che io non sono immortale; che Guido non ha fatto altro che precedermi generosamente di pochi anni in quel nulla verso il quale io mi avvio. E che ora mi è così famigliare; la terribile oscura lontananza o disumanità della morte mi si è così schiarita da quando Guido vi è entrato. Quell’infinito, quel nulla, quell’assoluto contrario ora hanno un aspetto domestico; c’è Guido, mio fratello, capisci, che è stato per vent’anni sempre vicino a me, a dormire nella stessa stanza, a mangiare nella stessa tavola. Non è dunque così innaturale entrare in quella dimensione così a noi inconcepibile. E Guido è stato così buono così generoso da dimostrarmelo, sacrificandosi pel suo fratello maggiore, forse a cui voleva troppo bene a cui credeva troppo."

Pier Paolo Pasolini
 
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Pier Paolo Pasolini - Io sono una forza del passato. Video.

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro




Pier Paolo Pasolini
Io sono una forza del passato...

[da Poesia in forma di rosa, Garzanti, Milano 1964] 

Io sono una forza del Passato.
Solo nella tradizione è il mio amore.
Vengo dai ruderi, dalle chiese,
dalle pale d'altare, dai borghi
abbandonati sugli Appennini o le Prealpi,
dove sono vissuti i fratelli.
Giro per la Tuscolana come un pazzo,
per l'Appia come un cane senza padrone.
O guardo i crepuscoli, le mattine
su Roma, sulla Ciociaria, sul mondo,
come i primi atti della Dopostoria,
cui io assisto, per privilegio d'anagrafe,
dall'orlo estremo di qualche età
sepolta. Mostruoso è chi è nato
dalle viscere di una donna morta.
E io, feto adulto, mi aggiro
più moderno di ogni moderno
a cercare fratelli che non sono più.
 







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Pasolini - La passione del '45

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro




La passione del '45

(Questa poesia P.P.Pasolini la dedicò al fratello Guido (Ermes) partigiano delle Brigate Osoppo fucilato a Porzus (Friuli) dai gappisti. )


Epigrafi

Coi tuoi occhi infossati
i capelli leggeri,
il volto deciso
il riso impetuoso
e il silenzio insistente...
Tu non chiedevi altro che meritare
le più alte delle nostre parole:
e adesso è chiaro
quel tuo pudico tacere e gridare,
quel tuo umiliarti
e adirarti.
Tu cercavi in noi, inutilmente,
il tuo cuore...
È chiaro il tuo volto sofferente,
è chiaro il tuo riso
è chiaro il tuo pudore,
è chiara la tua innocenza,
e il tuo darti agli altri
smanioso di' offrirti,
di testimoniare
con forza giovanile
il tormento,
con la violenza la pietà.
Nei tuoi ritratti,
le tue vesti, i tuoi libri,
non sentiremo più la tua vita.
La tua giovinezza
non splende per noi chinata
sulla terra dell' orto
e non splendono i tuoi capelli.
Fu un vento ignoto a spirare
sul tuo mondo, su te,
e vi ha tutto sconvolto.
Libertà, la tua bocca ridente,
Libertà, la tua fronte pallida,
Libertà, le tue spalle leggere.
Poi il vento è caduto.
Dispersa la tua vita,
stringi nel pugno la tua fede.
Dai silenzi della tua vita
torna solo la voce
della tua fede silenziosa.
Possiamo noi pronunciare le parole
per cui hai dato il tuo corpo
temendo di non dare troppo?
Italia, Libertà...
e parole più umane, amore,
E a chi non vi creda
mostra le mutate
nel terribile sangue
che era di tua madre.
Fu questo il tuo gioco
per cui tua madre attende
d'essere morta,
nient' altro,
in questa estranea terra.
Ma che cosa ci hai dato?
Qualcosa di immenso,
e tu lo sapevi,
ragazzo,
lo sapevi morendo solo
sotto gli alberi testimoni
e la neve calpestata dai piedi
che andavano alla morte.
Qui in Italia
le nubi possono ora solcare il cielo
e il vento scuotere gli alberi,
l'Isonzo e gli altri fiumi
correre al mare...
Nella nostra Italia
gli uccelli possono cantare,
esser verdi le foglie
e giocare i ragazzi.
Il sole può illuminare le acque
e la pioggia cadere
e sui monti brillare la neve.
Tu non puoi essere,
tu che ci hai dato la neve
la pioggia, la luce,
i venti, le nubi...
-
Gridiamo: Amore,
gridiamo forte Amore,
che ne risuonino i monti,
e le valli,
e tuoni nelle orecchie: Amore!
C'è un ragazzo,
un candido morto,
che vive in quel grido.

.


Fonte:

http://guerrillaradio.iobloggo.com/1330/pier-paolo-pasolini-la-passione-della-sua-poesia-per-la-resistenza

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Pasolini, Verso le Terme di Caracalla

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Verso le Terme di Caracalla
Pier Paolo Pasolini, La religione del mio tempo, 1961


Vanno verso le Terme di Caracalla
giovani amici, a cavalcioni
di Rumi o Ducati, con maschile
pudore e maschile impudicizia,
nelle pieghe calde dei calzoni
nascondendo indifferenti, o scoprendo,
il segreto delle loro erezioni...
Con la testa ondulata, il giovanile
colore dei maglioni, essi fendono
la notte, in un carosello
sconclusionato, invadono la notte,
splendidi padroni della notte...

Va verso le Terme di Caracalla,
eretto il busto, come sulle natie
chine appenniniche, fra tratturi
che sanno di bestia secolare e pie
ceneri di berberi paesi - già impuro
sotto il gaglioffo basco impolverato,
e le mani in saccoccia - il pastore migrato
undicenne, e ora qui, malandrino e giulivo
nel romano riso, caldo ancora
di salvia rossa, di fico e d'ulivo...

Va verso le Terme di Caracalla,
il vecchio padre di famiglia, disoccupato,
che il feroce Frascati ha ridotto
a una bestia cretina, a un beato,
con nello chassì i ferrivecchi
del suo corpo scassato, a pezzi,

rantolanti: i panni, un sacco,
che contiene una schiena un po' gobba,
due cosce certo piene di croste,
i calzonacci che gli svolazzano sotto
le saccocce della giacca pese
di lordi cartocci. La faccia
ride: sotto le ganasce, gli ossi
masticano parole, scrocchiando:
parla da solo, poi si ferma,
e arrotola il vecchio mozzicone,
carcassa dove tutta la giovinezza,
resta, in fiore, come un focaraccio
dentro una còfana o un catino:
non muore chi non è mai nato.

Vanno verso le Terme di Caracalla

 
Fonte:
http://www.club.it/autori/grandi/pierpaolo.pasolini/poesie.html
 
 
 
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Pasolini, L'alba meridionale

"Le pagine corsare " 
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L'alba meridionale, è un componimento inserito nel volume "Poesia in forma di rosa" (1961-1964), Garzanti, Milano 1964.

Poesia in forma di rosa, che esce, sempre da Garzanti, nel 1964 è composta da componimenti che vanno dal '61 al '63, più un lungo poemetto in appendice intitolato Vittoria ed è la più ampia delle raccolte di Pasolini.
In essa Pasolini afferma in modo ossessivo la delusione per gli sviluppi della vicenda politica e intellettuale italiana e gli pare ormai inutile tutta la dialettica, piena di illusioni, degli anni cinquanta. Il poeta, deluso e amareggiato, abiura quel mondo di ideali giovanili che ritiene perduto per sempre.
Nasce con questa raccolta il mito della "Nuova Preistoria" "quando la Società ritornerà natura" dovuto alla delusione stessa della storia e dalla presa di coscienza che "la Rivoluzione non è più che un sentimento" e a fondarla saranno i barbari, cioè le plebi meridionali e del Terzo Mondo.
La raccolta si presenta con una grande differenziazione sia tecnica che linguistica nella metrica e nello stile. I poemetti in terzine, nei quali il poeta esprime la volontà di costruire, si alternano alle sequenze di endecasillabi e ai versi tra le dieci e le tredici sillabe senza divisioni strofiche ai quali si accostano brani di prosa ritmati. Ultimo l'espediente della disposizione grafica che appare nella Seconda poesia in forma di rosa, dove le parole sono disposte in modo da richiamare la forma di un petalo di rosa.


l’alba meridionale

[ viene trascritta solo la seconda parte ]

II

Torno, ritrovo il fenomeno della fuga
del capitale, l’epifenomeno (infimo)
dell’avanguardia. La polizia tributaria
(quasi accertamento filosofia)
sugli incartamenti di un poeta)
fruga in quel fatto privato che sono i soldi,
contaminati da carità, dolenti
di inspiegabili consunzioni, e pieni
di senso di colpa, come il corpo da ragazzi:
però con mia gongolante leggerezza perché qua,
non c’è da accertare nulla, se non la mia ingenuità.
Torno, e trovo milioni di uomini occupati
soltanto a vivere come barbari discesi
da poco su una terra felice, estranei
ad essa, e suoi possessori. Così nella vigilia
della Preistoria che a tutto ciò darà senso,
riprendo a Roma le mie abitudini
di bestia ferita, che guarda negli occhi,
godendo del morire, i suoi feritori...

Torno... e una sera il mondo è nuovo,
una sera in cui non accade nulla - solo,
corro in macchina - e guardo in fondo
all’azzurro le case del Prenestino -
le guardo, non me ne accorgo, e invece,
quest’immagine di case popolari
dentro l’azzurro della sera, deve
restarmi come un’immagine del mondo
(davvero chiedono gli uomini altro che vivere?)
- case qui piccole, muffite, di crosta bianca,
là alte, quasi palazzi, isole color terra,
galleggianti nel fumo che le fa stupende,
sopra vuoti di strade infossate, non finite,
nel fango, sterri abbandonati, e resti
d’orti con le loro siepi - tutto tacendo
come per notturna pace, nel giorno. E gli uomini
che vivono in quest’ora al Prenestino
sono affogati anch’essi in quelle strie
sognanti di celeste con sognanti lumi
- quasi in un crepuscolo che mai
si debba fare notte - quasi consci,
in attesa di un tram, alle finestre,
che l’ora vera dell’uomo è l’agonia -
e lieti, quasi, di ciò, coi loro piccoli,
i loro guai, la loro eterna sera -
ah, grazia esistenziale degli uomini,
vita che si svolge, solo, come vera,
in un paesaggio dove ogni corpo è solo
una realtà lontana, un povero innocente.

Torno, e mi trovo, prima d’un appuntamento
da Carlo o Carlone, da Nino a Via Rasella
o da Nino a Via Borgognone in una zona
oggetto di mie sole frequentazioni...
Due o tre tram e migliaia di fratelli
(col bar luccicante sullo spiazzo,
e il dolore, spento nelle coscienze italiane,
d’essere poveri, il dolore del ritorno a casa,
nel fango, sotto nuove catene di palazzi)
che lottano, si colpiscono, si odiano tra loro,
per la meta di un gradino sul tram, nel buio,
nella sera che li ignora, perduti in un caos
che il solo fatto d’appartenere a un rione remoto
lo delude nel suo essere una cosa reale.
Io mi ritrovo il vecchio cuore, e pago
il tributo ad esso, con lacrime
ricacciate, odiate, e nella bocca
le parole della bandiera rossa,
le parole che ogni uomo sa, e sa far tacere.
Nulla è mutato! siamo ancora negli Anni Cinquanta!
siamo negli Anni Quaranta! prendete le armi!
Ma la sera è più forte di ogni dolore.
Piano piano i due tre tram la vincono
sulle migliaia di operai, lo spiazzo
è quello dei dopocena, sul fango, sereno,
brilla il chiaro d’una baracca di biliardi,
la poca gente fa la coda, nel vento
di scirocco di una sera del Mille, aspettando
il suo tram che la porti alla buia borgata.
La Rivoluzione non è che un sentimento.



Alba meridionale - di Pier Paolo Pasolini - legge Massimo Sannelli



Fonte:
http://www.club.it/autori/grandi/pierpaolo.pasolini/poesie.html

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Pasolini, Il pianto della scavatrice

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Eretico e Corsaro






Il pianto della scavatrice

I
Solo l'amare, solo il conoscere
conta, non l'aver amato,
non l'aver conosciuto. Dà angoscia
il vivere di un consumato
amore. L'anima non cresce più.
Ecco nel calore incantato
della notte che piena quaggiù
tra le curve del fiume e le sopite
visioni della città sparsa di luci,
scheggia ancora di mille vite,
disamore, mistero, e miseria
dei sensi, mi rendono nemiche
le forme del mondo, che fino a ieri
erano la mia ragione d'esistere.
Annoiato, stanco, rincaso, per neri
piazzali di mercati, tristi
strade intorno al porto fluviale,
tra le baracche e i magazzini misti
agli ultimi prati. Lì mortale
è il silenzio: ma giù, a viale Marconi,
alla stazione di Trastevere, appare
ancora dolce la sera. Ai loro rioni,
alle loro borgate, tornano su motori
leggeri - in tuta o coi calzoni
di lavoro, ma spinti da un festivo ardore
i giovani, coi compagni sui sellini,
ridenti, sporchi. Gli ultimi avventori
chiacchierano in piedi con voci
alte nella notte, qua e là, ai tavolini
dei locali ancora lucenti e semivuoti.
Stupenda e misera città,
che m'hai insegnato ciò che allegri e
feroci
gli uomini imparano bambini,
le piccole cose in cui la grandezza
della vita in pace si scopre, come
andare duri e pronti nella ressa
delle strade, rivolgersi a un altro uomo
senza tremare, non vergognarsi
di guardare il denaro contato
con pigre dita dal fattorino
che suda contro le facciate in corsa
in un colore eterno d'estate;
a difendermi, a offendere, ad avere
il mondo davanti agli occhi e non
soltanto in cuore, a capire
che pochi conoscono le passioni
in cui io sono vissuto:
che non mi sono fraterni, eppure sono
fratelli proprio nell'avere
passioni di uomini
che allegri, inconsci, interi
vivono di esperienze
ignote a me. Stupenda e misera
città che mi hai fatto fare
esperienza di quella vita
ignota: fino a farmi scoprire
ciò che, in ognun, era il mondo.
Una luna morente nel silenzio,
che di lei vive, sbianca tra violenti
ardori, che miseramente sulla terra
muta di vita, coi bei viali, le vecchie
viuzze, senza dar luce abbagliano
e, in tutto il mondo, le riflette
lassù, un po' di calda nuvolaglia.
È la notte più bella dell'estate.
Trastevere, in un odore di paglia
di vecchie stalle, di svuotate
osterie, non dorme ancora.
Gli angoli bui, le pareti placide
risuonano d'incantati rumori.
Uomini e ragazzi se ne tornano a casa
- sotto festoni di luci ormai sole -
verso i loro vicoli, che intasano
buio e immondizia, con quel passo blando
da cui più l'anima era invasa
quando veramente amavo, quando
veramente volevo capire.
E, come allora, scompaiono cantando.
II
Povero come un gatto del Colosseo,
vivevo in una borgata tutta calce
e polverone, lontano dalla città
e dalla campagna, stretto ogni giorno
in un autobus rantolante:
e ogni andata, ogni ritorno
era un calvario di sudore e di ansie.
Lunghe camminate in una calda caligine,
lunghi crepuscoli davanti alle carte
ammucchiate sul tavolo, tra strade di
fango,
muriccioli, casette bagnate di calce
e senza infissi, con tende per porte...
Passano l'olivaio, lo straccivendolo,
venendo da qualche altra borgata,
con l'impolverata merce che pareva
frutto di furto, e una faccia crudele
di giovani invecchiati tra i vizi
di chi ha una madre dura e affamata.
Rinnovato dal mondo nuovo,
libero - una vampa, un fiato
che non so dire, alla realtà
che umile e sporca, confusa e immensa,
brulicava nella meridionale periferia,
dava un senso di serena pietà.
Un'anima in me, che non era solo mia,
una piccola anima in quel mondo
sconfinato,
cresceva, nutrita dall'allegria
di chi amava, anche se non riamato.
E tutto si illuminava, a questo amore.
Forse ancora di ragazzo, eroicamente,
e però maturato dall'esperienza
che nasceva ai piedi della storia.
Ero al centro del mondo, in quel mondo
di borgate tristi, beduine,
di gialle praterie sfregate
da un vento sempre senza pace,
venisse dal caldo mare di Fiumicino,
o dall'agro, dove si perdeva
la città fra i tuguri; in quel mondo
che poteva soltanto dominare,
quadrato spettro giallognolo
nella giallognola foschia,
bucato da mille file uguali
di finestre sbarrate, il Penitenziario
tra vecchi campi e sopiti casali.
Le cartacce e la polvere che cieco
il venticello trascinava qua e là,
le povere voci senza eco
di donnette venute dai monti
Sabini, dall'Adriatico, e qua
accampate, ormai con torme
di deperiti e duri ragazzini
stridenti nelle canottiere a pezzi,
nei grigi, bruciati calzoncini,
i soli africani, le piogge agitate
che rendevano torrenti di fango
le strade, gli autobus ai capolinea
affondati nel loro angolo
tra un'ultima striscia d'erba bianca
e qualche acido, ardente immondezzaio...
era il centro del mondo, com'era
al centro della storia il mio amore
per esso: e in questa
maturità che per essere nascente
era ancora amore, tutto era
per divenire chiaro - era,
chiaro! Quel borgo nudo al vento,
non romano, non meridionale,
non operaio, era la vita
nella sua luce più attuale:
vita, e luce della vita, piena
nel caos non ancora proletario,
come la vuole il rozzo giornale
della cellula, l'ultimo
sventolio del rotocalco: osso
dell'esistenza quotidiana,
pura, per essere fin troppo
prossima, assoluta per essere
fin troppo miseramente umana.
III
E ora rincaso, ricco di quegli anni
così nuovi che non avrei mai pensato
di saperli vecchi in un'anima
a essi lontana, come a ogni passato.
Salgo i viali del Gianicolo, fermo
da un bivio liberty, a un largo alberato,
a un troncone di mura - ormai al termine
della città sull'ondulata pianura
che si apre sul mare. E mi rigermina
nell'anima - inerte e scura
come la notte abbandonata al profumo
una semenza ormai troppo matura
per dare ancora frutto, nel cumulo
di una vita tornata stanca e acerba...
Ecco Villa Pamphili, e nel lume
che tranquillo riverbera
sui nuovi muri, la via dove abito.
Presso la mia casa, su un'erba
ridotta a un'oscura bava,
una traccia sulle voragini scavate
di fresco, nel tufo - caduta ogni rabbia
di distruzione - rampa contro radi palazzi
e pezzi di cielo, inanimata,
una scavatrice...
Che pena m'invade, davanti a questi
attrezzi
supini, sparsi qua e là nel fango,
davanti a questo canovaccio rosso
che pende a un cavalletto, nell'angolo
dove la notte sembra più triste?
Perché, a questa spenta tinta di sangue,
la mia coscienza così ciecamente resiste,
si nasconde, quasi per un ossesso
rimorso che tutta, nel fondo, la contrista?
Perché dentro in me è lo stesso senso
di giornate per sempre inadempite
che è nel morto firmamento
in cui sbianca questa scavatrice?
Mi spoglio in una delle mille stanze
dove a via Fonteiana si dorme.
Su tutto puoi scavare, tempo: speranze
passioni. Ma non su queste forme
pure della vita... Si riduce
ad esse l'uomo, quando colme
siano esperienza e fiducia
nel mondo... Ah, giorni di Rebibbia,
che io credevo persi in una luce
di necessità, e che ora so così liberi!
Insieme al cuore, allora, pei difficili
casi che ne avevano sperduto
il corso verso un destino umano,
guadagnando in ardore la chiarezza
negata, e in ingenuità
il negato equilibrio - alla chiarezza
all'equilibrio giungeva anche,
in quei giorni, la mente. E il cieco
rimpianto, segno di ogni mia
lotta col mondo, respingevano, ecco,
adulte benché inesperte ideologie...
Si faceva, il mondo, soggetto
non più di mistero ma di storia.
Si moltiplicava per mille la gioia
del conoscerlo - come
ogni uomo, umilmente, conosce.
Marx o Gobetti, Gramsci o Croce,
furono vivi nelle vive esperienze.
Mutò la materia di un decennio d'oscura
vocazione, se mi spesi a far chiaro ciò
che più pareva essere ideale figura
a una ideale generazione;
in ogni pagina, in ogni riga
che scrivevo, nell'esilio di Rebibbia,
c'era quel fervore, quella presunzione,
quella gratitudine. Nuovo
nella mia nuova condizione
di vecchio lavoro e di vecchia miseria,
i pochi amici che venivano
da me, nelle mattine o nelle sere
dimenticate sul Penitenziario,
mi videro dentro una luce viva:
mite, violento rivoluzionario
nel cuore e nella lingua. Un uomo fioriva
IV
Mi stringe contro il suo vecchio vello,
che profuma di bosco, e mi posa
il muso con le sue zanne di verro
o errante orso dal fiato di rosa,
sulla bocca: e intorno a me la stanza
è una radura, la coltre corrosa
dagli ultimi sudori giovanili, danza
come un velame di pollini... E infatti
cammino per una strada che avanza
tra i primi prati primaverili, sfatti
in una luce di paradiso...
Trasportato dall'onda dei passi,
questa che lascio alle spalle, lieve e
misero,
non è la periferia di Roma: "Viva
Mexico!" è scritto a calce o inciso
sui ruderi dei templi, sui muretti ai bivii,
decrepiti, leggeri come osso, ai confini
di un bruciante cielo senza un brivido.
Ecco, in cima a una collina
fra le ondulazioni, miste alle nubi,
di una vecchia catena appenninica,
la città, mezza vuota, benché sia l'ora
della mattina, quando vanno le donne
alla spesa - o del vespro che indora
i bambini che corrono con le mamme
fuori dai cortili della scuola.
Da un gran silenzio le strade sono invase:
si perdono i selciati un po' sconnessi,
vecchi come il tempo, grigi come il
tempo,
e due lunghi listoni di pietra
corrono lungo le strade, lucidi e spenti.
Qualcuno, in quel silenzio, si muove:
qualche vecchia, qualche ragazzetto
perduto nei suoi giuochi, dove
i portali di un dolce Cinquecento
s'aprano sereni, o un pozzetto
con bestioline intarsiate sui bordi
posi sopra la povera erba,
in qualche bivio o canto dimenticato.
Si apre sulla cima del colle l'erma
piazza del comune, e fra casa
e casa, oltre un muretto, e il verde
d'un grande castagno, si vede
lo spazio della valle: ma non la valle.
Uno spazio che tremola celeste
o appena cereo... Ma il Corso continua,
oltre quella familiare piazzetta
sospesa nel cielo appenninico:
s'interna fra case più strette, scende
un po' a mezza costa: e più in basso
- quando le barocche casette diradano
ecco apparire la valle - e il deserto.
Ancora solo qualche passo
verso la svolta, dove la strada
è già tra nudi praticelli erti
e ricciuti. A manca, contro il pendio,
quasi fosse crollata la chiesa,
si alza gremita di affreschi, azzurri,
rossi, un'abside, pesta di volute
lungo le cancellate cicatrici
del crollo - da cui soltanto essa,
l'immensa conchiglia, sia rimasta
a spalancarsi contro il cielo.
È lì, da oltre la valle, dal deserto,
che prende a soffiare un'aria, lieve,
disperata,
che incendia la pelle di dolcezza...
È come quegli odori che, dai campi
bagnati di fresco, o dalle rive di un
fiume,
soffiano sulla città nei primi
giorni di bel tempo: e tu
non li riconosci, ma impazzito
quasi di rimpianto, cerchi di capire
se siano di un fuoco acceso sulla brina,
oppure di uve o nespole perdute
in qualche granaio intiepidito
dal sole della stupenda mattina.
Io grido di gioia, così ferito
in fondo ai polmoni da quell'aria
che come un tepore o una luce
respiro guardando la vallata
V
Un po' di pace basta a rivelare
dentro il cuore l'angoscia,
limpida, come il fondo del mare
in un giorno di sole. Ne riconosci,
senza provarlo, il male
lì, nel tuo letto, petto, cosce
e piedi abbandonati, quale
un crocifisso - o quale Noè
ubriaco, che sogna, ingenuamente ignaro
dell'allegria dei figli, che
su lui, i forti, i puri, si divertono...
il giorno è ormai su di te,
nella stanza come un leone dormente.
Per quali strade il cuore
si trova pieno, perfetto anche in questa
mescolanza di beatitudine e dolore?
Un po' di pace... E in te ridesta
è la guerra, è Dio. Si distendono
appena le passioni, si chiude la fresca
ferita appena, che già tu spendi
l'anima, che pareva tutta spesa,
in azioni di sogno che non rendono
niente... Ecco, se acceso
alla speranza - che, vecchio leone
puzzolente di vodka, dall'offesa
sua Russia giura Krusciov al mondo -
ecco che tu ti accorgi che sogni.
Sembra bruciare nel felice agosto
di pace, ogni tua passione, ogni
tuo interiore tormento,
ogni tua ingenua vergogna
di non essere - nel sentimento -
al punto in cui il mondo si rinnova.
Anzi, quel nuovo soffio di vento
ti ricaccia indietro, dove
ogni vento cade: e lì, tumore
che si ricrea, ritrovi
il vecchio crogiolo d'amore,
il senso, lo spavento, la gioia.
E proprio in quel sopore
è la luce... in quella incoscienza
d'infante, d'animale o ingenuo libertino
è la purezza... i più eroici
furori in quella fuga, il più divino
sentimento in quel basso atto umano
consumato nel sonno mattutino.
VI
Nella vampa abbandonata
del sole mattutino - che riarde,
ormai, radendo i cantieri, sugli infissi
riscaldati - disperate
vibrazioni raschiano il silenzio
che perdutamente sa di vecchio latte,
di piazzette vuote, d'innocenza.
Già almeno dalle sette, quel vibrare
cresce col sole. Povera presenza
d'una dozzina d'anziani operai,
con gli stracci e le canottiere arsi
dal sudore, le cui voci rare,
le cui lotte contro gli sparsi
blocchi di fango, le colate di terra,
sembrano in quel tremito disfarsi.
Ma tra gli scoppi testardi della
benna, che cieca sembra, cieca
sgretola, cieca afferra,
quasi non avesse meta,
un urlo improvviso, umano,
nasce, e a tratti si ripete,
così pazzo di dolore, che, umano,
subito non sembra più, e ridiventa
morto stridore. Poi, piano,
rinasce, nella luce violenta,
tra i palazzi accecati, nuovo, uguale,
urlo che solo chi è morente,
nell'ultimo istante, può gettare
in questo sole che crudele ancora splende
già addolcito da un po' d'aria di mare...
A gridare è, straziata
da mesi e anni di mattutini
sudori - accompagnata
dal muto stuolo dei suoi scalpellini,
la vecchia scavatrice: ma, insieme, il
fresco
sterro sconvolto, o, nel breve confine
dell'orizzonte novecentesco,
tutto il quartiere... È la città,
sprofondata in un chiarore di festa,
- è il mondo. Piange ciò che ha
fine e ricomincia. Ciò che era
area erbosa, aperto spiazzo, e si fa
cortile, bianco come cera,
chiuso in un decoro ch'è rancore;
ciò che era quasi una vecchia fiera
di freschi intonachi sghembi al sole,
e si fa nuovo isolato, brulicante
in un ordine ch'è spento dolore.
Piange ciò che muta, anche
per farsi migliore. La luce
del futuro non cessa un solo istante
di ferirci: è qui, che brucia
in ogni nostro atto quotidiano,
angoscia anche nella fiducia
che ci dà vita, nell'impeto gobettiano
verso questi operai, che muti innalzano,
nel rione dell'altro fronte umano,
il loro rosso straccio di speranza.
1956

 Fonte:

http://www.club.it/autori/grandi/pierpaolo.pasolini/leceneri.html

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Curatore, Bruno Esposito

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