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Biografia, lavori in corso - a breve anche il 1974 e il 1975

martedì 2 aprile 2013

P.P.Pasolini, L' ultima cena prima della morte

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro







Dove ha cenato l’ultima sera, prima di morire, Pier Paolo Pasolini? 

A Roma ci sono due ristoranti che si contendono questa fama. Uno è «Pommidoro» nel quartiere di San Lorenzo. L’altro è «Il biondo Tevere», sulla via Ostiense. Mi è capitato negli ultimi tempi di frequentarli entrambi e mi sono chiesto quale dei due fosse quello «autentico». Oppure Pasolini aveva cenato due volte? Quando da Pommidoro mi hanno mostrato l’assegno (mai incassato), con data e firma, con il quale lo scrittore aveva saldato il conto (la sera del 1° novembre 1975), ho avuto la certezza che avesse cenato lì. Ma poi ho scoperto che effettivamente era stato anche al Biondo Tevere. Basta ricostruire le ultime ore di vita dello scrittore.





Con Ninetto Davoli Pasolini cena da Pommidoro.

Poi fa un giro nei pressi della stazione Termini, dove conosce Pino Pelosi, il ‘ragazzo di vita’ con il quale decide di passare il resto della serata. I due si accordano per andare a Ostia. Sono sull’Alfa Gt di Pasolini. È sera tardi, sono passate le 23. Ma Pelosi non ha ancora mangiato. Ecco quindi che Pasolini accosta, sulla via Ostiense, presso la trattoria Il Biondo Tevere.Un ristorante tipico, molto popolare, abitualmente frequentato da Pasolini, Moravia, Elsa Morante e altri intellettuali. Lì Pasolini portava gli attori dei suoi film, spesso ragazzi di strada come Davoli o i fratelli Citti, e lì, sulla veranda affacciata sul fiume, si tenevano le riunioni di preparazione alle pellicole.
Per questo la proprietaria del ristorante, la signora Giuseppina Panzironi, non si stupisce quando, a tarda ora, vede arrivare Pasolini con un giovane ragazzo mai visto prima. «Prego professore, si accomodi ». È tardi, il ristorante sta per chiudere, ma per Pasolini non si può non fare un’eccezione. «Era la sera del 1° novembre, la festa di Ognissanti», ricorda oggi la signora Panzironi, tutt’ora attiva al ristorante che ha mandato avanti per una vita intera con suo marito, scomparso da qualche anno. «Allora era una festa molto sentita dalla gente, infatti non avevamo lavorato molto quella sera e per questo stavamo per chiudere. Ma mio marito non ebbe dubbi ad accogliere Pasolini, che era un nostro cliente abituale, una persona di poche parole ma sempre di straordinaria gentilezza». Pasolini prende per sé un semplice spuntino: una banana e una birra. Mentre per il ragazzo che è con lui ordina una cena vera e propria. I ristoratori chiudono la serranda. Quando Pasolini e Pelosi, poco dopo, lasciano il locale, la signora Panzironi e suo marito li accompagnano alla macchina.




Saranno gli ultimi a vedere lo scrittore vivo?

Quando l’indomani si diffonde la notizia dell’assassinio, la titolare del Biondo Tevere trasale:

«Quando abbiamo sentito che era stato ucciso da quel ragazzino, sia io che mio marito abbiamo pensato che non era possibile. Pasolini aveva sì più di 50 anni, ma fisicamente ben messo, atletico, sportivo. Pelosi non aveva 18 anni, era un ragazzino mingherlino e difficilmente avrebbe potuto prevaricarlo. La polizia ha. chiesto a mio marito se quella sera ci fossimo accorti per caso che qualcuno avesse seguito l’auto di Pasolini. Ma non abbiamo visto nulla. Purtroppo. È ancora un grande rammarico, quello di non aver potuto fare nulla per proteggerlo e, dopo, per aiutare le indagini ».






@Eretico e Corsaro - Le Pagine Corsare


Curatore, Bruno Esposito

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Marocco. Inseguendo Taia e Pasolini (appunti di viaggio da Salé)

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro

 


Il treno ha appena superato la stazione Rabat-ville. Mi affaccio al finestrino e vedo la torre Hassan spuntare imponente sui tetti delle case circostanti. Poco più in là c’è la casbah des Oudayas, che osserva dall’alto del suo promontorio l’incontro silenzioso tra il mare dell’Atlantico e il fiume Bouregreg.
Questo piccolo corso d’acqua, poco più di un rigagnolo, nasce nelle lontane montagne dell’Atlas. Percorre centinaia di chilometri, scavando il suo letto tra le rocce aride dell’interno, prima di gettarsi sull’oceano proprio in questo punto, separando così Rabat da Salé.
Due città vicine, “gemelle” a detta di alcuni, ma distanti in realtà dei secoli l’una dall’altra.
La prima governa la vita amministrativa e politica del paese, ed è rivestita di bei palazzi in stile coloniale e luci scintillanti. La seconda sembra aver fatto capolino nel ventesimo secolo soltanto da qualche decennio.
A Rabat ci si sposta solo per lavorare, gli affitti sono alle stelle. Salé, Sla in arabo marocchino, è diventata invece una città dormitorio, un formicaio di cemento che si estende a perdita d'occhio dietro il prezioso centro storico.
Sono due le ragioni che mi hanno spinto fin qui, a Salé, un universo affascinante ma poco conosciuto.
La prima si chiama  Abdellah Taia. La seconda, Pier Paolo Pasolini. Il giovane scrittore marocchino, nato e cresciuto proprio a Salé (oggi vive a Parigi), descrive con parole cariche di affetto i ricordi che ancora lo legano alla sua terra.
Nei suoi racconti dà voce alla miseria di Hay Salam, il quartiere popolare dove ha conosciuto la durezza della vita, e accenna ai misteri e alle leggende che ancora avvolgono la medina.



E poi c’è Pasolini.
Nel 1966 l’intellettuale friulano aveva trascorso alcuni mesi in Marocco, per cercare l’ambientazione adatta al suo Edipo re. Catturato dal sapore autentico profuso dalla città, Pasolini era tornato a Salé un anno prima di morire. Un vero colpo di fulmine.
Lo stesso Taia, rapito dalla grandezza della sua opera, racconta che Pasolini aveva scelto questo posto come soggetto e ambientazione per un nuovo film, e che qui aveva deciso di convertirsi all’islam.
Non so quanto ci sia di vero in tutto questo. Forse sono solo voci, solo fantasie, sufficienti tuttavia a stuzzicare la mia curiosità e convincermi ad inseguire le tracce dei due letterati.
Mi lascio la stazione alle spalle e mi dirigo verso le vecchie mura che ancora circondano il centro della città. Risalgono all’epoca della dinastia merinide, più o meno la seconda metà del XIII secolo, quando Salé acquisì importanza sul piano commerciale ed il suo porto, di cui oggi è rimasto ben poco, divenne uno scalo irrinunciabile per gli europei che si avventuravano nella costa atlantica.
La calce che riveste i bastioni, un tempo bianca e lucente, è ormai gialla e sporca, deturpata dagli scarichi del traffico cittadino.
Supero Bab Fes e muovo i primi passi all’interno della medina. Di colpo mi ritrovo immerso tra i vicoli stretti e chiassosi del mellah, il quartiere ebraico, almeno storicamente.
Quasi tutti gli ebrei del paese (circa 60 mila), infatti, hanno lasciato il Marocco dopo la "guerra dei sei giorni".
Sono le undici del mattino e nel mellah è l’ora del mercato, dei traffici e degli affari. Un formicaio di volti, merci e colori a cui non sono preparato. Ho in testa le storie di Taia. I suoi racconti rievocano la presenza dei corsari, che resero celebre e temuta la città per oltre tre secoli, fino all’arrivo delle potenze del nord, che ha poi aperto la strada alla colonizzazione.
Si soffermano sui “santi”, le confraternite sufi e i marabut, che vegliano numerosi a protezione degli abitanti del luogo, gli slaouis.
E’ questo che mi interessa adesso. Non è ancora il momento di abbandonarsi all’allegria del suk e di perdersi in contrattazioni infinite.
La ricerca è appena cominciata e, per quanto astratta e immaginaria, sono deciso ha proseguire nel mio intento senza concedermi distrazioni. Così, supero velocemente le strade affollate del mellah e punto dritto verso la Grande moschea, il cuore spirituale della città.
E’ lì che troverò i miei tesori. O almeno credo.
La Grande Moschea si trova dall’altra parte della medina e, per arrivarci, bisogna oltrepassare decine di strade e stradine, che al mio occhio inesperto sembrano tutte inesorabilmente identiche. Perdo ben presto l’orientamento. Provo ad imboccare qualche via a caso, nella speranza di imbattermi in un monumento noto che possa servirmi da riferimento, o di ritornare al punto di partenza. Senza successo.
Il sole comincia a farsi sentire. Intorno a me non c’è nessuno, nessuno a cui possa rivolgermi per chiedere informazioni. Solo pareti candide e vecchi portoni stuccati, alcuni intarsiati con precisione ed altri abbandonati al degrado del tempo.



L’atmosfera che si respira ha il gusto antico del mito e il sapore amaro della miseria.
Senza farci troppo caso, vengo lentamente risucchiato dall’incanto che ancora aleggia dentro la città. Un fascino privo di coordinate e dimensioni. La mia mente si perde in riflessioni e congetture quando un ragazzo magro e mal vestito si avvicina proponendomi il suo aiuto.
Si chiama Abdelillah e fa la “guida clandestina”. Ogni mattina va alla ricerca dei pochi turisti che transitano da queste parti per offrire loro i suoi servizi.
Così si guadagna la giornata. Probabilmente mi stava seguendo fin da quando ho lasciato il mellah. Il suo volto scuro è segnato da cicatrici, ai piedi porta delle ciabatte di plastica logore.
In Abdelillah riconosco subito i tratti del “ragazzo di vita”. Del resto, come scoprirò più avanti, anche lui è il prodotto di un sottoproletariato povero e violento, come i personaggi dei romanzi di Pasolini. I suoi capelli crespi mi fanno pensare al “Riccetto”. Sono sulla strada giusta. L’idea di proseguire la ricerca in compagnia di un autentico slaoui, probabilmente a conoscenza delle storie e dei racconti che vado cercando, non mi sembra così insensata.
Accetto la sua proposta e ci incamminiamo assieme verso la Grande moschea, nella zona ovest della medina, quella che confina con il cimitero e poi con il mare. Abdelillah è nato lì, ne conosce ogni dettaglio.
Proseguiamo veloci, cinque minuti di marcia e siamo di fronte alla zawiya Sidi Ahmed at-Tijani. E’ la sede della Tijaniyya, una confraternita sufi ben radicata nel tessuto sociale del paese.
Il sufismo è una caratteristica dell’islam marocchino. Almeno di quello autentico e popolare, non ufficiale.
Con i suoi marabut (una sorta di santuari) e le sue confraternite, diffusi in tutto il territorio, si discosta dai canoni classici dell’ortodossia musulmana. La tariqa Tijaniyya è una organizzazione religiosa diffusa ormai a livello internazionale.
L’accesso principale al misterioso luogo di culto è chiuso per lavori di ristrutturazione, ma dietro le impalcature si possono scorgere lo stesso alcune decorazioni in caratteri kufi (la calligrafia prende nome dalla città di Kufa, nell’attuale Iraq, altro importante centro legato alla confraternita).
Abdelillah mi informa che i fedeli, i faqir (“poveri” in arabo), ogni giorno fanno il loro ingresso dalla porta secondaria sul retro, al termine della preghiera dell’alba, per compiere i rituali collettivi: è qui che si abbandonano alla danza e all’invocazione ripetuta del santo fondatore, per cadere in trance ed entrare in contatto diretto con il divino.

Superata la Tijaniyya, arriviamo alla Grande moschea. Il perimetro è vasto e, mentre lo percorriamo, Abdellilah va avanti con le spiegazioni: “la moschea ha sette ingressi. Sei porte più piccole, aperte a turno dal sabato al giovedì, ed una più grande, riservata al venerdì, giorno di preghiera comune”.


Accanto all’immenso portale, rifinito in legno di cedro, c’è la medersa. E’ la più vecchia del Marocco, costruita all’inizio del XIV secolo dai berberi Merinidi, divenuti i sovrani di Fes.
Anche la Grande moschea risale a quell’epoca. Le decorazioni a mosaico e gli stucchi raffinati che rivestono le colonne e le pareti dell’atrio permettono alla medersa di Salé, seppur di dimensioni modeste, di gareggiare in splendore con le altre scuole coraniche del paese.
“E’ perfino più bella della Youssufiyya di Marakkech”, commenta il mio "Riccetto".
Mi sto lentamente calando in quell’universo mistico che Taia lascia trapelare dalle sue opere. Gli abitanti di Salé dimostrano tuttora un vigoroso attaccamento al culto e alle pratiche religiose, tanto che la città, eclissata dai fasti della capitale, è considerata una delle roccaforti del tradizionalismo.
Tuttavia, mentre la medina resta impregnata di una religiosità popolare, legata al sufismo, alla spiritualità e alla venerazione dei santi, i quartieri periferici hanno subito la penetrazione della predicazione salafita (“islamista”), più rigorosa e intransigente, ed in netto contrasto con la prima tendenza.
Proseguendo il cammino che dalla moschea conduce all’esterno delle mura, verso la piccola spiaggia, ci imbattiamo nel marabut di Sidi Abdallah Ibn Hassoun, il “patrono” della città.
Da quattrocento anni viaggiatori e marinai oltrepassano la soglia del santuario e depositano una piccola candela colorata sopra la tomba del sufi, nella speranza di ricevere la sua benedizione e la sua protezione, o meglio la sua baraka.
Poco più avanti, oltre il cimitero sconfinato e sobrio che si estende per tutto l’angolo nord-occidentale della città, c’è un altro marabut.
Un cubo bianco, all'apparenza spoglio, con il tetto dipinto di verde e una mezzaluna che spunta timida sopra la cupola. Il santuario di Sidi Ahmed Ben Ashir riposa solitario tra il cimitero e la spiaggia, di fronte all’immensità dell’oceano.
“Era un dottore di origine andalusa, che arrivò a Salé all’inizio dell’Ottocento. Con strani unguenti e una profonda dedizione si dedicò alla cura dei folli”, spiega Abdelillah.
Sono in molti a rivolgersi ancora oggi al “santo” per invocare la sua baraka. Taia, durante la sua infanzia, si ritrovava spesso ad accompagnare la madre fin dentro al marabut, dove questa si prendeva cura dei malati che lì trovavano rifugio durante la giornata.
“Non so per quale motivo gli volesse così bene – scrive Taia – gli portava da mangiare, latte e datteri, e rimaneva per ore a parlare con loro. Percepivo una intimità che allora non riuscivo a comprendere e che a tratti invidiavo”.
Il mio sguardo si perde tra le migliaia di tombe disseminate attorno a me, in ogni direzione. Piccole lapidi grigie, bianche, rossastre, con inciso nome e data. Niente altro. Niente fiori, niente foto, niente altari, come se i morti che qui riposano da secoli appartenessero tutti alla stessa umile classe sociale.
Abdelillah richiama la mia attenzione, invitandomi a proseguire il cammino. Sono soddisfatto dei risultati ottenuti finora dalla mia ricerca. Adesso però è arrivato il momento di abbandonare i “santi” e di mettersi sulle tracce dei celebri corsari che resero grande e temuta la città.
“Il luogo che stai cercando si chiama Suk El-Ghazel, ma prima di raggiungerlo voglio farti conoscere il fornaio del mio quartiere”, butta lì “il Riccetto”.
Nelle strade che stiamo percorrendo, di nuovo all’interno della città vecchia, Abdelillah ha trascorso gran parte della sua vita. Dopo il matrimonio si è trasferito con la moglie nei sobborghi di recente costruzione.

Incuriosito, accetto volentieri questa breve deviazione. Pochi passi e siamo già arrivati. Rachid ha un piccolo forno, nascosto dietro una porticina socchiusa, in cui cuoce il pane che le famiglie della zona preparano in casa.
Sopra tavole di legno giacciono pile e pile di impasti rotondi, che Rachid ha accumulato nel corso della mattinata. Nelle ceste, invece, ci sono le pagnotte già cotte, pronte per essere riconsegnate alle famiglie.
Dopo una chiacchierata e qualche foto, saluto il fornaio e lo lascio al suo lavoro.
Suk El-Ghazel è una piccola piazza situata più o meno nel centro della medina. A prima vista non sembra evocare nulla di così straordinario. Anzi, la definirei anonima. Sono le due di pomeriggio e in giro non c’è quasi nessuno.
In realtà molte storie, vecchie e nuove, si intrecciano proprio in questo punto della città.
Ci mettiamo a sedere e, con molta calma, Abdelillah inizia il suo racconto: “Suk El-Ghazel da decenni è il centro di riferimento di tutte le attività legate alla lavorazione della lana, una delle risorse principali di Salé. Un’antica tradizione che continua ancora oggi. E’ qui che al mattino arrivano i carri provenienti dalle regioni interne, dalle montagne del Medio Atlante”.
Portano la lana grezza. Cumuli biancastri di tessuto vergine e maleodorante inondano il terreno, mentre i tessitori, proprietari degli atelier che si affacciano sul perimetro del mercato, analizzano la merce e danno il via alle contrattazioni.
“I maestri artigiani poi la cedono ai laboratori di tintura. Una volta trattata, la lana ritorna ai tessitori che la trasformano al telaio in tappeti e coperte”. Gli chiedo dove siano finiti ora i carri, la lana e tutto il resto. “Il mercato finisce verso le undici, a volte alle dieci, se il carico di lana in arrivo è già venduto. Ma il pomeriggio, dopo la preghiera di al-Asr, il suk cambia volto. Le donne si siedono in cerchio all’ombra degli alberi e comincia l’asta per la vendita dei prodotti finiti, tappeti e coperte”, replica Abdelillah.
Manca ancora un po’ alla terza preghiera della giornata, ma in effetti una ventina di donne, nascoste dietro i loro hijab, cominciano ad ammassarsi al centro della piazza.
Tuttavia, per spiegare l’importanza che Suk El Ghazel riveste nella storia della città occorre fare un passo indietro. Fino alla seconda metà dell’Ottocento, prima dell’interesse coloniale e della vittoria delle truppe federali nella Guerra di secessione americana, non erano i tappeti e le coperte che qui venivano messi all’asta, bensì gli schiavi.
Gli europei attraccavano le loro navi al porto di Salé o della vicina Rabat (un tempo chiamata Sla jdida, "Salé la nuova") per rifornirsi di manodopera destinata alle piantagioni del nuovo mondo.
I mercanti del suk, a loro volta, acquistavano gli schiavi dai corsari, al rientro dalle spedizioni nell’Africa centrale. El Ghazel era uno degli anelli di congiunzione di quel “commercio triangolare” che caratterizzava la tratta degli uomini in catene.
“Un perno vitale per i traffici che dal Seicento all’Ottocento legavano l’Europa all’Africa e all’America”, conferma Abdelillah, che continua a sorprendermi con le sue spiegazioni. Guardandolo in faccia non lo avrei mai creduto un così fine conoscitore della città.
Le attività dei corsari, però, non si limitavano alla compra-vendita degli schiavi. Per prima cosa, la “guerra di corsa” non deve essere confusa con la comune pirateria. Era una pratica regolata da codici ben precisi, da trattati che ne definivano zone e obiettivi.
Questa attività dominò la scena mediterranea, almeno nella parte occidentale, dalla battaglia di Lepanto fino alla conquista di Algeri.
Era una guerra fatta di saccheggi, assalti e alleanze, a cui non si sottrassero nemmeno le flotte europee. I bottini, le mercanzie e i marinai appartenenti alle navi nemiche, servivano in parte a ripagare gli armatori e in parte venivano divisi tra l’equipaggio.
“I corsari di Salé si lasciarono dietro prigionieri, vedove, orfani e bastardi. Si lasciarono dietro immensi tesori, nascosti da qualche parte nelle montagne dell’Atlante. Ma soprattutto, si lasciarono dietro, ben ancorati nella memoria popolare, dei racconti incredibili, storie favolose che non moriranno mai”, confessa Abdellah Taia in una delle sue prime opere, Le rouge du tarbouche.
Comincio ad essere stanco e il mio stomaco avanza proteste timide, ma inequivocabili. Così propongo una pausa pranzo. Entriamo in un ristorante alla buona, sporco al punto giusto e non lontano dalla piazza.
Ci dividiamo un tajine di montone mezzo bruciacchiato e non troppo speziato. Inebriato dal forte odore di timo, cerco di saperne di più sul conto di Abdelillah. Siamo stati assieme quasi quattro ore, abbiamo percorso la medina in lungo e in largo, abbiamo inseguito assieme i “santi” e i fantasmi dei vecchi corsari, raccontandoci aneddoti sul passato della città e dei suoi abitanti.
Ora vorrei conoscere un po’ meglio la storia della mia “guida clandestina”. I segreti che “il Riccetto” nasconde, dietro al suo volto assolutamente poco raccomandabile, mi incuriosiscono.
Nel corpo porta i segni della violenza della miseria. Oltre alle cicatrici sulla faccia, ha il braccio sinistro inciso da decine di tagli.
“Ho trent’anni e faccio questo lavoro da quando ne avevo nove. A scuola ci sono andato poco e malvolentieri. Mia madre, allora, mi mandava a caccia dei rari stranieri che mettevano piede in città, per fargli fare il giro dei monumenti. Così portavo a casa qualche soldo”, mi confida tra un boccone e l’altro.
“Ma all’inizio conoscevo a malapena i nomi delle strade. Poi ho capito che se mi fossi impegnato veramente, dai pochi spiccioli delle mance sarei potuto passare al guadagno vero. Mio fratello, prima di morire, aveva studiato parecchio e nella sua casa c’erano ancora un sacco di libri. Li ho presi ed ho iniziato a leggerli, per imparare più cose possibili sul passato di Salé e del Marocco in generale”.
Di nozioni, aneddoti, nomi e dinastie, Abdelillah ne sa tante, non c’è che dire. Ma essere una guida preparata non gli basta per assicurare una vita decente alla moglie e al figlio.



Nel corso della chiacchierata, vengo a sapere che per arrotondare si dedica, di tanto in tanto, al commercio clandestino di hascisc.
“Solo quando gli amici vanno a prenderlo direttamente nelle montagne del Rif”, tiene a precisare. E non è tutto. Dopo una breve parentesi in carcere, più o meno cinque anni fa, è diventato un informatore della polizia, al servizio del mokaddem (ministero dell'Interno) della città.
Quelli come lui, da queste parti, si chiamano “orecchie del potere”.
Così può portare avanti i suoi piccoli affari senza problemi, lo spaccio del fumo e il lavoro di faux guide, due reati per cui sono previste, da qualche anno, delle pene piuttosto severe.
Il tajine è finito e, mentre ci gustiamo quello che resta del digestivo (un rigoroso tè alla menta), Abdelillah mi fa capire che per lui è arrivato il momento di andare. Un sottile invito a mettere mano al portafoglio per dargli quel che gli spetta.
All’inizio del giro, inebriato dall’entusiasmo e dalle aspettative della ricerca, non avevo pattuito alcuna cifra e solo adesso mi accorgo del grande errore commesso.
Vuole 250 dirham, più o meno 25 euro, una tariffa da “americani”, secondo il gergo negoziale. Non ci siamo.
Mi preparo ad una contrattazione serrata, come vuole il costume locale, e non ho alcuna intenzione di cedere. Le trattative vanno avanti per una mezz’ora, durante la quale il proprietario del locale ci offre un altro bicchiere di tè.
Alla fine arriviamo ad un accordo: 100 dirham e mezzo pacchetto di Gauloises. L’altro mezzo lo conservo per il ritorno a piedi all'Océan, il simpatico quartiere di Rabat dove vivo ormai da alcuni anni.
Lascerò perdere il treno e attraverserò il Bouregreg in una delle barchette a remi che fanno la spola tutto il giorno, per pochi spiccioli, da una riva all'altra.
Pago il conto, come stabilito. Lasciamo il ristorante e ci salutiamo con una calorosa stretta di mano, entrambi visibilmente soddisfatti. Abdelillah ha guadagnato ampiamente la sua giornata, ed io sono riuscito a penetrare parte dei misteri e delle leggende che avvolgono questa città in fondo ignota, soffocata dalla vicina Rabat e, proprio per questo, incredibilmente autentica.
Mi resta ancora un ultimo obiettivo prima di lasciare Salé. Raggiungere la spiaggia. Questa volta ho memorizzato bene le strade, percorse solo qualche ora prima assieme al “Riccetto”.
Mi incammino lungo rue al Qashashin, una via stretta e invasa dall’immondizia, che taglia in due la medina come un perfetto asse perpendicolare al mare.
Arrivo alla Grande moschea, poi ai marabut ed entro nel perimetro del cimitero. Superata l’ampia distesa di lapidi spoglie, avanzo a passi circospetti nella sottile lingua di sabbia che separa i bastioni della città dall’oceano. Il sole è già basso all’orizzonte.
I suoi raggi rimbalzano sulla superficie liscia dell’Atlantico come saette, mentre alla mia sinistra la casbah, antichi bastioni a protezione del porto corsaro, risplende di una luce irreale.
Il riflesso del sole ha velato le pareti gialle di una tinta rossastra. Nella piccola baia, una manciata di barche sta rientrando adagio verso la foce del fiume.
Pier Paolo Pasolini si rifugiava ogni sera di fronte a questo spettacolo, stregato dalla purezza di Salé e dalla semplicità genuina dei suoi abitanti.
Qui aveva trovato dei nuovi “ragazzi di vita” e l’esaltazione di quel misticismo popolare descritto con passione nelle prime opere in dialetto friulano.
Ora la mia ricerca è davvero finita. Mi siedo sulla sabbia ancora calda e aspetto il tramonto in silenzio, come era solito fare il nostro grande poeta.


fonte...OSSERVATORIOIRAQ




Curatore, Bruno Esposito

Collaborano alla creazione di queste pagine corsare:

Carlo Picca
Mario Pozzi
Alessandro Barbato
Maria Vittoria Chiarelli
Giovanna Caterina Salice
Simona Zecchi

L’ULTIMA INCHIESTA SU PASOLINI UN PM CI PUÒ DIRE PERCHÉ (E DA CHI) FU UCCISO UN POETA

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro


L’ULTIMA INCHIESTA
SU PASOLINI UN PM CI PUÒ DIRE
PERCHÉ (E DA CHI)
FU UCCISO UN POETA
VICINA A UNA SVOLTA LA NUOVA INDAGINE DELLA PROCURA ROMANA SULL’OMICIDIO.
CHE NON DOVRÀ CONCLUDERSI, PER FORZA, CON UN ALTRO PROCESSO.
MA PIUTTOSTO, CON UNA VERITÀ. CHE CONDUCE A CATANIA E AI NEOFASCISTI
di PIERO MELATI

ROMA. Mai prima di allora,in Italia, era stato ucciso un poeta. Lo ripete spesso l’avvocato Stefano Maccioni,che ha fatto riaprire, il 27 marzo del 2009, il fascicolo giudiziario sullo scrittore assassinato. Lo ha anche scritto, in un libro-inchiesta fabbricato con indagini sul campo, condiviso con la criminologa Simona Ruffini e il giornalista Domenico Walter Rizzo (Nessuna pietà per Pasolini, Editori Riuniti, 2011). Mai, in Italia, era stato ucciso un poeta. Ma perché? E da chi?

Siamo alla vigilia di una svolta, a 37 anni dal delitto. Il titolare della nuova indagine della Procura romana, diretta da Giuseppe Pignatone, il pm Francesco Minisci, riceverà a breve importanti riscontri, indiziari e testimoniali. Potrà fare un passo avanti. Oppure relegare gli atti al silenzio definitivo. O ancora, istruire una archiviazione come quella del pubblico ministero Vincenzo Calia su una indagine collegata, il caso Mattei (nessun processo sull’attentato che costò la vita al presidente dell’Eni nel 1962, decise Calia, ma una puntigliosa ricostruzione dei fatti). Dipenderà solo dai dettagli. Perché gli elefanti sono già passati. E hanno lasciato un mare di indifferenza.
Chissà perché c’è tanto livore, intorno alla morte violenta di un poeta. Perché su quel suo corpo, culturalmente gigantesco, simile a una balena arenata sulle coste della storia nazionale, ancora in tanti si vogliono nutrire. E perché, proprio su quel corpo, si accaniscono, fino a farlo sembrare vivo. Mentre invece si agita solo per inerzia, a ogni nuovo assalto. In verità è incagliato, quel corpo, e trema sotto i morsi. Ancora un morso, un altro morso ancora, e poi ancora, fino a rinnovare lo scempio. Come quella notte all’Idroscalo.

Titolo azzeccato, Nessuna pietà per Pasolini. È storia vecchia, si dice, e questo il primo morso. Non se ne deve parlare mai più, e questo è il secondo. Digeriamolo e così sia, e questo è un morso ancora. Basta col guardare la Storia dal buco della serratura, riavvolgere sempre il film della memoria. Come fanno i pistaroli, i complottisti, incarogniti per presunte verità negate sulla strategia della tensione. Che non accettano mai le verità banali (leggi pista omosessuale). E poi ancora c’è il senatore Marcello Dell’Utri, e la torbida vicenda delle 78 veline dattiloscritte relative al romanzo incompiuto Petrolio, rubate a Pasolini e fatte vedere al senatore nel marzo del 2010 da illustre sconosciuto. Perché mai ha raccontato quella storia, il senatore?

Infine, anche i parenti. Il cugino del poeta, Domenico Naldini, ha detto ai magistrati che la pista delle «pizze» rubate del film Salò, usate forse per attirare il poeta in un agguato, con la scusa di rivendergliele, non regge. Perché?
Sergio Citti, che prima di morire girò un documentario sulla scena del delitto a Ostia, sostenne che potevano essere state l’esca di un tranello. Naldini disse che no, quel furto non era stato affatto un danno. Polemiche, veleni, fronti contrapposti. Ma perché ci sono guelfi e ghibellini, in un caso come quello Pasolini? Un po’ di semplice giustizia, un po’ di pietà, un po’di verità, invece mai? Non era quello che avrebbe voluto anche Primo Levi, pur tanti anni dopo la Shoah? Oggi, per esempio, su quelle «pizze» rubate del film Salò c’è una nuova ipotesi scoperta da Maccioni e offerta agli inquirenti. Ugo De Rossi, l’assistente al montaggio dei film di Pasolini, così si è espresso:

Dove lavorava nel 1975?
«Lavoravo alla Pea, in una villa a Roma in via dell’Oceano Pacifico».

È a conoscenza di un furto di pellicole?
«Sì, certamente, in quanto stavo lavorando proprio in quel periodo sul film Salò. Vennero rubate alcune pizze di negativo scelto di tre film: due della Pea, Salò e Casanova, e uno della Rafran film di Sergio Leone, Un genio, due compari e un pollo».

È vero che per ciascuna pellicola esisteva un negativo da cui ricavare una nuova copia e pertanto il danno arrecato dal furto non era grave?
«No. Il danno era grave perché non era stata effettuata una copia del negativo che di solito viene fatta alla fine della lavorazione. Pertanto mi ricordo perfettamente che dovetti rimontare con i “doppi scarto” che erano divisi dal materiale scelto. Obbligatoriamente il risultato conseguito era diversodal montato originale».
Dunque, Pasolini avrebbe tenuto a recuperare le «pizze» originali di Salò. E quella notte di novembre del '75 si fermò all’osteria Al biondo Tevere con un biondino, con il quale fu visto giocare a pallone all’idroscalo di Ostia nei giorni precedenti. Un identikit che non corrisponde a quello di Pino Pelosi, presunto assassino reo confesso. Chi era? Il proprietario dell’osteria lo descrisse dapprima come l’opposto di Pelosi, poi avrebbe riconosciuto Pelosi in una foto e disse che era lui. Dubbio: che foto gli venne mai mostrata? La foto non è agli atti e l’uomo è deceduto. Sua moglie, che pure vide il biondino in osteria con Pasolini, dice oggi che non poteva essere Pelosi.

Si attende a breve anche il risultato delle analisi condotte dal Ris di Roma sui reperti di quella notte. Maccioni e Ruffini hanno ottenuto la riapertura dell’inchiesta (in rappresentanza del cugino del poeta, Guido Mazzon) in base all’argomento che le tecniche investigative di oggi consentono risultati impensabili nel 1975. «Ci sono voluti dieci anni perché quei reperti venissero inscatolati, altri 25 perché vi si frugasse dentro», affermano Maccioni e Ruffini.

Che cosa c’è negli scatoloni? Indumenti,la tavoletta con cui Pelosi affermò di avere picchiato Pasolini, i libri che il poeta aveva l’ultima notte (uno si intitola Sull’avvenire delle nostre scuole). Cosa si cerca? Impronte digitali, Dna, capelli. Tracce genetiche differenti da quelle di Pasolini e di Pelosi. Cosa significherebbero? Che Pelosi, all’Idroscalo, non era solo.

A dire il vero, dopo tanti anni, è lo stesso Pelosi a sostenerlo. Nella sua autobiografia, Io so... come hanno ucciso Pasolini (Vertigo, 2011), nelle interviste concesse a Franca Leosini (Ombre sul giallo, Rai3), al blog di Beppe Grillo, ai giornalisti Lo Bianco e Rizza (Profondo nero, Chiarelettere, 2006). E chi c’era con lui? I veri assassini, dirà, perché lui Pasolini tentò anche di difenderlo, e un tipo con la barba lo minacciò. Erano in tanti, alcuni a bordo di un’auto con la targa di Catania (ma in un secondo momento Pelosi negherà di aver parlato della targa).

Esiste poi la vicenda dell’Alfetta, portata in una carrozzeria per essere riparata, macchiata di sangue, che si sarebbe schiantata durante la fuga all’Idroscalo, dopo aver investito il corpo già martoriato del poeta. Ci sono due testimoni. E c’è la storia misteriosa di un uomo, Antonio Pinna, un autista della mala romana, sparito nel nulla quando vennero arrestati i fratelli Borsellino, neofascisti romani, entrambi deceduti, che Pelosi accusa di essere stati con lui sul luogo del delitto.

Ci sono le grida, le parole, come un urlo di Munch all’Idroscalo. C’è la versione del parente di un testimone, rintracciato dal cronista del Messaggero Claudio Marincola, che ha visto un gruppo di persone picchiare un uomo, che gridava: «Mamma, mamma, aiuto, mamma». E ci sono gli insulti, che Pelosi dice di aver sentito pronunciare agli aggressori. Dialetto siciliano. Anzi, catanese. «Sporco comunista». E quell’oltraggio sputato con le botte, arrusu, che si usa solo nelle borgate etnee.

Merito di Rizzo, in una puntata di Chi l’ha visto, aver fatto dire a Pelosi che l’avvocato che gli «consigliò» di accollarsi da solo l’omicidio, Rocco Mangia, lui non lo aveva scelto. Gli era piovuto dal cielo, quel «principe del Foro», a difendere gratis un pischello borgataro. Mangia perorava la causa dei tre fascisti «mostri del Circeo» (torturarono e violentarono Stefania Lopez, uccisa, e Donatella Colasanti) e dell’ex parà Sandro Saccucci. Grazie a lui, Pelosi ebbe come consulente Aldo Semerari (P2 e Ordine Nuovo), decapitato poi dalla camorra. Infine c’è Catania. Dove PPP andava e aveva casa. Dove aveva conosciuto i fascisti marchettari. Sempre curioso, li interrogava, magari sognava scene alla Salò. E magari, ipotizza l’avvocato Maccioni, parlava dell’attentato a Mattei, concepito a Catania. E di mafia, di bombe, di stragi.

PIERO MELATI

Fonte: IL VENERDI DI REPUBBLICA DEL 03-08-2012


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Bernardo Bertolucci: dopo il '68 narro dei tupamaros

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro


Bernardo Bertolucci: dopo il '68 narro dei tupamaros
Il grande regista parla di periferie parigine, intellettuali, poesia e psicoanalisi.
E di cinema italiano: quello di Crialese, Garrone, Sorrentino, Moretti...

Bernardo Bertolucci, regista di film molto amati e qualche volta molto odiati, è cresciuto respirando poesia. I versi del padre Attilio gli restituivano rivestito di sogno il microcosmo in cui viveva: la gramigna che bruciava nei campi, la nebbia fra le gaggie, i ragazzi smemorati intorno a un fuoco, le ginestre «grame e splendenti» sulle pendici dell'Appennino. «Per non far trascolorare quel mondo, per fermare la sparizione di quei valori», il 27 novembre a Parma, città d'origine della famiglia, verrà consegnato il premio internazionale di poesia intitolato al padre. Nella sua silenziosa casa romana Bernardo si muove impugnando due lunghi e sottili bastoni. Gli servono per camminare dopo una faticosa riabilitazione: «Sono molto in voga tra gli anglosassoni perché invitano a una corretta postura. La chiamano nordic walking» sorride. La sua fama internazionale non ha soffocato le radici parmensi, amate, rifiutate e di nuovo apprezzate, quelle di cui la sua vena si alimenta per raccontare il Novecento emiliano ma anche L'ultimo imperatore di Cina, i sognatori sessantottardi di Parigi, o i tupamaros del prossimo film.

Dopo i ragazzi del '68 i tupamaros?
La settimana scorsa ho finito la prima versione della sceneggiatura. È tratto da un romanzo americano che si intitola Belcanto, di Ann Patchett. In Usa è stato un grande successo, più di 1 milione di copie (in Italia è edito da Neri Pozza, ndr). Come sempre quando un mio film è tratto da un libro c'è una grande libertà di reinterpretare. Insomma, di ritrovare l'occasione, come fosse la prima volta.
Che storia racconta?
La storia di Belcanto è ispirata a un fatto di cronaca. Anni fa la residenza dell'ambasciatore giapponese a Lima venne invasa dai tupamaros durante una grande festa con ospiti importanti, musica, abiti da sera, smoking. I guerriglieri cercavano il presidente Alberto Fujimori, che non c'era, e rimasero bloccati con una cinquantina di ostaggi per più di tre mesi. È interessante, nel romanzo, quello che accade tra gli ostaggi e i rapitori, dopo un po' non si distinguono più gli uni dagli altri. L'atmosfera ricorda un po' L'angelo sterminatore di Luis Buñuel. Alla fine le forze speciali fecero irruzione e uccisero in blocco il commando.

Lei ha detto che il cinema parla sempre del presente...
Questo film parlerà della differenza che c'è tra quello che accade oggi e ciò che è accaduto pochissimo tempo fa. L'episodio a cui mi ispiro avvenne tra la fine del 1996 e l'aprile del 1997, eppure c'è una distanza enorme. Penso che i tupamaros fossero più guerriglieri che terroristi. Ma non voglio dire di più.

C'è una grande differenza anche tra la rivolta degli anni Sessanta, Settanta e quella esplosa oggi nella banlieue francese.
Quello del 1968 era un movimento borghese e piccolo borghese, con una testa, un'avanguardia che prendeva decisioni, mentre questo movimento mi dà una sensazione di pura spontaneità, non esiste un'élite che guida i ragazzi della banlieue. Sa qual è l'etimologia di banlieue? Lieu, luogo; banni, bandito, escluso. I «banlieusard» vengono da un luogo per definizione stessa emarginato. Quello che li fa infuriare è questa finta identità francese: sono nati in Francia, hanno passaporto francese, hanno studiato lì e alla fine non sono veramente francesi perché non trovano lavoro. Per loro la nazionalità è una pura illusione.

Non le piacerebbe come soggetto?
È un film che hanno fatto, e continuano a fare, i francesi. L'odio di Mathieu Kassovitz era qualcosa di abbastanza profetico, come a volte il cinema sa essere. Le scene di caccia in La regle du jeu di Jean Renoir, un film del 1939, erano una profezia sulla tragedia che stava per esplodere in Europa. Il cinema, proprio per il suo carattere visionario, ha questa capacità di guardare avanti.

Dei cineasti italiani lei parla poco. Si riferisce a volte con affetto a Marco Bellocchio, divergenze a parte, ma non cita altri. E Nanni Moretti? E Marco Tullio Giordana?
Non è così, probabilmente sono ormai così defilato, proprio perché non sopportavo più questo soffoco, che non mi capita di entrare nel merito. Oggi c'è un cinema italiano che fa finalmente respirare: Respiro, per l'appunto, di Emanuele Crialese, L'imbalsamatore di Matteo Garrone, e poi Paolo Sorrentino, Pappi Corsicato. Qualche Giordana... Moretti è un caso a sé, ha fatto un suo percorso molto speciale.
A quale «soffoco» allude?
Gli anni della corruzione hanno innescato un processo di soffocamento, è stato il momento in cui l'incubo di Pier Paolo Pasolini si è materializzato.

Il 27 novembre, a Parma, il video dello spettacolo diretto da suo fratello Giuseppe e recitato da Fabrizio Gifuni «'na specie de cadavere lunghissimo» ricorderà Pier Paolo Pasolini. Che cosa l'ha colpita di più delle commemorazioni a trent'anni dalla morte?
La cosa che mi colpisce di più, dal giorno della sua morte, il 2 novembre 1975, è l'incredibile presenza della sua assenza: c'è un buco, una ferita in nessun modo rimarginata. Nella musica generale manca quella voce. Negli ultimi tempi c'è stata in molti la tentazione di buttare via il Pasolini poeta e di salvare il regista. Operazione miserella. Il fatto che fosse un poeta civile, attento alle ideologie politiche, non vuol dire che non è stato un grande poeta. Dove ritrovare quella febbrile intensità? I suoi film sono bellissimi, le odi straordinarie. Nel periodo in cui girava Salò, collaborava al Corriere della sera, ha avuto una visione implacabile di quello che sarebbe accaduto nel nostro Paese. L'assalto all'ambasciata giapponese a Lima occupata dai tupamaros nel 1996

Qualche giovane si chiede se Pasolini oggi avrebbe capito i leghisti...
Avrebbe parlato di sottocultura, un vocabolo che usava spesso.

Lei esordì come poeta, poi passò al cinema come assistente di Pasolini in «Accattone». Che cosa le ha insegnato?
Lasciai la poesia perché mio padre era più bravo di me. Per un certo momento non sopportai più neppure la parola poetico, che lui usava moltissimo. Poi arrivò Pasolini: anche lui diceva sempre «poetico/a», era un modo per tagliare corto, se una cosa era poetica, voleva dire che andava bene. Allora io ero molto preso dalla Nouvelle vague e da Jean-Luc Godard, quello era il cinema che sognavo di fare un giorno, di sperimentazione, di rischio. Con Pier Paolo è stato come vedere la nascita del cinema, come essere accanto a David Griffith, un primo film che sentivo essere già un classico.
Il suo cinema è molto vicino alla psicoanalisi.
A Londra la British psychoanalitic society mi ha appena dato una honorary fellowship. Non è mai stata conferita a un non psicoanalista. La motivazione era che i miei film sono molto vicini alla lezione freudiana. Li ho fatti ridere dicendo: «Credevo mi aveste dato questa onorificenza in quanto unico sopravvissuto di quella che Freud chiamava analisi interminabile». Quella che dura tutta la vita. Io infatti ho cominciato a 28 anni e a 64 non ho ancora smesso. In Italia l'anno prossimo mi daranno il premio Cesare Musatti, il patriarca.

C'è anche Woody Allen.
Sì, ma lui ha il dente avvelenato, gli analisti li tratta male.

Lei ha una moglie inglese, Clare Peploe, e vive spesso a Londra.
Londra è una città con una offerta culturale che è quasi uno spreco. Ma negli ultimi tempi Roma ha cominciato a scuotersi dal torpore millenario.

Parla bene di Walter Veltroni perché da ragazzo fu l'unico a difendere «Novecento»?
Non era solo, c'era un gruppetto. E c'erano altri che difesero il povero Novecento, massacrato dai vecchi comunisti, condannato senza possibilità di redenzione, da Gian Carlo Pajetta, Giorgio Amendola, perché veniva a rompere le scatole in un momento in cui si parlava di compromesso storico, perché aveva un'aria in qualche modo estremistica. E poi Veltroni tra tutti i politici è quello che si interessa più di cinema, ne scrive addirittura.

Che cos'era Parma per suo padre?
C'era un microcosmo di cui era il monarca assoluto, fatto da borghi come Baccanelli, Casarola e da Parma, con qualche blitz fuori, a Roma, considerata luogo d'esilio. Aveva creato intorno a Parma, che chiamava «la petite capitale d'autrefois», a queste case, un'aura molto speciale. Aveva recuperato tutto quello che c'è di straordinario nel passato della nostra città, dagli scalpellini del Battistero, tra i quali l'Antelami, ai sublimi Correggio e Parmigianino, per poi arrivare all'impronta francese di Maria Luigia, una traccia questa, rimasta anche nel dialetto. Era così forte il suo attaccamento a quei luoghi, che quando mi sono trovato a passare di là meno frequentemente, ho avuto la sensazione che fossero frutto di un suo sogno, che stava un poco svanendo. Perciò quando il critico Paolo Lagazzi ha proposto a me e Giuseppe di creare una fondazione e un premio, ci è parsa un'ottima idea.

Ha senso oggi la condizione dell'intellettuale?
L'intellettuale è spesso contro tutto per mestiere, ma è anche quello che meglio capisce che cosa vuol dire la conservazione in senso positivo, la conservazione della memoria.

Lei è snob?
La parola mi fa subito venire in mente una cosa ridicola «La signorina snob», grande invenzione di Franca Valeri... Esistono persone che sono più vicine a espressioni di grande sofisticazione, sottigliezza. Io non mi sento affatto snob. Mi sento che ho un bisogno terribile di fare un film, sapere che ci sono ancora.

fonte: PANORAMA.it


  

Curatore, Bruno Esposito

Collaborano alla creazione di queste pagine corsare:

Carlo Picca
Mario Pozzi
Alessandro Barbato
Maria Vittoria Chiarelli
Giovanna Caterina Salice
Simona Zecchi

Pasolini, note a piè di pagina

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro

Note, a piè di pagina
di Gianluca Veltri

Mariano Deidda, che canta poemi d’altri – Pessoa, Deledda, Pavese –, ama pensare che i grandi poeti abbiano scritto quei versi proprio perché lui li cantasse, né più né meno di come Mogol creava strofe per Battisti.
Senza dover ricorrere a Deidda, fautore di un’intrinseca necessità letteraria nella musica leggera (e che peraltro appartiene a un’altra leva), è forte l’impressione che i cantautori delle ultime generazioni si nutrano di suggestioni poetiche e cinematografiche in maniera più netta, o forse più evidente, rispetto ai fratelli maggiori. Sarà la ricerca di una patente, o un plus di credibilità. Certo, prima c’era De André che metteva su disco l’Antologia di Spoon River o i vangeli apocrifi. Ci sono De Gregori, Fossati, Conte e Guccini, le cui canzoni sono sempre grondanti di travasi letterari. Ma il crossover tra la musica e la letteratura, il cinema, il teatro, sembra essere una delle cifre del cantautorato – indie o meno – anni Zero.
Prendete Pasolini. Entra e esce continuamente. Il feticcio dei suoi “occhiali neri” – o dei suoi “occhiali scuri” – è citato in due canzoni recenti di giovani cantautori, Cercasi anima di Francesco Di Martino e Anidride carbonica di Vasco Brondi. Nomination immancabile nel canzoniere dei Baustelle, tra i capostipiti di certe tendenze citazioniste della nueva canción italiana (da ultime, la scomparsa delle rane, la “gioia corsara”…), PPP è un idolo di cartone per i Tre Allegri Ragazzi Morti, che hanno realizzato un DVD dallo spettacolo-film Pasolini, l’incontro, dopo anni di date in giro per l’Italia. L’opera dei TARM è un documento fondativo per il percorso che stiamo esplorando: le parole del poeta di Casarsa vengono macchiate, deformate, cancellate, in una simbosi musical-letteraria inestricabile. La poesia, che non è merce, non deperisce, e risorge; oppure continua a scorrere come un fiume che non si essicca mai. Dice il disegnatore, cantante e chitarrista dei Tre Allegri Ragazzi Morti, Davide Toffolo, che ha realizzato anche i disegni dello spettacolo: «Pasolini è praticamente diventato uno del gruppo». Toffolo tratteggia e scrive, tenendo unito il filo narrativo. E scrive frasi pasoliniane, come “I maestri sono fatti per essere mangiati”.
L’autore degli Scritti corsari è un chiodo fisso anche per Alessandro Raina degli Amor Fou, che riflette: «Pasolini era destinato suo malgrado a diventare un’icona, e quasi sempre, quando qualcuno diventa un’icona non fa in tempo a essere veramente capito che già si ritrova sotto forma di santino nelle macchine o sulle magliette che indossiamo». Raina non è tenero con il “brand Pasolini”: «In un’Italia povera di outsider Pasolini non poteva che diventare un adesivo multiuso, qualcosa che, per larga parte di chi è o si ritiene un intellettuale, non si discosta molto da ciò che rappresenta Padre Pio per la componente più popolare dei fedeli». Pasolini è stato anche un grande regista, e questo è un altro link forte: proprio gli Amor Fou hanno realizzato il videoclip del brano Dolmen utilizzando le immagini di Milano Nera, misterioso film di culto risalente ai primi anni Sessanta con la sceneggiatura di Pierpaolo Pasolini.

Il cinema italiano è una fonte di ispirazione inesauribile. La musica è una colonna sonora immaginaria di un film sull’Italia dell’ultimo mezzo secolo. Il cinema entra nella musica e viceversa, in uno scambio di linfa. Cocaina di domenica, per restare agli Amor Fou, era il titolo del primo episodio (regia di Franco Rossi) di Controsesso, film del ’64. Hermann, l’ultimo album di Paolo Benvegnù, viene presentato dal suo autore come colonna sonora di un omonimo film, che però non è stato mai girato. Nessuna sorpresa, per un artista il cui album di debutto si intitolava già Piccoli fragilissimi film. I tredici brani di Hermann sono scritti e diretti come altrettanti ciak cinematografici, pronti per una fruizione visiva. Benvegnù ha messo insieme un mosaico di suggestioni letterarie (Melville, Sartre). Elemento fondante di un reticolato di rimandi e ammiccamenti, allusioni e link, il gioco della citazione letterario-cinematica è il tassello di una memoria condivisa. Un musicista post-moderno e colto come Rodolfo Montuoro non teme di mettere in musica l’incantamento provenzale di un sonetto dantesco, vestendo di suoni dark e post-rock Guido i’ vorrei che tu e Lapo e io. E un cantautore pienamente immerso in una temperie pop come Dario Brunori confessa che tutto il suo secondo album Poveri Cristi è nato come una serie di corti, influenzato dal cinema neorealista, dai film di Germi, De Sica, Pasolini (ahi). I personaggi delle sue canzoni sono antieroi che sembrano uscire da uno schermo in b/n, come il protagonista di La rosa purpurea del Cairo. Secondo Diego Palazzo degli Egokid, «il citazionismo è un elemento fondante della composizione pop, al punto che non esiste pop music se non c’è citazionismo». Non la pensa allo stesso modo Alessandro Raina: «Non c’è mai stato citazionismo, almeno non volontario, nelle canzoni degli Amor Fou. Non è detto che citare sia il compito di chi fa musica; noi avevamo bisogno di confrontarci e citare certe cose per trovare una nostra identità e, probabilmente, arrivare a camminare sulle nostre gambe sentendoci meno dipendenti da un certo background».
I cantautori di una volta diventavano a loro volta poeti, i letterati del domani, conquistando le pagine dei sussidiari scolastici. Entravano nella cultura ufficiale. Ma anche oggi alcuni autori sono un punto d’incontro potente di musica e arte letteraria, e forse, chissà, li leggeremo sui libri di testo del domani. Pensiamo a Pierpaolo Capovilla e Emidio Clementi.
Trascinare il poeta «negli abissi della contemporaneità in cui persistono le nostre vite»: per Pierpaolo Capovilla del Teatro degli orrori la scelta letteraria è una avocazione dettata dalla credibilità. Capovilla ha scelto per la sua band un nome ispirato al “teatro delle crudeltà” di Antonin Artaud, parafrasandolo e non assumendolo in toto per una forma di rispetto verso l’originale. Il secondo album del gruppo si intitola come un capolavoro della letteratura del Novecento, A sangue freddo di Truman Capote. Il vate che sta dietro Capovilla è Vladimir Majakovsij, il poeta russo dal quale il leader del Teatro degli orrori ha tratto lo spettacolo teatrale Eresia. «Grazie a Majakovsij disveleremo gli antri bui della nostra epoca», scrive Capovilla nel libretto del DVD, «perché Majakovskji combatte anche oggi, nei nostri cuori e nelle nostre coscienze, le assurdità di ogni giorno». Portavoce di un bisogno di giustizia e essenzialità, verità e neo-fratellanza, l’omelia majakovskiana diventa in mano a Capovilla un’arma: odio salvifico per maledire milionari sudici, ladri e faccendieri. Il caso di crossover letterario e etico che ha per protagonista Capovilla è esemplare: si veicola il prestigio e la forza di un autore, un letterato del passato, per inviare un messaggio di semplicità e chirurgica esattezza, di affidabilità. La propria serietà innesca il corto circuito, facendo il resto. Capovilla è esemplare anche perché dà conto di un doppio canale sempre più frequentato, quello del frontman rock fortemente letterarizzato, ossia autore di opere esplicitamente letterarie. Emidio Clementi dei Massimo Volume è di questa tendenza la massima espressione, probabilmente. I suoi Massimo Volume sono la Casa delle Culture dell’art-noise italiano, le stanze dello spoken word del fine dicitore Clementi. Dopo dieci anni di silenzio, il gruppo è tornato a incidere dischi. Clementi ha pubblicato in poco più di dieci anni ben sei libri; nelle canzoni il suo ruolo non sembra tanto diverso da quello dello scrittore. Solo che con i Massimo Volume le sue parole abitano non dentro le pagine scritte, bensì dentro i suoni ambient creati dal gruppo. Per i MV la credibilità e il carisma sono insiti, la letterarietà è acquisita nel marchio di fabbrica, ma ciò non ha loro impedito di intitolare il pezzo iniziale del loro ultimo lavoro con il nome di uno scrittore, Robert Lowell. Con Pierpaolo Capovilla e Emidio Clementi siamo un poco più distanti dal pop, e più prossimi a territori art, teatralizzanti, iper-letterari. Capovilla, Clementi, Toffolo, Bianconi. Ma anche Cristiano Godano, Cristina Donà, Manuel Agnelli, Giovanni Lindo Ferretti. Musicisti che scrivono libri. L’indie-rock italiano è un bagno di note e pagine, nel quale sembra inevitabile sovrapporre i piani, aggrovigliare le urgenze e le suggestioni.

di Gianluca Veltri
[Pubblicato su Mucchio selvaggio n. 686, Settembre 2011]
Fonte: Nazioneindiana


 
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Pier Paolo Pasolini: La sceneggiatura come “struttura che vuol essere altra struttura”

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Pier Paolo Pasolini: La sceneggiatura come “struttura che vuol essere altra struttura” 
 

Tratto da: Empirismo eretico, raccolta di saggi
scritta da Pier Paolo Pasolini e pubblicata da
Garzanti nel 1972 
 
Il dato concreto del rapporto tra cinema e letteratura è la sceneggiatura. Non mi interessa però tanto osservare la funzione mediatrice della sceneggiatura, e l'elaborazione critica dell'opera letteraria che essa conduce, “integrandola figuralmente” con la prospettiva altrettanto critica dell'opera cinematografica che essa presuppone. 
In questa nota quello che mi interessa della sceneggiatura è il momento in cui la sceneggiatura può essere considerata una “tecnica” autonoma, un'opera integra e compiuta in se stessa. Prendiamo il caso di una sceneggiatura di uno scrittore, non tratta da un romanzo e – per una ragione o l'altra – non tradotta in film.
Questo caso ci presenta una sceneggiatura autonoma: che può rappresentare benissimo una vera e propria scelta dell'autore: la scelta di una tecnica narrativa. 
Qual è il canone di giudizio per una simile opera? Se la si considera completamente appartenente alle “scritture” – cioè nient'altro che il prodotto di un “tipo di scrittura “ il cui elemento fondamentale sia quello di scrivere attraverso la tecnica della sceneggiatura – allora essa va giudicata nel solito modo con cui si giudicano i prodotti letterari, e precisamente come un nuovo “genere” letterario, con la sua prosodia e la sua metrica particolari ecc. ecc. 
Ma facendo questo, si compirebbe una operazione critica errata e arbitraria. Se nella sceneggiatura non c'è l'allusione continua a un'opera cinematografica da farsi, essa non è più una tecnica, e il suo aspetto di sceneggiatura è puramente pretestuale (caso che non si è ancora dato). Se dunque un autore decide di adottare la “tecnica” della sceneggiatura come opera autonoma, deve accettare insieme l'allusione a un'opera cinematografica “ da farsi “, senza la quale la tecnica da lui adottata è fittizia – e quindi rientra direttamente nelle forme tradizionali delle scritture letterarie. 
Se invece accetta, come elemento sostanziale, struttura, della sua “ opera in forma di sceneggiatura “, l'allusione a un'opera cinematografica-visualizzatric
e “ da farsi “, allora si può dire che la sua opera è insieme tipica (ha caratteri veramente simili a tutte le sceneggiature vere e proprie e funzionali) e autonoma nel tempo stesso. 
Un momento simile c'è in tutte le sceneggiature (dei film ad alto livello): ossia tutte le sceneggiature hanno un momento in cui sono delle “tecniche” autonome, il cui elemento strutturale primo è il riferimento integrativo a un'opera cinematografica da farsi. 
In tale senso una critica a una sceneggiatura come tecnica autonoma, richiederà ovviamente delle condizioni particolari, così complesse, così determinate da un viluppo ideologico che non ha riferimenti né con la critica letteraria tradizionale, né con la recente tradizione critica cinematografica – da richiedere addirittura l'ausilio di possibili codici nuovi. 
Per es., è possibile servirsi del codice stilcritico nell'analisi di una “sceneggiatura“? Può darsi che sia possibile, ma adattandolo a una serie di necessità che quel codice non aveva decisamente previsto tanto da non riuscire che fittiziamente a coprirle. Infatti, se l'esame istologico condotto su un campione prelevato dal corpo di una sceneggiatura è analogo a quello che si conduce su un'opera letteraria, esso destituisce la sceneggiatura del suo carattere che, come abbiamo visto, è sostanziale: l'allusione a un'opera cinematografica da farsi. L'esame stilcritico ha sotto gli occhi la forma che ha: esso stende un velo diagnostico anche su ciò che potrebbe preventivamente sapere, figurarsi su ciò che non sa realmente, non solo come cognizione, ma come ipotesi di lavoro! 
L'osservazione sull'infinitesimo riproducente il tutto – che conduce a una ridefinizione storico-culturale dell'opera – nel caso della sceneggiatura mancherà sempre di qualcosa: ossia di un elemento interno della forma: un elemento che lì non c'è, che è una “ volontà della forma “. 
(Una volta presa coscienza del problema, probabilmente uno stilcritico può adattarvi la sua indagine: tuttavia il dato essenziale della stilcritica, quello di agire sul concreto, viene eluso: praticamente non si può “avvertire” questa “volontà della forma “ da un particolare della forma. Tale volontà va presupposta ideologicamente, deve far parte del codice critico. Nel dettaglio essa non è che un vuoto, una dinamica che non si concreta, è come un frammento di forza senza destinazione, che si traduce in una rozzezza e incompletezza della forma, da cui lo stilcritico non può dedurre che una rozzezza e incompletezza di tutta l'opera: e magari dedurne una sua qualità di appunto, di opera da farsi ecc. ecc. E con ciò non si è tenuto al punto critico giusto, che deve piuttosto preventivare e supporre tale conclusione come parte integrante dell'opera, come sua caratteristica strutturale ecc. ecc.) 
La caratteristica principale del “ segno” della tecnica della sceneggiatura, è quella di alludere al significato attraverso due strade diverse, concomitanti e riconfluenti. Ossia: il segno della sceneggiatura allude al significato secondo la strada normale di tutte le lingue scritte e specificamente dei gerghi letterari, ma, nel tempo stesso, esso allude a quel medesimo significato, rimandando il destinatario a un altro segno, quello del film da farsi. Ogni volta il nostro cervello, di fronte a un segno della sceneggiatura, percorre contemporaneamente queste due strade – una rapida e normale, e una seconda lunga e speciale per coglierne il significato. 
In altre parole: l'autore di una sceneggiatura fa al suo destinatario la richiesta di una collaborazione particolare, quella cioè di prestare al testo una compiutezza “ visiva “ che esso non ha, ma a cui allude. Il lettore è complice, subito – di fronte alle caratteristiche tecniche subito intuite della sceneggiatura – nell'operazione che gli è richiesta: e la sua immaginazione rappresentatrice entra in una fase creativa molto più alta e intensa, meccanicamente, di quando legge un romanzo. 
La tecnica della sceneggiatura è fondata soprattutto su questa collaborazione del lettore: e si capisce che la sua perfezione consiste nell'adempiere perfettamente questa funzione. La sua forma, il suo stile sono perfetti e completi quando hanno compreso e integrato in se stessi queste necessità. L'impressione di rozzezza e di incompletezza è dunque apparente. Tale rozzezza e tale incompletezza sono elementi stilistici. 
A questo punto succede un dramma tra i vari aspetti sotto cui si presenta un “ segno “. Esso è insieme orale (fonema), scritto (grafema) e visivo (cinèma). Per una serie incalcolabile di riflessi condizionati della nostra misteriosa cibernetica, noi abbiamo sempre compresenti questi aspetti diversi del “segno” linguistico, che è dunque uno e trino. Se apparteniamo alla classe che detiene la cultura, e sappiamo dunque almeno leggere, i “grafemi “ ci si presentano subito come “ segni “ tout court, arricchiti infinitamente dalla compresenza del loro “fonema “ e del loro “ cinèma “. 
Ci sono già, nella tradizione, certe “scritture “ che rimandano il lettore a un'operazione analoga a quella che abbiamo qui sopra descritta: per es., le scritture della poesia simbolista. Quando leggiamo una poesia di Mallarmé o di Ungaretti, davanti alla serie dei “ grafemi “ che sono in quel momento davanti ai nostri occhi – i linsegni – noi non ci limitiamo a una pura e semplice lettura: il testo ci richiede di collaborare “ fingendo” di sentire acusticamente quei grafemi. Esso cioè ci rimanda ai fonemi. Che sono compresenti nel nostro giudizio anche se noi non leggiamo a voce alta. Un verso di Mallarmé o di Ungaretti raggiunge il suo significato solo attraverso una dilatazione semantica, o una coazione squisito-barbarica dei significati particolari: il che si ottiene attraverso la supposta musicalità della parola o dei nessi delle parole. 
Ossia dando delle denotazioni non attraverso una particolare espressività del segno, ma attraverso la prevaricazione del suo fonema. Mentre leggiamo, dunque, integriamo in tal modo il significato aberrante dello speciale vocabolario del poeta, seguendo due strade, quella normale, segno-significato, e quella anormale, segno-segno in quanto fonema-significato. 
La stessa cosa avviene negli sceno-testi (inventiamo pure questo nuovo termine!). Anche qui il lettore integra il significato incompleto della scrittura della sceneggiatura, seguendo due strade, quella normale, segno-significato, e quella anormale, segno-segno in quanto cinèma-significato. 
La parola dello sceno-testo è dunque caratterizzata dall'accentuazione espressiva di uno dei tre momenti da cui è costituita, il cinèma. 
Naturalmente i “cinèmi “ sono delle immagini primordiali, delle monadi visive inesistenti, o quasi, in realtà. L'immagine nasce dalle coordinazioni dei cinèmi. 
È questo il punto: queste coordinazioni di “cinèmi “ non sono una tecnica letteraria. Sono un'altra langue, fondata su un sistema di “cinèmi” o “im-segni”, su cui si impianta analogamente ai metalinguaggi scritti o parlati, il metalinguaggio cinematografico. Di esso si è sempre parlato (almeno in Italia), come di un “linguaggio” analogo a quello scritto-parlato (letteratura, teatro ecc.), e anche quanto di visivo c'è in esso, è visto per analogia alle arti figurative. Ogni esame cinematografico è dunque viziato da questa origine di calco linguistico che il cinema ha nella testa di chi lo analizza o lo studia. Lo “specifico filmico” – definizione che ha avuto qualche fortuna solo esteriore in Italia – non arriva a prospettare la possibilità del cinema come un'altra lingua, con le sue strutture autonome e particolari: lo “specifico filmico” tende a porre il cinema come un'altra tecnica, specifica, fondata per analogia sulla lingua scritta-parlata, cioè su quella che è per noi la lingua tout-court (ma non per la semiotica, che è indifferente di fronte ai più svariati, scandalosi e ipotetici sistemi di segni). 
Mentre dunque il “cinèma” nelle lingue scritto-parlate è uno degli elementi del segno – e, oltre tutto, quello preso meno in considerazione, presentando- si alla nostra abitudine, la parola, come scritta-parlata, ossia soprattutto come fonema e come grafema -nelle lingue cinematografiche il cinèma è il segno per eccellenza: si deve parlare piuttosto di im-segno (che è dunque il “cinèma” staccato dagli altri due momenti della parola, e diventato autonomo, segno autosufficiente). 
Che cos'è questa monade visiva fondamentale che è l'im-segno, e cosa sono le “coordinazioni di im-segni “, da cui nasce l'immagine? Anche qui, istintivamente, abbiamo sempre ragionato tenendo nella testa una specie di calco letterario, ossia facendo una continua e inconscia analogia tra cinema e linguaggi espressivi scritti. Abbiamo cioè identificato per analogia l'im-segno alla parola, e vi abbiamo costruito sopra una specie di surrettizia grammatica, vagamente, fortunosamente e, in qualche modo sensualmente, analoga a quella delle lingue scritto-parlate. Ossia, abbiamo nella testa un'idea dell'im-segno molto vaga, che genericamente identifichiamo con la parola. Ma la parola è sostantivo, verbo, interiezione o particella interiettiva. Ci sono delle lingue fondamentalmente nominali, altre fondamentalmente verbali. Nelle nostre lingue comuni in occidente, la lingua consiste in un equilibrio di definizione (sostantivale) e di azione (verbale) ecc. ecc. Quali sono i sostantivi, i verbi, le congiunzioni, le interiezioni nella lingua cinematografica? E, soprattutto, è necessario, che obbedendo alla nostra legge dell'analogia e dell'abitudine, vi siano? Se il cinema è un'altra lingua, tale lingua sconosciuta non può essere fondata su leggi che non hanno niente a che fare con le leggi linguistiche cui siamo abituati? 
Cos'è, fisicamente, l'im-segno? Un fotogramma? Una durata particolare di fotogrammi? Un insieme pluricellulare di fotogrammi? Una sequenza significativa di fotogrammi dotati di durata? Questo deve essere ancora deciso. E non lo sarà finché non si avranno i dati per scrivere una grammatica del cinema. Dire, per es., che l'im-segno o monade del linguaggio cinematografico è un “sintassema” cioè un insieme coordinato di fotogrammi (o di inquadrature?) è ancora arbitrario. Com'è ancora arbitrario dire, per es., che il cinema è una lingua totalmente “verbale “: ossia che nel cinema non esistono sostantivi, congiunzioni, interiezioni, se non fusi coi verbi. E che quindi il nucleo della lingua cinematografica, l'im-segno, è un taglio in movimento di immagini, dalla durata indeterminabile e informe, magmatica. Onde una grammatica “magmatica” per definizione, descrivibile attraverso paragrafi e capitoli inusitati nelle grammatiche scritto-parlate. 
Ciò che non è arbitrario è invece dire che il cinema è fondato su un “sistema di segni” diverso da quello scritto-parlato, ossia che il cinema è un'altra lingua. 
Ma non un'altra lingua come il bantu è diverso dall'italiano, per es., tanto per accostare due lingue difficilmente accostabili: e a ragion veduta, se anche la traduzione implica un'operazione analoga a quella che abbiamo visto per lo scena-testo (e per certe scritture come la poesia simbolista): richiede cioè una collaborazione speciale del lettore e i suoi segni hanno due canali di riferimento al significato. Si tratta del momento della traduzione letterale con testo a fronte. Se su una pagina vediamo il testo bantu, e sull'altra il testo italiano, i segni da noi percepiti (letti) del testo italiano eseguono quella doppia carambola che solo delle raffinatissime macchine per pensare, come sono i nostri cervelli, possono seguire. Essi cioè rendono il significato direttamente (il segno “palma” che mi indica la palma) e indirettamente, rimandando al segno bantu che indica la stessa palma in un mondo psico-fisico o culturale diverso. Il lettore, naturalmente, non comprende il segno bantu, che è per lui lettera morta: tuttavia si rende conto almeno che il significato reso dal segno “palma” va integrato, modificato..., come? magari senza sapere come, da quel misterioso segno banni: comunque il sentimento che esso va modificato in qualche modo lo modifica. L'operazione di collaborazione tra traduttore e lettore è quindi doppia: segno-significato, e segno-segno di un'altra lingua (primitiva)-significato. 
L'esempio di una lingua primitiva si avvicina a quello che vogliamo dire del cinema: tale lingua primitiva ha infatti strutture anche immensamente diverse dalle nostre, appartenenti, mettiamo, al mondo del “pensiero selvaggio “. Tuttavia il “pensiero selvaggio” è in noi: e c'è una struttura fondamentalmente identica fra le nostre lingue e quelle primitive: ambedue sono costituite da linsegni, e sono quindi a vicenda compatibili. Le due rispettive grammatiche hanno degli schemi analoghi. (Se siamo dunque abituati a interrompere le nostre abitudini grammaticali per rispetto alle strutture di un'altra lingua, anche la più compromettente e diversa, non siamo, invece, capaci di interrompere le nostre abitudini cinematografiche. B questo fin che non si sarà scritta una grammatica scientifica del cinema, come potenziale grammatica di un “sistema di im-segni” su cui il cinema si fonda.) 
Ora, dicevamo che il “segno” della sceneggiatura segue una doppia strada (segno-significato; segno-segno cinematografico-significato). Bisogna ripetere che: anche il segno dei metalinguaggi letterari segue la stessa strada, suscitando immagini nella mente collaboratrice del lettore: il grafema accentua ora il proprio essere fonema ora il proprio essere cinèma, a seconda della qualità musicale o pittorica della scrittura. Ma abbiamo detto che nel caso dello sceno-testo la caratteristica tecnica è una speciale e canonica richiesta di collaborazione del lettore a vedere nel grafema soprattutto il cinèma, e quindi a pensare per immagini, ricostruendo nella propria testa il film alluso nella sceneggiatura come opera da farsi. 
Dobbiamo ora completare questa osservazione iniziale, precisando che il cinèma così accentuato e funzionalizzato, come dicevamo, non è un mero elemento, sia pur dilatato, del segno, ma è il segno di un altro sistema linguistico. Non solo dunque il segno della sceneggiatura esprime oltre che la forma “ una volontà della forma a essere un'altra “, cioè coglie “la forma in movimento “: un movimento che si conclude liberamente e variamente nella fantasia dello scrittore e nella fantasia collaboratrice e simpatetica del lettore” liberamente e variamente coincidenti: tutto questo avviene normalmente nell'ambito della scrittura, e presuppone solo nominalmente un'altra lingua (in cui la forma si compia). E insomma una questione che mette in rapporto metalinguaggio con metalinguaggio, e le forme reciproche. 
Ciò che è più importante notare è che la parola della sceneggiatura è, così, contemporaneamente, il segno di due strutture diverse, in quanto il significato che esso denota è doppio: e appartiene a due lingue dotate di strutture diverse. 
Se, formulando una definizione nel campo artatamente limitato della scrittura, il segno dello sceno-testo si presenta come il segno che denota una “forma in movimento “, una “ forma dotata della volontà di diventare un'altra forma “, formulando la definizione nel campo più completo e più oggettivo della lingua, il segno dello sceno-testo si presenta come il segno che esprime significati di una “struttura in movimento “, ossia di “ una struttura dotata della volontà di divenire un'altra struttura “. 
Stando così le cose, qual è la struttura tipica del metalinguaggio della sceneggiatura? Essa è una “ struttura diacronica “ per definizione, o meglio ancora, per usare quel termine che pone in crisi lo strutturalismo (soprattutto se inteso convenzionalmente, come da certi gruppi italiani), un termine del Murdock, un vero e proprio “ processo “. Ma un processo particolare, non trattandosi di un'evoluzione, di un passaggio da uno stadio A a uno stadio B : ma di un puro e semplice “ dinamismo “, di una “ tensione “, che si muove, senza partire e senza arrivare, da una struttura stilistica, quella della narrativa, a un'altra struttura stilistica, quella del cinema, e, più profondamente, da un sistema linguistico a un altro. 
La “struttura” dinamica ma senza funzionalità, e fuori dalle leggi dell'evoluzione, dello sceno-testo, si presta perfettamente come oggetto per uno scontro tra il concetto ormai tradizionale di “ struttura” e quello critico di “ processo“. Murdock e Vogt si troverebbero davanti a un “ processo che non procede “, a una struttura che fa del processo la propria caratteristica strutturale; Lévi-Strauss si troverebbe davanti non ai valori di una “ filosofia ingenua“, che determinano i processi “ direzionali “, ma davanti a una vera e propria volontà di movimento, la volontà dell'autore che designando i significati di una struttura linguistica come i segni tipici di quella struttura, nel tempo stesso designa i significati di un'altra struttura. Tale volontà è precisa: è un dato di fatto, che l'osservatore può osservare dall'esterno, di cui è egli stesso testimone. Non è una volontà ipotizzata e ingenuamente provata. La sincronia del sistema degli sceno-testi pone come elemento fondamentale la diacronia. Ossia, ripeto, il processo. Abbiamo così nel laboratorio una struttura morfologicamente in movimento. 
Che un individuo, in quanto autore, reagisca al sistema costruendone un altro, mi sembra semplice e naturale; così come gli uomini, in quanto autori di storia, reagiscono alla struttura sociale costruendone un'altra, attraverso la rivoluzione, ossia alla volontà di trasformare la struttura. Non intendo quindi parlare, secondo la critica sociologica americana, di valori e volizioni “naturali” e ontologici: ma parlo di “ volontà rivoluzionaria “ sia nell'autore in quanto creatore di un sistema stilistico individuale che contraddice il sistema grammaticale e letterario-gergale vigente, sia negli uomini in quanto sovvertitori di sistemi politici. 
Nel caso di un autore di sceno-testi, e, più ancora, di film, siamo davanti a un fatto curioso: la presenza di un sistema stilistico là dove non è ancora definito un sistema linguistico, e dove la struttura non è cosciente e descritta scientificamente. Un regista, mettiamo, come Godard, distrugge la “ grammatica “ cinematografica, prima che si sappia qual è. Ed è naturale, perché ogni sistema stilistico personale urta più o meno violentemente contro i sistemi istituzionali. Nel caso del cinema, ciò avviene per analogia con la letteratura. L'autore cioè è cosciente che il suo sistema stilistico (o forse meglio “scrittura” come suggerisce Barthes) contraddice alla norma e la sovverte, ma non sa di che norma si tratti. C'è per esempio ormai una vera e propria scuola internazionale, una “ internazionale stilistica” che adotta per il cinema i canoni della “ lingua della poesia “, e quindi non può non deludere, sfidare, frantumare, giocare la grammatica (che non conosce, perché è la grammatica di un'altra lingua, di un “sistema di segni visivi” non ancora ben chiaro nella coscienza critica). Tale lingua della poesia, nel cinema, è già una vera e propria istituzione stilistica recente, con le sue leggi proprie e qualità, come si dice, solidali: riconoscibili in un film parigino o in un film praghese, in un film italiano o in un film brasiliano. Essi già, come genere cinematografico, tendono ad avere i loro circuiti, e i loro canali specifici di distribuzione (è recente un convegno dei Cinéma d'essai in Italia, dove tale esigenza sta diventando cosciente: così, insomma, come un editore ha il suo modo e la sua strada per smerciate libri preventivamente considerati di piccola tiratura, per destinatari eletti: che però non è detto siano un cattivo affare commerciale, se la distribuzione avviene entro i limiti ragionevolmente preventivati). 
La distinzione tra “ lingua della prosa “ e “ lingua della poesia” è un vecchio concetto tra i linguisti. Ma se dovessi indicare un capitolo recente di tale distinzione, indicherei alcune pagine a questo dedicate del Grado zero di Barthes, dove la distinzione è radicale e elettrizzante. (Dovrei solo aggiungere che Barthes ha come background il classicismo francese, che è molto diverso da quello italiano, e soprattutto ha alle sue spalle la serie di sequenze progressive della lingua francese, mentre gli italiani hanno alle loro spalle un caos, che rende sempre indefinito e sensuale il loro classicismo. Inoltre osserverei ancora che l'“ isolamento delle parole “, tipico della lingua della poesia “ decadente“, ha risultati solo apparentemente anti-classicistici, ossia di prevalenza della parola isolata come mostruosità e mistero – sul tutto solidale del periodo. Infatti, se un analista paziente fosse in grado di ricostruire i “nessi” tra le parole “isolate” della lingua della poesia del Novecento, ricostruirebbe sempre dei nessi classicistici – come ogni operazione estetica in quanto tale presuppone). 
In conclusione, nel cinema si hanno indubbiamente dei sistemi o strutture, con tutte le caratteristiche tipiche di ogni sistema e di ogni struttura: un esame stilistico paziente, come quello di un etnologo tra le tribù australiane, ricostruirebbe i dati permanenti e solidali di quei sistemi, sia in quanto “scuole “ (il “ cinema di poesia” internazionale, come una specie di gotico squisito) sia in quanto veri e propri sistemi individuali. 
La stessa cosa è possibile fare attraverso una lunga e attenta analisi degli “usi e costumi” delle sceneggiature: anche qui, come intuitivamente o per esperienza non trasformata in ricerca scientifica ognuno di noi sa, una serie di caratteristiche in stretto rapporto fra di loro, e dotate di una continuità costante, costituirebbe una “ struttura “ tipica delle sceneggiature. Ne abbiamo visto, sopra, la caratteristica “ dinamica “, che, mi sembra, è un caso clamoroso di “struttura diacronica “ ecc. ecc. (con elemento interno sostanziale il “cronotopo” di cui parla Segre). 
L'interesse che offre questo caso è la concreta e documentabile “ volontà” dell'autore: il che mi sembra contraddire all'affermazione di Lévi-Strauss: “Non si può insieme e contemporaneamente definire con rigore uno stadio A e uno stadio B (cosa possibile solo dall'esterno e in termini strutturali) e rivivere empiricamente il passaggio dall'uno all'altro (che sarebbe il solo modo intelligibile per capirlo).” 
Infatti, davanti alla “ struttura dinamica “ di una sceneggiatura, alla sua volontà di essere una forma che si muove verso un'altra forma, noi possiamo benissimo, dall'esterno e in termini strutturali definire con rigore lo stadio A (mettiamo la struttura letteraria della sceneggiatura) e lo stadio B (la struttura cinematografica). Ma nel tempo stesso possiamo rivivere empiricamente il passaggio dall'uno all'altro, perché la “struttura della sceneggiatura” consiste proprio in questo: “ passaggio dallo stadio letterario allo stadio cinematografico“. 
Se Lévi-Strauss in questo caso avesse torto, e avessero ragione Gurvitch e la sociologia americana, Murdock, Vogt, allora dovremmo accettare la polemica di questi ultimi, e fare nostra la loro esigenza di puntare più che sulla “struttura” sul “processo “. 
Leggere, infatti, né più né meno che leggere, una sceneggiatura significa rivivere empiricamente il passaggio da una struttura A a una struttura B. 
(1965)


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Curatore, Bruno Esposito

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