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Biografia, lavori in corso - a breve anche il 1974 e il 1975

domenica 30 novembre 2014

Pasolini: Per una lingua estremamente politica.

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro




Pasolini: Per una lingua estremamente politica.
Posted by Andrea Baldazzini
domenica, novembre 16, 2014
«La cosiddetta paura dell’errore si rivela essere paura della verità» 
(Hegel)
Pasolini è l’ultima grande coscienza italiana, l’ultimo specchio in cui abbiamo potuto guardarci e odiarci. Come ogni coscienza, a volte la si ascolta in cerca di buoni consigli, altre la si fugge soffocandola tra le pagine di un manuale o di un’antologia. É difficile dire con che orecchio ci rivolgiamo a questa coscienza oggi. Molti sembrano esserne diventati addirittura sordi, altri invece la inseguono, spinti da un bisogno a cui nemmeno loro sanno dare una giustificazione. Il fatto è però che su di lui si continua a scrivere, a pensare, lo si attacca così come lo si sceglie per il soggetto di un film. Assunta allora la criticità, e secondo alcuni la pericolosità, del soggetto, lo scopo di questo breve articolo vuole essere mostrare quello che secondo noi è il fulcro dell’intera riflessione pasoliniana, ovvero il continuo processo di riadattamento del linguaggio nelle proprie opere in funzione dei radicali cambiamenti della società italiana. Centro del discorso, volendo essere essenziali, è la subordinazione della lingua alla realtà: «La realtà è un linguaggio. Altro che fare la semiologia del cinema: è la semiologia della realtà che bisogna fare !» [Pasolini, 1972]. Per illustrare al meglio tale questione abbiamo deciso di suddividere l’articolo in due paragrafi: nel primo si parlerà della raccolta di versi Poesia in forma di rosa, testo che segna un profondo momento di svolta nell’autore; mentre la seconda parte verterà sul rapporto tra i romanzi Ragazzi di vita, Una vita violenta e la prima produzione filmica.
In Pasolini ogni atto comunicativo, ogni descrizione e ogni inquadratura si rivelano spinti dalla necessità di una poetica militante.
Dalla Realtà, alla poesia, alla Rosa
«Quando si dice che la poesia di Pasolini è politica, nel migliore senso della parola, si vuol dire che in quella poesia sono contenuti rapporti temporali (interpretazioni del passato e del presente e tensione ad un futuro) analoghi a quelli che furono di alcune delle prevalenti tendenze storico- politiche del loro tempo. Ad esempio: una dominante della poesia pasoliniana sembra essere la presenza di un evento incombente e imminente su di un presente sentito come oggetto di pietà per il suo immediato convertirsi in passato» (Franco Fortini, Attraverso Pasolini, Torino: Einaudi, 1993). In queste pochissime righe, scritte dal grande amico e critico Fortini, si possono rintracciare tutte le più importanti linee guida della produzione poetica pasoliniana: il tempo letto attraverso le grandi narrazioni del cristianesimo e del marxismo, un tempo che acquisterà nel corso degli anni una sempre maggiore fisicità fino a coincidere con il tempo del potere (il cui esito sarà magistralmente descritto in Salò o le 120 giornate di Sodoma), poi ancora la razionalità del letterato e dell’intellettuale scandaloso, l’autenticità e la naturale disperazione del Terzo Mondo, gli infiniti Alì dagli occhi azzurri, l’amore per gli ultimi e una congenita insofferenza per i primi, per i cari ma non più compagni intellettuali. Se è con questo che dobbiamo costantemente confrontarci quando apriamo il Pasolini poeta, allora quanto detto acquista una rilevanza ancora maggiore quando ci tuffiamo in “Poesia in forma di rosa”, un’opera che segna l’aprirsi di una vera frattura esistenziale e storica.
L’evento incombente di cui parla Fortini è proprio il dispiegarsi di quello che noi oggi chiamiamo capitalismo avanzato, un sistema economico che diventa sistema di produzione di soggettività, un potere capace di permeare quelle istanze vitali che fino ad allora erano rimaste escluse dai tentativi di colonizzazione portati avanti dai regimi totalitari, dalle guerre o dalle ideologie. Pasolini lo chiama ‘neocapitalismo’, è questo il cardine attorno a cui ruota tutta la raccolta poetica (pubblicata nel 1964) e la causa della frattura; esso determina sia una trasformazione irreversibile dell’intera struttura sociale nazionale sia una radicale ‘mutazione antropologica degli italiani’ stessi. Nasce così una nuova epoca, o, come la chiama l’autore, una ‘nuova preistoria’, alle spalle viene lasciata la realtà della tradizione, del Fascismo, del ‘paleocapitalismo’ mentre davanti si spalanca una realtà agli occhi del poeta mostruosa perchè totalizzante. Pasolini qui intuisce la tragicità della società di massa con il suo conformismo, la sua falsa tolleranza che in nome del relativismo procura nient’altro che omologazione. A sparire sono insomma le differenze, i particolari, i tratti del volto di una collettività che è sempre più sfuocata. Se vogliamo allora portare alla luce le concrete trame di Poesia in forma di rosa dobbiamo scavare nel rapporto che intercorre tra il poeta e la sua realtà, quest’ultima definita da lui stesso come «fine pratico della mia poesia».
La realtà è l’oggetto della sua ossessione, egli vorrebbe esserne in un certo senso l’artigiano, in molti versi viene descritta l’immagine dell’intellettuale come colui che orbita attorno alla società sprigionando verso di essa contemporaneamente una carica di attrazione e una di repulsione che la modella, ne smussa gli angoli o ne affila i bordi. La realtà è insomma il punto su cui va concentrata tutta la nostra attenzione: da una parte essa costituisce il luogo di quella contraddizione che costringerà l’autore a un profondo salto di stile, dall’altra è continuamente assunta come nucleo critico a partire dal quale è possibile mostrare la crisi del modello razionalista che non era più in grado di spiegare un’ampia sintomatologia sociale sovvertitrice degli assetti tradizionali. Il tema della realtà viene poi sviluppato seguendo due direzioni che coincidono con i due aspetti della frattura di cui ho parlato poco fa: la dimensione storico-politica e quella esistenziale-soggettiva. Della prima qualcosa è già stato detto (si leggano La Guinea, La nuova storia, Profezia, Il sogno della ragione e tutta la sezione VI intitolata Israele) mentre della seconda si è fatto solo un qualche accenno. Volendo allora gettare uno sguardo sulla dimensione più intima dell’autore, imprescindibile è il riferimento alla poesia Un solo rudere, davvero fondamentale perchè qui si trova una delle più intense autodescrizioni, qui Pasolini si dichiara essere, nonostante tutto, ‘una forza del passato’, egli dice di ‘venire dai ruderi, dalle chiese, \ dalle pale d’altare, dai borghi abbandonati sugli Appennini’ e dice che mentre scrive si trova a guardare i tramonti su Roma ‘come i primi atti della Dopostoria’, fino a terminare con l’affermazione: ‘E io […] mi aggiro\ più moderno di ogni moderno \ a cercare fratelli che non sono più’ . Da questi pochi versi si intuisce molto bene la distanza che separa un personaggio plasmato da una matrice così ‘arcaica’ da quella nuova storia che negli anni ‘60 stava muovendo i suoi primi passi. Tali parole ci fanno inoltre capire la ragione dell’intensità e della tragicità con cui l’autore ha vissuto questo salto di epoca a cui dedica la prima poesia della seconda sezione che porta il titolo della raccolta stessa. Proprio il titolo potrebbe infatti venire tranquillamente sostituito con ‘Poesia in forma di dolore’ in quanto la rosa qui è ‘una rosa carnale di dolore, \ con cinque rose incarnate, \ cancri di rosa nella rosa \ prima: in principio era il Dolore. \ Ed eccolo, Uno e Cinquino’. In pochissime pagine viene così dispiegata l’intera trama della questione conflittuale che affligge l’autore: come poter continuare a vivere in un mondo nel quale ci si sente estranei, in un mondo nel quale si è estranei, nel quale si può esistere solo come testimone di ciò che è stato e che non sarà più ?
Ebbene, la risposta a un simile interrogativo può essere rintracciata in quella che a mio avviso è la poesia più bella dell’intera opera, ovverosia Una disperata vitalità. Essa è divisa in nove atti e strutturata come fosse un’intervista (la giornalista viene definita nei termini di un “cobra col golfino di lana” e questo indica l’attacco diretto da parte di Pasolini verso quella che lui stesso definiva ‘l’industria culturale’, ma qui non c’è spazio per affrontare tale discorso), quelli per noi più importanti sono il primo e l’ottavo. Nell’ottavo l’autore prefigura l’immagine del nuovo tipo di intellettuale, un’immagine che oserei definire religiosa: ‘Venni al mondo al tempo \ dell’Analogica \ […] Ora è il tempo \ della psicagogica’, l’intellettuale diventa cioè lo psicagogo, letteralmente il conduttore di anime, una sorta di Caronte militante che traghetta gli spiriti da una riva all’altra, da un’epoca all’altra. Pasolini sente su di sé la pressione di una vera e propria missione civile e dopo un primo momento di disperazione rinasce, forte di un’estrema vitalità. Nel primo atto compare invece il famoso verso che un po’ riassume tutto quanto detto fino ad ora: ‘La morte non è \ nel non poter comunicare \ ma nel non poter più essere compresi’, qui emerge l’idea secondo cui la morte rappresenta la totale privazione degli strumenti linguistici; volendo usare un’immagine è come se un giorno ci fossimo svegliati avendo dimenticato la nostra lingua e ogni altro sistema di comunicazione (gesti, disegni ecc.), nessuno intorno a noi può capirci e questa per un intellettuale è la morte peggiore, l’incomprensibilità assoluta, la totale negazione della possibilità di esprimere il reale. A questo punto sembra manifestarsi una contraddizione insolvibile: da una parte c’è il desiderio di diventare l’intellettuale anche della Nuova storia, dall’altra proprio questa Nuova storia lo ho reso incomprensibile agli occhi e alle orecchie dei molti. Che fare ?
Ecco allora il salto di cui ho preannunciato in apertura. Tra le ultime poesie vi è Così mi salvo la quale segna la presa di consapevolezza da parte di Pasolini dell’insostenibilità della lingua- poesia, essa non riesce più ad afferrare la realtà neocapitalista: ‘La condizione della poesia \ ha distrutto la poesia’. L’incontro della dimensione storico-politica e di quella esistenziale-soggettiva mostrano all’autore la necessità di ripensare il proprio linguaggio, ed è in questo modo che Pasolini sceglie di mettere in secondo piano la poesia per dedicarsi completamente al cinema. Come si vedrà nel secondo paragrafo con il cinema l’autore ritrova una presa forte sulla realtà e ciò gli permette di diventare lo psicagogo, il profeta, l’intellettuale che aveva annunciato in nome di una ‘disperata vitalità’, ovverosia in nome di un amore puro per le forme di vita autentiche non capitalisticamente mediate. Volendo riassumere il tutto in una battuta si può affermare che la realtà, nella sua accezione più politica, rappresenta la bussola delle forme espressive pasoliniane: al cambio di rotta deve corrispondere un cambio di mezzo, una nuova lingua per un nuovo mondo.
Dalla Realtà, al romanzo, al cinema.
Parallelamente all’attività poetica, Pasolini ha pubblicato nel corso degli anni 50 romanzi che hanno accentrato su di lui l’attenzione della scena letteraria italiana, spaccata tra detrattori accaniti e strenui difensori. All’interno di queste opere, Ragazzi di vita e Una vita violenta, possiamo cogliere il germe che porterà l’autore a concentrarsi su un nuovo linguaggio più adatto a narrare la realtà: il cinema. Al fine di comprendere appieno questo passaggio, ci dedicheremo inizialmente ad evidenziare le principali tematiche che animano i romanzi sopra citati, per poi osservare come esse vengono sviluppate attraverso la regia.
Nel 1949, in seguito ad un’accusa di oscenità in luogo pubblico che aveva portato alla sua estromissione dal Partito Comunista Italiano, Pasolini fugge da Casarsa in compagnia della madre e si trasferisce a Roma, dove intraprende per alcuni anni l’attività di insegnante. L’ambiente con cui si trova in contatto, quello del sottoproletariato romano, affascina l’autore al punto da decidere di renderlo protagonista di quella che inizialmente era stata concepita come una trilogia di romanzi, di cui avrebbero fatto parte Ragazzi di vita, Una vita violenta e il non realizzato Il rio della grana. Al fine di rendere il più fedelmente possibile la vita magmatica che ribolliva nelle periferie, Pasolini decide di scrivere cercando di sfruttare la lingua parlata nelle strade e, in cerca di un interprete, si imbatte in un imbianchino fratello del Citti che, da Accattone in poi, diventerà una delle più caratteristiche maschere della filmografia pasoliniana. Già da questa prima scelta, restituire al lettore il sottoproletariato con la sua voce piuttosto che attraverso i filtri di un lessico colto, possiamo osservare come, all’interno della produzione dell’autore, la lingua non sia mai un elemento fine a se stesso, bensì uno strumento subordinato ad una fedele rappresentazione del reale. Sin dalla pubblicazione della prima opera, quel Ragazzi di vita edito nel 1955 da Garzanti, la scelta di un realismo senza compromessi sembra ritorcersi contro l’autore: il libro viene accusato per la crudezza delle immagini proposte, una nutrita falange di critici lo assale con giudizi negativi e gli viene negata la prtecipazione ai più prestigiosi premi letterari del paese, complice un’accusa di pornografia. Gran parte degli strali contrari nascevano dalla decisione dell’autore di mostrare, oltre a scene che riproducevano la violenza e l’assenza di morale nella vita dei ‘borgatari’, alcuni episodi di prostituzione maschile, argomento all’epoca ancora considerato tabù all’interno del discorso pubblico.
Contemporaneamente all’attività di scrittore, Pasolini intraprende una carriera di sceneggiatore per il cinema che lo porta a firmare nel 1954 la sua prima sceneggiatura, quella de La donna del fiume di Mario Soldati. Mediante quest’attività l’autore comincia ad avvicinarsi sempre più al nuovo mezzo espressivo, al punto da decidere di dedicarsi alla regia dopo la pubblicazione di Una vita violenta nel 1959. Il cambiamento di linguaggio è per Pasolini una mossa necessaria al suo sviluppo di intellettuale, motivata proprio dal rapporto privilegiato che intercorre tra cinema e realtà: quest’ultimo non si limita a descriverla come la scrittura, ma bensì la divora, restituendo allo spettatore una sintesi che conserva intatta tutta la violenza del fatto ma, allo stesso tempo, consente al regista di investirlo di nuove sfumature e significati. La prima pellicola dell’autore, Accattone, nutre una chiara parentela con gli scritti in prosa che l’hanno preceduto. Il protagonista, Accattone, è un sottoproletario che vive facendo il ‘magnaccia’. Quando si innamorerà di Stella e non riuscirà a farla prostituire, entrerà in una spirale che lo condurrà ad una redenzione che coinciderà con la morte. Interessante è osservare come il percorso compiuto qui dal protagonista sia quasi speculare rispetto a quello intrapreso da Tommaso di Una vita violenta, se non che la salvezza di Accattone proviene da una fonte psicologico-religiosa (la donna, il cui nome parlante la investe di un’aura sacrale) mentre quella di Tommaso da una fonte psicologico-politica (l’adesione al Partito Comunista). All’interno di questa prima pellicola Pasolini integra i soggetti che avevano animato la sua produzione romanzesca con le nuove possibilità offertegli dal cinema, che gli permettono di recuperare ed esplicitare un importante tassello della sua educazione universitaria: la passione per l’arte. Durante i corsi della facoltà di lettere presso l’Università di Bologna, il regista aveva avuto modo di frequentare i corsi di storia dell’arte tenuti da Roberto Longhi, docente volenteroso che organizzava per gli allievi più promettenti piccoli cicli di lezioni aventi sede nel suo appartamento. Dalle lezioni di Longhi Pasolini mutua una passione per la pittura rinascimentale, che si traduce in un bagaglio iconografico che contribuirà a determinare, implicitamente ed esplicitamente, la dimensione della messa in scena del suo cinema. L’autore più amato si rivela essere Masaccio, che, a detta del regista, è presente indirettamente in tutta la resa visiva di Accattone. Le influenze masaccesche sono da ricondursi alla propensione per inquadrature che avvolgano la narrazione di un velo ieratico, delle quali è esemplificativa l’insistenza su primi piani statici, ma anche ad un certo uso del bianco e nero: le diapositive che Longhi usava proiettare a supporto delle sue lezioni mancavano di colore, consegnando al repertorio iconografico di Pasolini uno spurio Masaccio chiaroscurale.
La tensione di Pasolini verso il reale lo porta ad ambientare anche il secondo lungometraggio all’interno del sottoproletariato romano, consegnandoci però una storia che sembra in qualche modo anticipare nella costruzione il suo film a tesi per eccellenza, Teorema. Dove la tesi di quest’ultimo era però la dissoluzione della borghesia dinnanzi all’irruzione del sacro, Mamma Roma si fa latore di un messaggio strettamente sociologico: le varie classi sociali devono essere educate senza snaturarle; far coincidere l’educazione con un passaggio ad una classe superiore, non può che destinare l’intero progetto al fallimento. Tale è la storia di Ettore e sua madre, una prostituta che tenta di affrancarsi dalla strada intraprendendo il mestiere di fruttivendola e tentando di inserire il figlio nella società borghese. Gli sforzi della donna si dimostreranno vani, riportandola sulla strada e riconsegnandole il figlio morto, spirato di febbre in carcere. All’interno della pellicola l’uso del bagaglio figurativo dell’autore si delinea questa volta in maniera esplicita sin dalla prima scena, un pranzo di nozze nella cui disposizione il regista rende omaggio all’Ultima Cena leonardesca. Tra le citazioni pittoriche la più esplicita e discussa è quella del Cristo morto del Mantegna, la cui posa sarebbe ripresa pedissequamente dall’inquadratura che ci mostra il corpo morto di Ettore in cella: acclamata dalla critica intera come segno della “foga citazionista” dell’autore e con altrettanta foga disconosciuta da Pasolini, che non esita a chiamare in causa il suo vecchio maestro per sostenere la sua posizione “Ah, Longhi, intervenga lei, spieghi lei, come non basta mettere una figura di scorcio e guardarla con le piante dei piedi in primo piano per parlare di influenza mantegnesca! Ma non hanno occhi questi critici?” (Pasolini, Le Belle Bandiere, Roma, Editori Riuniti, 1977).
Se nelle prime due pellicole il matrimonio tra regia e contenuti appariva ancora imperfetto, con La ricotta, mediometraggio presente all’interno del film Ro.Go.Pa.G., l’autore riesce a giungere ad una definitiva sintesi, che ci regala una delle più belle testimonianze del Pasolini regista. Qui l’attenzione resta focalizzata, come in precedenza, sul mondo del sottoproletariato, incarnato questa volta dalla comparsa Stracci, che impersona il buon ladrone in un film manierista. L’autore ci dà prova di aver appieno interiorizzato il “linguaggio scritto della realtà” con movimenti di macchina più sciolti, un minor indugio sulle singole scene, e alcune irresistibili sequenze accelerate che strizzano l’occhio alla slapstick comedy americana e ai film di Charlot. Anche l’influenza pittorica appare infine perfettamente integrata sotto forma di sgargianti tableaux vivants riproducenti le deposizioni del Pontormo e del Rosso Fiorentino; talmente efficaci da guadagnarsi il plauso della critica e un processo per vilipendio alla religione. Possiamo così notare come l’urgenza comunicativa di Pasolini si sia spinta, pur di rimanere il più possibile attigua al reale che celebra e di cui si nutre, dalla prosa sino a quella che era per gli intellettuali degli anni 60 una terra incognita: il cinema.
Conclusione
Dalla transumanza, dal percorso cioè attraverso la molteplicità dei linguaggi del reale, abbiamo così avuto modo di mostrare come per l’intellettuale sia necessario mantenere un rapporto organico con la realtà. Il riadattare la propria voce ad un corpo in perenne divenire diventa in Pasolini la manifestazione concreta del dispiegarsi della sua poetica militante. La disperata vitalità si fa presupposto esistenziale per essere partigiano della ragione nell’appena costituita società neoliberista, dove la massa degli ‘accattoni’ si trasforma in un volgo consumista e torpido, sordo al richiamo della vera emancipazione. Un simile esempio ci appare ancora più prezioso oggi, dove il linguaggio è troppo spesso degradato a flatus vocis, a vuota filastrocca sempre più lontana da quell’agire che una volta si aveva il coraggio di definire politico.
Fonte:


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domenica 16 novembre 2014

«Vogliamo la verità su Pasolini». La petizione fa il giro del mondo - Firma la petizione.

"ERETICO & CORSARO"
Notizie
 
 
 
«Vogliamo la verità su Pasolini». La petizione fa il giro del mondo

M agistrati, medici, attori, registi e ufficiali delle forze dell’ordine. Tutti con un unico scopo: conoscere la verità sull’omicidio di Pier Paolo Pasolini. Professionisti da tutto il mondo vogliono sapere che fine abbia fatto l’inchiesta sul delitto dello scrittore, filosofo, poeta e regista. Dagli Stati Uniti al Messico, dalla Germania al Belgio, dalla Gran Bretagna alla Francia, dall’Argentina alla Bulgaria, fino al Brasile e all’Olanda sono arrivate richieste sullo stato delle indagini sull’omicidio del poeta, riaperte cinque anni fa.
La magistratura romana non ha ancora reso noto gli sviluppi dell’inchiesta che dal 2009 è stata riavviata. Un silenzio che oltre trecento professionisti da tutto il mondo chiedono che venga spezzato dalla procura della Repubblica di Roma, che non ha ancora depositato la chiusura delle indagini dopo tanti anni di accertamenti, interrogatori di testimoni (diverse centinaia) e analisi di reperti che furono recuperati sul luogo del delitto avvenuto il 2 novembre del 1975 all’Idroscalo di Ostia.
Ma chi sono le oltre 351 persone che hanno chiesto, attraverso una raccolta firme, di venire a conoscenza della verità sul delitto Pasolini? Persone di qualsiasi rango sociale che dopo quasi 4 decenni pretendono di sapere cosa è accaduto quel giorno. Ma come si è arrivati alla scelta di lanciare un appello alla procura della Repubblica di Roma? Con una petizione che è stata organizzata dal consulente di parte civile della famiglia di Pasolini, attraverso Guido Mazzon e dalla dottoressa Simona Ruffini. È stata lei, infatti, a organizzare la petizione con l’unico scopo di sensibilizzare la magistratura romana: «La verità non può aspettare - si legge nella petizione - i sottoscritti chiedono che il procuratore capo della Repubblica Giuseppe Pignatone definisca il procedimento sull’omicidio di Pier Paolo Pasolini dopo oltre 5 anni dalla sua riapertura e dopo 39 anni dal delitto. La verità non può aspettare».
Ma come funziona la petizione? Finora nelle mani della procura capitolina sono finite oltre 300 firme. Ma ogni giorno che qualcuno, da ogni parte del mondo, decide di sottoscrivere la petizione, automaticamente, grazie al programma di invio delle email, arriva nel computer della procura di Roma. Quindi, appena viene aggiunta una firma, i magistrati romani ne vengono a conoscenza.
Ad intervenire sull’inchiesta sull’omicidio del poeta, anche l’avvocato della famiglia, il legale Stefano Maccioni. «Del delitto di Pier Paolo Pasolini forse se ne è parlato troppo e male e questo ha contribuito a creare la divisione tra coloro che ricercano ad ogni costo la verità (c.d. complottisti) e coloro che invece si sono appagati della ricostruzione parziale fornita dai giudici (c.d. ben pensanti)». E ancora: «Quello che è certo è il ritardo oramai inescusabile con il quale la magistratura non riesce a far luce sul delitto. Il 27 marzo del 2009 insieme alla criminologa Simona Ruffini presentavamo l’istanza volta a far riaprire le indagini. In particolare venivano da noi richieste l’effettuazione di prove scientifiche quali esame del Dna sui reperti che mai prima di allora erano state effettuate. Il 10 maggio del 2010 assistevamo presso i laboratori della sezione di Biologia del Ris dei carabinieri di Roma all’esame dei reperti custoditi presso il museo criminologico di Roma. In seguito come difensore del cugino di Pasolini, Guido Mazzon, ho svolto numerose indagini difensive che hanno contribuito a fornire ulteriori e determinanti elementi alla pubblica accusa. A nostro avviso sussisterebbe, peraltro, un legame tra tre delitti eccellenti quello di Enrico Mattei, quello di Mauro de Mauro e quello di Pasolini». Il legale fa anche riferimenti specifici al lavoro che stava portando avanti lo scrittore nel periodo precedente alla sua morte. «Abbiamo cercato di portare elementi concreti, come accusa privata, quali il lavoro che Pier Paolo stava portando avanti prima di morire (Petrolio) e la sua frequentazione di ambienti di destra a Catania».
«La petizione, che in pochi giorni ha raccolto circa 300 firme, è stata sottoscritta da persone di tutto il mondo e delle più disparate professioni. Il movimento di popolo è grande e chiede finalmente la verità», ha detto Simona Ruffini, consulente tecnico di Guido Mazzon.
 

Augusto Parboni
 
Fonte:
 
 
 
 
 
Diretta a Procura della Repubblica di Roma

PASOLINI: LA VERITA' NON PUO' PIU' ASPETTARE

 
Firma la petizione
 
 
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sabato 15 novembre 2014

«Io so. Ma non ho le prove» 14 novembre 1974 – 2014 - Di Pietro Peli.

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro

 
 
 
 Di Pietro Peli
14 novembre 1974 – 2014 «Io so. Ma non ho le prove»

  Se c’è una verità
innascondibile
all’uomo
al politico
è nella limpida fuga
dall’arbitrario,
dove la vita formale

tenta di farsi, di darsi
una nuova realtà.



 PP

 

 
Quaranta anni fa. *
Corriere della Sera, 14 novembre 1974 
 Cos'è questo golpe? Io so   di Pier Paolo Pasolini


Io so.
Io so i nomi dei responsabili di quello che viene chiamato "golpe" (e che in realtà è una serie di "golpe" istituitasi a sistema di protezione del potere).
*
Io so i nomi dei responsabili della strage di Milano del 12 dicembre 1969.
*
Io so i nomi dei responsabili delle stragi di Brescia e di Bologna dei primi mesi del 1974.
*
Io so i nomi del "vertice" che ha manovrato, dunque, sia i vecchi fascisti ideatori di "golpe", sia i neo-fascisti autori materiali delle prime stragi, sia infine, gli "ignoti" autori materiali delle stragi più recenti.
*
Io so i nomi che hanno gestito le due differenti, anzi, opposte, fasi della tensione: una prima fase anticomunista (Milano 1969) e una seconda fase antifascista (Brescia e Bologna 1974).
*
Io so i nomi del gruppo di potenti, che, con l'aiuto della Cia (e in second'ordine dei colonnelli greci della mafia), hanno prima creato (del resto miseramente fallendo) una crociata anticomunista, a tamponare il '68, e in seguito, sempre con l'aiuto e per ispirazione della Cia, si sono ricostituiti una verginità antifascista, a tamponare il disastro del "referendum".
*
Io so i nomi di coloro che, tra una Messa e l'altra, hanno dato le disposizioni e assicurato la protezione politica a vecchi generali (per tenere in piedi, di riserva, l'organizzazione di un potenziale colpo di Stato), a giovani neo-fascisti, anzi neo-nazisti (per creare in concreto la tensione anticomunista) e infine criminali comuni, fino a questo momento, e forse per sempre, senza nome (per creare la successiva tensione antifascista). Io so i nomi delle persone serie e importanti che stanno dietro a dei personaggi comici come quel generale della Forestale che operava, alquanto operettisticamente, a Città Ducale (mentre i boschi italiani bruciavano), o a dei personaggio grigi e puramente organizzativi come il generale Miceli.
*
Io so i nomi delle persone serie e importanti che stanno dietro ai tragici ragazzi che hanno scelto le suicide atrocità fasciste e ai malfattori comuni, siciliani o no, che si sono messi a disposizione, come killer e sicari.
*
Io so tutti questi nomi e so tutti i fatti (attentati alle istituzioni e stragi) di cui si sono resi colpevoli.
*
Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi.

*****



Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l'arbitrarietà, la follia e il mistero.
 
Tutto ciò fa parte del mio mestiere e dell'istinto del mio mestiere. Credo che sia difficile che il mio "progetto di romanzo", sia sbagliato, che non abbia cioè attinenza con la realtà, e che i suoi riferimenti a fatti e persone reali siano inesatti. Credo inoltre che molti altri intellettuali e romanzieri sappiano ciò che so io in quanto intellettuale e romanziere. Perché la ricostruzione della verità a proposito di ciò che è successo in Italia dopo il '68 non è poi così difficile.
Tale verità - lo si sente con assoluta precisione - sta dietro una grande quantità di interventi anche giornalistici e politici: cioè non di immaginazione o di finzione come è per sua natura il mio. Ultimo esempio: è chiaro che la verità urgeva, con tutti i suoi nomi, dietro all'editoriale del "Corriere della Sera", del 1° novembre 1974.
 
[...]
 

Ora, perché neanche gli uomini politici dell'opposizione, se hanno - come probabilmente hanno - prove o almeno indizi, non fanno i nomi dei responsabili reali, cioè politici, dei comici golpe e delle spaventose stragi di questi anni? È semplice: essi non li fanno nella misura in cui distinguono - a differenza di quanto farebbe un intellettuale - verità politica da pratica politica. E quindi, naturalmente, neanch'essi mettono al corrente di prove e indizi l'intellettuale non funzionario: non se lo sognano nemmeno, com'è del resto normale, data l'oggettiva situazione di fatto.
[...]

Lo so bene che non è il caso - in questo particolare momento della storia italiana - di fare pubblicamente una mozione di sfiducia contro l'intera classe politica. Non è diplomatico, non è opportuno. Ma queste categorie della politica, non della verità politica: quella che - quando può e come può - l'impotente intellettuale è tenuto a servire.
Ebbene, proprio perché io non posso fare i nomi dei responsabili dei tentativi di colpo di Stato e delle stragi (e non al posto di questo) io non posso pronunciare la mia debole e ideale accusa contro l'intera classe politica italiana.
[...]

Sono pronto a ritirare la mia mozione di sfiducia (anzi non aspetto altro che questo) solo quando un uomo politico - non per opportunità, cioè non perché sia venuto il momento, ma piuttosto per creare la possibilità di tale momento - deciderà di fare i nomi dei responsabili dei colpi di Stato e delle stragi, che evidentemente egli sa, come me, non può non avere prove, o almeno indizi.
 
Per l'intero articolo Qui


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Pasolini - "Era un genio autentico. E amava la pittura"

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro


 
 
 
L’attore Sergio Tramonti ricorda Pier Paolo Pasolini: "Era un genio autentico. E amava la pittura
"L'attore e artista deve allo scrittore di Casarsa il suo esordio nel mondo del cinema
 
Il 2 novembre del 1975 il più grande scrittore italiano del XX secolo veniva assassinato a Ostia. Da allora, la sua “anima” profonda ed eccezionale non ha mai smesso di vivere e incidere sulla nostra società, attraverso le pagine dei suoi scritti e nel ricordo degli amici che lo hanno conosciuto.

Tra questi, c’è l’attore, scenografo e pittore
Sergio Tramonti, che proprio con il film Medea di Pier Paolo Pasolini ha iniziato la sua carriera, vestendo i panni del fratello dell'eroina greca, accanto a Maria Callas.
 
Com’è avvenuto il suo incontro con Pasolini?

L’ho conosciuto attraverso Elsa Morante, in una maniera molto particolare. Lui era in clinica e stava facendo una cura, perché era molto stanco e stressato. Ed Elsa mi presentò -io all’epoca ero un ragazzo e lavoravo in teatro con Carlo Cecchi- e chiese a Pasolini di farmi fare un ruolo nella “Medea” che stava preparando. Lui mi propose la parte dell’argonauta. Io non sapevo nemmeno cosa fosse un argonauta e non me ne importava. Ero un ragazzo frivolissimo e non ero assolutamente interessato al cinema e alla letteratura, a malapena sapevo chi fosse Pasolini. Però, avevo anche la necessità di guadagnare soldi e quindi accettai quella proposta con molto piacere.

Poi, quando c’è stato il passaggio dal ruolo di argonauta a quello del fratello di Medea?

Pasolini andò in Turchia e cercava un attore proprio per il ruolo del giovane principe, il fratello di Medea. Lo cercava tra i ragazzi turchi. Ricordo che fece tantissimi provini, ma quest’attore non venne fuori. Allora si ricordò di me e, invece di farmi fare la parte generica dell’argonauta, mi diede questo ruolo. Ed è stata una scelta davvero curiosa perché, vedendo il film, c’è un’inquadratura in cui io e Maria Callas sembriamo davvero parenti. Per me è stato un enorme colpo di fortuna, subito dopo ho girato “Indagine” di Petri e ho continuato a lavorare per il cinema.

Com’era Pasolini sul set?

Per quel che mi riguarda, era molto contento di me. Non sono un attore in quel film, ma sono una presenza e questo lui me lo riconosceva. In generale, era un regista molto particolare. Quando vedeva una cosa che lo affascinava non diceva niente. Prendeva la macchina da presa, andava via e girava per conto suo alcune parti, che poi inseriva nel montaggio e difatti sono di una straordinaria bellezza. Il direttore della fotografia in questo film è Ennio Guarnieri, che ovviamente gli dava la possibilità di fare anche questo, cioè di dare la sua impronta al film.

A livello umano, invece, che cosa le ha donato l’incontro con questa grande personalità?

Con Pier Paolo siamo sempre rimasti amici, come si può essere amici di uno come lui. Era di pochissime parole e sempre in fuga verso altre cose. Era altrove, ma affettuosissimo e rispettoso con tutti. Io, poi, ho avuto la fortuna di conoscerlo attraverso la mediazione della poetessa Morante, di cui egli aveva una grande soggezione. Tra l’altro, Elsa ha curato le musiche della Medea
.
Ha qualche curiosità da raccontarci?
 
Pasolini adorava tutta la pittura, in particolar modo quella rinascimentale. Sai, ha anche dipinto cose bellissime, apparentemente naif ma di grande inventiva. Usava tecniche particolare come il carboncino, le tempere, le terre. Mi ricordo un quadro, in cui aveva usato il tuorlo di un uovo per disegnare un sole dietro alcuni personaggi.
 
Fonte:
 

Curatore, Bruno Esposito

Collaborano alla creazione di queste pagine corsare:

Carlo Picca
Mario Pozzi
Alessandro Barbato
Maria Vittoria Chiarelli
Giovanna Caterina Salice
Simona Zecchi

DALLE TERZINE AL MAGMA, DALLA METRICA AL MONTAGGIO. LA DISSOLUZIONE DELLA FORMA POETICA NELL’ULTIMO PASOLINI

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro

 
 
 
 
DALLE TERZINE AL MAGMA, DALLA METRICA AL MONTAGGIO. LA DISSOLUZIONE DELLA FORMA POETICA NELL’ULTIMO PASOLINI
L'Ulisse
Rivista di poesia, arti e scritture.
Numro 16
Pier Paolo Pasolini di Caterina Verbaro

Il percorso poetico di Pasolini è forse il più adatto a esemplificare, nei modi estremi che all’autore sono propri, il profondo mutamento che investe le forme e la concezione stessa del poetico tra la codificazione metrica ed espressiva degli anni Trenta-Quaranta e la deregolamentazione degli anni Sessanta-Settanta.

Il Pasolini poeta nasce e si forma nell’alveo di una tradizione formale che, sebbene spesso avvertita come esaurita e impotente a esprimere il valore e il senso della realtà e perciò discussa e non di rado avversata, lascia nelle prime prove poetiche il segno profondo della propria eredità. In tal senso Pasolini incarna l’atteggiamento più proprio della modernità nei confronti della tradizione, se è vero che in lui il rapporto con il passato letterario è perennemente controllato e consapevole, filtrato da un costante discrimine che induce alla selezione e alla relazione piuttosto che all’epigonismo o al rifiuto. Già prima che il Pascoli, assunto a metà degli anni Cinquanta come architrave della storiografia poetica novecentesca e nume tutelare di «Officina»(1), iniziasse a funzionare come modello metrico ed espressivo delle Ceneri di Gramsci, nel 1942 in Poesie a Casarsa Pasolini aveva compiuto scelte emblematiche del suo rapporto, profondo quanto selettivo, con la tradizione. L’importanza dell’esordio poetico pasoliniano, com’è noto generosamente avallato da Contini(2), non sta infatti solo nella novità linguistica dell’uso di quel dialetto «di cà da l’aga», vergine di tradizione letteraria e di codificazione scritta, ma anche, specie nella riscrittura de La meglio gioventù del 1954, nella sapiente tessitura delle influenze formali che concilia la moderna poesia simbolista con le antiche letterature provenzali, e contamina il tutto con le strutture più proprie della poesia popolare, di cui Pasolini si occupa approfonditamente nei primi anni Cinquanta. La struttura formale e metrica del Pasolini friulano, come ha dimostrato fondatamente lo studio di Furio Brugnolo(3), rappresenta la prova più evidente non solo di una fedeltà alle istituzioni poetiche, ma anche di una fascinazione e predilezione per le forme chiuse e regolari che, anche attraverso l’uso costante della rima, ribadiscono la tradizionale dominante melodica del testo. Isomorfismo strofico, integrità ritmico-sintattica del verso, monometria del singolo testo, compongono un modello poetico che non identifica la propria valenza innovativa con la trasgressione prosodica, ma che semmai la affida alla «rievocazione agonistica»(4) dei modelli, innestando sulla vecchia e solida pianta della tradizione un intenso repertorio di motivi autobiografici e simbolici – Narciso, Il Figlio e la Madre, l’acqua – ovvero quella «posizione violentemente soggettiva» di cui parla Contini(5). L’uso di modelli metrici antichi e codificati rappresenta perciò un primo segnale dell’attitudine pasoliniana a costruire quello che lui stesso definisce il «tempo metastorico della poesia»(6), ovvero a concepire il linguaggio poetico come forma assoluta e a conferire così alla poesia una valenza atemporale che ne fa il luogo di rivelazione del sacro. In tal senso l’ipotesi che tenteremo di dimostrare è che il radicale cambio dei paradigmi poetici pasoliniani avvenuto intorno alla metà degli anni Sessanta, con l’abbandono della formulazione metrica del testo e l’allestimento di componimenti fondati sul principio sintattico del montaggio, non rappresenti un tradimento, bensì un ribadimento con mezzi diversi, di quella essenziale valenza assoluta e finalità di ierofania che Pasolini assegna alla poesia.

Il repertorio delle istituzioni metriche utilizzato da Pasolini a partire dai suoi esordi fino alla fine degli anni Cinquanta, in quel periodo poetico più tardi siglato come «la mia vecchia poesia»(7), è la prova di un’identità interamente costruita entro i confini del letterario, sebbene modernamente orientata verso la direzione dell’inquietudine formale quanto teorica, se è vero che per Pasolini la «libertà stilistica» non deve essere pretesto per un’elusione della problematica storica, morale, ideologica(8). Il passaggio dalla prima poesia friulana alla grande stagione poematica degli anni Cinquanta, mediato da alcune raccolte in lingua tra cui L’usignolo della Chiesa cattolica, da un punto di vista metrico conferma una sostanziale fedeltà all’orizzonte delle istituzioni poetiche, ampliato verso direzioni inconsuete, con un’apertura rilevante ai modelli stranieri poematici –
 
soprattutto quelli angloamericani di Eliot e Pound – e alla dimensione storica della poesia popolare. La seconda parte de La meglio gioventù, Romancero, rappresenta in tal senso il superamento della dimensione lirica e la costruzione di strutture poematiche a forte componente teatrale, che aspira alla proposizione poetica di un’epica popolare. È in questa sede che nascono alcune soluzioni metriche che, dalle Ceneri di Gramsci in poi, diverranno sigle proprie della poesia pasoliniana: pensiamo ad esempio all’uso del doppio settenario nel poemetto I Colùs, un metro che avrà una lunga storia nella poesia di Pasolini, dando origine a testi importanti come Recit in Ceneri e Supplica a mia madre in Poesia in forma di rosa; all’uso sistematico della rima imperfetta, vera e propria istituzione metrica pasoliniana, che nasce con le poesie friulane ma che nelle Ceneri di Gramsci accentua la sua valenza innovativa perché «tende ad essere neutralizzata tramite enjembement, o comunque ad essere assorbita nel continuum sintattico»(9); o più in generale pensiamo all’uso variato di metri tradizionali – non tanto ancora l’endecasillabo dantesco, quanto piuttosto il novenario carducciano e pascoliano, assunti come testimoni di un dialogo incessante con le forme poetiche della tradizione, ma tutt’altro che preservati da infrazioni e forzature ritmiche, secondo quel «ricupero dello spirito […] che vorremmo dir musicale» delle forme chiuse di cui parla Caproni in un saggio dedicato alla Meglio gioventù(10).

L’atteggiamento metrico del Pasolini precedente gli anni Sessanta è stato già da tempo formulato da Siti come compresenza di «attrazione» e «violazione» nei confronti della norma, con particolare riferimento all’istituzione dell’endecasillabo(11). Che effettivamente nelle Ceneri di Gramsci prevalga, come vuole Siti, un endecasillabo forzato in una duplice direzione di «complicazione» e di «semplificazione»(12), o che al contrario in questa raccolta la costante prosodica sia data dal ripetersi di tre o quattro accenti ritmici, secondo l’interpretazione nata con Fortini e ripresa da Mannino(13), certo è che Le ceneri di Gramsci presentano un panorama fondato sulla variazione di quel metro endecasillabico che rappresenterà per tutto il secondo Novecento il tassello formale più evidente e conflittuale di relazione con la tradizione metrica italiana(14).

Le ceneri di Gramsci è in tal senso l’irripetibile punto di equilibrio tra istanze discorsive e soggettive da una parte, e dall’altra un ampio quadro di istituzioni metriche e formali, che include non solo lo schema metrico prevalente, proprio di otto poemetti su undici, ovvero la scansione strofica in terzine di endecasillabi e l’uso della terza rima, secondo una linea che associa Dante ai Poemetti pascoliani, ma anche la strofa di novenari della tradizione tardo-ottocentesca, ripresa in L’umile Italia, i distici martelliani di Recit, la struttura della canzone provenzale e dell’ottava di Canto popolare. L’istanza argomentativa che percorre il testo pasoliniano necessita però di strumenti metrici e retorici malleabili, che garantiscano continuità ai diversi tratti versali e che amplino la portata strutturale della griglia metrica. Di questa esigenza connettiva si fa carico l’uso caratterizzante dell’enjembement versale e strofico, di memoria foscoliana e pascoliana, così come la valenza ritmicamente impropria dello stesso endecasillabo, sottoposto a una torsione ritmica generata dalla moltiplicazione degli ictus principali del verso, e l’istituzionalizzazione della rima imperfetta. Tutto questo produce un modello metrico che è insieme ancorato alle istituzioni formali ma pronto a infrangersi fino alla dissoluzione. È in tal senso significativo il fatto che la regolarità dello schema metrico vada progressivamente a ridursi negli ultimi poemetti della raccolta, a partire dal Pianto della scavatrice, non a caso il testo che tematizza la frattura dei tempi, tra un passato irrecuperabile e un futuro segnato dalla perdita dell’armonia («La luce/ del futuro non cessa un solo istante// di ferirci»)(15).

A partire dalla raccolta successiva alle Ceneri, La religione del mio tempo, ma con un’accentuazione decisa in Poesia in forma di rosa e Trasumanar e organizzar(16), viene progressivamente a perdersi nella poesia pasoliniana proprio quell’equilibrio tra l’utilizzazione di strumenti metrici e formali collaudati e la spinta soggettiva alla loro «violazione», nonché tra l’istanza discorsiva, ritmicamente prosastica, non di rado confessionale, e le istituzioni metrico-prosodiche più propriamente poetiche. L’esautoramento dei codici espressivi poetici dal proprio orizzonte testuale è in stretta relazione con la percezione della crisi e della frattura segnata dagli anni Sessanta(7). E non si tratta certo soltanto di un computo sempre più lacunoso di schemi metrici 
regolari, che vanno via via cedendo il posto a una più netta oratio soluta, quanto di una progressiva perdita di fiducia nell’incisività del dispositivo espressivo canonizzato come "poetico", fondato sulla coerenza e sulla tenuta testuale e basato su fenomeni di isotopia fonica, ritmica, metrica. Se, ad esempio, la prima sezione della Religione del mio tempo comprende ancora due testi pienamente riconducibili, per tonalità e scelte metriche ed espressive, alla stagione delle Ceneri – la strofa di endecasillabi sfrangiati a vario intreccio di rime del poemetto La ricchezza e il distico di doppi settenari a rima baciata di A un ragazzo -, le sezioni successive collazionano una varietà di schemi metrici fortemente personalizzati, come gli epigrammi della seconda sezione, tipicamente assertivi piuttosto che argomentativi, e la canzone petrarchesca reinterpretata nell’ultima sezione delle Poesie incivili(18).

Ma è soprattutto a partire da Poesia in forma di rosa che il discorso poetico pasoliniano sembra sempre più farsi irriconducibile a un canone metrico e formale definito. Non solo per quella varietà di moduli espressivi cui l’autore allude nella sua straniata definizione del testo - «libro di poesie e poemi – di Temi, Treni e Profezie, di Diari, e Interviste e Reportages e Progetti in versi»(19) - quanto per una complessiva valenza di struttura non necessitata che caratterizza la raccolta. Pur mantenendosi ancora in qualche componimento una parvenza di forma metrica codificata – le terzine de La Guinea e di Poesia in forma di rosa, i distici di Supplica a mia madre, la forma-ballata di Ballata delle madri -, l’eterogeneità complessiva delle scelte espressive della raccolta, insieme alla radicale opzione di svuotamento dei modelli metrici, fanno sì che già con Poesia in forma di rosa si affermi quella fuoriuscita dai canoni metrici che sarà pienamente compiuta qualche anno più tardi col verso informale e decisamente prosastico-giornalistico di Trasumanar e organizzar. La misura endecasillabica, occasionalmente presente in Poesia in forma di rosa, in testi come La realtà o La Guinea è sottoposta a un’oscillazione ben più radicale di quella «violazione» che caratterizzava l’uso poetico del primo Pasolini, tanto che, come scrive Raffaella Scarpa, siamo piuttosto davanti a «componimenti polimetrici in cui l’endecasillabo sembra più che scritto mimato»(20):

L’endecasillabo così transita, continuamente in andata e in ritorno, dal fortilizio della terzina dantesca, più raramente il distico, passando, in lacerti e accenni, alle poesie-fiore (anche queste, evidentemente, rigidità formali) e il sintatticamente detto, per cui il verso-frase livella i rilievi prosodici, giustificando l’a capo con esclusive motivazioni linguistiche. (21)

L’eterogeneità formale dei testi che compongono le diverse sezioni di Poesia in forma di rosa rappresenta l’esibizione polemica di una dissoluzione del modello poetico univoco e codificato, che produce antitesi formali multiple, dal testo iconico dei calligrammi di Nuova poesia in forma di rosa fino alla trasandatezza prosastica di Progetto di opere future, dalla forma-diario di L’alba meridionale e Israele fino al poema-sceneggiatura Una disperata vitalità.

Con Poesia in forma di rosa Pasolini approda dunque pienamente a una rivendicata ed esibita rinuncia a quello stigma della letterarietà rappresentato da una riconoscibile formulazione metrico-prosodica del testo, che nella modernità non si identifica ovviamente con le forme chiuse e codificate della tradizione, ma che richiede comunque dei requisiti individuabili e ricorrenti. Lo stesso Pasolini, con un’enfatizzazione affidata all’espediente grafico delle maiuscole, in Una disperata vitalità segnala metapoeticamente la fuoriuscita dalla metrica come approdo a un territorio di assoluta e irrelata anarchia, il «magma»:


«Versi, versi, scrivo! versi!
(maledetta cretina,
versi che lei non capisce priva com’è
di cognizioni metriche! Versi!)
versi NON PIU’ IN TERZINE! 
 
Capisce?
Questo è quello che importa: non più in terzine!
Sono tornato tout court al magma!
Il Neo-capitalismo ha vinto, sono
sul marciapiede
come poeta, ah [singhiozzo]
e come cittadino [altro singhiozzo.» (22)

Il «magma» - categoria metaforica utilizzata in quegli stessi anni anche da un poeta antitetico a Pasolini come Luzi(23) - nel discorso pasoliniano definisce icasticamente la spinta centrifuga operata nei confronti del testo poetico, ormai incapace di opporre la propria ratio espressiva al vorace disordine della realtà e dei linguaggi. Non a caso, nei saggi coevi poi raccolti in Empirismo eretico, Pasolini focalizza la forza distruttiva e fagocitante della lingua tecnologica e omologatrice della comunicazione e del Neocapitalismo, in forza della quale «nel futuro non ci sarà più richiesta di poesia»(24).

Dalla metà degli anni Sessanta in poi, per Pasolini la poesia è possibile solo a condizione che essa deponga la forma stessa del testo poetico e indossi la maschera del linguaggio magmatico dell’attualità: con Trasumanar e organizzar, uscito nel 1971 dopo la radicalizzazione del ruolo pubblico oppositivo del Pasolini intellettuale, appare ormai compiuto quel ciclo che conduce dalle forme chiuse della poesia friulana degli anni Quaranta alla totale dissoluzione metrica degli anni Sessanta-Settanta. Il verso informale che caratterizza la raccolta priva i testi non solo dei pur aperti vincoli metrici del versoliberismo, ma anche di qualunque connotazione ritmica e fonica, offuscando ogni possibile ricorsività di caratteri formali, a vantaggio di un discorso esemplato sul modello stilistico dell’articolo giornalistico. L’apparente estroversione dei significati dovuta alla cancellazione di ogni meccanismo di condensazione analogica, cela in realtà un complesso messaggio che mira a discutere e a ridefinire i confini stessi del poetico. Il catalogo delle infrazioni del codice è ricchissimo, e peraltro presenta non pochi punti di contatto con la rivisitazione dei parametri formali della poesia operati in quegli stessi anni dalla Neoavanguardia: la fuoriuscita da metri e ritmi poetici prevede versi del tutto prosaicizzati, un andamento dialogico con frequente uso dell’apostrofe in una trama discorsiva volutamente trasandata, la cancellazione di quel ritmo affannosamente argomentativo fondato sull’enjembement, la prevalenza della paratassi e di un’espressività tendenzialmente apodittica. Siamo davanti, come scrive Tricomi, a «un genere discorsivo inedito per violare le convenzioni della comunicazione letteraria»(25), che utilizza forme paratestuali come note e asterischi, oltre a infrazioni interpuntive e ortografiche, montaggio di citazioni e frammenti della lingua dell’attualità, duplicazioni e riprese testuali. La stessa unità di misura del verso è spesso di difficile individuazione, in quanto la segmentazione versale non risponde più a criteri né sillabici né ritmici, ma sembra dettata da un arbitrio discorsivo governato dalla sintassi piana e spesso lapidaria. L’organizzazione strofica è del tutto irregolare e spesso inesistente, e nel medesimo testo tendono a convivere frequenti monostici e lasse prosastiche che enfatizzano la dominante grafica e visiva.

Di fronte a questo appariscente «grado zero della metrica»(26), che proprio nella poesia dell’ultimo Pasolini istituisce in maniera lampante ed estrema il verso informale della poesia italiana del tardo Novecento, c’è però da chiedersi se non sia comunque possibile ipotizzare l’esistenza di un principio compositivo generale intorno al quale si organizzi una nuova modulazione del testo, e se la disarticolazione metrica non possa leggersi come il sintomo di una ricerca di nuovi assetti espressivi del testo poetico non necessariamente in negativo, ovvero come assenza di componenti formali canonizzate. Se è vero che nella modernità letteraria i caratteri metrici non si identificano con le forme codificate, ne consegue che il verso informale dell’ultimo Pasolini potrebbe celare una qualche ricorsività dei principi compositivi del testo, che ne definiscano se non una nuova metrica, almeno la ratio formale ed espressiva prevalente. 

 

La chiave di volta va a nostro avviso cercata in quella tendenza tipicamente pasoliniana all’interdiscorsività e all’ibridazione di generi e codici espressivi, che nella poetica dell’autore supplisce a un mancato plurilinguismo(27). È in tal senso significativa la coincidenza cronologica tra il profondo mutamento dei paradigmi poetici e la scoperta e la pratica dei nuovi linguaggi espressivi del teatro e soprattutto del cinema È lo stesso Pasolini a fornirci una chiave della rivoluzione del suo modello poetico nella miscidazione dei codici espressivi quando, nella prefazione al volume antologico delle sue poesie uscito nel 1970, Al lettore nuovo, a proposito della sua recente attività cinematografica scrive:

[…] tutti questi film io li ho girati «come poeta». Non è qui il caso di fare un’analisi sull’equivalenza del «sentimento poetico» suscitato da certe sequenze del mio cinema e di quello suscitato da certi passi dei miei volumi di versi. Il tentativo di definire una simile equivalenza non si è mai fatto, se non genericamente, richiamandosi ai contenuti. Tuttavia credo che non si possa negare che un certo modo di provare qualcosa si ripete identico di fronte ad alcuni miei versi e ad alcune mie inquadrature. (28)

A ciò Pasolini aggiunge l’influsso espressivo della scrittura teatrale, condensata in sei tragedie scritte nel 1966 (ma erroneamente egli le ascrive al 1965):

Ma, dal ’64 in poi, non ho scritto solo poesia attraverso il cinema: è solo per un anno o due che ho completamente taciuto come «poeta in versi» (pur scrivendo delle cose che son rimaste inedite e incomplete): nel ’65 sono stato un mese a letto ammalato, e, durante la convalescenza, ho ripreso a lavorare – e- forse perché durante la malattia avevo riletto Platone, con una gioia che non so descrivere – mi son messo a scrivere del teatro: sei tragedie in versi, a cui ho lavorato per tutti questi cinque anni […]. Evidentemente, in quel periodo, potevo scrivere versi solo attribuendoli a dei personaggi, che mi facessero da interposte persone. (29)

Se il codice teatrale sembra aver influito sull’assetto metrico ed espressivo degli ultimi testi poetici di Pasolini accentuando l’elemento dialogico e il movimento grafico e strutturale del testo, l’influsso modellizzante interdiscorsivo andrà invece cercato soprattutto nel cinema. E non tanto ovviamente, come afferma anche Pasolini, a livello contenutistico, ma per l’apporto formale e compositivo della pratica cinematografica, che andrà verificato su alcuni testi poetici degli ultimi anni. Di tale apporto cercheremo di focalizzare essenzialmente due aspetti: l’utilizzazione delle tecniche di montaggio e la sostituzione semiotica della componente fonica del testo poetico con quella visiva. L’effetto di tali opzioni espressive di ispirazione cinematografica sarà individuato in una dinamizzazione autofagocitante della forma poetica antitetica alla configurazione metrica del testo, ma coerente con gli sviluppi del pensiero pasoliniano su letteratura e realtà.

La saggistica cinematografica di Pasolini, risalente agli anni 1965-67 e raccolta in volume in Empirismo eretico nel 1972, torna spesso a riflettere sulle unità minime delle immagini – chiamate im-segni – e sulla loro modalità compositiva in una sintassi cinematografica(30). Si tratta di una questione non lontana dalle elaborazioni che in quegli stessi anni, soprattutto nell’ambito della Neoavanguardia, mettono in discussione le unità minime della versificazione, tanto la base sillabica del verso, quanto lo stesso concetto metrico-prosodico di "verso" connotato da isosillabismo e/o da isocronismo ritmico, alla ricerca di unità più ampie e dinamiche e di nuove modalità compositive del testo(31). La griglia metrico-prosodica, insieme all’uso connettivo dell’enjembement e della rima imperfetta, garantiva alla poesia del primo Pasolini una norma certa tanto rispetto all’identità del verso che alla necessità di composizione tra le unità minime del testo. A partire dagli anni Sessanta, se è vero che, come scrive Rinaldi, «la percezione della realtà è ormai filtrata dagli stereotipi del linguaggio cinematografico»(32), è legittimo ipotizzare che gli stessi mezzi tecnici utilizzati nella sintassi del cinema tendano a dispiegare le proprie potenzialità anche nell’ambito i
mpositivo della poesia. A orientare l’ordine compositivo del testo poetico sarà allora il montaggio, la tecnica di composizione sintattica connotante il cinema pasoliniano, prediletta proprio per la sua qualità straniante e antinaturalistica e la sua capacità di riscrivere la realtà secondo un ordine associativo piuttosto che consecutivo. Tanto che negli scritti teorici di Pasolini, il montaggio si attesta come il trait-d’union tra cinema e poesia. La tecnica del montaggio, con la sua attitudine a «far sentire la macchina», definisce per Pasolini la «tradizione tecnico-stilistica di un "cinema di poesia"»:

[…] la macchina, dunque, si sente, per delle buone ragioni: l’alternarsi di obbiettivi diversi, un 25 o un 300 sulla stessa faccia, lo sperpero dello zoom, coi suoi obbiettivi altissimi, che stanno addosso alle cose dilatandole come pani troppo lievitati, i controluce continui e fintamente casuali con i loro barbagli in macchina, i movimenti di macchina a mano, le carrellate esasperate, i montaggi sbagliati per ragioni espressive, gli attacchi irritanti, le immobilità interminabili su una stessa immagine ecc. ecc., tutto questo codice tecnico è nato quasi per insofferenza alle regole, per un bisogno di libertà irregolare e provocatoria, per un diversamente autentico o delizioso gusto dell’anarchia: ma è divenuto subito canone, patrimonio linguistico e prosodico, che interessa contemporaneamente tutte le cinematografie mondiali. (33)

I caratteri che Pasolini assegna alla tecnica del montaggio – di associazione incongrua tra le unità minime, di iperbolizzazione del dettaglio, di negazione dell’armonia, di esibizione dell’artificio compositivo, di resa simultanea del distinto – sono gli stessi che si possono facilmente rintracciare nella sua ultima produzione poetica, e ne costituiscono la stessa ragione compositiva.

Un esempio di come la tecnica del montaggio supplisca nel tardo Pasolini alla funzione metrica è dato dal poemetto Patmos, in Trasumana e organizzar, modulato su una tonalità profetica e sacrale innestata su un drammatico evento del presente, la strage di Piazza Fontana del 1969. Leggiamone alcuni passaggi:


Oreste Sangalli, 49 anni: «Presente!»
affittuario della cascina Ronchetto in via Merula 13 a Milano
mettiamo la sordina alla tromba di quell’Uno
lascia la moglie e due ragazzi, Franco di 13 e Claudio di 11
fare d’gni erba un fascio degli estremisti
si era recato al mercato di Piazza Fontana
va bene per i giornali indipendenti (dalla Verità)
come tutti i venerdì in compagnia di Luigi Meloni
ma un presidente della Repubblica!
Si erano momentaneamente lasciati a Porta Ticinese
Non si può predicare moderazione
e si erano dati appuntamento a Piazza Fontana
in un paese dove è appunto la moderazione che va male
Hanno trovato entrambi la morte
e dove non si può essere moderati senza essere banali
poco dopo essersi ritrovati.
Luigi Meloni, 57 anni presente:
commerciante di bestiame abitava a Corsico in Via Cavour
con la moglie e il figlio Mario, studente di 18 anni.
Possiede qualche piccola proprietà immobiliare.
Era venuto a Milano con la vettura del Sangalli.
E quando l’ebbi veduto io caddi ai suoi piedi come morto.
Ma egli pose sopra di me la sua destra e disse: 
Non temere, io sono il Primo e l’Ultimo.
Io sono il Medio, parvero dire Rumor e i suoi colleghi.
Non si può essere medi, qui, senza essere privi d’immaginazione.
Io sono il Primo e l’Ultimo, il Vivente.
Giulio China, 57 anni, presente!!
Era uno dei più importanti commercianti di bestiame di Novara,
dove possedeva due cascine. Lascia la moglie e due figlie sposate.
Ho subìto la morte, ma ecco, ora vivo nei secoli dei secoli.
(34)


Il montaggio è qui reso evidente dall’alternanza variamente giocata fra tre differenti ordini di discorso: l’inventario di cronaca delle vittime di Piazza Fontana, designate coi loro nomi, età, dati anagrafici, occupazioni, caratteri, in una tonalità che ricorda gli epicedi narrativizzati dell’Antologia di Spoon River di Lee Master; il discorso politico sulle dichiarazioni del Presidente Saragat e di altri esponenti democristiani dopo l’eccidio, in cui emerge il topos pasoliniano dell’invettiva proprio della sua ultima stagione saggistica; la riproposizione del Libro dell’Apocalisse dell’evangelista Giovanni, esiliato sull’isola di Patmos, dal tono decisamente profetico. È evidente che a conferire identità formale al testo non è più un principio sillabico o ritmico, quanto l’elemento dell’alternanza versale ottenuta mediante singoli versi o lasse versali interpolate e interferenti, che motivano peraltro il titolo metapoetico della sezione in cui il testo è inserito, Poemi zoppicanti. L’effetto espressivo ottenuto da Pasolini in Patmos mediante le composizione delle tre stringhe discorsive è la costruzione di un orizzonte metastorico. Le parole di Giovanni, il referto della strage, il commento politico, sono condotti su un medesimo asse temporale attraverso il montaggio di lacerti che sembra abolire o manipolare la dimensione spazio-temporale. Il principio del montaggio poetico produce non solo quella valenza onirica che Pasolini attribuisce al cinema(35), ma anche la costruzione di un tempo metafisico, ottenuto mediante il montaggio di versi o gruppi di versi paragonabili a fotogrammi montati in sequenza. In questo tempo sottratto alla propria storicità si afferma quella che Dorfles definisce l’«inconsecutio temporum» prodotta dal montaggio mediante l’«abolizione della normale continuità di spazio e tempo»(36).

Il montaggio cinematografico e quello poetico sono dunque associati da una medesima finalità mitizzante di creazione di una sincronicità metatemporale. In tal senso il montaggio poetico supplisce alla funzione di memoria e di ricognizione delle forme letterarie che nella poesia del primo Pasolini ha avuto l’assetto metrico del testo. Molti dei testi poetici dell’ultimo Pasolini procedono in base a un assemblaggio che vanifica la temporalità dei fatti, costruendo quello che l’autore definisce, nel saggio Osservazioni sul piano-sequenza, un «presente storico». Scrive Pasolini:

Il tempo del piano-sequenza, inteso come elemento schematico e primordiale del cinema – cioè come una soggettiva infinita – è dunque il presente […]; il cinema (o meglio la tecnica audiovisiva) è sostanzialmente un infinito piano-sequenza, come è appunto la realtà ai nostri occhi e alle nostre orecchie, per tutto il tempo in cui siamo in grado di vedere e di sentire […]. Ma dal momento in cui interviene il montaggio, cioè quando si passa dal cinema al film (che sono dunque due cose diverse, come la langue è diversa dalla parole), succede che il presente diventa passato […]: un passato che, per ragioni immanenti al mezzo cinematografico, e non per scelta estetica, ha sempre i modi del presente (è cioè un presente storico). (37)

Il montaggio è allora il mezzo ideale per concepire ed esprimere un tempo metastorico e assoluto, che esprima quella sacralità immanente, celata nella realtà e nel presente, il cui svelamento è sempre stato per Pasolini l’obiettivo e il senso ultimo della poesia(38). La scoperta del linguaggio cinematografico fornisce perciò al Pasolini poeta una valida alternativa all’uso sacralizzante dello strumento metrico, inteso come tecnica metastorica. 

 

Ma Patmos non fa che evidenziare un principio costruttivo che caratterizza tutta la raccolta di Trasumanar e organizzar, un asintattismo diffuso tra le diverse unità minime di versi o lasse, che problematizza la connessione tra le parti mediante un criterio associativo piuttosto che logico-cronologico. È in ciò evidente che al passaggio dal principio compositivo della metrica a quello del montaggio corrisponde un ribaltamento di segno dell’opera pasoliniana, poiché laddove la metrica ha tradizionalmente funzione connettiva e riconciliativa, il principio del montaggio evidenzia ed esibisce al contrario la disarmonia e la frattura(39). Il principio metrico si lega non a caso nel primo Pasolini a un investimento fiducioso nella parola letteraria come antitesi alla comunicazione ecolalica, che al contrario nell’ultimo Pasolini è assunta come orizzonte unico del linguaggio. Il «magma» e il montaggio sono i prodotti di quella apodittica affermazione che motiva in Una disperata vitalità l’abbandono delle «terzine»: «il neo-capitalismo ha vinto»(40). La forma metricizzata è infatti antitetica al topos dell’informe linguaggio-«balbettio» depotenziato e omologato che segna la metapoetica di Trasumanar e organizzar:

E infatti balbettate anche voi,
balbettiamo, ragazzi: PARLIAMO DEL PIU’ E DEL MENO
ché altro non sappiamo dire. (41)

L’abolizione della forma letteraria della parola – la metrica, lo stile – presuppone una nuova libertà verbale che è in realtà vuota comunicazione omologata ai disegni del Potere. In Comunicato all’Ansa (scelta stilistica) si legge:

Smetto di essere poeta originale, che costa mancanza
di libertà: un sistema stilistico è troppo esclusivo.
Adotto schemi letterari collaudati, per essere più libero.
Naturalmente per ragioni pratiche. (42)

Quella che in Trasumanar è stata definita «intenzione gestuale»(43) della poesia non è che la conseguenza della rinuncia a un proprio «sistema stilistico» compatibile coi codici riconosciuti come "poetici". In tal senso il cinema incide nell’organizzazione formale dell’ultima poesia pasoliniana non solo mediante il principio costruttivo del montaggio, ma anche promuovendo una sorta di rivoluzione semiotica che sostituisce, a supporto della poesia stessa, il segno visivo a quello fonico. Parlando di quelli che definisce i suoi «sceno-testi», ovvero i testi poetici che mimano la forma della sceneggiatura, Pasolini chiarisce che siamo davanti a una richiesta di integrazione di tipo visivo, per cui «l’autore di una sceneggiatura fa al suo destinatario la richiesta di una collaborazione particolare, quella cioè di prestare al testo una compiutezza "visiva" che esso non ha, ma a cui allude»(44). La differenza rispetto alla poesia fondata su referenti metrico-ritmici è evidente:

Un verso di Mallarmé o di Ungaretti raggiunge il suo significato solo attraverso una dilatazione semantica, o una coazione squisito-barbarica dei significati particolare: il che si ottiene attraverso la supposta musicalità della parola o dei nessi delle parole. Ossia dando delle denotazioni non attraverso una particolare espressività del segno, ma attraverso la prevaricazione del suo fonema. Mentre leggiamo, dunque, integriamo in tal modo il significato aberrante dello speciale vocabolario del poeta, seguendo due strade, quella normale, segno-significato, e quella anormale, segno-segno in quanto fonema-significato. (45)

Dunque accanto all’utilizzazione del montaggio come criterio essenziale della nuova sintassi poetica, alla dissoluzione metrica e formale dell’ultimo Pasolini concorre dunque un altro fattore: la sostituzione di un principio visivo-cinematografico ad uno ritmico-fonico. Ciò significa essenzialmente che non si individua più nell’elemento prosodico e musicale la componente 
essenziale del testo poetico. Tale presa di distanza dal segno fonico della lingua e della poesia, la cui capacità evocativa risulta imparagonabile a quella visiva, è esplicitata da Pasolini in alcuni passaggi della «sceneggiatura in forma di poema» Bestemmia(46):

Nel film ch’io penso, e a cui ti faccio pensare,
lettore,
sono un mago rozzo,
non voglio più aver bisogno dei filtri
evocativi della lingua;
la lingua è uno strumento grossolano, concerto
puerile di campanelli, che il poeta suona
per evocare stregandola la realtà.
Ma è solo quella realtà, che, una volta evocata conta!
Essa è la sola cosa bella e veramente amata!
Quante parole, strumento e stile,
per evocare un’immagine reale di Cristo sulla croce!
Ma io, con un uomo in carne e ossa,
con una vera croce di legno,
con chiodi veri,
e, vorrei, con vero sangue e vero dolore,
riproduco la realtà con la realtà.
La realtà nuova assomiglia,
assomiglia soltanto, alla vera realtà evocata;
ma è a sua volta una realtà. (47)


L’invenzione stessa del genere della poesia-sceneggatura allude alla necessità di costruire un testo poetico capace di fuoriuscire da se stesso, la cui significatività non discenda da se stesso ma dalla sua capacità di alludere ad altro, di evocare immagini, attivando così nei confronti della realtà un incessante meccanismo dinamico. La forma-poesia diventa così premessa, traccia per qualcos’altro. Si pensi alla più celebre ed esplicita di tali poesie-sceneggiature, Una disperata vitalità, in cui le indicazioni di regia sono esplicitate in didascalie che aprono le sezioni del testo («Senza dissolvenza, a stacco netto, mi rappresento/ in un atto – privo di precedenti storici – di/ "industria culturale"»)(48), e il testo sembra procedere come mediante tratti di un montaggio caotico, evidenziato dall’elencazione e dal segno grafico dei trattini («- una barca a motore che rientrava inosservata/ - i marinai napoletani coperti di cenci di lana/ - in incidente stradale, con poca folla intorno..»)(49) mediante veloci stacchi di inquadratura che segmentano i diversi spezzoni di un’unica scena e fanno in ciò avvertire la presenza della macchina. In alcuni passaggi del testo l’autore segnala le tecniche stesse di ripresa («Io volontariamente martirizzato … e,/ lei di fronte, sul divano:/ campo e controcampo, a rapidi flash»)(50), in una scena descritta come un dialogo in cui i personaggi entrano nelle inquadrature alternatamente, con rapidi stacchi sui due protagonisti e un montaggio veloce di primi piani ad ogni battuta, fino a rompere la sequenza delle inquadrature con un primo piano staccato sul monologo dell’io («"E di che parla?"/ "Beh, della mia … della Sua, morte./ Non è nel non comunicare, [la morte]/ ma nel non essere compresi…// (Se lo sapesse, il cobra/ ch’è una fiacca pensata/ fatta tornando da Fiumicino!)»(51).

Il tentativo di mettere in relazione due diversi codici espressivi, quello verbale e quello cinematografico, evidente nel caso degli «sceno-testi», è in realtà una costante dei componimenti poetici dell’ultimo Pasolini. Si pensi ad esempio a Proposito di scrivere una poesia intitolata «I primi sei canti del Purgatorio», che rappresenta il tentativo di "tradurre" in linguaggio cinematografico la luce dantesca, ovvero l’utopia di «trasumanar», di dare corpo di luce alle parole:

Si è ripresentato l’Angelo del Falsetto.
 


[…]

E così vado verso il balbettio
-che contiene ogni lingua –
Ridendo.

[…]

Là tra carte svalutate e spregiate
Tutto ciò che so s’identifichi
disonestamente, per partito preso,
in una scienza della luce. (52)


Il fine ultimo di questo tipo di meccanismi di contaminazione di codici espressivi è la costruzione di una forma dinamica, che proceda dalla parola all’immagine alla realtà, ovvero di perseguire, come si legge in La sceneggiatura come «struttura che vuol essere altra struttura», «oltre che la forma "una volontà della forma a essere un’altra" […], la "forma in movimento" […]. La sincronia del sistema degli sceno-testi pone come elemento fondamentale la diacronia. Ossia, ripeto, il processo»(53).

Quello dell’ultimo Pasolini è dunque un testo poetico non solo metricamente informale, quanto processuale, dinamico e aperto, e perciò portatore di un concetto di forma antitetico all’iconismo e alla compattezza delle isotopie che connotano il testo metrico della poesia. Una nozione di forma poetica incompatibile con la corrente concezione metrica, anche la più aperta e irregolare, che per sua natura racchiude il testo entro i limiti del definito e del misurabile. Al contrario siamo ora davanti a una forma intesa come relazione: come scrive Gordon, «the apparent formlessness of Trasumanar e organizzar is yet another interrogation of the nature of form itself, and its relation to self and reality»(54).

Nel corso della sua opera, Pasolini ha dunque coltivato una duplice nozione di poesia. La prima designa la poesia come genere, la cui regolamentazione formale pone il discorso poetico agli antipodi rispetto al «balbettio» informe della comunicazione. La seconda è invece una nozione di poesia essenzialista e «translinguistica»(55), non legata cioè al genere, che allude alla poesia come «inespresso esistente»(56), luogo della rivelazione del sacro e del dionisiaco, «qualcosa di buio in cui si fa luminosa/ la vita»(57). Nel Pasolini degli anni Sessanta-Settanta è quest’ultima nozione a prevalere: e bisogna che la poesia rinunci allora ai propri requisiti formali di genere perché se ne salvi l’essenza. Il messaggio sacrale e metastorico della poesia deve essere perseguito ora non più con una strumentazione costruttiva e introversa quale l’ordine metrico, bensì con un’organizzazione formale, come quella realizzata col montaggio delle inquadrature, sistematicamente destrutturata, aperta, relazionale. Risiede in ciò l’ultima delle grandi contraddizioni pasoliniane: perché se da una parte la forma sistematicamente inquieta ed estroversa abiura i motivi fondanti del genere, dall’altra parte questa stessa dissoluzione formale, rinunciando a «significar per verba», allude alla sacralità indicibile del «trasumanar».

Caterina Verbaro  
 

 

Note.

(1)

Il saggio pasoliniano su Pascoli apre il primo numero di «Officina», segnalando l’intenzione di «fondare una revisione di tutta l’istituzione stilistica novecentesca (da farsi appunto in gran parte risalire alla ricerca pasco liana)» (P. P. Pasolini, Pascoli, in «Officina», 1, 1, 1955, ora in id., Saggi sulla letteratura e sull’arte, a cura di Walter Siti e Silvia De Laude, tomo 1, Mondadori, Milano 1999, p. 997. L’intenzione critica e storiografica di Pasolini viene espressa ancora più esplicitamente in due lettere riportate in Iid., Note e notizie sui testi, ivi, tomo 2. Nella prima, indirizzata da Pasolini a Francesco Leonetti e Roberto Roversi, si legge: «[…] il Pascoli, se esaminato in funzione dell’istituzione linguistica specie futura, è un pretesto ottimo per dare uno sguardo panoramico su tutto il Novecento» (ivi, p. 2926). Nella seconda lettera, indirizzata a Vittorio Sereni, Pasolini presenta il progetto della rubrica storiografica di «Officina» imperniato sul Pascoli: «"La nostra storia": in cui verranno collocati studi su poeti o periodi letterari angolati dal punto  di vista dei loro effetti culturali e stilistici nel novecento […] con un fine revisorio e tendenziale, lo sforzo, sia pure ancora incompleto e in fieri, di un superamento. Ma avrai meglio un’idea di quello che intendo dire leggendo nel primo numero il mio saggio sul Pascoli» (ivi, pp. 2926-27). Lo studio di G. Contini, Al limite della poesia dialettale, esce in «Corriere del Ticino» il 24 aprile 1943; ripubblicato in varie sedi, è oggi leggibile in P. Voza, a cura di, Tra continuità e diversità: Pasolini e la critica. Storia e antologia, nuova edizione riveduta e ampliata, Napoli, Liguori, 2000, pp. 53-56.
(2)
F. Brugnolo, Il sogno di una forma. Metrica e poetica del Pasolini friulano, in G. Santato, a cura di, Pier Paolo Pasolini. L’opera e il suo tempo, Cleup, Padova 1983, pp. 271-325.
(3)
Ivi, p. 307.
(4)
Contini, Al limite cit., p. 53.
(5)
P. P. Pasolini, La volontà di Dante a essere poeta, 1965, in Empirismo eretico, Garzanti, Milano 1972, ora in Id., Saggi sulla letteratura cit., tomo 1, p. 1380.
(7)
Id., Al lettore nuovo, in Id., Poesie, Garzanti, Milano 1970, ora in Id., Saggi sulla letteratura cit., tomo 2, p. 2517.
(8)
«Al di là di questo sperimentalismo storicamente attuale, quale tradizione recente e persistente del novecentismo […] si presenta, con una violenza che trascende l’ambito letterario, la necessità di un vero e proprio sperimentalismo, non solo graduale e intimo, sprofondato in un’esperienza interiore, non solo tentato nei confronti di se stessi, della propria irrelata passione, ma della stessa nostra storia» (Id., La libertà stilistica, 1957, in Passione e ideologia, Garzanti , Milano 1960, ora in Id., Saggi sulla letteratura cit., tomo 1, p. 1231).
(9)
Brugnolo, Il sogno cit., p. 325.
(10)
G. Caproni, Appunti – Pasolini, in «Paragone», febbraio 1955, p. 83, ora in Voza, Tra continuità cit., p. 66.
(11)
W. Siti, Saggio sull’endecasillabo di Pasolini, in «Paragone», XXIII, 270, agosto 1972, pp. 9-61.
(12)
Cfr. ivi, pp. 40-41.
(13)
Fortini teorizza la prevalenza del verso accentuale nella poesia contemporanea in alcuni interventi degli anni Cinquanta, tra cui Metrica e libertà, 1957, Verso libero e metrica nuova, 1958, Su alcuni paradossi della metrica moderna, 1958, ora tutti raccolti in F. Fortini, Saggi ed epigrammi, a cura e con introduzione di L. Lenzini e uno scritto di R. Rossanda, Mondadori, Milano 2003, pp. 783-797. L’analisi di Mannino, in conflitto con l’interpretazione metrica di Siti e sulla scorta della teoria fortiniana, rileva la presenza costante di tre o quattro ictus principali nell’endecasillabo, sul modello rispettivamente montaliano e carducciano; cfr. V. Mannino, Il ‘discorso’ di Pasolini. Saggio su "Le ceneri di Gramsci", Argileto, Roma 1973, pp. 132-146.
(14)
Sulla rivisitazione dell’endecasillabo nella poesia contemporanea, si veda R. Scarpa, Endecasillabo e verso libero nella poesia degli anni Sessanta e Settanta, in Ead., Secondo Novecento: lingua, stile, metrica, Edizioni dell’Orso, Alessandria 2011, pp. 115-146.
(15)
P. P. Pasolini, Il pianto della scavatrice, in Id., Le ceneri di Gramsci, Garzanti, Milano 1957, ora in Id., Tutte le poesie, a cura e con uno scritto di W. Siti, Mondadori, Milano 2003, tomo 1, p. 849.
(16)
Uscite presso Garzanti nel 1961, 1964, 1971, le tre raccolte sono ora ivi, rispettivamente tomo 1, pp. 889-1078 e 1079-1297, e tomo 2, pp. 3-389.
(17)
Si veda ad esempio quanto Pasolini scrive su La religione del mio tempo: «La religione del mio tempo esprime la crisi degli anni Sessanta… La sirena neocapitalistica da una parte, la desistenza rivoluzionaria dall’altra: e il vuoto, il terribile vuoto esistenziale che ne consegue» (Id., in «Il tempo», 45, 16 novembre 1961).
-(18)
Sulle soluzioni formali della Religione del mio tempo si veda l’attenta analisi condotta da A. Tricomi, Sull’opera mancata di Pasolini. Un autore irrisolto e il suo laboratorio, Carocci, Roma 2005, pp. 157-165.
(19)
Pasolini, risvolto di copertina di Poesia in forma di rosa, 1964 cit.
(20)
Scarpa, Endecasillabo cit., p. 138. Si legga un esempio di falso endecasillabo nella seguente terzina: «La Guinea… polvere pugliese o poltiglia/ padana, riconoscibile a una fantasia/ così attaccata alla terra, alla famiglia» ( P.P. Pasolini, La Guinea, in Poesia in forma di rosa cit., in Id., Tutte le poesie cit., tomo 1, p. 1086). Qui all’ipermetria versale si aggiunge, con l’eccezione dell’ultimo verso, una forte anomalia ritmica relativamente agli ictus principali, che ad es. nel primo verso sono in 5ª, 9ª e 12ª posizione.
(21)
Scarpa, Endecasillabo cit., p. 138.
(22)
P.P. Pasolini, Una disperata vitalità, in Poesia in forma cit., in Id., Tutte le poesie cit., tomo 1, p. 1185.
(23)
Cfr. M. Luzi, Nel magma, All’insegna del pesce d’oro, Milano 1963, poi edizione accresciuta Garzanti, Milano 1966.
(24)
P. P. Pasolini, Nuove questioni linguistiche, 1964, in Id., Saggi sulla letteratura cit.,tomo 1, p. 1269. Scrive infatti Pasolini: «Si può dire insomma che mai nulla nel passato, dei fatti linguistici fondamentali ebbe un tale potere di omologazione e di modifica su piano nazionale e con tanta contemporaneità; né l’archetipo latino del rinascimento, né la lingua burocratica dell’Ottocento, né la lingua del nazionalismo. Il fenomeno tecnologico investe come una nuova spiritualità, dalle radici, la lingua in tutte le sue estensioni, in tutti i suoi momenti e in tutti i suoi particolarismi» (ivi, p. 1264).
(25)
Tricomi, L’opera mancata cit., p. 229.
(26)
P. Giovannetti, La metrica, in Id., Modi della poesia italiana contemporanea, Carocci, Roma 2005, p. 135.
(27)
Cfr. W. Siti, Tracce scritte di un’opera vivente, in P. P. Pasolini, Romanzi e racconti, a cura di W. Siti e S. De Laude, Mondadori, Milano 1998, p. XXIX; F. La Porta, Pasolini, uno gnostico innamorato della realtà, Le Lettere,  Firenze 2002, pp. 61-64; S. Giovannuzzi, Un tempo di passaggio, in Id., a cura di, Gli anni ’60 e ’70 in Italia. Due decenni di ricerca poetica, S. Marco dei Giustiniani, Genova, 2003, pp. 14-15.
(28)
Pasolini, Al lettore cit., p. 2511.
(29)
Ivi, pp. 2511-12.
(30)
«Cos’è, fisicamente, l’im-segno? Un fotogramma Una durata articolare di fotogrammi? Un insieme pluricellulare di fotogrammi? Una sequenza significativa di fotogrammi dotati di durata? Questo deve essere ancora deciso. E non lo sarà finché non si avranno i dati per scrivere una grammatica del cinema» (P. P. Pasolini, La sceneggiatura come «struttura che vuol essere altra struttura», 1965, in Id., Saggi sulla letteratura cit., p. 1495).
(31)
Si vedano in particolare gli scritti teorici e critici di A. Giuliani raccolti in Immagini e maniere, Feltrinelli, Milano 1965, oltre alla sua Prefazione a Id., a cura di, I Novissimi. Poesie per gli anni Sessanta, Rusconi e Paolazzi, Milano 1961, ora in R. Barilli – A. Guglielmi, a cura di, Gruppo 63. Critica e teoria, Testo e Immagine, Torino 2003, pp. 32-45.
(32)
R. Rinaldi, La morale del travelling. Per una figura poetica pasoliniana, in «Studi pasoliniani», 4, 2010, p. 24.
(33)
P.P. Pasolini, Il «cinema di poesia», 1965, in Id., Saggi sulla letteratura cit., pp. 1485-86.
(34)
Id., Patmos, in Id., Tutte le poesie cit., tomo 2, pp. 127-128. Sul poemetto si vedano anche le considerazioni di F. Pisanelli, La violence du pouvoir. Le regard de Pier Paolo Pasolini, in «Cahiers d’études italiennes», Novecento… e dintorni. Images littéraires de la société contemporaine, 3, 2003, pp. 108-109.
(35)
«[…] il cinema è fondamentalmente onirico per la elementarità dei suoi archetipi (che rielenchiamo osservazione abituale e quindi inconscia dell’ambiente, mimica, memoria, sogni) e per la fondamentale prevalenza della pre-grammaticalità degli oggetti in quanto simboli del linguaggio visivo» (Id., Il «cinema di poesia» cit., p. 1467).
(36)
G. Dorfles, Discorso tecnico delle arti, Christian Marinotti , Milano 2003, p. 249. Sul montaggio come tecnica metrica novecentesca si veda P. Giovannetti-F. Lavezzi, La metrica italiana contemporanea, Carocci Roma 2010, pp. 30-31 e 202-204.
(37)
Id., Osservazioni sul piano-sequenza, 1967, in Id., Saggi sulla letteratura cit., pp. 1556-1559.
(38)
Nell’intervista rilasciata nel 1969 a New York a Giuseppe Cardillo, Pasolini spiega chiaramente la funzione sacralizzante del montaggio: «in Accattone mancano i piani-sequenza, e quindi in Accattone ha un’estrema importanza il montaggio. Accattone è quindi formato da una serie di immagini molto brevi, frammenti brevissimi, ognuno dei quali corrisponde a un momento della realtà, dalla durata breve ed intensa; uso una terminologia abbastanza vaga. Ora cosa significa questo? Il piano-sequenza è la tecnica cinematografica di tipo più naturalistico. Cioè, quando io voglio dare il senso della naturalezza di una scena, faccio un piano-sequenza: sto lì con la macchina da presa, colgo l’intera scena in tutta la sua durata: un uomo entra in una stanza, beve un bicchiere d’acqua, guarda fuori dalla finestra, se ne va. Rappresento, da un certo punto di vista, tutta questa scena senza soluzione di continuità, in maniera che il piano-sequenza ha la stessa durata temporale dell’azione stessa della realtà. E questo quindi è un momento naturalistico del cinema. Ora, la mancanza totale di piani-sequenza in Accattone esclude il momento naturalistico. E invece la presenza di tante inquadrature staccate l’una dall’altra significa che io ho visto la realtà momento per momento, frammento per frammento, oggetto per oggetto, viso per viso. E quindi in ogni oggetto e in ogni viso, visto frontalmente, ieraticamente in tutta la sua intensità, è venuta fuori quella che dicevamo prima: la sacralità» (in Pasolini rilegge Pasolini, intervista con G. Cardillo, a cura di L. Fontanella, Archinto, Milano 2005, pp. 53-54).
(39)
Sul principio riconnettevo della metrica, cf r. S. Pastore, La frammentazione e la continuità nella poesia del ‘900: aspetti metrici, Istituti editoriali e poligrafici, Pisa-Roma 1999.
(40)
P.P. Pasolini, Una disperata vitalità cit., p. 1185.
(41)
Id., Poema politico, in Trasumanar e organizzar, in Id., Tutte le poesie cit., tomo 1, p. 178.
(42)
Id., Comunicato all’Ansa (scelta stilistica), ivi, p. 76.
(43)
Tricomi, L’opera mancata cit., p. 219.
(44)
P.P. Pasolini, La sceneggiatura cit., p. 1492.
(45)
Ivi, p. 1493.
(46)
Id., Appendice a Bestemmia, in Id., Tutte le poesie cit., tomo 2, p. 1113.
(47)
Id., Bestemmia, ivi, p. 1015.
(48)
Id., Una disperata vitalità cit., p. 1185.
(49)
Ivi, p. 1182.
(50)
Ivi, p. 1185.
(51)
Ivi, p. 1186.
(52)
Id., Proposito di scrivere una poesia intitola «I primi sei canti del Purgatorio», in Trasumanare organizzar, in Id., Tutte le poesie cit., p. 64.
(53)
Id., La sceneggiatura cit., pp. 1497-99.
(54)
R. Gordon, Rhetoric and irony in Pasolini’s late poetry, in P. Hainsworth e E. Tandello, a cura di, Italian Poetry Since 1956, supplemento a «The Italianist», 15 1995, p. 140.
(55)
«L’avvento delle tecniche audiovisive, come lingue, o quanto meno, come linguaggi espressivi, o d’arte, mette in crisi l’idea che probabilmente ognuno di noi, per abitudine, aveva di una identificazione tra poesia – o messaggio – e lingua. Probabilmente, invece – come le tecniche audiovisive inducono brutalmente a pensare - ogni poesia è translinguistica» (P.P. Pasolini, La lingua scritta della realtà, in Empirismo eretico cit., in Id., Saggi sulla letteratura cit., tomo 1, pp. 1504-05) 
(56)
G. Giudici, Pasolini: l’inespresso esistente, Prefazione a P.P. Pasolini, Bestemmia. Tutte le poesie, Garzanti, Milano 1993, tomo 1, pp. VII-XXI.
(57)
Id., La Guinea cit., p. 1085.


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Curatore, Bruno Esposito

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