"ERETICO & CORSARO"
DAMIANO BENVEGNÙ
Narciso in una doppia scrittura:
da La meglio gioventù a La nuova gioventù
Non è semplice riassumere – in quelle che spero saranno non troppe parole – il rapporto fra corrispondenze e scarti, fra l’afferrare e l’essere afferrati (come scrisse Warburg a proposito del sogno della coscienza), tra il mito di Narciso ed un poeta che ha sempre messo in evidenza il proprio marchio narcistico quale è stato Pier Paolo Pasolini; ed inquadrare il tutto entro quell’alfaomega che ha rappresentato la sua doppia produzione poetica in dialetto.
Tuttavia, se dovessimo dare conto di quanto ha scritto Anna Panicali in un suo saggio dedicato all’ultima gioventù pasoliniana, che «fin dalla prima raccolta di poesie, la vita, in equazione metastorica con Casarsa […], è sentita come fine che rinvia all’origine, a un prima del nostro esistere al mondo(1)», allora sempre all’interno di questa equazione da tempo mitico, secondo una struttura
circolare che ritorna eternamente a se stessa, anche la storia di Narciso deve risalire ad un prima, e precisamente a quel prima della profezia di Tiresia, o, perché no?, a quel prima di violenza attraverso cui il dio-padre (il fiume Cefiso nel mito ovidiano) impose il suo desiderio alla madre-ninfa-Liriope. Già qui avremmo forse una prima corrispondenza con quello che ci interessa: se diamo fede alle narrazioni biografiche, queste riportano l’incontinenza del giovane tenente fascista Carlo Pasolini nei confronti della religiosa maestra Susanna Colussi (il cui matrimonio, date alla mano, si celebra soli quattro mesi precedenti la nascita del primogenito Pier Paolo). Ma sul rapporto del Narciso di
Casarsa nei confronti del desiderio del padre e/o della madre torneremo quando avremo possibilità di affrontarlo come modalità dei e nei testi. Come, per dir così, “scena primaria”, valga quel che valga, cioè una traccia mnestica all’interno di una serie sulla cui occorrenza storica o reale non è detto che ai nostri fini sia necessario soffermarsi, ma che ha avuto modo di ripetersi anch’essa, a quanto ci ha raccontato lo stesso Pasolini. Più importante la profezia di Tiresia, che risponde alla domanda della madre con il fatidico «Si se non noverit»(2), cioè «se non conoscerà se stesso, purché non si riconosca»: profezia di risveglio mortifero da un iniziale accecamento immaginario e che ruota tutta intorno alla pulsione scopica di Narciso (etimologicamente dal greco “nàrke”, così preso già dal nome nel torpore del sonno) nei confronti dell’oggetto amato, del proprio desiderio quindi, che lo porta dal misconoscimento della propria identità (e parallelo rifiuto dell’altro assoluto e simbolico rappresentato dalla ninfa Eco) se non come cattura del simile, fino ad un riconoscimento-risveglio appunto che coincide con la morte dell’identità a sé del soggetto e con l’occultamento (ma anche qui, come parallela inscrizione all’interno dell’ordine simbolico) di quello che Agosti, nel suo saggio del 2004 dedicato alla “parola fuori di sé” pasoliniana, chiama il corpo morto(3).
Il mito di Narciso è così in Pasolini scritto attraverso un registro doppio e per certi versi circolare, che passa dalle prime poesie in dialetto alla loro riscrittura, alla loro Seconda forma, dove il soggetto subisce un processo di traduzione che lo porta a rivelare la dissimulazione che stava invece alla base della prima identità. Senza però, proprio come nel mito, ritrovarsi nella certezza del sé, se non come impossibile reale, estraneità assoluta ed irriconoscibile nel “soto tera” (secondo il canto degli alpini da cui Pasolini prese il titolo della sua raccolta) della morte. Già l’utilizzo apparentemente pacifico del dialetto friulano, prima in quelle Poesie a Casarsa, in cui fin dal titolo l’ambiguità del vocativosottolinea – come ha scritto Gardair – «la divaricazione ultima fra presenza e dedica»(4), e poi nei testi de La meglio gioventù edita nel ’54, riesce da un lato a dissimulare quanto il dialetto stesso sia non semplicemente una scelta culturale ma la cattura del desiderio dell’altro tramite la lingua (secondo la struttura significante ed altrettanto mitica dell’ascolto della parola mai scritta «rosada» in bocca ad un fanciullo amato da parte di Pasolini5), e dall’altro di come questa cattura implichi la formazione di un soggetto secondo uno schema di sovversione per cui è appunto dall’altro materno (ma, ricordiamolo, la madre Susanna non parlava affatto il dialetto contadino di Casarsa, come d’altronde lo stesso Pier Paolo, ma un misto veneto-italiano che era poi quello tipico della piccola borghesia del tempo) in opposizione al codice del padre, che egli riceve la propria immagine. Altro, però, in questo caso, che si modula sempre sul riflesso del simile couterino, per così dire, secondo un processo di regressione per il quale il Narciso di Casarsa è un Narciso totale in grado di identificarsi con tutte le immagini che le varie forme d’onda del mondo chiuso e autosufficiente della campagna friulana (le rogge, l’acqua «frescia» della fontana, ma anche i prati, le ombre, l’immagine di Casarsa che si specchia in se stessa e in cui compaiono i volti amati) portano agli occhi. In Poesie a Casarsa e poi in tutto il nucleo più antico e per così dire monolinguistico (Contini la definì lingua «marmorea») de La meglio gioventù (che è quello che sarà sottoposto al rifacimento, escludendo così dalla seconda forma la sezione finale del volume che vede invece comparire anche altre varianti dialettali e un inizio di impegno civile e politico) il giovane Pasolini ricalca il mito ovidiano servendosi proprio di una lingua non sua, che egli in parte apprende ed in parte inventa, per quanto il già squisito intellettuale faccia di tutto per inserirla all’interno di una tradizione che affonda nel provenzale, e che permette la tenuta dell’io, al tempo stesso Uno e Tutti, il quale pur nei suoi riflessi si presenta sempre «dut intèir coma un flòur»(6) [tutto intero come un fiore], come possiamo leggere in Dansa di Narcìs. Ogni possibile lacerazione viene così eliminata dal mondo poetico di Casarsa in cui tutto muore e rinasce nell’ambiente familiare e per nulla perturbante della ciclica vita contadina: la fascinazione regge tutti i possibili scambi, tanto che l’immagine diventa al tempo stesso soggetto ed oggetto d’amore e le contraddizioni vengono riassorbite in quella purezza del «cuarp», del corpo vivo, vivente, in grado di modulare i contrari, fosse anche l’estremo assoluto della morte, ma in questo caso anch’essa a portata di mano, o forse meglio, di sguardo, nella specie, come ha scritto Zanzotto, del camposanto appena fuori il paese.
Notevole è dunque la ricorrenza da un lato proprio di Narciso fin dai titoli (il già citato Danza di Narcis in tre parti, Pastorela di Narcìs in cui l’identificazione, lo scambio – proprio a segnare l’ambiguità del desiderio – avviene non più con un «frut» [ragazzo, fanciullo], ma con una «frutina» [ragazzetta], con una «fantata» [giovane], la quale ha «i vuj di me mari»(7) [gli occhi di mia madre]) e nei testi (uno per tutti, la seconda lirica della raccolta, dal titolo Il nini muàrt, in cui troviamo scritto: «Jo ti recuardi, Narcìs, ti vèvis il colòur / da la sera, quand li ciampanis / a sùnin di muàrt»(8) [Io ti ricordo, Narciso, avevi il colore della sera, quando le campane suonano a morto], nella quale l’ambiguità dell’identificazione giunge a darsi nell’appellare l’altro, ad un tempo al di qua e al di là, qui e altrove, ora e nella memoria, col nome di Narciso); e dall’altro il continuo comparire dell’emblema narcissico per eccellenza, lo specchio, nel quale in un testo, Suite furlana, il soggetto mette in scena la propria bidimensionalità riconoscendosi esclusivamente come Forma (con un significativo passaggio dall’una all’altra strofe, del protagonista dell’azione, dapprima «un frut», poi tranquillamente «Jo»(9) ). Non è un caso poi che proprio in quest’ultimo testo, dietro lo specchio ci sia la madre fanciulla, la quale è detta anche essere la stessa luce della vita del soggetto.
Tuttavia, come dicevamo, è solo grazie ad una rimozione che questa identificazione avviene: rimozione celata la cui spia potrebbe essere la dedica che Pasolini fa del proprio primo libretto al padre lontano, che è al tempo stesso una provocazione (il padre infatti mal sopportava il dialetto rustico dei contadini di Casarsa e tutto l’ambiente per così dire materno) e una dichiarazione d’amore
appunto di lontano (in una lontananza reale, Carlo Alberto era infatti prigioniero in Africa, e metaforica, quanto poteva essere quella fra Casarsa e la Domodossola di Contini, altro padre dedicatario prima dell’edizione del ’54 e poi ancora de La nuova gioventù). Rimozione che si manifesta linguisticamente invece nell’ambiguità del rapporto fra il dialetto e l’italiano, per cui Pasolini considera le sue traduzioni alle liriche friulane «parte integrante del testo» (incorrendo così nella disapprovazione di Contini che parla nella sua famosa prima recensione su «Il corriere del Ticino» di «non bella traduzione letterale»), ma al tempo stesso traducendo direttamente dall’italiano al friulano, come è avvenuto per molte poesie, tanto che si potrebbe dire – come hanno scritto alcuni studiosi di Pasolini – che il vero originale siano le traduzioni e non i testi in dialetto. La lingua italiana si pone così sotto il segno di un tradimento, secondo il detto comune traduttore-traditore ed ultra, in cui l’assenza è un atto di quel nascondimento (gioco del desiderio come nel fort-da freudiano) di cui parlerà Fortini a proposito dell’utilizzo pasoliniano proprio del dialetto, la cui natura doppia trova invece sede nei contemporanei testi de L’usignolo della Chiesa cattolica, in cui oltre a Narciso vediamo comparire anche l’immedesimazione, fra il divino e il satanico, col il Cristo della Passione: forma primordiale di Aufhebung – come sostiene Lacan – che compensa la figura del padre metaforicamente morto.
È per certi versi dunque tutto il mondo liquido, amniotico, di Casarsa che permette a quel rustico amore di mantenersi nell’inganno, di riflettere in maniera infinita l’immagine amorosa del sé entro un cerchio paradisiaco che, come scrive Pasolini a proposito del dialetto, non conosce trasgressione, ma nemmeno quella verità che è propria, hegelianamente, del Discorso, e non del Canto, del padrone. Perché poi, la Verità del Canto non può essere detta ma solo appunto cantata, balbettata.
Il mondo di Casarsa, tràdito attraverso una traduzione ed un tradimento (compiuto anche nel passaggio dall’oralità alla scrittura), è dunque anche quello che permette la formazione di quello che potremmo chiamare con Valéry un “Narciso generalizzato”, considerando però come quello di Pasolini operi sul lato contrario rispetto al francese: al «togliete tutto affinché io possa vedere» di
Monsieur Teste, il Narciso pasoliniano risponde con un «mettete tutto affinché io possa rimanere nell’accecamento», quell’accecamento che nel momento in cui sarà svelato ne La nuova gioventù, farà passare il soggetto dal campo del simile o del medesimo, tutto preso nel gioco dialettico dei rispecchiamenti, a quello effettivamente dell’Altro, presente fin dall’inizio nell’uso della lingua
desiderante ma rimosso, con quegli effetti tipici di ripetizione, o di ripetizione della ripetizione, come in una mise en abîme che giunge ribattendosi ai territori della morte definitiva, organica, secondo poi quel precetto di seconda morte tipicamente sadiano, in un al di là di piacere che coglie il godimento. «Lo Sdoppiato ritorna umilmente Unico»(10) come Tiresia e come Pasolini stesso scrive in Bestia da stile, dove l’accento va messo sull’umilmente (da humus, secondo quel modulo cifrato come un sogno, che fa risuonare questo avverbio con il soto-tera del canto degli alpini, il quale peraltro ricompare anche in una delle scene più terribili di Salò) e sull’Unico, non Uno ma Unico, che altro non è che il segno meno (così come in maniera lugubre e con incoscienza matematica viene detto “meno uno”) del corpo morto inscritto – come sostiene Agosti – in maniera interminabile e postuma nel linguaggio. E dove, paradossalmente (ma fino ad un certo punto se sempre in quella specie di autobiografia scenica che è Bestia da stile, pochi versi prima di quelli citati, Pasolini aveva parlato della «profonda equivalenza fra Erinni e Sesso» per cui «tutto ciò che era stato superato/ dalla Dissociazione, ritorna»)(11) ), la profezia di Tiresia e l’ultima voce di Pasolini, nell’intervento preparato e mai avvenuto al congresso radicale, suonano a dritto e a rovescio insieme, con l’invito ad essere veramente se stessi, cioè irriconoscibili(12) (e la realtà tragica di questo troverà modo di darsi come forma nel cadavere del poeta sfigurato fino appunto all’irriconoscibilità).
Ne La nuova gioventù, e specificatamente ne La seconda forma de «La meglio gioventù», infatti l’invenzione di Narciso della prima raccolta friulana viene doppiata da una riscrittura che capovolge fino alla cancellazione le costellazioni di semantemi, producendo un effetto quanto mai disforico, se non proprio angosciante. Tale riscrittura avviene però nello stesso dialetto attraverso cui si era impressa la prima forma (minime sono le varianti lessicali con un leggero ammodernamento sia dei testi friulani, qualora si spingano ad esprimere oggetti al di fuori della cultura contadina, sia delle traduzioni), il quale ancora una volta si presta a far leggere nello specchio di Casarsa l’immagine del proprio dire.
Solo che, questa volta, Casarsa non è più quell’utero in grado di tenere insieme tutte le fratture, ma anzi è una terra che non appartiene più a nessuno, è arida tanto che le fontane gettano un’acqua vecchia e di «amòur par nissun»(13) [amore per nessuno], i canali in cui un tempo germinava l’erba ora sono secchi, e gli specchi, in una luce bianca ed accecante, riflettono solo visi «di merda e mèil» [di merda e miele], di «pis e fèil»(14) [di piscio e fiele].
Come ha accuratamente notato sempre Gardair, già ad una primissima ricognizione, specificatamente nel testo liminare delle due raccolte, Dedica, notiamo, a partire da uno spostamento ed una presa di distanza (si passa infatti dal «me paìs» a «chel paìs» [mio paese / quel paese]), le tre modalità attraverso cui Pasolini riscrive la Seconda forma: per negazione (mio paese/paese non mio), la quale afferma l’identità iniziale di Narciso come un puro desiderio; l’inversione o espressione del contrario (acqua fresca/vecchia), che rivela l’angoscia di essersi ingannato; e l’alterazione (rustico amore/amore per nessuno), che – citando le parole proprio del critico francese – «rivela l’altro (nascosto o rimosso) del testo primitivo (anche nel senso di artificiosamente “primitivo”), lo libera, lo schiude a sorprendenti fioriture»(15), fra le quali c’è l’irruzione del gioco e dell’umorismo, entrambi del tutto assenti ne La meglio gioventù.
Ancora più significativa, per il nostro discorso, è la trasformazione, o ‘mutazione’ per utilizzare un lemma pasoliniano, che patiscono i vari oggetti-soggetti d’amore, un tempo alla base dell’identificazione: se da un lato c’è la constatazione che «nissùn no (…) somèa» [nessuno (…) assomiglia] più al «veciu frut di Ciasarsa»(16) [vecchio ragazzo di Casarsa] Dili, il cui corpo era un tempo il paradigma di tutti i corpi di tutti i vari soggetti («i nustris cuàrps» aveva scritto rivolgendosi a lui Pasolini, in una presa dunque che coinvolgeva l’io ed il simile), mentre ora è solo «il siun di un cuàrp»(17) [il sonno di un corpo] che peraltro nessuno riconosce, dall’altro quei giovani subiscono lo stesso trattamento di cui Pasolini scrive nell’Abiura della trilogia della vita, secondo il precetto dunque che «se coloro che allora erano così e così, hanno potuto diventare ora così e così, vuol dire che lo erano già potenzialmente; quindi anche il loro modo di essere di allora è, dal presente, svalutato»18. Così vediamo sfilare quelle vecchie immagini, quei riflessi il cui corpo è diventato «di n’altra ciar» [di un’altra carne], come delle povere ombre, degli inganni, morti per sempre ad un presente che rischierebbe di degradarli ulteriormente. Quindi non più in grado di rappresentare alcuna immagine speculare, che non sia appunto quella di cadaveri irreali, resti di quel linguaggio che si era già sdoppiato come trascrizione della phonè.
Come per il Narciso del mito anche il vecchio Narciso pasoliano riconosce l’inganno che stava alla base della costruzione del sé «puarèt e zovin» [povero e giovane] di Casarsa: era dunque proprio la lingua della madre e il suo desiderio che permettevano di far «fenta da essi un zovin puarèt»(19) [finta di essere un giovane povero], di dire quella «poura busia» [povera bugia] che sotto il segno
della passione primaverile faceva finta di non essere tale. La fine del mondo ciclico dei prati friulani, la rottura dell’uovo orfico della autosufficienza, con il complementare inserimento in quel continuum che è la coatta struttura lineare – secondo Benjamin – della storia borghese, corrodono sia il soggetto sia la forza del suo Canto, che ora deve fare i conti con le istanze di quel Discorso che invece era stato rimosso. E rispetto al quale l’iscrizione del corpo, si da proprio come impossibile reale, tanto che lo stesso corpo morto, esibito nell’ultimo testo di Poesie a Casarsa, Il dì de la me muart, in cui il cadavere del soggetto che parla rimane sulla strada per sempre giovane e caldo (quindi sostanzialmente non morto, ancora e per sempre in vita), con un suo simile che compie il gesto
erotico e pietoso, di poggiargli una mano «tal grin di cristal» [sul grembo di cristallo], nella riscrittura di questa lirica, proprio come nel mito scompare, per lasciare il posto appunto a quella rivelazione, a metà strada fra l’evangelista Giovanni e Dostoevskij, secondo cui solo la morte del chicco di grano avrebbe potuto dare molto frutto. Ma, come dicevamo, Pasolini è consapevole a questo punto che era stata proprio la vita di Narciso, la sua sopravvivenza attraverso la scrittura di quelle che lui stesso chiama, nel testo in questione, «poesiis di santitàt » [poesie di santità], che ha fatto sì che rimanesse «bessoul»(20) [solo]. Ed è solo a questo punto che Narciso si risveglia e viene fatto morire come appunto autocertificazione del sé, autocoscienza, e subisce una regressione che non rinvia più ad una origine prima del discorso, couterina, ma dopo, proprio nella morte, inscrivendo così il soggetto in quel ciò che era dove l’io deve venire ad essere. Cioè nel linguaggio.
Non è un caso dunque che il testo che chiude la rappresentazione de La nuova gioventù, il famoso Saluto ed augurio(21), sia detto come l’ultima poesia in friulano: in esso, oltre ai precetti dati questa volta ad un «fassista zovin» [fascista giovane], in base ad una istanza che coinvolge ancora una volta in Pasolini «obediensa e disobediensa insiemit» [obbedienza e disobbedenzia insieme], pedagogia e testimonianza, assistiamo alla chiusura del canto (Pasolini scrive «Hic desinit cantus») e alla complementare scelta de «la zoventut» che non può che essere quella «soto-tera» dei giovani alpini, la cui eco viene questa volta accolta come evocazione e potenza fondatrice della «Peraula», della Parola, in un mondo in cui, come ha scritto lo stesso poeta, è restato solamente il Libro, «al è restàt il Libri»(22).
Note:
1 A. PANICALI, L’ultima gioventù, in AA.VV., Perché Pasolini, Firenze, Guaraldi, 1978, p. 204.
2 OVIDIO, Le metamorfosi, Milano, Bompiani, 1988, p. 166.
3 Cfr S. AGOSTI, La parola fuori di sé. Scritti su Pasolini, Lecce, Manni, 2004.
4 J. M. GARDAIR, Narciso e il suo doppio. Saggio su La nuova gioventù di Pasolini, Roma, Bulzoni, 1996, p. 43.
5 Cfr P. P. PASOLINI, Dal laboratorio (appunti en poète per una linguistica marxista), in ID., Empirismo eretico, [1972], Milano, Garzanti, 1991, pp. 58-59.
6 P. P. PASOLINI, Tutte le poesie, a cura di W. Siti, Milano, Mondadori, 2003, vol. I, p. 66.
7 Ivi, p. 71.
8 Ivi, p. 10.
9 Ivi, p. 63.
10 P. P. PASOLINI, Bestia da stile, in ID., Teatro, Milano, Garzanti, 1988, p. 672.
11 Ibidem.
12 P. P. PASOLINI, Intervento al congresso del Partito Radicale, in ID., Lettere luterane, [1976], Torino, Einaudi, 2003, p. 195.
13 P. P. PASOLINI, Tutte le poesie, cit., vol. II, p. 407.
14 Ivi, p. 409.
15 J. M. GARDAIR, Narciso e il suo doppio, cit., p. 46.
16 PASOLINI, Tutte le poesie, cit., vol. II, p. 410.
17 Ibidem.
18 P. P. PASOLINI, Abiura della trilogia della vita, in ID., Lettere luterane, cit., p. 73.
19 PASOLINI, Tutte le poesie, vol. II, cit., p. 411.
20 Ivi, p. 481.
21 Ivi, p. 513.
22 Ivi, p. 473.
Fonte:
http://www.google.it/url?sa=t&rct=j&q=&esrc=s&frm=1&source=web&cd=1&cad=rja&ved=0CDEQFjAA&url=http%3A%2F%2Fwww.disp.let.uniroma1.it%2Ffileservices%2FfilesDISP%2F19_BENVEGNU.pdf&ei=bl5MUrK9Kaa34wTA-YGAAw&usg=AFQjCNGrx-fYA51W07Ofv_msawaVWCGxHw&sig2=c1C3mIu5J7syRGNpFWLRnQ&bvm=bv.53371865,d.bGE
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