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Biografia, lavori in corso - a breve anche il 1974 e il 1975

martedì 23 aprile 2013

La voce del Corvo - Il corvo marxista di "Uccellacci e uccellini" di Pasolini...

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro


Il corvo marxista di "Uccellacci e uccellini" di Pasolini...

La voce del Corvo

PIER PAOLO PASOLINI LE FASI DEL CORVO

L’idea del corvo è passata attraverso varie fasi. Prima si trattava semplicemente di uno spirito saggio, un sapiente, in fondo un semplice moralista (ma la prima idea era l’idea non di un film ma di un racconto). Poi da moralista è passato a filosofo. A questo punto è intervenuta l’idea di fare del racconto (che non avrei mai potuto scrivere, non possedendo io una lingua adatta) un film. Il filosofo ha dovuto quindi precisarsi, poiché senza la precisione non è possibile la semplificazione (necessaria non come elemento obbligatorio, ma come affascinante norma prosodica), per un prodotto i cui destinatari siano gli spettatori cinematografici, ecc. ecc.
Questo filosofo è stato allora, dapprima, un saggio «reale», che cerca, attraverso una scandalosa e anarchica libertà, la realtà empirica e assoluta, non sistematica, nelle cose. Un saggio quasi drogato, un amabile beatnik, un poeta senza più nulla da perdere, un personaggio di Elsa Morante, un Bobi Bazlen, un Socrate sublime e ridicolo, che non si arresta davanti a nulla, e ha l’obbligo di non dire mai bugie, quasi che i suoi ispiratori fossero i filosofi indiani o Simone Weil.
Ma, in questa concezione del corvo, i conti non tornavano. Infatti i due personaggi, padre e figlio, che vanno, vanno per le loro strade, sono, nella loro perfetta innocenza, nel loro candido cinismo, nel loro agire secondo un’intima verità - ossia secondo l’automatismo in qualche modo sempre autentico degli uomini semplici, nel più assoluto senso del termine - sono in realtà essi quello che avrebbe dovuto essere il corvo secondo quest'ultima concezione. Egli avrebbe insegnato loro ad essere quello che essi sono da sempre, e per sempre, quello che essi sono per definizione. Non avrebbero mai dunque potuto mangiarselo, alla fine, com’era nel piano: ossia assimilarlo, e ricominciare ad andare, lungo le loro strade, prendendo di lui quel poco che potevano prendere - in attesa che un nuovo corvo venisse a dar loro coscienza delle cose.
Il corvo doveva dunque essere ben definito nel tempo e nella storia: dovevo trascegliere, nell’insieme che formava la complessa cultura del corvo anarchico e «indiano», l’elemento marxista, che non poteva in tal caso che essere una componente della sua cultura. Ho scritto la sceneggiatura tenendo dunque presente un corvo marxista, ma non del tutto ancora liberato dal corvo anarchico, indipendente, dolce e veritiero.
A questo punto, il corvo è diventato autobiografico - una specie di metafora irregolare dell’autore. Così è nato il suo background psicologico: il marxismo innestato come una norma innocente, palingenesi non tuttavia matta ma ragionata, su una incrinatura della norma, sul trauma (la nostalgia della vita, il distacco coatto da essa, la solitudine, la poesia come compenso, il dovere naturale della passione, ecc. ecc.). Ma l’autobiografia si manifestava soprattutto nel tipo di marxismo del corvo. Un marxismo, cioè, aperto a tutti i possibili sincretismi, contaminazioni e regressi, restando fermo sui suoi punti più saldi, di diagnosi e di prospettiva (il contrasto italiano tra mondo preindustriale e industriale, il futuro dell’operaio, ecc. ecc.).
Tutto questo però mi portava a una contraddizione. Il corvo «doveva essere mangiato», alla fine: questa era l’intuizione e il piano inderogabile della mia favola. Doveva essere mangiato, perché, da parte sua, aveva finito il suo mandato, concluso il suo compito, era, cioè, come si dice, superato; e poi perché, da parte dei suoi due assassini, doveva esserci l’«assimilazione» di quanto di buono - di quel minimo di utile - che egli poteva, durante il suo mandato, aver dato all’umanità (Totò e Ninetto).
Va tenuto presente a questo punto che l’epigrafe da mettere in testa al racconto del corvo era una frase di Mao, trovata in un’intervista con un giornalista americano - frase che diceva pressappoco: «Dove vanno gli uomini? Saranno nel futuro comunisti o no? Mah! Probabilmente non saranno nè comunisti nè non comunisti... Essi andranno, andranno avanti, nel loro immenso futuro, prendendo dall’ideologia comunista quel tanto che può esser loro utile, nell’immensa complessità e confusione del loro andare avanti...».
Il corvo era dunque, a questa fase, l’ideologia marxista, nel punto in cui un suo «momento storico» preciso - ossia l’ideologia marxista degli anni cinquanta - stava per essere superato. Dovevo precisare questo punto nella contraddizione: se il marxismo del corvo coincide col mio marxismo, poiché io sono in evoluzione, e sono cosciente prima di ogni altra cosa della crisi del marxismo degli anni Cinquanta, egli non può avere una storia conclusa, non può essere così chiaramente un superato - come una storia semplice richiede - e quindi mangiato. Se invece il marxismo del corvo non coincide col mio, allora il corvo diventa un personaggio del tutto oggettivo, che dice cose che io non condivido più: un personaggio noioso e antipatico, in fondo staliniano, la cui voce risuona «vecchia» nel contesto tutto sommato molto nuovo della favola. Mentre invece la storia richiede che egli sia simpatico, che egli abbia ragione nei suoi interventi sia pure un po’ noiosi, ecc.: così che l’essere mangiato alla fine ispiri due sentimenti equivalenti: il senso piacevole di liberazione dalla sua ossessione ideologica che vuol spiegare tutto e sempre, e la compassione per la sua brutta fine.
Dovevo quindi staccare il marxismo del corvo dal mio, oggettivandone la sua attualità. Ossia anch’egli come me, doveva essere cosciente della crisi del marxismo - essere cioè un marxismo degli anni Sessanta - ma con delle ragioni che non fossero strettamente le mie.
In altre parole: io dovevo approfondire le mie ragioni, verificarle - studiare. Andare avanti, trasformarmi, capire, per poi prestare queste mie nuove prospettive marxiste al corvo. Far coincidere il mio nuovo marxismo e il suo, ma al di là della mia inerte, e puramente negativa, esperienza degli ultimi anni.
È quello che ho tentato di fare - che non è nulla per un ideologo, ma è forse abbastanza per un narratore di favole. In questo sono stato aiutato da un prezioso volume giuntomi al momento giusto: si tratta di un’antologia curata da Franco Fortini che, aggiungendosi all’altro suo recente libro, la Verifica dei poteri, sono stati i testi su cui ho cercato di comporre - a correzione della sceneggiatura - la figura ideologica del corvo, traendo dalla complicata e orrida matassa, un poetico filo riassuntivo.
(1965)




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Pier Paolo Pasolini - L'ideologia

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L'ideologia

Nessun centralismo fascista è riuscito a fare ciò che ha fatto il centralismo della civiltà dei consumi. Il fascismo proponeva un modello, reazionario e monumentale, che però restava lettera morta. Le varie culture particolari (contadine, sottoproletarie, operaie) continuavano imperturbabili a uniformarsi ai loro antichi modelli: la repressione si limitava ad ottenere la loro adesione a parole. Oggi, al contrario, l'adesione ai modelli imposti dal Centro, è tale e incondizionata. I modelli culturali reali sono rinnegati. L'abiura è compiuta. Si può dunque affermare che la "tolleranza" della ideologia edonistica voluta dal nuovo potere, è la peggiore delle repressioni della storia umana. Come si è potuta esercitare tale repressione? Attraverso due rivoluzioni, interne all'organizzazione borghese: la rivoluzione delle infrastrutture e la rivoluzione del sistema d'informazioni. Le strade, la motorizzazione ecc. hanno oramai strettamente unito la periferia al Centro, abolendo ogni distanza materiale. Ma la rivoluzione del sistema d'informazioni è stata ancora più radicale e decisiva. Per mezzo della televisione, il Centro ha assimilato a sé l'intero paese che era così storicamente differenziato e ricco di culture originali. Ha cominciato un'opera di omologazione distruttrice di ogni autenticità e concretezza. Ha imposto cioè - come dicevo - i suoi modelli: che sono i modelli voluti dalla nuova industrializzazione, la quale non si accontenta più di un "uomo che consuma", ma pretende che non siano concepibili altre ideologie che quella del consumo. Un edonismo neo-laico, ciecamente dimentico di ogni valore umanistico e ciecamente estraneo alle scienze umane.

L'antecedente ideologia voluta e imposta dal potere era, come si sa, la religione: e il cattolicesimo, infatti, era formalmente l'unico fenomeno culturale che "omologava" gli italiani. Ora esso è diventato concorrente di quel nuovo fenomeno culturale "omologatore" che è l'edonismo di massa: e, come concorrente, il nuovo potere già da qualche anno ha cominciato a liquidarlo. Non c'è infatti niente di religioso nel modello del Giovane Uomo e della Giovane Donna proposti e imposti dalla televisione. Essi sono due persone che avvalorano la vita solo attraverso i suoi Beni di consumo (e, s'intende, vanno ancora a messa la domenica: in macchina). Gli italiani hanno accettato con entusiasmo questo nuovo modello che la televisione impone loro secondo le norme della Produzione creatrice di benessere (o, meglio, di salvezza dalla miseria). Lo hanno accettato: ma sono davvero in grado di realizzarlo? No. O lo realizzano materialmente solo in parte, diventandone la caricatura, o non riescono a realizzarlo che in misura così minima da diventarne vittime. Frustrazione o addirittura ansia nevrotica sono ormai stati d'animo collettivi. Per esempio, i sottoproletari, fino a pochi anni fa, rispettavano la cultura e non si vergognavano della propria ignoranza. Anzi, erano fieri del proprio modello popolare di analfabeti in possesso però del mistero della realtà. Guardavano con un certo disprezzo spavaldo i "figli di papà", i piccoli borghesi, da cui si dissociavano, anche quando erano costretti a servirli. Adesso, al contrario, essi cominciano a vergognarsi della propria ignoranza: hanno abiurato dal proprio modello culturale (i giovanissimi non lo ricordano neanche più, l'hanno completamente perduto), e il nuovo modello che cercano di imitare non prevede l'analfabetismo e la rozzezza. I ragazzi
sottoproletari - umiliati - cancellano nella loro carta d'identità il termine del loro mestiere, per sostituirlo con la qualifica di "studente". Naturalmente, da quando hanno cominciato a vergognarsi della loro ignoranza, hanno cominciato anche a disprezzare la cultura (caratteristica piccolo borghese, che essi hanno subito acquisito per mimesi). Nel tempo stesso, il ragazzo piccolo borghese, nell'adeguarsi al modello "televisivo" - che, essendo la sua stessa classe a creare e a volere, gli è sostanzialmente naturale - diviene stranamente rozzo e infelice. Se i sottoproletari si sono imborghesiti, i borghesi si sono sottoproletarizzati. La cultura che essi producono, essendo di carattere tecnologico e strettamente pragmatico, impedisce al vecchio "uomo" che è ancora in loro di svilupparsi. Da ciò deriva in essi una specie di rattrappimento delle facoltà intellettuali e morali. La responsabilità della televisione, in tutto questo, è enorme. Non certo in quanto "mezzo tecnico", ma in quanto strumento del potere e potere essa stessa. Essa non è soltanto un luogo attraverso cui passano i messaggi, ma è un centro elaboratore di messaggi. È il luogo dove si concreta una mentalità che altrimenti non si saprebbe dove collocare. È attraverso lo spirito della televisione che si manifesta in concreto lo spirito del nuovo potere. Non c'è dubbio (lo si vede dai risultati) che la televisione sia autoritaria e repressiva come mai nessun mezzo di informazione al mondo. Il giornale fascista e le scritte sui cascinali di slogans mussoliniani fanno ridere: come (con dolore) l'aratro rispetto a un trattore. Il fascismo, voglio ripeterlo, non è stato sostanzialmente in grado nemmeno di scalfire l'anima del popolo italiano: il nuovo fascismo, attraverso i nuovi mezzi di comunicazione e di informazione (specie, appunto, la televisione), non solo l'ha scalfita, ma l'ha lacerata, violata, bruttata per sempre.

Pier Paolo Pasolini 1971

Pensate alle riflessioni che dobbiamo sorbirci, come un brodino acquoso imposto, dagli attuali "intellettuali" italiani, mettetelo a confronto con questo brano e vi renderete conto della miseria culturale in cui siamo caduti. Ed era già tutto scritto prima.

Fonte:
http://fenjus.blogspot.it/2009/03/lideologia.html






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Curzio Maltese : Il film-profezia di Pasolini

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Curzio Maltese : Il film-profezia di Pasolini, così nel '63 raccontò l'Italia d'oggi.

La visione de "La rabbia", il film-saggio di Pier Paolo Pasolini finalmente ricomposto da Giuseppe Bertolucci, con la Cineteca di Bologna che presiede, nella versione pensata dall'autore, senza l'insensata aggiunta di Giovanni Guareschi, solleva un dubbio terribile. O Pasolini era davvero un profeta oppure l'Italia è tornata indietro di mezzo secolo, ai peggiori anni Cinquanta, tempi gretti, reazionari, impauriti.
Nel dubbio che siano vere entrambe le ipotesi, scegliamo per carità di patria la migliore. Pasolini ha capito per primo e più a fondo di chiunque altro la mutazione antropologica del popolo italiano all'impatto con una modernità feroce, che l'avrebbe riconsegnato a un fascismo sotto nuove forme. Per usare una formula che rimbalza in queste settimane da Famiglia Cristiana ai vertici della magistratura.
Il film è modernissimo nella forma, d'avanguardia per l'epoca. Sul materiale assai grezzo dei cinegiornali, Pasolini sovrappone un'orazione civile composta di sue poesie e prose affidate alle voci di Giorgio Bassani e Renato Guttuso. Senza altro filo narrativo che non sia una viscerale, acutissima visione dei conflitti sociali, l'opera viaggia dai funerali di Alcide De Gasperi alla morte di Marilyn Monroe, dalla rivoluzione cubana alla guerra di Corea all'indipendenza dell'Algeria. Ma la parte più sorprendente è certo quella dedicata "al mio paese, che si chiama Italia".
Il film doveva uscire nelle sale all'inizio del '63, dopo Accattone e Mamma Roma, ma il produttore Gastone Ferranti si spaventò, convinse l'autore a tagliarlo e volle a tutti i costi affidare una seconda parte "vista da destra" a Guareschi, il quale diede nell'occasione il peggio del proprio qualunquismo. Così snaturata, l'opera fu rinnegata da Pasolini e ritirata dopo pochi giorni, per rimanere nel buio quarantacinque anni.
Ora torna nella versione concepita dal poeta, grazie al lavoro di recupero e rimontaggio di Giuseppe Bertolucci, su un'idea di Tatti Sanguinetti. "La rabbia" sarà presentata alla Mostra di Venezia il 28 agosto e sarà distribuita nei cinema dall'Istituto Luce dal 5 settembre.
Per capire quanto sia attuale basta forse citare una piccola antologia dei testi. L'Europa: "Le piccole borghesie fasciste sono pronte all'unità d'Europa in nome della comune aridità". Le guerre in Medio Oriente: "In questi deserti comincia la nostra preistoria". Le giustificazioni della guerra: "Se comincia la guerra di chi è la colpa? Dei peccati della povera gente, naturalmente. Dio punisce le Sodome di stracci, le Gomorre della miseria".
I coreani all'epoca, oggi gli irakeni, gli afghani, i curdi, i popoli africani: "Eravate milioni di uomini come noi e per conoscervi abbiamo dovuto sapervi in guerra". Il nuovo Papa: "Ci saranno fumate bianche per papi figli di contadini del Ghana o dell'Uganda? Per papi figli di braccianti indiani morti di peste nel Gange, per papi figli di pescatori gialli morti di freddo nella Terra del Fuoco?".
La politica sull'immigrazione: "Dobbiamo accettare distese infinite di vite reali che vogliono con innocente ferocia entrare nella nostra realtà". Bush, Berlusconi, Putin eccetera: "La classe padrona della ricchezza, giunta a tanta dimestichezza con la ricchezza da confondere la natura con la ricchezza. Così perduta nel mondo della ricchezza da confondere la storia con la ricchezza. Così addolcita dalla ricchezza da riferire a Dio l'idea della ricchezza".
Si potrebbe continuare a lungo, ma almeno fino alla televisione, appena apparsa sulla scena. Quando lo speaker del cinegiornale annuncia trionfante che presto gli abbonati saranno "decine di migliaia", Pasolini lo corregge: "No. Saranno milioni. Milioni di candidati alla morte dell'anima. Il nuovo mezzo è stato "inventato per la diffusione della menzogna". "È la voce che contrappone il buon senso degli assassini agli eccessi degli uomini miti".
La voce di Pasolini è viva, attuale e urticante oggi come nel '63. Gli eccessi di uomo mite non gli sono stati mai perdonati, neppure dopo la fine straziante. Lui stesso ne era consapevole: "Dice Saba che ci sono animali che non fanno pena neppure quando vengono mangiati, perché volevano essere mangiati. Forse sono uno di questi animali". Bertolucci aggiunge nel finale alcuni esempi del linciaggio cui Pasolini fu sottoposto per tutta l'esistenza, da ogni parte. Si trova sempre "nel paese chiamato Italia" un buon compromesso bipartisan per annientare le voci critiche.
Quello che s'è perso per sempre da "La rabbia" ai nostri giorni non sono le parole, ma le immagini, anzi: le facce. I volti di quel popolo, testimonianza vivente e stupenda di un retaggio millenario. I ragazzi di vita delle borgate romane vivono ma non sono come i ragazzi di Scampia filmati da Garrone in Gomorra. Più poveri e meno miserabili, avevano facce e corpi prodotti dalla storia, questi facce da cronaca, corpi creati in palestra, indistinguibili da quelli dei borghesi di successo, dagli attori delle telenovelas, dai calciatori e dalle veline.
La rivoluzione antropologica ha funzionato come una pulizia etnica, cancellando i tratti di un'antica civiltà, di un'immensa bellezza. Negli anni de "La rabbia" un altro solitario, Ennio Flaiano, annotava nel diario notturno: "Fra trent'anni l'Italia non sarà come l'avranno fatta i governi, i partiti o i sindacati, sarà come l'avrà fatta la televisione".

di Curzio Maltese per fondfranceschi.it

Fonte:
http://fenjus.blogspot.it/2008/11/curzio-maltese-il-film-profezia-di.html


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Totò - L'incontro con Pasolini.

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Totò - L'incontro con Pasolini.

L’incontro con Pier Paolo Pasolini è tra i più inattesi e sorprendenti dell’intera biografia artistica del grande attore, oltre che uno dei più produttivi sul piano creativo. Quando Pasolini va a casa di Totò per incontrarlo, con un’umiltà che pochi altri avevano avuto prima di lui, è già uno scrittore famoso attorno al quale c’è aria di scandalo. Se ne era andato da Casarsa, dove faceva l’insegnante, quando alla vigilia delle elezioni del ‘48 un ragazzo aveva confessato al parroco di aver avuto rapporti con lui. Venuto a Roma con la madre, aveva fatto la fame prima di cominciare a lavorare a qualche sceneggiatura. Il suo primo grande successo letterario l’aveva ottenuto a metà anni Cinquanta con Ragazzi di vita e Una vita violenta, il dittico delle borgate che aveva raccontato la realtà “diversa” del sottoproletariato romano. Poeta incoronato al Premio Viareggio, dopo Le ceneri di Gramsci e La religione del mio tempo aveva pubblicato Poesia in forma di rosa, di cui Totò conosceva a memoria Supplica a una madre che l’aveva molto colpito. Il passaggio al cinema aveva rivelato un autore di grandi qualità con film notissimi come Accattone, Mamma Roma, La ricotta, Il Vangelo secondo Matteo. Sul settimanale «Vie Nuove» — dove tiene una rubrica di corrispondenza con i lettori in cui, dialogando soprattutto con i giovani, interviene nel dibattito politico e culturale contemporaneo — ha appena pubblicato il soggetto del film che comincerà a girare nell’ottobre e che s’intitolerà Uccellacci e uccellini. Il primo impatto tra il principe e lo scrittore non è esaltante. Pasolini è scortato da Ninetto Davoli, che nel film sarà il figlio di Totò. Ninetto, riccioluto come una pecorella, non fa ancora l’attore, indossa un vecchio paio di jeans sporchi e stinti. Gli sembra un sogno essere lì con Totò, di cui aveva visto tutti i film, stare vicino a un mito. Non appena lo vede sbotta a ridere, nonostante le gomitate di Pier Paolo, che gli dice: «Oh, sta’ bono, carmate».
Si mettono in poltrona per prendere il caffè in attesa che si avvii una discussione che stenta a decollare. Lo scontro tra timidi consente appena di parlare, tra le lunghe pause di imbarazzato silenzio, del progetto del film che dovrebbero cominciare di lì a poco. Quando si congedano, il principe non può trattenere un respiro di sollievo e spruzza dell’insetticida sul posto occupato da Ninetto. I jeans zozzi gli fanno senso, non li sopporta proprio. In realtà non condivide neppure la stessa moda dei jeans che considera un caso di esterofilia. Ma che almeno siano puliti, di bucato. E non può non ricordare che nei tempi eroici degli inizi aveva solo due camicie, non poteva permettersi di più, ma andavano e venivano dalla lavanderia di continuo, come treni su un binario. Sul set le cose andarono molto meglio, soprattutto tra Totò e Ninetto che stavano sempre assieme e si erano molto immedesimati nei ruoli di padre e figlio. Il principe aveva preso in simpatia quel ragazzone allegro che aveva sempre fame e non si sentiva per niente intimidito di fronte a lui. Lo aiutava nel lavoro, porgendogli la battuta, mettendosi d’accordo su come risolvere un’azione, mettendolo a parte dei suoi ricordi e dei suoi umori nelle lunghe pause tra una ripresa e l’altra in cui qualche volta si metteva a cantare o recitava A livella. La disinvoltura di Ninetto favorì anche i rapporti tra Totò e Pier Paolo, che continuavano a darsi del lei e a trattarsi con reciproca deferenza, imprigionati nella loro timidezza. Ma la diffidenza del primo incontro è ormai superata. Il principe ha la massima fiducia nel regista, nella sua preparazione e nella sua cultura, gli si affida completamente da quando ha capito che sta facendo qualcosa di nuovo, qualcosa che nessuno aveva fatto prima con lui. Quando una sera, rincasando stanco e infreddolito dopo una giornata di lavoro, Totò dice che Pierpa’ gli ha fatto ripetere una scena soltanto due volte, si capisce che il sodalizio cinematografico si è trasformato in amicizia. Il film viene girato tra ottobre e dicembre nella campagna vicino a Roma, a Cecafumo, nella borgata di Torre Angela, all’Acqua Santa, all’Alberone, al Tiburtino, alla Pontina, alla Fiumara di Fiumicino. Il principe non si tira indietro e affronta le scene più faticose, cammina nel fango, affonda nella melma i pesanti zoccoli di legno coperto soltanto da un saio di sacco che lascia passare il freddo e il vento da ogni parte.
L’episodio francescano dell’evangelizzazione degli uccelli viene girato nella campagna vicino a Tuscania, tra i boschi, ed è particolarmente faticoso. Ci vogliono ventisette ore di riprese per fare le tre inquadrature di Totò con gli uccelli sugli alberi, sempre con il saio di sacco e i tremendi zoccoli di legno ai piedi. L’unico problema fu il corvo ammaestrato che durante tutta la lavorazione ce l’aveva con gli occhi di Totò e cercava di beccarlo proprio lì. Naturalmente, Totò se ne preoccupava moltissimo perché da anni il suo problema erano proprio gli occhi. Fu necessario mettere del nastro isolante nero sul becco dell’uccello, in modo che, così impastoiato, non tentasse più di beccare nessuno. Naturalmente quand’era lontano o stava a terra il nastro gli veniva tolto, ma Totò, che ci vedeva così poco, non se ne accorgeva e con un po’ di apprensione continuava a chiedere: «Quella bestia, che fa quella bestia?». Il corvo è destinato a fare una brutta fine anche nella storia del film, che comincia con Totò e Ninetto, padre e figlio, che si aggirano per le borgate. Il loro viaggio non ha un vero e proprio inizio né una vera e propria fine. Camminano, parlano tra loro della vita e della morte, si imbattono in una coppia di suicidi e in una ragazza-angelo, senza meravigliarsi di nulla da quegli innocenti che sono. Né li sorprende l’arrivo di un corvo parlante che dice di venire dal paese di Ideologia e di essere figlio del Dubbio e della Coscienza. Il corvo racconta ai due un apologo del Milleduecento, in cui Totò è frate Cicillo e, insieme a frate Ninetto, predica agli uccelli. Solo dopo una lunga, snervante attesa riesce a trovare il modo di parlare ai falchi e a trasmettere loro il messaggio evangelico. Altrettanto lunga e faticosa è l’attesa per evangelizzare i passeri, con cui riesce finalmente a comunicare grazie a una serie di saltelli.
Nonostante la predicazione, alla prima occasione i falchi si buttano sui passeri e li sbranano. Allo sconcerto di fra’ Cicillo e di fra’ Ninetto, San Francesco risponde che il mondd bisogna cambiarlo e li invita a ricominciare tutto daccapo. Totò e Ninetto, ridiventati sottoproletari di oggi, si comportano da falchi sfrattando una povera contadina e da passeri quando si prostrano, in veste di debitori insolventi, davanti a un signore che aizza loro contro i cani, mentre nel salotto i suoi ospiti sfoggiano le raffinatezze culturali degli intellettuali. Totò e Ninetto incrociano per qualche momento i funerali di Togliatti e poi proseguono come prima senza sapere dove stanno andando. Padre e figlio non respingono una prostituta di nome Luna che trovano sul loro cammino. Ammazzano infine il corvo saccente e se lo mangiano prima di continuare il viaggio. Uccellacci e uccellini deve molto della sua straordinaria forza poetica e della sua duratura efficacia alla reinvenzione del personaggio Totò, scelto da Pasolini come espressione tipica del sottoproletariato napoletano, risultato di secoli di miseria e di fame, ma insieme anche puro e semplice clown, il burattino snodabile e disarticolato, l’uomo dei lazzi imprevedibili e degli sberleffi esilaranti. Pasolini non impone un “suo” personaggio all’attore, ma lo sceglie proprio per quello che è, per il suo volto più profondo e segreto, per la realtà che rappresenta come uomo e come attore. Scompaiono la cattiveria, l’aggressività, il gusto persecutorio di prendere in giro, la stessa volgarità (che sono stati per tanto tempo i tratti più superficiali e riconoscibili del personaggio) per ritrovare al fondo di Totò una inesauribile riserva di dolcezza, di innocenza, di distacco dalle cose, di saggezza.
Il Totò di Pasolini è tenero e indifeso, dolcissimo e innocente. Se prende in giro qualcuno lo fa in modo garbato e mai volgare, senza aggressività. Anche i rapporti tra Totò e Ninetto sono privi di ogni conflitto generazionale, di ogni forma di rivalità. Pasolini li vede come campioni di umanità, vecchi e nuovi al tempo stesso, due personaggi che rappresentano la massa innocente degli italiani estranei alle trasformazioni della storia. Nonostante un ultimo tentativo di reinserirlo nel montaggio del film, alla fine viene eliminato il breve episodio del domatore e dell’aquila che Pasolini aveva girato con Totò, nei panni di Monsieur Courneau, Ninetto e gli animali del circo — che vengono curiosamente chiamati la Signora Aquila, Monsieur lo Scimpanzé del Ruanda, il Leone d’Algeria, il Cammello del Ghana, la Signora Iena del Sahara — perché considerato estraneo alla struttura favolistica che il film aveva progressivamente preso. Ma il frammento inedito di circa otto minuti — intervallato da alcuni “pensieri” di Pascal — è stato conservato dal Fondo Pasolini e costituisce una ulteriore occasione per vedere Totò alle prese con l’inedito personaggio del domatore che sfoggia una bellissima divisa con alamari e mostrine. Il film esce nel maggio 1966 e suscita sin dall’inizio discussioni e polemiche, anche se è quasi unanime il riconoscimento dei grandi risultati raggiunti da Totò. Quando nello stesso mese il film viene presentato al Festival di Cannes, le discussioni riprendono sulla Croisette ma il film ottiene una menzione speciale proprio per l’interpretazione di Totò.
Nel novembre dello stesso anno Pasolini, che sta già lavorando al suo prossimo film ispirato all’Edipo re, gira con Totò il cortometraggio La Terra vista dalla Luna, mentre tra marzo e aprile dell’anno successivo, appena tornato dal viaggio in Marocco dove era stato per i sopralluoghi del film, rincontra il principe per un secondo cortometraggio intitolato Che cosa sono le nuvole? Il primo corto — che sembra riprendere il clima surreale e fiabesco di Uccellacci e uccellini per raccontare il viaggio di Totò e Ninetto alla ricerca di una moglie — è girato come una comica del cinema muto affidandosi alla forza dell’immagine. Il regista non ha scritto una vera e propria sceneggiatura ma ha disegnato piuttosto un curioso storyboard fatto di vignette che sembrano fumetti, nei quali campeggia il profilo allungato e il mento appuntito di Totò.
Il secondo cortometraggio prosegue sulla stessa linea comica e picaresca fino a diventare, sia pure nelle forme della favola, una poetica riflessione sul senso dell’esistenza, sul rapporto tra apparenza e realtà, tra l’azione e il pensiero, tra la vita e la morte. Sul rozzo palcoscenico di un teatrino di periferia un misterioso burattinaio fa muovere le marionette tra cui ci sono Jago e Otello, Desdemona, Cassio e tanti altri. Jago e Otello, e cioè Totò e Ninetto, sono scontenti dei loro ruoli perché, buoni e gentili, si vedono costretti ad essere malvagi e brutali. Fatti a pezzi dal pubblico contrariato, faranno l’ultimo viaggio nel camion della spazzatura che li porta in una discarica, in cui restano con gli occhi aperti a fissare il cielo e le nuvole.


"Il principe Totò" Orio Caldiron (Gremese editore)

Fonte:
http://www.antoniodecurtis.org/lultimo_incontro.htm

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Totò, visto da Ninetto Davoli

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Totò, visto da Ninetto Davoli

Di origine calabrese è cresciuto in un ambiente poverissimo nella periferia romana, di carattere simpatico, viene scoperto da Pier Paolo Pasolini che lo scelse come attore protagonista con Totò nel film Uccellacci e Uccellini. "Mi pagano per lavorare con Totò?" Beh insomma a me mi sembrava una cosa talmente assurda, talmente diciamo fuori dal mondo che mi davano dei soldi per andare con un attore che io onestamente andavo a vederlo al cinema, andavo lì compravo i bruscolini e mi guardavo Totò. Con me diciamo c'ha avuto un rapporto paterno nei miei riguardi, proprio mi faceva da padre, mi faceva proprio da persona adulta aiutando il ragazzino a ricordare le battute "Ninetto non ti preoccupare", mi suggeriva le battute, cioe' quando stavamo insieme si metteva in modo tale che mi suggeriva le battute e per me era una cosa bellissima, bella perchè comunque devo dire che dopo una settimana, dieci giorni di lavoro io mi sono sbloccato perchè ho visto in lui una persona che veramente mi potevo fidare che potevo stare tranquillo.
E tu sai che insomma lavorando tranquillamente con una persona significa rilassarti e fare le cosa più belle. E da allora voglio dire abbiamo fatto tutto il film e ci siamo divertiti, ci siamo divertiti da morire. Per me Totò e' stato un incontro inaspettato come persona perchè in lui ho visto in fondo molta umanità, molta semplicità. Ma devo dire che io sono rimasto molto scioccato da questo personaggio, e poi sono quelle cosa sai che tu ricordi e che ti lasciano il segno, io rifletto a ste cose qua con molta nostalgia voglio dire.
Era una persona talmente timida che di fronte a Pierpaolo era uno che gli dava del maestro, diceva "Senta Maestro" e siccome che anche Pierpaolo era un timidone gli diceva "Senta Totò " o "Senta principe". Non riuscivano a rompere questo incantesimo dandosi la confidenza, ad darsi del tu insomma. E questo significa che questo personaggio tutto sommato che sembra sbarazzino, c'era un cuore veramente eccezionale.
La cosa più bella che ricordo e' stato il primo impatto con Totò, la prima volta che l'ho conosciuto . Quando Pier Paolo ha deciso di fare questo film mi ha detto che sarebbe stato giusto conoscere Totò. E allora che cosa ha fatto, ha combinato un incontro, una cena a casa di Totò. Ad un certo punto io gli dico sai per me uscire da questa borgata e andare ai Parioli dove abitata Totò per me già era un viaggio, tu pensa ai Parioli. Infatti arrivo in questo quartiere, intanto sono rimasto sbalordito dal posto ammazza dico sono arrivato ai Parioli, intanto era importante sta cosa poi prendere l'ascensore con Pier Paolo ed andare al piano dove abitava Totò, per me l'ascensore gia era un evento.

Prima di entrare a casa di Totò io e Pier Paolo ci aggiustiamo, io i capelli poi il giubbetto Pier Paolo la cravatta, insomma Pier Paolo suona a questo pianerottolo e ci apre la porta Totò. Ho cominciato a ridere a crepapelle, come un pazzo, allora Pier Paolo che mi sgomitava e mi diceva Nine' e dai ma che fai. Totò e' stato molto carino e ha detto dai Pier Paolo e' un ragazzo, dai dai entrate. Mi sembrava di vivere un sogno. S'e' mangiato e alla fine la Faldini dice prendiamo un caffè al salotto. Quando abbiamo finito di prendere il caffe' ci siamo salutati. Dopo qualche mese la Faldini mi incontra e mi dice ti ricordi quella volta che siete venuti a casa di Totò? Come che mi ricordo per me era un evento. Embe' dice tu non sai che cosa non ha fatto Totò: appena ve ne siete andati andò a prendere una bomboletta di DDT e corse a spruzzarla dove tu ti eri seduto e disse a me non mi danno tanto affidamento questi che girano tutti quanti così appiccicosi. Alla fine del film ci lasciammo però con molto affetto e veramente tanta stima.

Fonte:
http://www.antoniodecurtis.org/ninetto_davoli.htm

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Totò, visto da Pasolini

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Totò, visto da Pasolini

Dicono che Totò fosse principe. Una sera che eravamo a cena insieme diede una mancia di ventimila lire a un cameriere. Di solito i principi non danno simili mance, sono molto taccagni. Se Totò era principe, era dunque un principe molto strano. In realtà conoscendolo risultava un piccolo borghese, un uomo di media cultura, con un certo ideale di vita piccolo borghese. Come uomo. Ma come artista, qual è la sua cultura? La sua cultura è la cultura napoletana sottoproletaria, è di lì che viene fuori direttamente. Totò è inconcepibile al di fuori di Napoli e del sottoproletariato napoletano.
Come tale Totò legava perfettamente con il mondo che io ho descritto, in chiave diversa perché il mondo da me descritto era in chiave comica e tragica, mentre Totò ha portato un elemento clownesco, da Pulcinella, però sempre tipico di un certo sottoproletariato che è quello di Napoli. Un comico esiste in quanto fa una specie di clichè di se stesso, egli non può uscire da una certa selezione di se che egli opera. Nel momento in cui ne uscisse non sarebbe più quella figura, quella silhouette che il pubblico è abituato ad amare e conoscere e con cui ha un rapporto fatto di allusioni e di riferimenti.
Anche Totò ha fatto il clichè di Totò, che è un momento inderogabile per un comico per esistere. Entro i limiti di questo clichè, i poli entro cui un attore si muove sono molto ravvicinati. I poli di Totò sono, da una parte, questo suo fare da Pulcinella, da " marionetta disarticolata "; dall'altra c'è un uomo buono, un napoletano buono starei per dire neorealistico realistico, vero. Ma questi due poli sono estremamente avvicinati, talmente avvicinati da fondersi continuamente. È impensabile un Totò buono, dolce, napoletano, bonario, un po' crepuscolare, al di fuori del suo essere marionetta. È impensabile un Totò marionetta al di fuori del suo essere un buon sottoproletario napoletano.
Il problema del rapporto tra regista e attore è un tasto molto delicato. Non voglio certo pretendere di risolverlo qui. Quando dicevo che ogni comico oggettiva se stesso in una specie di figura assoluta, stilizzata, di clichè di se stesso, volevo dire che l'attore comico crea se stesso, inventa se stesso, quindi compie un'operazione poetica, artistica, di carattere e livello estetico e non semplicemente comunicativo e strumentale. E quindi nel momento in cui Totò ha creato e inventato se stesso ha continuato sempre a inventarsi; la sua opera di inventore continua, non cessa nel momento in cui si inserisce dentro l'invenzione di un altro. Praticamente il Totò in un film mio o in un film di un altro regista è inscindibile dal film; teoricamente invece lo è, si può scindere, e si può trovare dentro la creazione del regista il momento creativo dell'attore. Evidentemente egli è sempre inventore, è sempre un creatore, sempre un artista in qualsiasi film si trovi. Se lo si trova nel film di un autore, è difficile capire qual è il momento suo dell'invenzione, se invece lo si trova in un film mediocre o addirittura in un film brutto, allora invece questa operazione è molto più facile. Si scopre immediatamente il momento creativo di Totò, e lo si gode di più.
Il recupero che viene fatto oggi di Totò mi sembra un recupero puramente casuale, che non ha altro senso che quello di proporre alla volgarità degli anni Settanta la volgarità degli anni Cinquanta. Sono convinto che i film che ha fatto Totò durante gli anni Cinquanta sono tutti orribili, squallidi e volgari. Non per colpa sua, perchè in questo caso bisogna ipotizzare una dissociazione assolutamente netta, precisa, drastica, tra autore del film e attore. In quanto attore Totò si è autocreato ed è vissuto autonomamente, ma i film che ha fatto sono oggettivamente brutti. Se ne salvano alcuni, ma non sono quelli del recupero attuale. Si recuperano i brutti film di Totò perché sostanzialmente nulla è cambiato, e anzi probabilmente quanto a volgarità e a sottocultura gli anni Settanta non hanno nulla da invidiare agli anni Cinquanta. In realtà non c'è stato un caso Totò negli anni Cinquanta. Negli anni Cinquanta Totò è stato uno dei tanti prodotti, una delle tante merci che si sono consumati quasi senza accorgersene, non è stato un caso di cultura. Perché negli anni Cinquanta c'erano altri problemi, altri casi molto più interessanti, più vivi, più reali, anche se come tutte le cose umane naturalmente oggi superati. Invece oggi Totò è una scoperta, che ha carattere di una scoperta cosiddetta culturale, mentre secondo me non lo è. Il che significa che negli anni Settanta si sono scatenate delle forze, degli interessi che erano rimasti sopiti allora e che esplodono adesso.
Nel mio film io ho scelto Totò per la sua natura, diciamo così, doppia. Da una parte c’è il sottoproletariato napoletano, e dall’altra c'è il puro e semplice clown, il burattino snodato, l'uomo dei lazzi e degli sberleffi. Queste due caratteristiche insieme mi servivano a formare il mio personaggio. Ed è per questo che l'ho usato. Nel mio film Totò non si presenta come piccolo borghese, ma come proletario o come sottoproletario, cioè come lavoratore. E il suo non accorgersi della storia è il non accorgersi della storia dell'uomo innocente, non del piccolo borghese che non vuole accorgersene per i suoi miseri interessi personali e sociali.
lo uso attori e non attori. Praticamente mi comporto con loro nello stesso modo, li prendo per quello che essi sono, non m'interessa la loro abilità. Se prendo un non attore, lo prendo per quello che lui è. Mettiamo Ninetto Davoli. Non era attore quando ha cominciato a recitare con Totò, e l'ho preso per quello che era, non ne ho fatto un altro personaggio. La stessa cosa ho fatto di Totò. Naturalmente un attore porta in questa operazione la sua coscienza e magari anche la sua opposizione al fatto di essere usato per quel brano di realtà che lui è. Molte volte non lo accetta, allora resiste, ecc. Ma sostanzialmente il risultato espressivo finale non tiene conto degli apporti professionali di un attore, ma di quello che l'attore è, anche in quanto attore. Quando dico che prendo una persona per quello che è intendo soprattutto come uomo. Nel fondo di Totò c'era una dolcezza, un atteggiamento buono e al limite qualunquistico, ma di quel tipico qualunquismo napoletano che non è qualunquismo, che è innocenza, che è distacco dalle cose, che è estrema saggezza, decrepita saggezza. Quindi quando io dico Totò nella sua realtà intendo Totò nella sua realtà di uomo, e aggiungo anche di attore.
La mia ambizione in Uccellacci è stata quella di strappare Totò dal codice, cioè di decodificarlo. Com'era il codice attraverso cui uno poteva interpretare Totò allora? Era il codice del comportamento dell'infimo borghese italiano, della piccola borghesia portata alla sua estrema espressione di volgarità e aggressività, di inerzia e di disinteresse culturale. Totò innocentemente faceva tutto questo facendo parallelamente, attraverso quella dissociazione di cui parlavo prima, un altro personaggio che era al di fuori di tutto questo. Però evidentemente il pubblico lo interpretava attraverso questo codice, allora io per prima cosa ho cercato di passare un colpo di spugna su questo modo di interpretare Totò. E ho tolto tutta la sua cattiveria, tutta la sua aggressività, tutto il suo teppismo, tutto il suo ghignare, tutto il suo fare gli sberleffi alle spalle degli altri. Questo è scomparso completamente dal mio Totò. Il mio Totò è quasi tenero e indifeso come un implume, è sempre pieno di dolcezza, di povertà fisica, direi. Non fa le boccacce dietro a nessuno. Sfotte leggermente qualcuno, ma come un altro potrebbe sfottere lui, perché è nel modo di comportarsi popolare quello di sfottere qualcuno, ma è una sfottitura leggera e mai volgare. Quindi come prima cosa ho cercato di decodificare Totò, e avvicinarlo il più possibile alla sua vera natura, che veniva fuori in quel modo strano che dicevo. Una volta fatto questo, l'ho opposto in quanto protagonista all'intellettuale marxista ma borghese. Ma è un antagonismo che sta nelle cose, non sta in Totò o nel corvo che fa l'intellettuale, sta nelle cose. Che cosa ho opposto? Ho opposto un personaggio innocente fuori dall'interesse politico immediato, cioè fuori dalla storia, a chi invece fa della politica il suo vero e più profondo interesse e vive in quella che lui crede essere la storia. Cioè ho opposto esistenza a cultura, innocenza a storia.
Il rapporto di Totò con il dialetto è molto realistico. Totò ha probabilmente deciso sin dalle origini di non essere un attore dialettale napoletano, come in un certo senso, Eduardo De Filippo e i tipici attori dialettali. Ha voluto essere un attore dialettale, di origine napoletana, ma non strettamente napoletano. La sua lingua è stata una specie di mimesi del dialetto o del modo di parlare del napoletano, del meridionale, emigrato in una città burocratica come Roma. E allora ecco gli inserti di lingua burocratica, di lingua militaresca, di modi di dire dei vari gerghi del parlare comune, per esempio quello sportivo, mettiamo. Nell'uso che io ho fatto di Totò ho eliminato tutto questo, ho eliminato le parole dette fra virgolette, le citazioni burocratiche o militaresche o sportive, e gli ho dato un linguaggio che non è un linguaggio puramente dialettale, mettiamo o il napoletano o il romano, ma un misto dei due. È la lingua che può parlare un immigrato meridionale che vive da venti, trent'anni a Roma e quindi ha perso le sue caratteristiche linguistiche mescolandole con le nuove. (1973)

Fonte:
http://www.antoniodecurtis.org/pierpaolo_pasolini.htm

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Pasolini, la scelta degli attori - Pasolini e Totò.

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Pasolini, la scelta degli attori
Pasolini e Totò.


Pier Paolo Pasolini arriva a Roma agli inizi degli anni ’50 dopo aver vissuto varie vicissitudini a Casarsa, luogo in cui fino a quel momento aveva lavorato come poeta prima e pittore poi. La sua è stata una vera e propria fuga dai problemi familiari, economici e di emarginazione legati alla sua omosessualità. A Roma entra in contatto con l’ambiente del cinema grazie a Mario Soldati. Dapprima lavora come attore-comparsa, poi come soggettista e sceneggiatore. Completamente impreparato tecnicamente, nel 1960 matura la decisione di diventare egli stesso regista: << Se mi sono deciso a fare dei film- afferma- è perché ho voluto farli così esattamente come scrivo delle poesie, come scrivo i romanzi>>. Il suo bisogno nasce principalmente dall’intenzione di voler parlare in un codice diverso: parte dalla consapevolezza della grande crisi storica, sociale e culturale del nostro paese e trova nel codice audiovisivo del cinema il mezzo migliore per poter esprimere poeticamente i suoi temi fondamentali.
Per Pasolini il cinema è strettamente legato alla realtà, ma ciò non deve essere inteso in senso naturalistico. Il suo cinema ha connivenze con la poesia e l’astrazione tanto che lo definirà "cinema di Poesia". Egli, infatti, ci propone attraverso una <<sistemazione teorica subspecie semiologica del nuovo cinema in Italia>> , una distinzione sostanziale tra "cinema di prosa" che si identifica nel cinema classico, e "cinema di poesia" in cui l’autore-regista svolge un ruolo predominante, esibendo i propri mezzi stilistici. Alla luce di tutto questo, definisce il cinema "lingua scritta dell’azione" poiché il regista a differenza dello scrittore non ha un dizionario al quale attingere e inevitabilmente per poter comunicare dovrà cogliere i segni della realtà che lo circonda. Ma c’è di più: noi tutti viviamo immersi in un mondo in cui vi sono immagini significanti, quelle che Pasolini definisce im-segni, e compito del regista, quindi, è quello di cogliere i suoi im-segni dalla realtà.
Interessante è, in quest’ottica, andare ad analizzare i criteri di scelta degli attori del regista bolognese.
<<Io ho una specie di idiosincrasia per gli attori professionisti. Non ho, però, sia ben chiaro, una prevenzione totale, e ciò perché non voglio sottoporre la mia attività a delle regole precise […] La mia idiosincrasia dipende dal fatto che, un’attore professionista è un’altra coscienza che si aggiunge alla mia>>.
Sicuramente si può dire che Pasolini nella scelta degli attori dei suoi film abbia avuto una certa propensione per la non professionalità: ma tale scelta rientra nella concezione tutta pasoliniana del cinema come esperienza poetica volta a superare costrizioni o regole di ogni sorta. <<L’autore deve essere l’unico protagonista con la sua poesia in forma di cinema e lo spettatore deve essere in grado di coglierla. In questo contesto Pasolini chiede ai propri attori non una collaborazione, ma un totale abbandono, di modo che possa plasmare le figure presenti nel film secondo la propria visione>>. Da ciò deriva che un attore professionista , essendo di fatto meno "plasmabile" in relazione alle scelte dell’artista-poeta, mal si adatta al cinema di poesia.
Nonostante questo, Pasolini, in molti dei suoi film ha lavorato con attori professionisti: ricordiamo la Magnani in Mamma Roma (1962), Silvana Mangano e Massimo Girotti in Teorema (1968), Maria Callas in Medea (1969), Orson Welles in La Ricotta (1963). C’è da dire che perlopiù sono state scelte imposte dai produttori che egli non ha gradito molto.
Un discorso a parte va certamente fatto per la scelta di Totò in Uccellacci e Uccellini (1965). Lo stesso Pasolini afferma: <<La mia ambizione era proprio quella di strappare Totò al codice, cioè decodificarlo. Qual’era il codice attraverso cui si poteva interpretare Totò allora? Era il codice del comportamento dell’infimo borghese italiano, dell’infima borghesia portata alle sue estreme espressioni di volgarità e aggressività [..] Il mio Totò è quasi tenero e indifeso come un implume, è sempre pieno di dolcezza , di povertà fisica, direi, non fa le boccacce dietro a nessuno>>.
Pasolini realizza una vera e propria trasformazione di Totò-attore non senza polemiche. Totò, come uomo, risultava un piccolo borghese, ma come artista era inscindibile dalla cultura napoletana sottoproletaria. Egli portava in scena una sorta di cliché di se stesso, il clown, la maschera. Ed è stata proprio questa doppia natura di sottoproletario e insieme semplice clown ad aver spinto Pasolini alla scelta di Totò. Coerente alla sua visione del cinema, il regista bolognese, ha scelto Totò per come esattamente è, alla stessa maniera di come avrebbe preso un non professionista (elemento che è possibile rilevare nella scelta di Ninetto Davoli). <<Quindi quando dico Totò nella sua realtà intendo Totò nella sua realtà di uomo, e aggiungo anche di attore>>.
Totò attraverso la collaborazione con Pasolini, dimostra di essere un grande attore: viene chiamato a un ruolo che riesce a svolgere con grande maestria; la stima reciproca che si stabilisce tra attore e regista, farà si che dopo Uccellacci e Uccellini del 1965, Totò torni a lavorare con Pasolini anche in altri due episodi, La terra vista dalla luna e Che cosa sono le nuvole? rispettivamente relativi ai film Le streghe e Capriccio all’italiana nei quali interpreterà, ancora una volta, ruoli impegnativi e problematici.


PER UN CINEMA IDEOLOGICO E SURREALE 
a cura di Lorenzo Mirizzi

Fonte:
http://www.antoniodecurtis.org/pier_paolo_pasolini.htm

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Il muto mistero della borghesia: presentazione dei personaggi di Teorema

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Il muto mistero della borghesia: presentazione dei personaggi di Teorema
di Caterina Tonon

Teorema nacque in due forme artistiche differenti: quella filmica, portata a termine nel 1968, e quella letteraria, scritta contemporaneamente alla sceneggiatura del film e pubblicata l'anno successivo, diretta emanazione di una tragedia in versi del '66 mai ultimata. Sebbene Pasolini abbia sottolineato più volte la distanza fra i testi, evoluzione di un medesimo soggetto affrontato in due modi paralleli ma perfettamente autonomi, la forma finale cinematografica conserva "echi stilistici e tematici delle altre forme poetiche, teatrali, narrative che ha via via assunto" (1): il film dialoga costantemente con il libro – più trattamento cinematografico che romanzo - traducendone in immagini il soggetto.

Il testo, "ipotesi che si dimostra matematicamente per absurdum" (2), s'interroga sulle possibili conseguenze dell'incontro fra l'individuo borghese e la dimensione del Sacro, "zona superindividuale del tutto estranea alla Ragione Dominante" (3). Il teorema pasoliniano, arricchito da dati e corollari, si sviluppa attraverso un linguaggio matematico che si basa su nessi logici e non cronologici: il tempo è indefinito, le azioni sono caratterizzate dalla contemporaneità e sfociano conseguentemente in una dimensione simbolica.

Il racconto alterna un'istanza informativa (che raggiunge il suo culmine nell'inchiesta giornalistica) ad un'istanza letteraria; la prima prevale sulla seconda, ma non si limita ad essere mero documentarismo: anche gli aspetti apparentemente più descrittivi rimandano ad un altrove e risultano funzionali alla dimostrazione della tesi dell'autore. Pasolini nel testo letterario avverte che il lettore non si trova in presenza di un racconto, bensì di un referto; tale natura trova conferma nei primi capitoli della Parte Prima, che l'autore intitola Dati. Nell'opera filmica questa sezione corrisponde al segmento in bianco e nero che si apre (a 4'03" dall'inizio) con le immagini mute e statiche della fabbrica del capofamiglia, interpretato da Massimo Girotti, e passa in rassegna tutti i componenti del nucleo familiare, per concludersi con il dettaglio del telegramma che annuncia l'arrivo del Visitatore.
Questo lavoro si propone di analizzare la tensione di tali dati a trascendere la loro prima e immediata natura informativa e di scoprire in essi il rimando ad una realtà paradigmatica, unico presupposto per garantire l'universalità del teorema.
Come scrive Mino Argentieri, "Teorema non è un racconto, non è narrazione, ma attiene ai moduli della parabola: vuole dimostrare, scivolando su un arco lineare ma conservando all'assunto e ai palpiti lirici una tensione polivalente" (4). Il termine parabola, utilizzato nel testo dallo stesso Pasolini, deriva dal greco parabolé (avvicinamento, giustapposizione, paragone): esso identifica un discorso sottoforma di racconto che, fondandosi sul valore archetipico dell'allegoria, ha lo scopo di stabilire paralleli ed esempi a fine morale e non si limita a far comprendere, ma chiama all'azione e alla decisione, a far cambiare giudizi e comportamenti. Un'analisi di Teorema non può pertanto prescindere dalla connotazione esemplare e paradigmatica di mito d'oggi che Pasolini ha conferito a personaggi e fatti presenti nell'opera. Il discorso risulta profondamente influenzato dalla scelta del registro: ci troviamo nell'ambito del simbolo, "dove ogni azione è allusiva e fatale, come in un rito" (5). L'adozione del registro mitologico implica che ogni scelta stilistica sia significante, in una fusione perfetta di forma e contenuto, per cui la tensione sacra e il ritmo della ritualità divengono funzionali all'immagine. Partendo da questo presupposto, è difficile inserire l'opera filmica nei parametri tradizionali di racconto inteso come mera storia caratterizzata da "causalità, tempo e spazio" (6).
Per quanto riguarda la logica della narrazione, il segmento qui analizzato non agisce sul piano della narratività: secondo la distinzione effettuata da Barthes fra "le funzioni, che rinviano a un fare e hanno il compito di far avanzare la storia, e gli indizi, che, al contrario, rinviano ad uno stato e servono ad arricchire il racconto" (7), l'unità narrativa presa in esame è un agglomerato di indizi, di esistenti. Si tratta del caso che Francesco Casetti e Federico Di Chio definiscono regime della narrazione debole: l'ipertrofia degli esistenti rispetto agli eventi "porta la situazione ad assumere un volto in qualche modo opaco: i personaggi, senza un'azione che ne esprime le reazioni, e gli ambienti, senza un'azione che reagisce ad essi, diventano enigmatici, perdono di consistenza" (8). Pasolini denomina questa porzione di racconto Dati in quanto presenta elementi che caratterizzano una determinata situazione e che saranno utili alla dimostrazione della tesi assunta. Ci troviamo ancora nella fase preliminare della dimostrazione del teorema: lo spettatore è guidato nella scoperta di coloro che saranno i protagonisti della vicenda, presentati nelle loro caratteristiche più universali. Nel testo letterario, l'autore sottolinea più volte che "non si tratta in nessun modo di persone eccezionali, ma di persone più o meno medie" (9).


Relativamente alla dimensione dello spazio filmico, Pasolini sceglie di svincolare il racconto da qualsiasi connotazione spaziale: i personaggi sono calati nella realtà milanese, ma essa è soltanto intravista, abbozzata, suggerita. Lo spazio è frammentato e l'istanza narrante non consente allo spettatore di ricostruire e dare un significato complessivo all'ambiente rappresentato. Tutto è ridotto all'essenziale: la macchina da presa fissa mostra in campo lungo una fabbrica, un liceo, un'altra scuola e una villa. Queste immagini precedono la presentazione del personaggio a cui si riferiscono, ne divengono il simbolo, come se l'ambiente sociale in cui le persone sono inserite fosse la loro caratteristica dominante, sicuramente la prima ad emergere. Uno spazio, quindi, che non svolge una funzione passiva di "contenitore" né una funzione narrativamente attiva, ma diviene caratteristica psicologica dei personaggi. Le porzioni di spazio incluse nelle inquadrature che compongono il segmento rimandano ad un fuori campo dalle infinite possibilità. Lo spazio non percepito è lo spazio qualsiasi: ciò che viene escluso dai margini del quadro appartiene tanto alla realtà dei personaggi quanto a quella dello spettatore, sempre nell'ottica paradigmatica con cui tutto il mondo diegetico è tratteggiato.
Come nel testo letterario il tempo del racconto si sviluppa sul piano della contemporaneità (tutti gli episodi sono accompagnati dai rintocchi delle campane di mezzogiorno), così nel testo filmico le azioni accadono senza un preciso ordine cronologico: esse sono descritte come se avvenissero simultaneamente, in una dimensione temporale sospesa. "E' una stagione imprecisata (potrebbe essere primavera, o l'inizio dell'autunno: o tutte e due insieme, perché questa nostra storia non ha una successione cronologica)" (10), precisa Pasolini nella prima pagina del romanzo. Nel segmento analizzato l'ordine del discorso e l'ordine della storia coincidono, poiché il primo non riveste alcuna funzione narrativa: le sei sequenze sono sincroniche, interscambiabili.
Prendendo in esame i rapporti temporali all'interno delle singole sequenze, caratterizzate da alcune microellissi, ci troviamo nel caso che Genette definisce "sommario"; ma, considerando l'intero segmento, il tempo del racconto è superiore a quello della storia: si verifica una sorta di "estensione" (11), dilatazione per espansione rafforzata dalla presenza dei due inserti extradiegetici raffiguranti il deserto, immagini di natura simbolica estranee allo spazio e al tempo del racconto, che determinano una maggiore durata degli eventi rappresentati.
Scrive Adelio Ferrero: "Bastano pochi, rapidi scorci di una quotidianità allontanata e sospesa, sui quali il film si apre, ad avvertire lo spettatore che quella cui sta per assistere è una sorta di allucinazione poetica" (12). Il modo in cui viene organizzato il profilmico (allestito con la collaborazione di Giuseppe Zigaina), partendo da un minuzioso realismo, diventa quasi impressionista (13): esso è scelto in base alla dominante psicologica della situazione. Le inquadrature della fabbrica sono statiche, caratterizzate da una costruzione prospettica rigida, con molte linee spezzate. La scena è deserta, senza alcuna traccia della presenza umana: gli edifici occupano l'intero orizzonte, avvolti nella nebbia, tragica metafora della condizione interiore del proprietario dello stabilimento. Altrettanto rigorosa è la costruzione delle immagini delle due scuole: entrambe monumentali, imponenti, ad occupare quasi interamente lo spazio dell'inquadratura, fortezze intorno alle quali brulica la confusione cittadina di persone ed automobili che attraversano rapidamente il campo. Anche la villa di famiglia è mostrata nella sua immobile e muta imponenza. Pasolini ci rimanda ancora al deserto, questa volta un deserto urbano, che è luogo dell'anima, terra arida e desolata in cui il sacro non può attecchire.

Pasolini tratta allo stesso modo la presentazione di tutti i personaggi: dapprima riprende in campo lungo il luogo che li identifica, poi restringe l'inquadratura sulla persona, di cui offre numerosi e intensi primi piani, con un uso della macchina da presa che ricorda quanto ha scritto Béla Balàzs sulla tipologia dei volti e delle espressioni delle diverse classi sociali: "Il primo piano ha scoperto dietro i segni esteriori e stilizzati il segno nascosto e impersonale di una determinata classe. La caratteristica classista è spesso assai più evidente che non i tratti comuni alla razza e alla nazione. […] I volti rivelano la classe, impressa nelle fisionomie degli individui; non rivelano l'uomo nella classe sociale, ma la classe sociale nell'uomo" (14). I volti dei personaggi di Teorema possiedono le stesse caratteristiche: gli sguardi sono inespressivi e indecifrabili, sospesi fra l'essere proiettati altrove o l'essere semplicemente disinteressati al qui. Pasolini, nel testo letterario, definisce quello di Paolo-Girotti "un mistero, per così dire, povero di spessore e sfumature" (15). E' il tipo di volto che Aumont attribuisce al cinema della modernità: al contrario del volto del cinema classico, leggibile e privo di enigmi, esso "è un volto visibile, al di là dell'intelligenza e della codificazione, che rifiuta di farsi leggere e si caratterizza come volto del mistero" (16).

Allo stesso modo, Pietro e Odetta sembrano precocemente segnati dalle caratteristiche della loro classe: il ragazzo appare timido, debole, "destinato a non lottare" (17); la sorella sembra colpita da "una specie di malattia" (18), che priva il suo viso dei tratti tipici della giovinezza e gli conferisce un'espressione seria, severa, precocemente invecchiata. Anche Lucia (interpretata da Silvana Mangano) mostrata per la prima volta all'interno di una stanza da letto dall'arredamento sobrio ed impersonale, con le pareti coperte da specchi, sembra annoiata, assente. Il gesto con cui ripone il libro che sta leggendo appare quasi svogliato, come se la lettura in lei non suscitasse alcun interesse, ma fosse una delle tante convenzioni a cui la sua classe la costringe. Pasolini, nel romanzo, attribuisce anche a lei lo stesso tipo di mistero privo di consistenza che riconosce nel marito.
Gli ultimi due personaggi coinvolti nella presentazione fanno parte di una classe sociale differente: Angiolino il postino ed Emilia la domestica conservano ancora la limpidezza espressiva tipica della loro classe. Anche la sequenza che li vede protagonisti presenta una nota di amarezza: per quanto Pasolini sottolinei il loro differenziarsi rispetto alla famiglia borghese, li rende tuttavia interpreti di un incontro-scontro fatto di gesti e sguardi che mette in luce la spensierata libertà interiore del postino e l'indole torva e taciturna della domestica. Nemmeno nelle classi sociali "inferiori" sembra esserci concordia. Come scrive Adelio Ferrero: "Il linguaggio, volutamente spoglio e "primitivo" nella frequenza dei primi piani frontali […] riporta ogni figura a se stessa, alla propria irredimibile solitudine" (19). L'unico totale è mostrato alla fine del segmento: tutti i personaggi, prima dati nella loro dimensione autonoma, si riuniscono poi attorno al tavolo da pranzo, testimoni dell'avvenimento che darà inizio alla narrazione: un telegramma, mostrato in dettaglio, annuncia l'arrivo del Visitatore. Il nome del mittente è celato e resterà nascosto per tutto il film.
La macchina da presa è portata a mano in quasi tutto il segmento, come se si trattasse di un filmino amatoriale (tensione confermata anche dall'utilizzo del bianco e nero). Il movimento, pur non possedendo la fluidità tipica del carrello, evita però di procedere per sbalzi e scossoni, come avviene solitamente nel caso della macchina a mano. Esso mantiene, invece, l'uso di movimenti tipici di una macchina da presa collocata su un supporto - come panoramiche orizzontali e carrellate - che però non hanno funzione descrittiva di rappresentazione dello spazio, ma hanno il compito di seguire o accompagnare gli spostamenti dei personaggi. Si tratta quindi di movimenti subordinati, che mantengono costanti la velocità, la distanza e l'angolazione. Ci si trova spesso di fronte a semplici correzioni di campo, brevi ed impercettibili movimenti della macchina da presa che mantengono la centratura del piano malgrado gli spostamenti del profilmico.
Nel segmento preso in esame, la struttura interna delle sequenze è la stessa per ogni protagonista: dapprima la macchina da presa inquadra l'ambiente, poi fornisce allo spettatore una traccia della presenza del personaggio (il movimento dell'automobile per Paolo, lo sciame dei ragazzi all'uscita dalla scuola per Pietro e Odetta), che esce dall'anonimato soltanto in seguito. Tutte le sequenze si concludono con un movimento di chiusura (l'allontanarsi dell'auto di Pietro, il camminare dei ragazzi ripresi di spalle, il riporre il libro di Lucia, il congedo di Emilia da Angiolino) che troverà senso soltanto nella ricongiunzione della penultima inquadratura del segmento, che mostra l'intera famiglia a tavola.

Le transizioni fra sequenze avvengono attraverso stacchi, passaggi diretti fra un piano e un altro. All'interno di esse Pasolini utilizza diverse microellissi. Le inquadrature sono legate fra loro soprattutto da raccordi sullo sguardo; molte sono le scene costruite secondo la tecnica del campo-controcampo, con una sintassi "elementare e severa" (20). Pasolini abolisce qualsiasi forma di piano-sequenza o long-take: le inquadrature sono brevissime e la scena è fortemente frammentata. In un saggio del 1967, intitolato "Osservazioni sul piano-sequenza", il regista scriveva: "Il cinema (o meglio la tecnica audiovisiva) è sostanzialmente un infinito piano-sequenza […] e questo piano-sequenza, poi, non è altro che la riproduzione (come ho più volte ripetuto) del linguaggio della realtà: in altre parole è la riproduzione del presente. Ma dal momento in cui interviene il montaggio […] succede che il presente diventa passato […]: un passato che, per ragioni immanenti al mezzo cinematografico, e non per scelta estetica, ha sempre i modi del presente (è, cioè, presente storico)" (21). Il montaggio, quindi, come strumento per conferire eternità e perenne attualità al mondo rappresentato. La scelta della notevole frammentazione di questo segmento dipende proprio da tale intenzione: strappare i personaggi presentati al flusso del tempo e al contesto in cui sono inseriti affinché divengano prototipi di una classe o, ancor meglio, di una mentalità.

Il segmento oggetto dell'analisi è caratterizzato dall'alternarsi di silenzio e musica extradiegetica. Nelle inquadrature della fabbrica tutto è muto, non si sente nemmeno il rumore dei macchinari; un silenzio onnipotente e invincibile avvolge l'ambiente inumano e desolato, lo congela, lo astrae da qualsiasi dimensione temporale consacrandolo ad un'eternità immobile e immutabile. Sembra che il silenzio corrisponda all'assenza della vita. Non c'è vita negli edifici di cemento che si stagliano contro il grigio cielo milanese, la vita resta fuori, confinata in un altrove che allo spettatore non è dato a vedere. La musica inizia timidamente soltanto nell'inquadratura che mostra Paolo in macchina, per poi crescere progressivamente nei piani successivi. Pasolini aveva chiesto ad Ennio Morricone, curatore della colonna sonora, "un pezzo astratto che abbia il senso dell'angoscia" (22). Morricone crea un leitmotiv che accompagna la presentazione di tutti i componenti della famiglia, in un crescendo ritmico e strumentale che raggiungerà il suo culmine in prossimità dell'evento-dispositivo del film, per poi venir improvvisamente inglobato dal consistente silenzio che avvolge la stanza da pranzo in cui la famiglia è riunita, generato dall'incontro muto dei diversi membri del nucleo familiare.
Soltanto l'ingresso di Angiolino è accompagnato da una melodia diversa, più spensierata, meno sofisticata, adatta alla presentazione dell'unico personaggio (a cui Pasolini assegna il ruolo di jolly) che non vedrà il proprio universo interiore sconvolto dall'arrivo del Visitatore. La scelta di Pasolini va contro il vococentrismo e il verbocentrismo che Chion attribuisce al cinema, che mira ad ottenere "la garanzia di un'intelligibilità senza sforzo delle parole pronunciate" (23). I dialoghi hanno luogo, ma non vengono necessariamente sentiti e compresi. Siamo nel caso che Chion definisce "parola emanazione": essa diviene una sorta di "emanazione dei personaggi, un loro aspetto, allo stesso titolo della loro silhouette" (24); come per i volti, si tratta di una vocalità indefinita, irrisolta, annullata in un mistero muto.

(1) Antonino Repetto, Invito al cinema di Pasolini, Mursia, Milano 1998, p.100
(2) Pier Paolo Pasolini, Il sogno del centauro, Editori Riuniti, Roma 1983, p. 85
(3) Serafino Murri, Pier Paolo Pasolini, Il Castoro Cinema, Milano 2000, p.98
(4) Il dialogo, il potere, la morte. La critica e Pasolini, a cura di Luigi Martellini, Cappelli, Bologna 1979, p.243
(5) Alberto Marchesini, Citazioni pittoriche nel cinema di Pier Paolo Pasolini (da Accattone al Decameron), La Nuova Italia, Firenze 1994, p. 108
(6) Gianni Rondolino, Dario Tomasi, Manuale del film, Utet, Torino 1995, p.9
(7) Id., p.13
(8) Francesco Casetti, Federico Di Chio, Analisi del film, Bompiani, Milano 1994
(9) Pier Paolo Pasolini, Teorema, Garzanti, Milano 1991, p.9
(10) Ibid.
(11) Gianni Rondolino, Dario Tomasi, op. cit., cit., p.34
(12) Adelio Ferrero, Il cinema di Pier Paolo Pasolini, Marsilio, Venezia 1977, p.100
(13) Martin ripartisce le tipologie di ambiente in "realista, impressionista ed espressionista": il primo "non ha altra implicazione che la sua stessa materialità", mentre gli altri sono costruiti, il primo con una funzione psicologica, il secondo con funzione simbolica", cfr. Gianni Rondolino, Dario Tomasi, op. cit., p.54
(14) Béla Balàzs, Il film. Evoluzione ed essenza di un'arte nuova, Einaudi, Torino 1987, pp.78-79
(15) Pier Paolo Pasolini, Teorema, cit., p.12
(16) Gianni Rondolino, Dario Tomasi, op. cit., p.84
(17) Pier Paolo Pasolini, Teorema, cit., p.12
(18) Id., p.15
(19) Adelio Ferrero, Il cinema di Pier Paolo Pasolini, cit., p.103
(20) Ibid.
(21) Pier Paolo Pasolini, Empirismo eretico, Garzanti, Milano 2000, p.240
(22) Giuseppe Magaletta, La musica nell'opera letteraria e cinematografica di Pier Paolo Pasolini, Quattro Venti, Foggia 1997, p.319
(23) Michel Chion, L'audiovisione. Suono e immagine nel cinema, Lindau, Torino 1997, p.13
(24) Id., p.149
Fonte:
http://www.effettonotteonline.com/enol/archivi/articoli/in-deep/200406/200406id07.htm



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