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Biografia, lavori in corso - a breve anche il 1974 e il 1975

lunedì 14 ottobre 2013

Pasolini: dialetto rivoluzionario e minoranze linguistiche

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro



 

Pasolini: dialetto rivoluzionario e minoranze linguistiche
Gustavo Buratti

 

Incontrai per la prima volta gli scritti di Pier Paolo Pasolini grazie alla "questione della lingua". Frequentavo l'Università di Milano quando uscì "Poesia dialettale del Novecento", antologia edita da Guanda (Parma, 1952), curata appunto da Pasolini e da Mario Dell'Arco(1). Seppi così dell'esistenza dell'Academiuta di lenga furlana di Casarsa e della rivista "Quaderno romanzo": mi apparvero importantissimi per il riscatto delle lingue degradate a "dialetto"; grazie a quelle pagine seppi soprattutto del poeta piemontese Pinin Pacòt(2), del quale erano riportate, proprio all'inizio del capitolo riguardante la nostra regione, queste parole:
"A l'é ciàir, an partensa, ch'as trata d'un preconcet: col ëd chërde che la poesìa, così dita dialetal, a deva esse sempre popolar" (da "Ij Brandé", "giornal ed poesìa piemontèisa, 15 mars 1952")(3),
in polemica con chi gli chiedeva se valeva la pena scrivere in "dialetto" della poesia squisìja (raffinata), comprensibile a pochi squisì.

Questa annotazione riportata da Pasolini fu per me motivo di entusiasmo: significava che nella mia terra qualcuno si batteva, con autorevolezza, per conquistare, grazie alla poesia, la dignità di lingua alla parlata piemontese; e che quell'impegno di uscire dai limitati orizzonti del "vernacolo" per riabilitare la lingua della famiglia, del lavoro e dell'amicizia era esteso in altre regioni ed aveva ormai, in Friuli, una sua giovane guida. Partii da Biella in "Lambretta" per il Friuli, ma a Casarsa era rimasta una zia, Pasolini e la madre si erano trasferiti da un paio d'anni a Roma. Gli scrissi, così come scrissi all'altro autore di quell'antologia, Mario Dell'Arco, anch'egli direttore di una rivistina molto importante, "Il Belli", poi "Il nuovo Belli". Pasolini aveva ormai lasciato l'esperienza friulana; collaborai invece con Dell'Arco, che pubblicò una mia esile plaquette di poesie piemontesi e con lui tuttora molto attivo, sebbene nonagenario!, collaboro pure oggi. Ritrovai Pasolini quando ritornò al friulano(4); ci incontrammo poco prima della sua tragica fine. Infatti, nell'autunno del 1975, unitamente al professor Antonio Piromalli, ebbi l'incarico dal Ministero della Pubblica Istruzione di organizzare nel Liceo scientifico di Lecce un corso per docenti delle scuole medie superiori sul tema "Dialetto e scuola", al quale invitai tra gli altri Pasolini (il "seminario" durò una settimana; tra i diversi relatori vi erano il sociologo professor Ulderico Bernardi, il sacerdote cattolico di rito greco Giuseppe Faraco della minoranza italo-albanese di Calabria, il poeta piemontese Camillo Brero, Orlando Spigarelli, insegnante elementare a Gubbio, autore di un libro in cui ha raccolto le sue esperienze didattiche di utilizzatore del dialetto), cui mi ero rivolto ricordandogli l'antica "militanza" per quelle che Frédéric Mistral(5) chiamava "li lengo meprisado", le lingue disprezzate.


Pasolini accettò l'invito per Lecce, dove infatti tenne la sua conversazione, intitolandola "Volgar'eloquio", il 21 ottobre 1975. Fu, quello, l'ultimo suo intervento pubblico. Nel pomeriggio visitammo la minoranza grecanica di Calimera, in terra d'Otranto.


Iniziò l'intervento precisando che non avrebbe tenuto una lezione né una conferenza, e che proponeva di passare senz'altro al dibattito. Come spunto, ci lesse il monologo finale di un dramma, a quel tempo inedito, che si chiama "Bestia da stile", da cui gli venne l'idea di intitolare l'incontro con i docenti "Volgar'eloquio"; una poesia che, in un certo senso, rifà e mima i "Cantos" di Ezra Pound.


Ricordo che ci lasciò molto disorientati, perché si rivolgeva ad un giovane fascista, suggerendogli quale avrebbe dovuto essere una vera destra; una "destra sublime" che non avrebbe dovuto assurdamente diventare appannaggio dei fascisti.



Ma questi temi (l'amore per il "volgar'eloquio" e l'impegno conseguente), diceva Pasolini, sono una specie di palla al piede per noi, uomini della sinistra: "Nessuno ne capirebbe la purezza, e un anziano è / sensibile ai giudizi sociali [...] / deve aver rispetto come un tosatél (giovinetto) / della propria / figura / pubblica: deve proteggere i propri nervi, indeboliti, / e cercar protezione, accettare il gioco che mai / ha accettato. Prendi questo fardello, / ragazzo che mi odii, / e portalo tu. È meraviglioso. [...]".
Si trattava di uno spunto dichiaratamente provocatorio. Tuttavia, noi che abbiamo lottato per la nostra lingua, sappiamo quanto Pasolini avesse ragione... sovente i nostri discorsi sono travisati; siamo accusati di dividere, con problematiche sovrastrutture, la classe operaia; di "fare il gioco dei padroni" e della destra, magari financo di essere razzisti. Alla lettura della poesia la sala restò in assoluto silenzio, anche se al termine della breve introduzione Pasolini fu applaudito.

Ruppi il ghiaccio, come si dice, denunciando l'alienazione ingiusta e crudele patita dai nostri ragazzi "dialettofoni", in una scuola che pur si pretende democratica. Gli chiesi cosa avremmo dovuto fare per cambiarla, come salvare dal massacro l'allievo... gli innocenti da Erode, o le ali di Peter Pan.


Pasolini allora disse:

"Mi è stata rivolta una domanda un po' come si fa una domanda a una guida, a uno che sappia, e invece no, non so rispondere a questa domanda. Non saprei da che parte cominciare a prendere provvedimenti e come realizzarli. E invece risponderò a questa domanda ponendo un problema: un problema che sarà delusorio, sia per Buratti, penso, che per la maggioranza di voi. Quello che ha detto Buratti adesso era estremamente valido e preciso, se detto dieci anni fa; oggi, secondo me, non lo è più, o lo è in un altro modo... [...]. In questi dieci anni la situazione antropologica e culturale italiana o meglio, la cultura antropologica italiana si è completamente ribaltata. L'insegnamento o la protezione del dialetto o è diventato un fatto di tradizionalismo, di conservatorismo (che considero perfettamente sano, per le ragioni che esiste una "destra sublime"), oppure dovrebbe diventare profondamente rivoluzionario (qualcosa come è la difesa della propria lingua per i Paesi baschi, oppure per gli irlandesi), deve arrivare al limite del separatismo, che sarebbe una lotta estremamente sana, perché questa lotta per il separatismo non è altro che la difesa del pluralismo culturale, che è la realtà di una cultura. Quindi: o essere conservatori, ma illuminati, in modo assolutamente nuovo, che non ha niente a che fare con la conservazione della destra classica; o essere addirittura rivoluzionari. La cosa, che fino a dieci anni fa era una cosa ragionevole, giusta: gli italiani parlano siciliano o romano o friulano, quindi difendiamoli, abituiamoli a parlare un italiano dialettizzato, ad amare il loro dialetto, a rifornire il loro italiano con l'estrema abbondanza lessicale [dei dialetti... ], oggi deve avere connotazioni completamente nuove [...]; bisogna trovare un nuovo modo di essere liberi. È un problema centrale della nostra vita".

Poco prima della sua tragica fine, nel suo ultimo intervento "da vivo" (ce ne sarà uno postumo, che riferirò più oltre) Pasolini giunse a solidarizzare col separatismo (ed il riferimento ai Paesi baschi ed all'Irlanda toglie ogni dubbio di "letterarietà" al discorso): ciò per me, solidale con i baschi e con i sardi(6), fu una sorpresa e di grande conforto. Tale affermazione disorientò non soltanto l'uditorio di allora, ma gli esegeti di oggi. Claudio Marazzini(7) ritiene che Pasolini suggerisca tale affermazione come "alternativa ideale, assolutamente non concreta": non sono d'accordo. Una siffatta interpretazione avrebbe offeso profondamente Pasolini, che avrebbe reagito trattando l'esegeta da "nuovo chierico", come in effetti bollò pure coloro, tra gli ascoltatori partecipanti al seminario, che tentavano di situarlo nell'astratto. Marazzini scrive che Pasolini "non crede che questa lotta abbia successo, in quanto essa è contro la storia". Ma se si tratta di resistenza? E che si tratti di vera e propria "Resistenza", Pasolini lo confermerà sia a conclusione del dibattito sia nell'intervento (assolutamente non "idealistico", ma "materialista" e concreto, richiamandosi all'entropia capitalista ed alla dialettica marxista) postumo al congresso del Partito radicale, di cui dirò.


Qui mi preme sottolineare che Pasolini travolge quella che il sociologo Jean Louis Calvet definisce "la falsa coppia teorica lingua/dialetto, venuta dai tempi più remoti, ma ripresa e rinnovata con una vernice di 'scientificità' dai linguisti"(8), e cioè una tipica forma di "glottofagia". Infatti, nell'esempio Pasolini cita insieme "siciliano, romano o friulano" il quale ultimo chiama alle volte "dialetto" altre "lingua" (come nell'Academiuta di Casarsa). Nella lotta contro l'omologazione, la parlata romanesca vale dunque quanto la friulana... Tesi che condivido pienamente, e che dovrebbe far riflettere i firmatari delle varie proposte di legge (a cominciare da quella che ebbe come relatore l'onorevole Loris Fortuna, per finire a quella che fu votata alla Camera dei deputati nel novembre 1991 ma non al Senato, e che, decaduta per lo scioglimento anticipato del Parlamento, è stata ripresentata nell'attuale legislatura) per la tutela delle minoranze linguistiche (in attuazione dell'articolo 6 della Costituzione), con un rigido elenco delle minoranze degne di tutela; nonché quanti, anche da sinistra (Massimo Salvadori, Valerio Castronovo) paventavano il rischio del separatismo e l'insegnamento "del bergamasco e del dialetto di Canicattì"(9). Il primo numero dello "Stroligut di ca da l'aga" ("Almanacchino di qua dell'acqua": l'Adige) uscito durante la Resistenza, nell'aprile del 1944, si apre con un articolo in friulano del giovane Pasolini, "Dialet, lenga e sti1", relativo alla differenza tra "lingua" e "dialetto" non basata su criteri filologici, ma sugli esiti letterari raggiunti:

"Cusì il dialet a lè la più ùmila e comun maniera di esprimisi al é doma che parlat, nisun al si impensa mai di scrivilu. Ma se a qualchidun a gni vegnès che idea? I vuej disi l'idea di doprà il dialèt par esprimi i so sintimins, li so pasions? No, tegnèivi ben a mins, no par scrivi do tre stupidadis da far ridi, o par contà do tre storiutis vecis dal so pais (parsè che alora il dialet al resta dialet, e basta lì), ma cun l'ambisisòn di disi robis pì elevadis, difisilis, magari; se qualchidun, insoma, al crodès di esprimisi miej cu 'l dialet da la so ciera, pi nouf, pì fresc, pì fuart si no la lenga nassional impararada tai libris? Se a qualchidun a ghi ven che idea, e al é bon di realisala, e altris c'a parlin chel stes dialèt, a lu sèguitin e a li imitin e cussì, un pac a la volta, a si ingruma na buna quantitat di material scrit, alora chel dialetal doventa 'lenga". La lenga a sarès cussì un dialet scrit e doprat par esprimi i sintimens pi als e segres dal cour"(10).

Si tratta, quindi, di liberare la propria parlata materna dal ghetto del vernacolo, dal patimento di una discriminazione culturale limitante, soffocante. È esattamente la stessa "rivoluzione culturale" che Pinin Pacòt, con altri pochi giovani, aveva intrapreso sin dal 1927 a Torino con la rivistina "Ij Brandé" (gli alari) in un periodo non certamente propizio alle rivendicazioni regionaliste, spazzate via come denuncerà la "Dichiarazione di Chivasso" del 19 dicembre 1943 dal "mito fanfarone di Roma doma"(11).


Occorre comunque riconoscere che la posizione pasoliniana appariva improntata ad un grande pessimismo. In sostanza egli diceva: "Ormai è troppo tardi". "L'alternativa linguistica" gli sembrava ormai uccisa (il "cambiamento antropologico" "dove pure non era riuscito il fascismo", annota Pasolini è in sostanza un "genocidio") o ridotta allo stato di mera sopravvivenza, il che sarebbe ancora più penoso.


Comunque, è da sottolineare come l'atteggiamento risultante dal finale di "Bestia da stile" non si riferisca ad un'inattualità, cioè l' "antistoricità" della battaglia: ma costituisca una "resa" da parte di chi si sente allo stremo, quasi stanco appunto di resistere, di sfidare il "rispetto della propria figura pubblica", di chi "deve proteggere i propri nervi, indeboliti, e cercare protezione, accettare il gioco che mai ha accettato". Tuttavia, al termine del dibattito, quando io ripresi la parola per ricordargli che esistono "sacche di resistenza", e che ci sono giovani, operai e contadini, non rassegnati, che mi vengono a trovare perché vogliono scrivere in piemontese(12), e che ciò significa il discorso dei baschi:

si sta per estinguere la lingua, ma vi sono giovani che la reimparano. Allora la battaglia per il "dialetto" non è più un recupero da museo, ma la scoperta di un'arma... ed ai "corsari" serve scoprire un "deposito" insperato di armi, su "isole del tesoro"... Vale la pena di rileggere(13) quanto Pasolini rispose, proprio a chiusura del dibattito.


"Rispondo molto brevemente, una risposta che può essere una specie di conclusione, che mi sembra abbastanza rilevante. Fino a ieri il problema del rapporto del dialetto e della cultura popolare con la cultura degli insegnanti, con la cultura della classe dominante, era di due tipi: o era di carattere archeologico, filologico conservatore (raccolta di canti) o era di carattere progressista in un senso retorico della parola, presupponeva la realtà immutata delle classi popolari, un rapporto dialettico tra cultura popolare e cultura borghese. Oggi siamo usciti, mi sembra, attraverso i nostri discorsi, da queste due possibilità, ponendo un modo nuovo, che è quello che hai accennato tu [Buratti], cioè non essere né archeologici nel senso conservatore e anche buono della parola, ma prendere coscienza di tutto questo, prendere coscienza che il dialetto non è più quello che era dieci anni fa, ma è un dialetto parlato dal calabrese a Torino. Oppure il problema dialettale di Corleone(14).
Prendere coscienza che i fenomeni dialettali sono completamente diversi, prendere coscienza che sono in un certo senso rivoluzionari, e i giovani, che dici tu, che usano il dialetto, lo fanno perché anche a loro è arrivato, magari non con estrema consapevolezza, ma esistenzialmente, la necessità di lottare contro questo nuovo fascismo che è l'accentramento, che è l'accentramento linguistico è culturale del consumismo".

Come è mai possibile, a questo punto, sostenere che il "dialetto rivoluzionario", il "separatismo" siano per Pasolini "un'alternativa ideale, assolutamente 'non concreta' "?


I partecipanti al corso di Lecce non rimasero passivi alle provocazioni. Nel corso del dibattito ci fu chi tentò di fargli una predica, di "richiamarlo" alle tesi canoniche della sinistra da sempre giacobina. Quando un professore gli chiese se era veramente convinto che dieci anni prima la "cultura di borgata", la "cultura popolare" desse soddisfazioni ai ceti dominati, allora come oggi travagliati da tensioni, rivalità, invidie, volontà di adeguamento, Pasolini rispose:

"Sulla felicità posso dare una risposta su cui non ho il minimo dubbio. Benché sia sempre divorato da dubbi, su questo non ne ho".


"Nelle borgate romane [...] i giovani e la gente in genere erano molto più felici di adesso. Non so cosa sia la felicità; ma se la felicità è sorridere e cantare e inventare linguisticamente tutti i giorni una battuta, una spiritosaggine, una storia, se felicità è questa, allora erano molto più felici di oggi. Se la felicità non è questa, allora non parlo più. Ma io sono abituato sin dalla più lontana infanzia a distinguere la felicità dal sorriso, dagli occhi, da come uno sorride, da come uno guarda. Allora, nelle borgate romane, andando in giro per Roma, tutti i fattorini dei negozi, quelli dei macellai, dei fornai, in bicicletta, con le toppe nel sedere, andavano in giro per la città e cantavano. Non c'era nessuno che non cantasse, non c'era nessuno che, guardato, non ricambiasse lo sguardo con un sorriso. Questa è una forma di felicità. Ormai invece si vedono visi pallidi, nevrotici, seri, introvertiti. Sono più seri; può darsi che si pongano dei problemi; vivono una forma di infelicità, di impotenza, perché ancora le loro condizioni economiche, appunto, non permettono loro di realizzare quel modello piccolo-borghese che viene loro offerto in cambio del modello sottoproletariato distrutto".
Vi è poi, qui, un'affermazione che appare fondamentale per comprendere la posizione "eretica" di Pasolini, e che turba l'ortodossia della sinistra:
"Non ho paura affatto; come ho dimostrato in questa poesia che vi ho letto, di rischiare di essere chiamato conservatore e reazionario, perché questa è una cosa che poteva terrorizzare una persona dieci anni fa, ma oggi le cose sono totalmente cambiate, che non c'è da aver paura; la verità va detta a qualunque costo; a qualunque costo io dico che il sorriso di un giovane di dieci anni fa era un riso di felicità, mentre oggi è un infelice nevrotico. Lo dico, poi ognuno può fare le accuse che vuole, però io lo dico".
Più oltre:
"Abbiamo capito che la miseria è orrenda; la povertà [invece] abbiamo capito che non è il male peggiore: il male peggiore è la miseria del finto benessere; sono molto più poveri adesso che dieci anni fa, in proporzione...". E fu a questo punto che qualcuno lo interruppe dicendo: "Ma sta proponendoci l'Arcadia del sottoproletariato!". Ed allora Pasolini: "Altro che Arcadia! Io vedo come sono andate realmente le cose. L'Arcadia è di chi riposa sulle idee progressiste di dieci anni fa, che gratificavano le proprie coscienze di una grande pienezza democratica, di grande tolleranza, e invece si sono rivelate vuote, svuotate. Vanno riverginate, vanno rivitalizzate queste vecchie idee progressiste. Parlando di borgata come luogo culturale, intendo parlare di un decentramento reale e non di un decentramento concepito secondo una retorica progressista".

Oggi non si può non sottolineare quanto fosse profetica l'analisi pasoliniana. La sinistra paga l'errore di aver accettato di scendere sullo stesso campo del protagonismo consumista ed è stata battuta da chi, sul consumismo, ha fatto le proprie fortune prima economiche e poi politiche; il rischio è di perseverare nell'errore, accontentandosi, per accattivarsi le simpatie dei moderati del "centro", di un "progressismo" di maniera, del tutto vuoto di contenuti, senza significati di "rivoluzione culturale", di recupero di potenziali autenticamente alternativi, di rinuncia a rafforzare quanto ancora resiste in funzione di centro di "contropotere" poiché le leggi elettorali volute (anche da gran parte della sinistra "canonica") si fondano sulla "cultura del vincente" e sacrificano le forze profetiche, i "rompiscatole" ed i provocatori non dimentichi della lezione di Pasolini... Insomma, gli "eretici" invisi ai "nuovi chierici".


Pasolini utilizzò questo termine a proposito di un chiarimento su Gramsci. Un docente infatti gli propinò un bel sermone di ortodossia marxista e, a proposito del genocidio perpetrato dalla scuola, disse: "Per quanto riguarda la scuola e la Tv, nella posizione di Pasolini individuo la posizione di Ivan Illich, colui che parla di descolarizzazione. Gramsci parlava di un'emancipazione, e l'emancipazione evidentemente non significava il contenimento dell'individuo in un suo mondo culturale limitato, esprimibile attraverso il linguaggio dialettale...". Pasolini, allora, nella replica, oltre a precisare di non essere "per l'abolizione della scuola", ma per una sua riforma in senso programmatico perché quella di oggi, così com'è, è una cosa penosa, ridicola, un residuo ridicolo di umanesimo, disse:

 "Da qualche tempo io vado pensando che in Italia si sta formando un nuovo tipo di chierico, ed è il progressista. È la vittoria del Pci che rende questa cosa abbastanza minacciosa; ora io continuo a considerarmi un progressista, è chiaro. Tutte le illazioni che voi fate sul mio tornare indietro sono tutte follie, perché venitemelo a dimostrare dove ho scritto che bisogna tornare indietro? [...] Secondo me, questo 'nuovo chierico', che sarebbe il 'progressista' che comincia a diventare egemone nella cultura nazionale, e sta trasformando quegli impulsi che erano autentici in impulsi retorici, è lui semmai l'antiquato [...]. Quando tu usi la parola 'emancipazione', usi una parola di una vecchiezza spaventosa; non si dovrebbe più usare la parola 'emancipazione', perché è una parola ingiallita, vecchia, fatiscente. Non si può più usare questa parola [...]. Parli di 'emancipazione' riferendola a Gramsci; ma per Gramsci era lecitissimo parlare di emancipazione, perché Gramsci lavorava quarant'anni fa, in un mondo arcaico che noi non osiamo neppure immaginare, e tu che sei giovane non riesci neppure ad immaginare come fosse il mondo in cui operava Gramsci [...]. Allora era giustissimo per lui parlare di emancipazione, della parola 'emancipazione', perché i pastori sardi vivevano in un dato modo. È inconcepibile la differenza. Quindi non puoi richiamarmi Gramsci come esempio di emancipazione, puoi ricordarmi Gramsci come anello di una catena storica che porta a fare nuovi ragionamenti oggi, a riproporre un nuovo modo di essere progressisti, un nuovo modo di essere gramsciani. Se Gramsci fosse qui, chissà cosa direbbe. Perché la parola 'genocidio' non l'ho inventata io, l'ha inventata Gramsci, e quando Gramsci dice 'genocidio', prende una posizione; prende posizione in favore delle vittime contro coloro che le hanno vittimizzate; prende una posizione in favore delle culture particolaristiche che venivano distrutte, contro la cultura centralistica che le distruggeva. Quindi non è vero che Gramsci non prendesse una posizione in questo senso, e non è vero che prendere posizione per una cultura popolare, in un certo senso arretrata, significa reazionario, significa tornare indietro, perché effettivamente Gramsci era per loro, era per quella cultura, avrebbe voluto la sopravvivenza di quelle culture perché quelle culture erano gli operai, erano i proletari, erano i sottoproletari, erano i contadini, e non voleva la loro distruzione, è chiaro, voleva che le loro culture entrassero dialetticamente in rapporto con la grande cultura borghese in cui lui stesso, come Engels, si era formato ed era assolutamente contrario al loro genocidio. Io sono marxista nel senso più perfetto della parola quando urlo, mi indigno contro la distruzione delle culture particolari perché vorrei, appunto [...] che le culture popolari fossero un contributo, un arricchimento ed entrassero in rapporto dialettico con la cultura popolare".

Pochi giorni dopo avrebbe ripreso proprio questo concetto nel messaggio letto postumo al congresso del Partito radicale a Firenze, il 23-4 novembre.


Pasolini, che a Lecce era partito da una premessa molto pessimista, cambiò poi posizione rendendosi disponibile alla battaglia, perché si rese conto che questa non era perduta, finita, "antistorica". Nel corso del dibattito emersero testimonianze e contributi, quali quella del papas professore Giuseppe Faraco, insegnante al liceo di San Demetrio Corone, che denunciò il dramma dei bambini monolingui albanesi di Calabria, "massacrati" dalla scuola italiana, al punto che, per loro, la "maestrina" è sinonimo di babau, di diavolo! Insomma, lo stanco "corsaro" scoprì un' isola del tesoro, con rifornimenti ed aiuti insperati... Ci lasciammo a Lecce (era in partenza per Parigi, dove era chiamato a sistemare le ultime pratiche relative al film "Salò") con l'intesa che, dopo Natale, gli avrei scritto, documentandogli appunto le "sacche di resistenza", i fenomeni di "separatismo", che lo affascinavano al punto di dirmi che a questa battaglia voleva dedicarsi con nuovo vigore.


A noi, non rassegnati dell'Associazione internazionale per la difesa delle lingue e delle culture minacciate (Aidlcm)(15) il conforto di Pasolini dava forza, nuovi entusiasmi e speranza... Ma questa disponibilità di Pasolini, che è per noi il suo "lascito" più prezioso, l'eredità che rivendichiamo con forza, ci viene continuamente contestata da chi (non parlando alcun "dialetto" e non provando quindi dolore, non avendo la "lingua tagliata"), cerca di ricondurre Pasolini entro gli schemi del progressismo ortodosso, di chi di questa problematica mai si è occupato, ritenendola "sovrastrutturale" e dunque, quanto meno, ingombrante. Ma costoro non si accorgono che, così facendo, diventano proprio dei "nuovi chierici".


Marazzini, nel saggio citato, crede invece che sia il "progressismo ottimistico di sinistra" ad essere "la religione dei chierici". Non si tratta di ottimismo, ma di un atteggiamento da inquisitore, che ha neutralizzato la propria coscienza accettando schemi preconfezionati, verità indiscutibili... Del resto, Pasolini ha ben precisato questo concetto rivolgendosi ad un altro interlocutore, il professor Antonio Sobrero, che è proprio un docente universitario di linguistica, dialettologia.



"Se pongo il problema di dire fino a che punto il mio progressismo è reale o è invece una forma di clericalismo, fino a che punto sono ancora un progressista o sono già un nuovo chierico con una sua retorica e un moralismo [...] deve essere una discussione profonda, disperata e sincera con la propria coscienza". Non si tratta, pertanto, di "progressismo ottimista": una questione di morale, di retorica. La "discussione profonda, disperata" testimonia una "scelta" viscerale, come quella dell'eretico che sfida la morale ortodossa e canonica, l'inquisizione; come chi ha scelto, appunto, la "resistenza". Pasolini non accusa le masse di aver distrutto "il suo mito", ma di non reagire all'inquinamento, all'espropriazione. In effetti, dopo il dibattito a Lecce, Pasolini dovette rimediare con l'impegno su quella tematica che lo coinvolgeva al punto di "urlare", come diceva lui. Uscì allora quel messaggio che, letto al congresso del Partito radicale il giorno dopo l'assassinio di Pasolini, è come il testamento spirituale. Questo passaggio ne è la chiave di volta: "L'alterità esiste di per sé nell'entropia capitalistica. Quivi essa gode (o per meglio dire, patisce, e spesso orrendamente patisce) la sua concretezza, la sua fattualità. Ciò che è, e l'altro che è in esso, sono due dati culturali. Tra tali due dati esiste un rapporto di prevaricazione, spesso, appunto, orribile. Trasformare il loro rapporto in un rapporto dialettico è appunto la funzione, fino ad oggi, del marxismo; rapporto dialettico tra la cultura della classe dominante e la cultura della classe dominata. Tale rapporto dialettico non sarebbe dunque più possibile là dove la cultura della classe dominata fosse scomparsa, eliminata, 'abrogata', come dite voi. Dunque, bisogna lottare per la conservazione di tutte le forme, alterne e subalterne, di cultura".

L'attualità del messaggio di Pasolini, a vent'anni dalla sua scomparsa, è nel superare il moralismo progressista, per impegnarsi con tutte le nostre forze contro il "nuovo fascismo che è l'accentramento linguistico e culturale del consumismo", cioè per una "nuova" resistenza. L'impostazione pasoliniana alla lotta per le minoranze linguistiche (e per l'attuazione di un principio fondamentale della Costituzione che scandalosamente da mezzo secolo attende di essere onorato!) è quindi nel senso di recuperare "l'alterità", e per questo, come egli ha ben precisato, "serve" il friulano, come il romanesco ed il siciliano; il "bergamasco e il dialetto di Canicattì" per dirla come i "nuovi chierici" spaventati dalle proposte di legge in materia di articolo 6. Le discriminazioni tra minoranze "nazionali" e "dialetti italiani" sono quindi senza significato; aggiungiamo noi: rischiano di scatenare una guerra tra poveri.


Così, occorre rendersi conto che i "diversi" (gli "eterefoni"!) rilevanti non sono soltanto i piemontesi in Piemonte, ma anche "il dialetto parlato dal calabrese a Torino". Dobbiamo pertanto uscire dagli schemi usuali, e tradurre la nostra battaglia in termini esistenziali, se non vogliamo, anche noi, diventare settari, acidi, nuovi chierici. Si può essere tali, infatti, anche nelle "chiesuole" delle minoranze... Che si tratti di un discorso esistenziale, squisitamente liberatorio, è ancora lo stesso Pasolini a precisarlo, quando rispose a un docente(16) che aveva detto: "Pasolini ha proposto l'indipendenza partendo dalla lingua; l'individuo dovrebbe chiedere l'indipendenza partendo dalla lingua; l'individuo dovrebbe chiedere l'indipendenza, su base linguistica, della propria comunità. Ora, siccome estremizza questo processo, giungendo al limite dell'indipendenza politica, vorrei chiedere: fino a che punto si può estremizzare? Perché, se consideriamo la lingua come uno strumento personale, ad un certo punto arriveremo ad una richiesta di indipendenza a livello personale". Chiarì Pasolini:



"Un po' ingenuamente tu hai preso alla lettera una cosa ch'io ho detto come paradossale: cioè, che a un certo punto i greci, qui, di Roghudi o Calimera, prendano i fucili in mano e facciano come gli indipendentisti corsi. È una cosa paradossale che ho detto, prendila come paradosso. Hai portato la tua interpretazione ingenua di quello che ho detto, fino a ipotizzare un'indipendenza, anche individuale, in quanto ogni individuo ha il suo gergo privato, il suo 'idioletto' come giustamente dici tu. Ma perché no? Effettivamente, perché no? A un certo punto, il momento anarchico che è in noi, che... c'è fortunatamente in tutti noi anche in chi non lo sa, e che si manifesta soprattutto nei poeti, consiste proprio in questo, nel rivendicare la propria totale, assoluta indipendenza, il proprio totale, assoluto separatismo come individuo. È un paradosso, l'ho detto come un'immagine, prendilo come un'immagine poetica, che però ha una sua base di realtà, nel senso che, se questo famoso decentramento, questa famosa autogestione, di cui si parla retoricamente, vuole veramente essere reale, bisogna che allora si esternizzi, prenda coscienza tale di se stessa e diventi una forma non armata e non stupida e non fanatica di estremismo e di separatismo".
In altre parole: è la rivolta individuale per non essere trasformato in robot, inerte pedina di una società computerizzata; per essere uomo vivo e libero. È forse il momento più lirico (ma anche epico) dell'intervento. Ha messo a fuoco la motivazione della nostra battaglia, di noi del gruppo Alp e dell'Aidlcm-Italia. È, appunto, specie in questi passaggi che sentiamo Pasolini come Maestro: ed è per ciò che come un fra Dolcino lo "rivendichiamo" nel doppio senso del termine: perché è con noi, e perché è stato "inquisito" e ferocemente colpito da una violenza moralistica e canonica prima ancora che fisica.

A molti interlocutori di Pasolini, anche nel dibattito di Lecce, è sembrato che egli si sia lasciato condizionare dall'amore per i luoghi dell'infanzia, dal "regresso", e cioè, insomma, dalla nostalgia dei ghetti dialettali: si ridurrebbe così la carica politica, concreta del suo discorso. A ciò risponde puntualmente Luigi M. Lombardi-Satriani in un saggio che sottolinea l'aspetto "ereticale" di Pasolini(17): "Indubbiamente la sua visione della cultura contadina è permeata da un profondo rimpianto e può darsi che per esso la rappresentazione del mondo folklorico tradizionale risenta di una certa mitizzazione. E con questo? Chi ha stabilito una volta per tutte che il rimpianto, la nostalgia siano atteggiamenti negativi in assoluto, come se dovessero inevitabilmente condurre a mistificazioni e non possano costituire l'orizzonte emotivo entro il quale sviluppare un lucido discorso razionale? Nella rimozione 'obbligatoria' del rimpianto e della nostalgia non è, forse, operante un implicito ricatto culturale, per il quale il nostro ruolo pubblico di intellettuali deve informarsi a certi standards, consentendo lievi variazioni individuali contro immagini e modelli di comportamento prestabiliti?". Si tratta dunque, una volta ancora, di rifiutare schemi aprioristici e moralistici.


Pasolini voleva affidare la continuazione di queste lotte, che tanto si prestano ad essere mal comprese e perfino diffamate, ad un giovane della "destra sublime" e provocatoriamente manifestava questa sua intenzione a noi.

"Prendi questo fardello / ragazzo che mi odii / e portalo tu. È meraviglioso. / Io potrò andare avanti, alleggerito / scegliendo definitivamente / la vita, la gioventù".

Sembra quasi un biblico "cupio dissolvi" (bramo dissolvermi, sciogliermi come una vela). Ed infatti, pochi giorni dopo, lasciò anche il "fardello" del suo corpo. Di lui resta il bagaglio del "corsaro". Lo raccogliamo noi, anche se non siamo più ragazzi, anche se non siamo anzi, proprio perché non siamo della "destra sublime". Quel messaggio è di tale conforto, che il fardello "meraviglioso" non ci pesa più. Sappiamo che proprio in questa "scelta" (cioè, "eresia") noi troviamo "la vita, la gioventù".


Note

1 Pseudonimo di Mario Fagiolo. Nato a Roma nel 1905, vive a Genzano dell'Infiorata. Laureato in architettura. È uno dei maggiori dialettali viventi. Ha fondato e diretto molte riviste di interesse romano e dialettale; oltre ad aver allestito l'antologia (citata) con Pasolini, ne ha aggiornato le voci con una serie di almanacchi poetici: Il fiore della poesia dialettale (1961-1968) e Primavera della poesia in dialetto (1979-81).

Ha raccolto le sue numerose plaquettes nei volumi di Poesie 1942-48 (Roma, 1951); Poesie 1942-1967 (Roma, 1967); Poesie 1950-1975 (Roma, 1976); Basta (o no?) (Roma, 1984). Per la bibliografia critica, cfr. Pietro Pancrazi, Poesia e rococò di Mario Dell'Arco, in Ragguagli di Parnaso, a cura di C. Galimberti, III, Milano-Napoli, 1967; Leonardo Sciascia, in Introduzione a Il fiore della poesia romanesca, Roma-Caltanissetta, Sciascia, 1952; Gaetano Mariani, Poesia romanesca di Mario Dell'Arco, in "Letterature moderne", 1957, n. 6; Franco Brevini, Le parole perdute, Milano, Einaudi, 1990; ecc.

2 Giuseppe Pacotto. Nato a Torino nel 1899, morì a Castello D'Annone nel 1964. Impiegato di banca. Fondò nel 1927 la rivista "Ij Brandé" e il movimento, che intorno ad essa si riunì e si riconobbe, per il riscatto del piemontese da dialetto a lingua. Gustavo Buratti ha curato con G. Gandolfo un volume di Poesie e pàgine 'd pròsa (Torino, A l'ansëgna dij brandé, 1967) che comprende le raccolte poetiche edite e una scelta di pagine saggistiche.

R. Massano ha curato un'antologia della produzione di Pacòt, accompagnandola con un saggio introduttivo intitolato Pinin Pacòt artista e poeta nel volume Piemonte in poesia, Torino, Famija turineisa, 1976, pp. 117-220. Come Mario Dell'Arco, compare nelle varie antologie pubblicate sulla letteratura dialettale del Novecento e saggi relativi; cfr. anche Dizionario letterario Bompiani delle Opere, Appendice, vol. II, Milano, Bompiani, 1966 alla voce: Poesie di Pacòt, di Carlo Cordié, p. 173.

È importante rilevare come, prima ancora che nel suo saggio (che con la scelta compiuta da Mario Dell'Arco forma l'antologia citata, edita da Guanda nel 1952) Pasolini ebbe a elogiare Pinin Pacòt nel "Quaderno romanzo" (dell'Academiuta di Casarsa) n. 3 (giugno 1947), dove, nell'articolo Sguardo ai dialettali (p. 37) a commento del premio San Remo, si legge: "Crediamo che occorra addirittura una certa dose di perversione per impegnarsi sui testi premiati a San Remo. Ad ogni modo, non un'oasi, ma un fiorellino (a meno che non sia anche questo un miraggio) in quel deserto si trova: intendiamo riferirci a qualche luogo della poesia 'Lu silenziu' del siciliano Ignazio Buttitta e 'L'estate' dell'abruzzese Vittorio Clemente. Tutta bella è invece la lirica 'Gioventù, povra amìa...' dovuta a un torinese, Pinin Pacòt. Naturalmente la sua validità proviene dalla sua indole antidialettale. Sarà forse il metro (con quel ternario) pigramente allusivo ad antichi ritmi provenzali e con una certa agrezza popolare; o le immagini (Ma për noi doi la sèira as fa néira - e a deurb ij brass dë vlù për cheujne, ò gioventù); o un rischio sottile per cui il sentimentale sfiora esteticamente l'ambiguo (specialmente nell'ultima strofa: ...abbiamo un brivido sottile nello sguardo tranquillo)".

Per la letteratura contemporanea in piemontese, si veda soprattutto Poeti in piemontese del Novecento, a cura di Giovanni Tesio e Albina Malerba, Torino, Ca dë studi piemontèis, 1990.

3 P. LXXVIII. "È chiaro, in partenza, che si tratti di un preconcetto: quello di credere che la poesia, così detta dialettale, debba essere sempre popolare".

4 La nuova gioventù, Torino, Einaudi, maggio 1975.

5 Frédéric Mistral (Maillane, 1830-1914) è stato il grande artefice della rinascita letteraria della lingua provenzale. Autore di molte opere poetiche (di cui la maggiore è Mirella) ma anche filologiche (Lou tresor dóu Félibrige, dizionario del provenzale moderno), fondò il Felibrige, accademia e movimento per il riscatto di tutta la civiltà d'Oc, tuttora esistente, i cui membri si chiamano felìbri. Nel 1906 vinse il premio Nobel, con i cui proventi fondò a Arles il Museo delle tradizioni popolari, dove si può trovare un'immagine completa della Provenza.

Anche i membri dell'Academiuta di Pasolini si definivano felìbri, con evidente riferimento all'insegnamento di Mistral rivolto al riscatto della parlata popolare elevata a lingua di poesia.

6 Tra la fine degli anni sessanta ed i primi settanta diressi il periodico "Su popolu sardu" e dirigo tuttora "Sa Repubblica Sarda". Il giorno di Pasqua 1968 fui arrestato al valico di frontiera di Irun dalla polizia franchista e dopo alcune ore di permanenza nella camera d'arresto annessa alla stazione fui espulso, perché accusato di essere "arnico del popolo basco"(!).

7 Pasolini dopo le "Nuove questioni linguistiche", in "Sigma", a. XIV (1981), n. 23. p. 57-71.

8 Jean Louis Calvet, Linguistique et colonialisme. Petit traité de glottophagie, Paris, Payot, 1974. Tradotto da Domenico Canciani in italiano, Linguistica e colonialismo. Piccolo trattato di glottologia, Milano, Mazzotta, 1977 (cfr. le pp. 92-94).

9 Per l'opposizione (anche di alcuni intellettuali di sinistra, aggiuntisi a quella del Msi e del Pri) alla legge sulle minoranze, si veda: "La Stampa", 23 novembre, "Il Corriere della Sera", 21 novembre, "La Repubblica", 22 novembre, "Il Giornale", 21 novembre, tutti del 1991, nonché "Alp", n. 22 (dicembre 1991).

10 "Così il dialetto è la più umile e comune maniera di esprimersi, è soltanto parlato, nessuno si sogna mai di scriverlo. Ma se a qualcuno venisse quell'idea? Voglio dire, l'idea di usare il dialetto per esprimere i propri sentimenti, le proprie passioni? Non, badate bene, per scrivere due o tre stupidaggini da far ridere, o per raccontare due o tre vecchie storielle del proprio paese (perché allora il dialetto rimane dialetto, e finito lì), ma con l'ambizione di dire cose più elevate, difficili magari; se qualcuno, insomma, credesse di esprimersi meglio con il dialetto della propria terra, più nuovo, più fresco, più forte della lingua nazionale imparata nei libri? Se a qualcuno viene quell'idea, ed è capace di realizzarla, e altri che parlano quel medesimo dialetto, lo seguono e lo imitano, in modo che, un poco alla volta, si raggruppa una buona quantità di materiale scritto, allora quel dialetto diventa 'lingua'. La lingua sarebbe così un dialetto scritto e usato per esprimere i sentimenti più alti e segreti del cuore". Le riviste friulane di Pasolini sono state ripubblicate a cura di Nico Naldini, cugino del poeta, in Pier Paolo Pasolini, L'Academiuta friulana e le sue riviste, Vicenza, Neri Pozza, 1994.

11 La Dichiarazione dei rappresentanti delle popolazioni alpine redatta nella clandestinità a Chivasso il 19 dicembre 1943 è un fondamentale documento che testimonia il contributo dato dalla Resistenza alla tesi autonomista e federalista. Alla riunione di Chivasso parteciparono quattro rappresentanti della Resistenza delle valli valdesi del Pinerolo (Osvaldo Coisson, Gustavo Malan, Giorgio Peyronel e Mario Alberto Rollier) e due valdostani (Émile Chanoux, che morirà poi sotto tortura, in carcere, il 18 maggio 1944; e Ernest Page; avrebbe dovuto partecipare anche Lino Binel, ma era stato catturato ed era in prigione). Il documento è stato più volte edito a cura dell'Amministrazione della Regione autonoma della Valle d'Aosta, unitamente al testo del saggio Federalismo ed autonomie di Émile Chanoux, pubblicato la prima volta, postumo, in "Quaderni dell'Italia Libera" (patrocinati dal Partito d'azione), n. 26, sd (ma 1945). Il notaio Chanoux fu l'ispiratore della Dichiarazione ed il redattore della prima bozza condivisa poi con varianti ed aggiunte dai convenuti a Chivasso. Nelle celebrazioni del 50o del martirio di Émile Chanoux (cui è dedicata la piazza centrale di Aosta), sono stati editi tutti i suoi scritti: Émile Chanoux, écrits, Institut historique de la Résistence en Vallée d'Aoste, Aoste, Impremerie Valdôtaine, 1994; la bozza della Dichiarazione dei rappresentanti delle popolazioni alpine (detta anche Carta di Chivasso), cit., è alle pp. 393-394. Il saggio Federalismo e autonomie, cit., alle pp. 398-425.

Il testo della Carta di Chivasso è stato anche pubblicato e commentato da chi scrive, Decolonizzare le Alpi, in Prospettive di vita nell'arco alpino. Interventi di uomini di studio e d'esperienza sul passato, il presente ed il futuro delle Alpi, Milano, Jaca Book, 1981, pp. 64-83. È da rilevare come nella Dichiarazione fosse sottolineata l'esigenza dell'autonomia culturale per le vallate alpine, il che è dovuto alla sensibilità che al riguardo non poteva mancare in rappresentanti di popolazioni plurilingui quali quelle delle valli valdostane (francesi e franco-provenzali) e valdesi (francesi e occitane o provenzali alpine).

12 Si trattava dei collaboratori del periodico, interamente scritto in lingua piemontese, "Alp", la cui prima serie uscì dal 1973 al 1977.

La seconda serie è stata ripresa a Cossato nel 1984 e dura tuttora.

13 Gli interventi di Pasolini a Lecce e brani di quelli dei partecipanti al corso (docenti provenienti da tutta Italia e studenti del locale liceo scientifico) sono stati pubblicati nel postumo P. P. Pasolini, Volgar'eloquio, a cura di Antonio Piromalli e Domenico Scarfoglio, Napoli, Athena, 1976. L'Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea in provincia di Vercelli possiede la registrazione completa di tutti gli interventi della giornata "pasoliniana" del 21 ottobre 1975.

14 Pasolini si riferiva all'intervento di uno studente, il quale aveva raccontato che a Corleone il parlare dialetto era divenuto una sorta di "vezzo" borghese.

15 L'Associazione internazionale per la difesa delle lingue e delle culture minacciate (Aidlcm) fu fondata nel 1964 a Tolosa per iniziativa del linguista professor Pierre Naert, docente prima all'Università di Lund (Svezia) e poi in quella di Abo-Turku, primo firmatario di un appello di accademici scandinavi indirizzato da Lund, il 1 maggio 1962, ai consigli (danese, finlandese, norvegese e svedese) dell'Unesco, in favore delle lingue minacciate di estinzione. Il testo di questo appello unitamente agli statuti dell'Aidlcm sono stati pubblicati in italiano da Ulderico Bernardi, Le mille culture. Comunità locali e partecipazione politica, Roma, Coines, 1976, Appendice alle pp. 259-275. Attuale presidente dell'Aidlcm è il professor Jordi Costa, della minoranza catalana di Francia, Perpignan (carrer Greuze, 22).

16 P. P. Pasolini, Volgar'eloquio, cit., pp. 69-70, dove l'intervenuto è erroneamente indicato come studente, mentre trattasi di un professore.

17 Luigi M. Lombardi Satriani, Pasolini: memoria ed eresia, in "Quaderni calabresi", Vibo Valentia, novembre 1975, pp. 27-34.


"l'impegno", a. XIV, n. 3, dicembre 1994
© Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea nelle province di Biella e Vercelli.
È consentito l'utilizzo solo citando la fonte.

Fonte:
http://www.storia900bivc.it/pagine/editoria/buratti394.html




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Pasolini e il Terzo Mondo. Percorso cronologico nella vita e nella produzione artistica di Pier Paolo Pasolini

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Percorso cronologico nella vita e nella produzione artistica di Pier Paolo Pasolini


1961 gennaio – viaggio in India con Alberto Moravia e Elsa Morante – visite a Bombay, Nuova Dehli, Calcutta. Per il quotidiano “Il Giorno” scrive una serie di articoli poi pubblicati con il titolo L'odore dell'India (Longanesi, Milano 1961).

1961 febbraio – il viaggio prosegue in Africa – Kenia e Zanzibar.

1961 – scrive La Resistenza negra, prefazione a Letteratura negra. La poesia (a cura di M. De Andrade, Editori Riuniti, Roma).

1962 – gennaio – viaggio di un mese in Egitto, Sudan, Kenia, Grecia.

1962 - È bello uccidere il leone, “soggettino” cinematografico sull'Africa in quattro capitoli: al primo, senza titolo, seguono quelli intitolati Tinte forti da tavolozza cubista, La negra luce, Il sogno di una cosa. Il testo sarà pubblicato in “Filmsezione, n. 12, luglio-agosto 1962 e poi in “ABC”, n. 4, 26 gennaio 1964.

1962 – Il padre selvaggio – il “soggettino” È bello uccidere il leone si sviluppa in un testo più ampio sulla formazione di un liceale africano, destinato a costituire quella classe dirigente che dovrà realizzare uno sviluppo di tipo europeo, e sul suo nucleo familiare di provenienza, ancorato, attraverso la figura del padre, ad un passato oscuro, “selvaggio nel senso nobile della parola”, come sostiene nell'intervista rilasciata a Biamonte (in “Il Paese”, 25 febbraio 1962). L'ambientazione è progettata nel Congo della guerra civile, scatenatasi dopo l'indipendenza (1960), fra il presidente Lumumba e le forze secessioniste del Katanga guidate da Ciombé. Non nella forma di una sceneggiatura, ma in quella di un dettagliato trattamento, articolato in dialoghi e suddiviso in scene, il testo viene pubblicato in “Cinema e film”, nn. 3-4, autunno 1967 e poi nel volume Il padre selvaggio, Einaudi, Torino 1975. In entrambe le pubblicazioni, Pasolini vi allega la poesia E l'Africa? (nella raccolta Bestemmia).

1962 – risale a quest'anno, molto probabilmente, la prima stesura della poesia Profezia nella quale compare la figura di Alì dagli Occhi Azzurri, la poesia sarà inserita nella raccolta Poesie in forma di rosa (1964). Alì dagli occhi azzurri sarà il titolo di un volume pasoliniano del 1965, edito da Garzanti.

1963 gennaio – viaggio in Yemen, Kenia, Gahna, Guinea.

1963 gennaio-febbraio – La rabbia, nel film inserimenti dei seguenti filmati di repertorio: scontri di pattuglie egiziane e israeliane / ragazzetto nero allattato / bambini arabi / foto di Gandhi / uccisione di Gandhi (1948) / uccisione di Lumumba (1961) / Nehru, Nasser, Sukarno / danze di due ragazzi negri / danze indonesiane / liberazione della Tunisia (1956) / liberazione del Tanganika (1962) / liberazione del Togo (1960)

1963 - 27 giugno – 11 luglio – in vista della realizzazione del Vangelo secondo Matteo, sopralluoghi, con il biblista don Andrea Carraro, in Galilea (lago di Tiberiade; monte Tabor; Nazareth; Capharnaum), Giordania (Baram), Gerusalemme (fiume Giordano; confini della Giordania, Bersabea, Betlemme), Siria (Damasco). Il materiale raccolto è montato nel film Sopraluoghi in Palestina (1963).

1963 – Israele, ciclo di poesie inserite nella raccolta Poesie in forma di rosa (1964)

1964 – Poesie in forma di rosa

1965 – 22 aprile – in “Vie Nuove”, n. 16, Viaggio in Marocco

1965 – 20 maggio – in “Vie Nuove”, n. 20, L'aquila e la preda – Il test del Terzo Mondo

1965 – fine anno – viaggio in Nord Africa

1966 – 23 marzo in “Paese Sera”, I diseredati sono il nostro Terzo Mondo

1966 – ottobre – viaggio in Marocco per ambientazione dell'Edipo Re (1967)

1967 – aprile - iniziano le riprese di Edipo Re nel Marocco del Sud

1967 - aprile-giugno, in “Nuovi Argomenti”, n.s. 6, Israele. Testo scritto subito dopo la “Guerra dei sei giorni”
dal 20 dicembre 1967 al 10 gennaio 1968 – viaggio in India (Stato di Mahrashtra, Bombay, Stato di Uttar Pradesh, Stato del Rajastan, Nuova Delhi, il Gange ai confini con la Cina e numerosi altri luoghi) per effettuare le riprese in vista della realizzazione di Appunti per un film sull'India.
Nasce l'idea di realizzare un film in cinque episodi che avrebbe dovuto intitolarsi Appunti per un poema sul Terzo Mondo (vd. intervista a Lino Peroni, in “Inquadrature”, nn. 15-16, autunno 1968). Gli episodi avrebbero dovuto riguardare l'India, l'Africa Nera, i Paesi Arabi, l'America del Sud, i ghetti negri degli Stati Uniti (questi ultimi analizzati attraverso il “Black Power”, conosciuto nel corso del viaggio in USA dell'agosto 1966).

1968 dicembre – riprese in Uganda, Tanzania, Lago Tanganika

1969 febbraio – durante la lavorazione di Medea (1969; il film ha alcuni esterni girati in Turchia e Siria), nuove riprese in Uganda, Tanzania, Lago Tanganika in vista della realizzazione del film Appunti per un'Orestiade africana (1969), pensato inizialmente come episodio di Appunti per un poema sul Terzo Mondo. La versione della tragedia eschilea, nel film trasportata nell'Africa nera, è quella approntata dallo stesso Pasolini nel 1960 su richiesta di Gassman.

1969, nella intervista rilasciata a Ferdinando Camon (in F. Camon, La moglie del tiranno, Lerici, Roma 1969), Perché rinnego Profezia.

1970 – gennaio - viaggio in Africa con Maria Callas, Alberto Moravia, Dacia Maraini (Dakar, Abidjan, Bamako nel Mali).

1970 – 18 ottobre – al termine delle riprese del Decameron (settembre-ottobre 1970), mentre si trova nello Yemen, gira il documentario in forma di appello all'UNESCO Le mura di Sana'a (14 minuti), con esterni nello Yemen del Nord (Sana'a) e nello Yemen del Sud (Hadramaut).

1972 – estate – in vista della realizzazione della terza parte della “Trilogia della vita”, tratta dalle novelle delle Mille e una notte, effettua sopralluoghi in Egitto, Yemen, Persia, India, eritrea, Hadramaut.

1973 – aprile iniziano le riprese del film Il Fiore delle mille e una notte (2 marzo - 3 maggio 1973) in Iran (Isfahan), Yemen del Nord, Yemen del Sud, Nepal (Katmandu), Etiopia, India.



Fonte:
http://digilander.libero.it/lepassionidisinistra/n_14/pasoliniterzo.htm


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Tanzania: storia di un’Orestiade sospesa

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                         Tanzania: storia di un’Orestiade sospesa

                 

di Maria G. di Molfetta

Alla fine degli anni Sessanta, Pasolini assemblava una serie di immagini girate tra Uganda e Tanzania in un “non documentario” ed un “non film”, dal titolo “Appunti per un'Orestiade africana”. Si trattava di alcune note preliminari per un progetto cinematografico sperimentale ed ambizioso, quello di ambientare le vicende dell'Orestea di Eschilo nel continente africano. L'ambizione nasceva dall'idea di una possibile analogia tra Grecia arcaica ed Africa tradizionale da una parte, e Grecia democratica ed Africa indipendente dall'altra. Come Oreste assisteva alla trasformazione delle Erinni, forze materne primordiali in Eumenidi, benevole e prone alla nuova democrazia ed era giudicato dal primo tribunale umano, così l'Africa indipendente si presentava al mondo occidentale nelle vesti di Eumenidi, simbolo della coniugazione fra cultura tradizionale e cultura occidentale. Pasolini sperava appunto che proprio il retaggio delle vecchie Erinni potesse permettere all'Africa di realizzare una democrazia reale e non meramente formale.

Prima di riflettere sulla possibilità avanzata da Pasolini mi piacerebbe partire proprio da una tappa del suo itinerario africano, la Tanzania.

* * *
In occasione della conferenza di Berlino del 1885 i maggiori Stati occidentali (Germania, Austria-Ungheria, Belgio, Danimarca, Spagna, Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna, Italia, Olanda, Portogallo, Russia, Svezia, Norvegia e Turchia) si spartivano il continente africano, alla conquista di territori e vantaggi economico-geopolitici.
Lo scramble for Africa creava una serie di divisioni assolutamente arbitrarie, pullulanti di anomalie geografiche ed incisioni in aree prima omogenee, frutto della mano di “un sarto impazzito che taglia senza più fare attenzione al tessuto, al colore o al disegno del patchwork che sta confezionando”, secondo le parole del nigeriano Wole Soyinka(1).
Il Tanganyika fu assegnato all'Impero germanico, che in un primo momento avviò una politica di spossessamento delle terre nei confronti delle tribù, assegnando quelle migliori ai coloni. Il malcontento generale degli indigeni, sfociato nella rivolta Maji-Maji del 1905, costrinse i Tedeschi ad un'inversione di rotta, incentivando la nascita di una classe contadina autoctona.
Alla fine della prima guerra mondiale, la Società delle Nazioni assegnava il Tanganyika ai Britannici come mandato di tipo B prima e sistema ad amministrazione fiduciaria dopo, con l'obbligo, almeno in teoria, di governare nell'interesse delle popolazioni locali. A questo proposito, con l'opportunistica dichiarazione di voler rispettare il sistema dei capi tradizionali e delle leggi consuetudinarie, il governatore britannico sir Donald Cameron instaurava nel 1926 il sistema delle Native Authorities, riorganizzando il territorio tanganyikano in aree artificiali amministrate da autorità indigene. “La politica del governo è che questi capi governassero i propri popoli non come governanti indipendenti, bensì dipendenti”(2) direttamente dalle decisioni degli Inglesi.
Il cosiddetto sistema dell'indirect rule britannico garantiva lo sviluppo nei territori coloniali di un'economia funzionale alla crescita industriale della madrepatria che usufruiva delle essenziali materie prime e della produzione agricola ed al contempo trovava mercati fertili per smaltire i propri prodotti industriali. Alcune regioni (Bukoba, Kilimanjaro, Sukuma, Usambara, Iringa) integrate nel mercato dell'esportazione con la produzione di caffè, tè, sisal, cotone, vennero sviluppate (mai in senso industriale), mentre le altre rimasero confinate a livelli di agricoltura di sussistenza o costituirono la fonte per il reclutamento di manodopera stagionale(3).
Nonostante l'arretratezza delle infrastrutture ed il limitatissimo accesso all'istruzione, proprio nelle zone più avanzate sorsero cooperative commerciali agricole ed associazioni di mutuo soccorso cittadine che elaboravano progetti di solidarietà moderna in mancanza di quella tradizionale. Dalla fusione tra tali forme di organizzazione e i sindacati dei settori pubblici emerse una nuova élite(4), la cui istruzione, seppur minima, permetteva l'accesso agli strumenti teorici e pratici dei colonialisti. Non si trattava di una classe moderna, politicamente determinante, dato che il basso livello di sviluppo nazionale aveva creato solo una scarsa e debole borghesia agraria, ma la contestazione legata all'associazionismo poneva le basi per il movimento nazionalista.
La prima organizzazione politica, la TAA (Tanganyika African Association) nata nel 1929, si fondava sull'idea del self-improvement e sulla critica ad un sistema coloniale che garantiva salute e potere sociale soltanto alla comunità europea ed asiatica. Non potendo sottovalutare tali spinte nazionalistiche, il governo britannico sostituì il sistema della Native Authorities con quello del local government, che prevedeva un maggiore accesso dei Tanganyikani all'apparato burocratico e la possibilità che membri regolarmente eletti potessero far parte del Consiglio legislativo ed in minor grado di quello esecutivo.
Nel 1954 la TAA si trasformava nella TANU (Tanganyika African National Union) guidata dalla carismatica figura di Julius Nyerere. Obiettivi primari della TANU erano: indipendenza del paese e governo fondato su principi socialisti, riduzione delle forme di divisionismo etnico, democrazia basata sull'elettività dei rappresentanti, sindacalismo e cooperazione fra le associazioni. Il governo britannico reagì con misure repressive e col finanziamento ad un partito di bianchi ed asiatici, l'UTP (United Tanganyika Party).
L'inevitabile processo di evoluzione costituzionale deciso dal governo inglese approdò alla fase elettorale del 1960 per l'assegnazione dei 71 seggi del Consiglio legislativo e si arrese alla schiacciante vittoria della TANU (70 seggi conquistati). In piena coerenza con il suo programma, la TANU proclamava l'indipendenza e l'autogoverno il 9 dicembre del 1961.
Il 24 aprile del 1964 nasceva la Repubblica Unita della Tanzania dall'unificazione del Tanganyika e dell'arcipelago di Zanzibar. Dopo una serie di rivolgimenti politici, fondati sui risentimenti della popolazione africana nei confronti dei privilegi della ristretta élite araba, Zanzibar era diventato una Repubblica popolare con a capo un solo partito (ASP, Afro-Shirazi Party), che riuniva le componenti “persiane” ed africane ed aveva avviato la confisca di numerose proprietà all'aristocrazia araba. Il leader zanzibarita Karume e quello tanganyikano Nyerere avevano ragioni allettanti per tendere alla unione: il primo necessitava di una vittoria definitiva e legittimata nei confronti dell'opposizione, il secondo incanalava su una via più moderata la linea rivoluzionaria e populista zanzibarita.
La Repubblica Unita di Tanzania veniva abbracciata favorevolmente anche dagli USA che non avevano tardato ad inviare il diplomatico Frank Carlucci per arginare le possibili fughe comuniste.

* * *
Fin dalla sua nascita, la TANU si caratterizzava come partito socialista e dal 5 febbraio del 1967, anno della Dichiarazione di Arusha, si andavano delineando le basi del socialismo tanzaniano. Il termine swahilii(5) utilizzato da Nyerere per socialismo è ‘Ujamaa', che letteralmente vuol dire ‘fratellanza, affinità, parentela'. Infatti Nyerere insisteva sul fatto che l'Ujamaa fosse fortemente collegato ai valori tradizionali violati dai colonialisti. La società precoloniale, cioè, era completamente avulsa dal concetto di sfruttamento della terra, intesa in senso capitalistico come bene commerciabile. La terra era un bene comune che il singolo individuo poteva utilizzare allo scopo del progresso comunitario; era esclusa da questo sistema anche l'accumulazione individuale delle ricchezze(6). Il denaro a questo punto non poteva essere considerato la base per lo sviluppo della Tanzania, ma era il popolo tanzaniano nel suo complesso con lavoro e zelo assidui a determinare la ricchezza della nazione.
Non potendo far leva su un settore industriale pressoché inesistente, Nyerere vedeva nell'agricoltura la principale fonte di sostentamento e di sollevamento dal giogo della povertà. Il suo progetto dell'Ujamaa Vijijini (Socialismo rurale), proponeva l'organizzazione di villaggi comunitari di 250 famiglie ciascuno con una sezione del partito all'interno, in cui la produzione arrivasse ad essere collettiva.
Altro concetto importante era quello di kujitegemea (autosufficienza), un processo di sostanziale svincolamento dai fondi esteri.
Secondo Nyerere era ovvio che tale processo non poteva realizzarsi senza la guida ed il controllo della TANU, il partito che aveva condotto il popolo tanzaniano alla libertà. Considerando il socialismo tanzaniano sostanzialmente differente da quello di stampo marxista-occidentale, il quale si era sviluppato in seno ad una società industriale formata da classi sociali ed economiche dagli interessi tra loro antagonisti, non vi era alcun bisogno di una forma istituzionale bi o pluripartitica. Quest'ultima era concepibile unicamente quando esistevano visioni discordanti e divergenti su questioni politiche forti. In Tanzania, invece, ribadiva Nyerere, “non siamo in presenza di una società divisa in classi contrapposte che giustifichino, per divergenze su questioni fondamentali, l'esistenza di partiti. I movimenti politici nati in Africa sono nati per formare fronte comune di tutto il popolo contro i colonialisti […] in Africa e quindi in Tanganyika con la TANU essi incarnavano gli interessi e le aspirazioni di tutto il popolo nella sua integrità”(7). A questo punto il partito della TANU era legittimato a preservarsi come unica guida unanimista alla testa della neonata nazione tanzaniana.

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Senza minimizzare il peso negativo del retaggio coloniale e della dipendenza imperialista, “deve essere chiaro che il problema del sottosviluppo e delle strategie per liberarsene non può essere approfondito nelle sue componenti strutturali e politiche se non si analizzano, dietro le maschere delle ideologie, gli interessi e le alleanze che determinano scelte e svolte politiche”(8), socialismo tanzaniano compreso.
Una delle peculiarità del socialismo tanzaniano era il retrodatarsi al periodo precoloniale, ad una sorta di collettivismo tradizionale, che permetteva alla Tanzania di saltare la fase capitalista per immergersi in quella propriamente socialista.
Che la terra in Africa precoloniale non fosse considerata proprietà di singoli individui ed alienabile per mezzo della vendita non escludeva che si potesse verificare un uso individuale o familiare di essa. L'agricoltura africana precoloniale si fondava sulla piccola produzione contadina, singole famiglie coltivavano appezzamenti di terra e ne amministravano i prodotti liberamente. “La coltivazione collettiva era l'eccezione e non la regola, né deve essere confusa con le molte forme di cooperazione e reciproco aiuto”(9).
L'Ujamaa VIjijini dovette far fronte alla resistenza della popolazione (passività, riduzione della produzione, scarsa iniziativa) tanto che dopo l'iniziale volontarismo, il reinsediamento nei villaggi fu attuato con metodi coercitivi ed abusi dei burocrati locali, anche a causa di una poco chiara e rigida pianificazione del governo.
Inoltre, la collettivizzazione non andò mai ad intaccare gli interessi delle regioni principali fornitrici di beni alimentari per l'estero. “To live in villages is an order” titolava il Daily News di Dar es Salaam del 1976, riecheggiando le parole del Baba wa Taifa (Padre della Nazione), come veniva chiamato Nyerere.
Dai dati di Mc Henry (del 1971) su 4484 villaggi solo 211 erano al secondo stadio di sviluppo (principio di collettivizzazione) e solo 17 al terzo stadio (collettivizzazione da ultimarsi)(10). Il concetto di self reliance (autosufficienza), connessa alle tendenze dirigiste del governo e alla mancata iniziativa popolare, si arenò miseramente. “Gli aiuti esteri, sia per quanto riguardava i prestiti che i doni, erano aumentati dal 25% del PNL al 60% nel 1975-76”(11), causando diversificazione delle fonti di aiuti: Cina popolare (finanzia la costruzione della ferrovia Tazara), la Banca Mondiale, gli USA, i Paesi scandinavi, Canada, Germania Occidentale.
A tutto questo si accompagnava un atteggiamento sempre più assolutista del partito di governo, il Chama Cha Mapinduzi (CCM, ‘partito della rivoluzione', nato dalla fusione di TANU ed ASP). Il CCM, lungi dal salvaguardare gli interessi dell'intera popolazione, finiva col garantire la crescita di una ristretta fascia di piccolo-borghesi. La crisi precipitò per la convergenza di una serie di fattori: ascesa del prezzo del petrolio negli anni Settanta, calo di valore dei principali beni d'esportazione, lo scioglimento (1977) della Comunità economica dell'Africa orientale (unione doganale ed economica tra Uganda, Tanzania e Kenya), la lunghissima siccità degli anni Ottanta, gli sforzi militari tanzaniani nella deposizione del dittatore ugandese, Idi Amin Dada(12). Nel 1985 Nyerere si dimetteva nominando Ali Hassan Mwinyi presidente della nazione e mantenendo fino alla morte (1999) la carica di presidente del CCM(13).

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Alla fine degli anni Settanta anche la Tanzania si trovava a gestire livelli di debito verso banche pubbliche e private internazionali ben oltre la sua capacità di finanziamento. Il ricorso al FMI e alla BM come garanti per la rinegoziazione del debito e per mantenere linee di credito commerciale costrinsero il paese, come la maggior parte dell' Africa, all'accettazione di piani di aggiustamento strutturale (PAS)(14). Questi ultimi imputavano ai governi dirigisti africani, fondati sul monopolio politico esercitato dal partito unico, la principale causa del mancato sviluppo.
La necessità di avviare il processo di democratizzazione in Africa, attraverso la creazione del multipartitismo, significava sostanzialmente promuovere un processo di liberalizzazione economica (aumento della competitività tramite imprese private più dinamiche, riduzione degli investimenti nell'assistenza sanitaria e nell'istruzione)(15).
Nonostante la crescita del PNL nel 2003 sia stata del 5,6%, ciò si è tradotto in un disequilibrio nella distribuzione della ricchezza prodotta ed un accesso diseguale ai nuovi canali di arricchimento per i diversi gruppi sociali.
Così come altrove, anche in Tanzania, i PAS non hanno significato la stessa cosa per tutta la popolazione: i cospicui investimenti esteri hanno intensificato il processo di stratificazione sociale(16) e la forbice dei redditi si è aperta significativamente spianando la strada ad una serie di tensioni sociali. Molte aziende governative privatizzate sono proprietà di società estere che con l'informatizzazione dell'economia hanno drasticamente ridotto il personale.
Le risorse minerarie e quelle del turismo sono in mani straniere, usurpate a volte senza il versamento di imposte. “Le conseguenze sono terribili: vent'anni fa non c'erano tanti disoccupati. Oggi ci sono ingegneri, diplomati, infermiere, dottori senza lavoro. In certe zone di Dar es Salaam sembra di essere in Italia, si trova tutto. Ma è carissimo e la maggior parte della gente non può permetterselo”(17).
Le iscrizioni alla scuola elementare sono diminuite, per non parlare di quelle alla scuola secondaria, dati assurdamente significativi per le guidelines del programma di Nyerere e per il fatto che il 40% della popolazione ha meno di 14 anni(18).

I numerosi provvedimenti legislativi da parte del governo tanzaniano dal 1999 al 2004 prevedono misure a favore degli imprenditori locali aggrediti dalla spietata concorrenza estera. “Una lettura contestualizzata di questi […] mette in luce una politica intrappolata tra l'incudine della necessità per il governo di un'organica sintonia con le priorità politiche dei donatori a garanzia del continuo flusso dei finanziamenti esteri ed il martello della ricerca del consenso dei ceti imprenditoriali da parte del CCM”(19). Il debito estero del paese è aumentato di ben 12 volte rispetto all'anno 1994-95, superando il miliardo di scellini tanzaniani e sospingendo il paese al 160° posto (su 175) delle classifiche mondiali in termini di sviluppo umano(20).

In tema di multipartitismo, nel 1992 una seduta straordinaria del CCM votava all'unanimità l'emendamento alla costituzione per legalizzare un sistema multipartitico, ma da quella data in poi, ogni tornata elettorale ha confermato sistematicamente l'egemonia politica del CCM. Nessun altro partito dell'opposizione ha saputo offrire alternative programmatiche “spendibili” e “sostenibili”(21) dalla comunità internazionale almeno rispetto al processo di generale liberalizzazione economica attuata dal vecchio “partito unico”. Quest'ultimo, se da una parte ha saputo assicurare al paese una stabilità sociale costante, ha dall'altra eliminato ogni tipo di confronto politico, a causa della gestione dei mezzi di comunicazione, il ruolo di guida nel processo di emancipazione dallo straniero, la frammentarietà dei partiti d'opposizione, relegati in alcune regioni continentali settentrionali e nell'arcipelago di Zanzibar.

Diverso sembra essere il discorso per le isole, dove le elezioni sono tutt'altro che pacifiche. Il bipolarismo spurio(22) fra CCM e CUF (Civic United Front), enfatizzatosi in ogni occasione elettorale con violente repressioni ed accuse di brogli, si mantiene ancora a livello di demagogia e viene abilmente ammantato di moventi etnico-religiosi. Dal momento che Il CUF ha i suoi maggiori sostenitori nell'arcipelago zanzibarita, prevalentemente musulmano, ed in particolare presso l'isola di Pemba, le accuse di collusione col fondamentalismo islamico o di divisionismo piovono abbondanti da diversi cieli, insulare, continentale, transnazionale.

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Ritornando a Pasolini e ai suoi “appunti” come occasione stimolante di discussione, la domanda che stringe il cerchio e che assilla la maggior parte degli intellettuali africani e degli africanisti è: “È possibile parlare di democrazia africana e qual è il significato di tale espressione?”.
Secondo Eboussi Buolaga gli assertori dell'esistenza di una democrazia universale, che imputano all'Africa un deficit democratico, sono talvolta gli stessi che eludono il rispetto di diritti impliciti in una democrazia universale. “L'uomo comune vuole essere libero […] vuole potersi muovere da Yaoundè a Douala senza chiedere il permesso a nessuno, senza dover pagare mance… Rifiuta gli arresti arbitrari, la tortura, le percosse della polizia. Desidera essere educato e vivere in condizioni socio-economiche dignitose”(23).
Lo Stato, ogni Stato, dovrebbe farsi carico di questi diritti, della realizzazione dell'umano, della coniugazione di esigenze individuali e sete di solidarietà.
Nata nel quadro filosofico dell'Illuminismo, la democrazia occidentale ha fatto un uso strumentale della ragione per l'affermazione dell'egemonia dell'utile, soprattutto al di là delle frontiere nazionali. La libertà come valore fondante delle nostre democrazie si è spesso tradotta nel processo di esportazione all'estero di una democrazia fondata sul liberismo economico. Gli Inglesi avevano ben compreso l'importanza di questa esportazione quando nella seconda metà dell'Ottocento proclamarono illegale, dopo più di tre secoli di abusi indiscriminati, la tratta degli schiavi africani. Al di là del riconoscimento della dignità dell'uomo, dietro ogni fervore paternalistico-umanitario, c'era la volontà di conquistare nuovi mercati, di formare dei perfetti gentlemen africani istruiti all'anglosassone e liberi di acquistare beni e progresso dall'Occidente. Come altrimenti sarebbe stato possibile piazzare i prodotti dell'industrializzazione su una terra di schiavi non salariati?
Che cosa è cambiato con la decolonizzazione? Quest'ultima, ormai inevitabile dopo la seconda guerra mondiale e la consapevolezza acquisita dagli Africani tra le fila degli eserciti della madrepatria, è consistita nella libertà politica per lo meno formale delle colonie. “Rimane in piedi tutto l'aspetto economico. È vero che viene lanciata la teoria dello sviluppo – però… teoria più che pratica. Abbiamo ormai trenta, quarant'anni di esperienza per poter dire che la democrazia non si impegna sul piano internazionale e non produce un autentico contributo alla liberazione dei popoli già coloniali”(24).
Alcuni ascrivono l'incapacità di instaurare democrazie reali in Africa alla sua natura tribale ed ogni rivendicazione è ricondotta meramente a cause etniche. Il processo di “balcanizzazione dell'Africa” è un fenomeno recentissimo, risultato dalla spartizione arbitraria di spazi e popolazioni da parte di Paesi che ben poco conoscevano e ben poco volevano conoscere del continente nero.
Lo stesso Pasolini solleva la questione nel confronto con gli studenti universitari africani a Roma: “Chi è che ha fatto i confini del Congo e della Nigeria? Li hanno fatti i colonialisti. La realtà della Nigeria è una realtà falsa fatta a tavolino dai padroni europei. Hanno tracciato dei segni ed hanno fatto la Nigeria, ma questo non corrisponde alla realtà della Nigeria”.
Le frontiere derivate dallo scramble for Africa, che l'Organizzazione dell'Unione Africana nel post-indipendenza non ha saputo mettere in discussione per la primaria esigenza di unità, sono un problema cocente. Ma le divisioni nel cuore del continente africano non possono essere spiegate con l'esistenza delle tribù.
La cristallizzazione tribale avveniva nell'Africa precoloniale per lottare contro un nemico esterno, “non c'è solidarietà etnica tra il ministro tutsi ed il povero contadino tutsi nella sua collina. Esistono altri tipi di divisione nell'Africa di oggi. Per fasce sociali differenziate. Le etnie avocate oggi […] sono delle entità non culturali ma politiche, frutto di manipolazioni operate dai politici, creazioni artificiali che nulla hanno a che vedere con il passato”(25).
La multiculturalità africana che nessuno vuole e deve negare non costituisce un ostacolo alla crescita del continente, ma quando gli Stati dirigisti che fanno gli interessi della società civile e democratica occidentale non elaborano strategie di assistenza nei confronti dei cittadini, ecco che emergono altri tipi di protezione (nazionali, regionali, locali). Tali tensioni cercano di portare sul palcoscenico mondiale i diritti violati della maggior parte della popolazione africana dai PAS, ma vengono abilmente liquidati dietro l'etichetta di etnicismi, tribalismi, fondamentalismi.
L'aggiustamento strutturale previsto dal FMI e dalla BM nasconde un'altra forma di imperialismo, la globalizzazione, quella dei “cinque monopoli” dell'Occidente: la grande tecnologia, flussi finanziari mondiali, accesso alle risorse agricole e minerarie, gli armamenti e la comunicazione(26).
In molti paesi africani non esistono ancora garanzie costituzionali che permettano un equo confronto politico.
Il partito unico in Tanzania, come altrove, con una burocrazia corrotta, tende a concentrare nelle proprie mani le funzioni legislativa, esecutiva e giudiziaria, dando la sensazione ai cittadini che il godimento di certi diritti (all'assistenza, all'istruzione, alla difesa, all'elezione dei propri rappresentanti) non sia da considerare condizione connaturata alla democrazia, ma favori elargiti dalla stanza dei bottoni.
Anche le elezioni dello scorso 2005 in Tanzania hanno confermato al potere il CCM, con l'elezione alla presidenza dell'ex ministro degli esteri, Kikwete. A Zanzibar le elezioni locali per il parlamento semi- autonomo non si sono svolte tranquillamente. Dopo aver scrutinato i 2/3 delle schede elettorali, i sostenitori del CUF festeggiavano la presunta vittoria (con il 54,2% dei voti) ma sono stati persuasi dalle forze di polizia, a suon di manganelli, getti d'acqua e lacrimogeni, a tornare al silenzio(27). Alla fine anche nell'arcipelago è stata dichiarata la vittoria del CCM.

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Dopo più di quarant'anni di dittatura del partito rivoluzionario tanzaniano che cosa resta della riflessione pasoliniana?
Quando Pasolini girava quelle immagini, in Tanzania cominciavano già ad essere evidenti le storture cui era stata piegata l'ideologia ujamaa. Egli dice di aver scelto per l'Orestiade una nazione africana che gli sembrava tipica, una nazione socialista a tendenza filocinese, ma la cui scelta non definitiva traspariva dall'altra attrattiva non meno affascinante, quella americana.
Durante gli anni Sessanta molti intellettuali di formazione marxista avevano fatto della Tanzania una sorta di paese esemplare per l'Africa sub-sahariana, nel quale si potessero vedere realizzate le esigenze di progresso umano ed economico.
Anche Pasolini sembra partecipare alla “tanzaphilia”(28), ma subito ne coglie le latenti contraddizioni, nella schizofrenia di un paese che subisce la fascinazione di due forze contrapposte, Usa e Cina. “L'aquila e il drago”(29) ancora oggi si contendono il continente africano, per diversificare le loro fonti energetiche, considerando l'instabile situazione medio orientale.
Inoltre, Pasolini riconosce altrove la pregnanza politica che l'Orestea di Eschilo doveva avere nella polis ateniese e non poteva non essere a conoscenza del carattere meramente formale della sua democrazia, dove la gestione del potere ed il godimento dei diritti erano appannaggio di una ristretta classe (vecchie forze aristocratiche moderate e ceti mercantili).
A questo punto, consapevole della formalità della democrazia all'occidentale esportata in Africa, egli pensava alla realizzabilità della democrazia reale mediante la sintesi di un'Africa antica ed un'Africa nuova.
Le Eumenidi avrebbero dovuto rappresentare tale unione, ma le Eumenidi sono proprio il risultato di una violenza ed un omicidio dell'antico spirito a vantaggio del nuovo. Le Erinni hanno perso la loro carica rivoluzionaria di cagne feroci e sono diventate mansuete sotto il giogo della presunta civiltà.
La rivoluzionarietà dell'identità africana pare essersi persa dietro le danze dei Wagogo o delle celebrazioni matrimoniali a Dodoma, prive della ritualità e del senso originari e ridotte a puro intrattenimento.
Credo che Pasolini anche questa volta abbia intuito i limiti dell'effettuabilità di una democrazia reale africana, ponendosi e ponendo agli studenti africani la questione decisiva: “Secondo voi questo film potrei girarlo nell'Africa di oggi degli anni Settanta o è più giusto retrodatare il film e girarlo nell'Africa del 1960, cioè il periodo in cui la maggior parte degli Stati africani hanno conquistato l'indipendenza?”.
La sua scelta finale, di retrodatare l'eventuale Orestiade africana al 1960, mi sembra indicativa. La realizzabilità della democrazia reale sembra limitata alla fase dei primi entusiasmi della decolonizzazione. Alla luce di quanto accaduto nel periodo classico (Atene imperialistica), nel recente passato e nel nostro presente (imperialismo del centro sulle periferie) non posso che condividere i dubbi di Pasolini. Senza, però, trascurare le sue ultimissime parole, quelle sulla “conclusione sospesa”, sull'ansia di futuro, sulla pazienza dell'Africa.
L'anima nera sorridente, porosa, tollerante, spirituale che ha permesso la penetrazione dell'alterità occidentale dovrebbe essere incanalata su una strada realmente rivoluzionaria e popolare.
Ma come possono le singole élites al governo corrotte, indottrinate, “missionarizzate”, svincolarsi dalla morsa economica internazionale?
Un suggerimento: ascoltare le singole voci, i sussurri centrifughi delle microeconomie, delle cooperative locali, materne, dinamiche che si agitano pazientemente all'ombra, nel ventre della macroeconomia globale, paternalistica, omologante.
Le Erinni africane andrebbero viste allora non nell'ottica del selvaggio, dell'astorico istinto ferino, ma come storico progressivo secolare adattamento ad una natura estrema ed incombente (deserti solitari, foreste lussureggianti, savane desolate, piogge scroscianti, insetti molesti…). Le vere Erinni africane dovrebbero rappresentare tale spirito permeabilissimo, instancabile, per niente immobile.
Non dimentichiamo che dietro ritualità etichettate spesso troppo facilmente ed astutamente con il termine di superstizioni, si cela un sapere tradizionale fortemente pratico, denso, fondato sull'osservazione diretta e paziente della natura e degli uomini, in Africa, in Grecia così come nelle nostre terre. 


1 J-L. TOUADI, Africa puzzle, in “Nigrizia”, Verona, 1998, n. 10, p. 12.
2 A. M. GENTILI, G. MIZZAU, I. TADDIA, Africa come storia, Milano, 1980, p. 209.
3 A. M. GENTILI, Ideologia e politica di sviluppo: il caso della Repubblica di Tanzania, in La scelta “socialista” in Etiopia, Somalia e Tanzania, GUADAGNI M. (a cura di), Trieste, 1979, p. 80.
4 A. M. GENTILI, Il leone e il cacciatore. Storia dell'Africa subsahariana, Roma, 2001, p. 242.
5 La parola ‘swahili (che letteralmente significa ‘della costa') deriva dall'arabo ‘sahil' e si riferisce alla lingua ufficiale della Tanzania, considerata una delle principali lingue veicolari sulla costa dell'Africa orientale, da Mogadiscio fino al Mozambico. Appartiene al sottogruppo Bantu all'interno delle lingue Niger-Congo (una delle quattro macro-famiglie linguistiche del continente africano).
6 A. CAIOLI, Il socialismo africano di Nyerere, in, La scelta “socialista” in Etiopia, Somalia e Tanzania, op. cit., p. 58.
7Ibidem , p. 62.
8 A. M. GENTILI, Il leone e il cacciatore. Storia dell'Africa subsahariana, cit., p. 84.
9Ibidem, p. 85.
10Ibidem, p. 90.
11Ibidem, p. 94.
12 M. FITZPATRICK, Tanzania, Torino, 2002, p. 7.
13 Bisogna comunque sottolineare il ruolo importantissimo di Nyerere nel processo di unificazione dell'intero paese sotto un'unica lingua indigena, lo swahili, nel totale rispetto delle peculiari componenti etniche e linguistiche tanzaniane ed il reverenziale rispetto ancora adesso tributato alla sua memoria. Tale aspetto necessita di un'analisi più approfondita e mirata che non troverebbe una formulazione esaustiva in questa ricerca.
14 A. M. GENTILI, Il leone e il cacciatore. Storia dell'Africa subsahariana, cit., p. 280.
15Ibidem, p. 392.
16 M. LAMBERTINI (a cura di), Aggiustati dal fondo, in “Nigrizia”, Verona, 2002, n. 6, p. 24.
17 Ibidem, p. 26.
18 C. TORNIMBENI e M. ZAMPONI, Tanzania: elezioni per lo status quo?, in “Afriche ed Orienti”, Repubblica di San Marino, 2000, nn. 3-4, p. 95.
19 A. PALLOTTI, La depoliticizzazione dello sviluppo? Riforme economiche, disuguaglianza e coesione politica in Tanzania, in “Afriche ed Orienti”, Repubblica di San Marino, n. 4/2004 e n. 1/2005, p. 151.
20 S. MSUSA, Una nazione disunita… e povera, in “Nigrizia”, Verona, 2005, n. 6, p. 16.
21 C. TORNIMBENI e M. ZAMPONI, op. cit., p. 94.
22 B. FALCHI, Ottobre 2000: quale futuro per Zanzibar?, in “Afriche ed Orienti”, Repubblica di San Marino, 2000, nn. 3-4, p. 97.
23 P. M. MAZZOLA (a cura di), In agenda, i diritti, in “Nigrizia” speciale 2000, Verona, 1999, n. 10, p. 11.
24 U. ALLEGRETTI, Democrazia senz'anima, in “Nigrizia” speciale 2000, Verona, 1999, n. 10, p. 12.
25 P. M. MAZZOLA (a cura di), op. cit., p. 13.
26 S. AMIN (a cura della redazione), È sempre imperialismo, in “Nigrizia” speciale 2000, Verona, 1999, n. 10, p. 14.
27 MISNA (a cura di), Tanzania - Zanzibar: elezioni, polizia interrompe “festeggiamenti” opposizione, novembre 2005, sito internet: http://www. excite Italia - News - TANZANIA.htm.
28 A. PALLOTTI, op. cit., p. 148.
29 Così titola un articolo comparso nell'inserto di “Nigrizia” del maggio 2006, dedicato alle relazioni Africa-Cina.
Fonte:
http://digilander.libero.it/lepassionidisinistra/n_14/tanzania.htm#1




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Curatore, Bruno Esposito

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