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Biografia, lavori in corso - a breve anche il 1974 e il 1975

sabato 6 luglio 2013

Il fascismo secondo Pasolini

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro




Il fascismo secondo Pasolini

“Nessun centralismo fascista è riuscito a fare ciò che ha fatto il centralismo della civiltà dei consumi. Il fascismo proponeva un modello, reazionario e monumentale, che però restava lettera morta. Le varie culture particolari (contadine, sottoproletarie, operaie) continuavano imperturbabili a uniformarsi ai loro antichi modelli: la repressione si limitava ad ottenere la loro adesione a parole. Oggi, al contrario, l’adesione ai modelli imposti dal Centro, è tale e incondizionata. I modelli culturali reali sono rinnegati. L’abiura è compiuta. Si può dunque affermare che la “tolleranza” della ideologia edonistica voluta dal nuovo potere, è la peggiore delle repressioni della storia umana. Come si è potuta esercitare tale repressione? Attraverso due rivoluzioni, interne all’organizzazione borghese: la rivoluzione delle infrastrutture e la rivoluzione del sistema d’informazioni. Le strade, la motorizzazione ecc. hanno oramai strettamente unito la periferia al Centro, abolendo ogni distanza materiale. Ma la rivoluzione del sistema d’informazioni è stata ancora più radicale e decisiva. Per mezzo della televisione, il Centro ha assimilato a sé l’intero paese che era così storicamente differenziato e ricco di culture originali. Ha cominciato un’opera di omologazione distruttrice di ogni autenticità e concretezza. Ha imposto cioè - come dicevo - i suoi modelli: che sono i modelli voluti dalla nuova industrializzazione, la quale non si accontenta più di un “uomo che consuma”, ma pretende che non siano concepibili altre ideologie che quella del consumo. Un edonismo neo-laico, ciecamente dimentico di ogni valore umanistico e ciecamente estraneo alle scienze umane.

L’antecedente ideologia voluta e imposta dal potere era, come si sa, la religione: e il cattolicesimo, infatti, era formalmente l’unico fenomeno culturale che “omologava” gli italiani. Ora esso è diventato concorrente di quel nuovo fenomeno culturale “omologatore” che è l’edonismo di massa: e, come concorrente, il nuovo potere già da qualche anno ha cominciato a liquidarlo. Non c’è infatti niente di religioso nel modello del Giovane Uomo e della Giovane Donna proposti e imposti dalla televisione. Essi sono due persone che avvalorano la vita solo attraverso i suoi Beni di consumo (e, s’intende, vanno ancora a messa la domenica: in macchina). Gli italiani hanno accettato con entusiasmo questo nuovo modello che la televisione impone loro secondo le norme della Produzione creatrice di benessere (o, meglio, di salvezza dalla miseria). Lo hanno accettato: ma sono davvero in grado di realizzarlo?
No. O lo realizzano materialmente solo in parte, diventandone la caricatura, o non riescono a realizzarlo che in misura così minima da diventarne vittime. Frustrazione o addirittura ansia nevrotica sono ormai stati d’animo collettivi. Per esempio, i sottoproletari, fino a pochi anni fa, rispettavano la cultura e non si vergognavano della propria ignoranza. Anzi, erano fieri del proprio modello popolare di analfabeti in possesso però del mistero della realtà. Guardavano con un certo disprezzo spavaldo i “figli di papà”, i piccoli borghesi, da cui si dissociavano, anche quando erano costretti a servirli. Adesso, al contrario, essi cominciano a vergognarsi della propria ignoranza: hanno abiurato dal proprio modello culturale (i giovanissimi non lo ricordano neanche più, l’hanno completamente perduto), e il nuovo modello che cercano di imitare non prevede l’analfabetismo e la rozzezza. I ragazzi sottoproletari - umiliati - cancellano nella loro carta d’identità il termine del loro mestiere, per sostituirlo con la qualifica di “studente”. Naturalmente, da quando hanno cominciato a vergognarsi della loro ignoranza, hanno cominciato anche a disprezzare la cultura (caratteristica piccolo borghese, che essi hanno subito acquisito per mimesi). Nel tempo stesso, il ragazzo piccolo borghese, nell’adeguarsi al modello “televisivo” - che, essendo la sua stessa classe a creare e a volere, gli è sostanzialmente naturale - diviene stranamente rozzo e infelice. Se i sottoproletari si sono imborghesiti, i borghesi si sono sottoproletarizzati. La cultura che essi producono, essendo di carattere tecnologico e strettamente pragmatico, impedisce al vecchio “uomo” che è ancora in loro di svilupparsi. Da ciò deriva in essi una specie di rattrappimento delle facoltà intellettuali e morali. La responsabilità della televisione, in tutto questo, è enorme. Non certo in quanto "mezzo tecnico", ma in quanto strumento del potere e potere essa stessa. Essa non è soltanto un luogo attraverso cui passano i messaggi, ma è un centro elaboratore di messaggi. È il luogo dove si concreta una mentalità che altrimenti non si saprebbe dove collocare. È attraverso lo spirito della televisione che si manifesta in concreto lo spirito del nuovo potere. Non c’è dubbio (lo si vede dai risultati) che la televisione sia autoritaria e repressiva come mai nessun mezzo di informazione al mondo. Il giornale fascista e le scritte sui cascinali di slogans mussoliniani fanno ridere: come (con dolore) l’aratro rispetto a un trattore. Il fascismo, voglio ripeterlo, non è stato sostanzialmente in grado nemmeno di scalfire l’anima del popolo italiano: il nuovo fascismo, attraverso i nuovi mezzi di comunicazione e di informazione (specie, appunto, la televisione), non solo l’ha scalfita, ma l’ha lacerata, violata, bruttata per sempre”.

Pier Paolo Pasolini
Fonte:
http://www.iltuoforum.net/forum/il-libro-ritrovato-f44/pier-paolo-pasolini-1922-1975-t2801.html


@Eretico e Corsaro - Le Pagine Corsare

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Pier Paolo Pasolini, il confronto con Cristo e la sua visione religiosa della Vita

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro




Pier Paolo Pasolini, il confronto con Cristo e la sua visione religiosa della Vita


Avevo tredici anni e abitavo nei pressi di Villa Gordiani, a quell’epoca vivevo nelle strada, pur venendo da una famiglia benestante, per sette anni sin dal l’inizio abbandonai la scuola e vissi vagabondando sia di giorno che di notte tra le distese periferie Romane: Torre dei schiavi, Quarticciolo, Villa Gordiani, Centocelle, il Mandrione, dove i canti delle puttane erano ninnananne, il Casilino ecc. Ma ero avvezzo alla strada, perché fino dai sei ai dieci anni alla Pisana, vissi solo nella strada, non ricordo di aver fatto le elementari. La mia lingua era il Romano, ma il Romano delle borgate e non il Romanesco ottocentesco del Belli, che si differenziava da questo dialetto, come una lingua colta da una lingua popolare. Questa lingua era ricchissima di vocaboli e di espressioni, le quali erano tutte attinenti alla vita delle Borgate Romane è di questa lingua che Pasolini s’innamorò, purtroppo questo dialetto è quasi scomparso, anche io che parlavo solo in quel dialetto e lo conoscevo perfettamente mi rimangono solo poche espressioni. La prima volta che vidi “il Vangelo secondo Matteo” in televisione avevo quattordici anni, ne rimasi colpito, affascinato, turbato, fino allora la figura del Cristo per me non aveva nessuna importanza, una figura anonima come qualunque altra. Dopo questa visione, tornai ad essere quello di prima, nato libero fuori da qualunque condizione esterna sia religiosa, sociale, scolastica e famigliare, solo la condizione del vivere, come puro atto esistenziale, puro atto animale, in estrema libertà di vagabondare in quelle periferie che Pasolini ha ben descritto nei suoi romanzi e nelle sue poesie; e in queste periferie che sentii il nome di Pasolini che girava con la Maserati e pagava i ragazzi per le sue debolezze sessuali, (nella lingua Romana si chiamavano Froci), nella lingua Pasoliniana era una (omofilia del sangue). Una volta passai vicino ad una bancarella di libri usati, ce n’erano moltissimi e dentro di me pensai , come fa la gente a leggere i libri, la consideravo una perdita di tempo, essendo allora semianalfabeta, anche nei giornaletti guardavo solo le figure. Poi a sedici anni e mezzo venni a vivere a Ladispoli e qui a diciassette anni scoprii la passione dei libri. D’allora lessi accanitamente, tutta la letteratura Francese, Russa, Tedesca, Inglese e la letteratura antica, poco quella italiana, leggevo soprattutto romanzi e saggi critici, per capire quello che studiavo, fino a quando sono andato a fare il militare divorai centinaia di libri. Il militare fu una pausa, in quel periodo non lessi nessun libro, quando mi congedai, tornai a casa e ripresi a leggere, ricominciai a studiare la letteratura universale. Un giorno in una discussione tra amici, spuntò il nome di Pasolini e qualcuno dei miei amici mi disse “tu che studi letteratura che ne pensi di Pasolini”? Io risposi : per me non vale niente è un povero Frocio. Un anno dopo cominciai a vedere i suoi film e a leggere le sue poesie e i suoi libri, e mi rivenne in mente Il vangelo secondo Matteo, e d’allora cominciai ad amare questa grande figura da farne un vero e proprio culto. Una mattina di novembre del 1975 un mio amico mi venne a svegliare e mi disse: hanno ammazzato Pasolini. Il dispiacere fu enorme che per una settimana ebbi la febbre a quaranta, ero rimasto orfano all’età di sedici anni e di nuovo un padre mi veniva tolto, si ricreò quel vuoto e quella solitudine che provai fin da quando abbandonai le acque materne e questa solitudine cosmica, che l’universo ha creato dal suo Big Bang la si può sentire nelle notti stellate dentro il movimento d’ogni creatura cosmica e la riporterò in tutta la mia opera poetica “la trilogia del tempo che muore”.

Pier Paolo Pasolini: sono un ateo che vede la vita nella sua religiosità. Questa sua religiosità trapela in modo diverso da tutti i suoi scritti e in tutti i suoi film, tranne per Salò, che ormai deluso, solo, amareggiato, dopo l’abiura alla trilogia della vita, esprimeva appieno ciò che era divenuta la nostra società con l’avvento del consumismo e della omologazione. La religiosità che più si evidenzia dai suoi film il (vangelo secondo Matteo e la Ricotta) è quella del Cristo: il Cristo umano, terreno, rivoluzionario, venuto a sovvertire le leggi dei padroni, degli oppressori a sconvolgere il potere costituito, a dare scandalo; questo Cristo nel Vangelo secondo Matteo, si appropria delle parole del vangelo e rimane un rivoluzionario, che distrugge ogni forma di casta ed evidenzia la povertà e la sofferenza del popolo, degli schiavi, delle puttane e di ogni essere umano che vive emarginato e sofferente, fino a dire che gli ultimi saranno i primi. Questo Cristo, che esprime tutta la sua religiosità in questa lotta che sconvolgerà il mondo antico e lo minerà alle sue radici e lo farà morire sulla croce, dopo essere stato flagellato, accettando su di sé il dolore del mondo è in questo dolore umano che il Cristo si identifica, e in questa sua umanità si esprime la sua religiosità. La lotta che fece Cristo era quella di cambiare profondamente la società, quella Pasoliniana è stata quella di non cambiarla di rimanere nel passato, di non distruggere tutta la nostra cultura formatasi dalla morte del Cristo all’avvento del consumismo, duemila anni di umanesimo gettati alle ortiche per sostituirli col puro consumo,in fondo è la nostra nuova religione che ci è entrata dentro e che non ce ne possiamo più separare.
in Accattone la religiosità si esprime nel popolo, il popolo della borgate romane, non che il popolo delle borgate sia stato un popolo religioso, anzi tutto il contrario, la sua religiosità era soltanto formale. La sua religiosità era data dall’estrema povertà in cui vivevano e all’adattamento alla miseria e alla fame, nelle baracche in cui vivevano piene di figli e di miseria, l’unica cosa che potevano fare erano i figli benedetti dalla provvidenza e dalla gioia di vivere e non come oggi: (l’aborto, negazione della vita, omicidio legalizzato, sfregio della donna e non più come atto divino e ripetizione della creazione di tutto l’universo) e per uscire da questa miseria i ragazzi sceglievano le strade più maldestre: il rubare, l’essere magnaccia e far prostituire le loro donne, per quei pochi luccichii d’oro che portavano al collo e alle dita. La religiosità espressa da Pasolini era come quella del Cristo, la religiosità della povertà della gente e degli esseri emarginati, dei ladri e delle puttane. Fu scandolo quando Pasolini adoperò per le sue inquadrature le musiche di Bach, che sono profondamente religiose.
La mia esperienza del Cristo è trivalente, studiando e rappresentando teatralmente la poesia di David Maria Turoldo (Sillabe divine, Mario Pozzi), questa poesia puramente Cristiana, sia per spiritualità, sia per umanità, dà al Cristo quel porto, quel rifugio che ogni anima attanagliata dalle sua tenebre cerca la sua luce “io sono la verità e la vita, chi crede in me non morrà ma vivrà in eterno”. Turoldo era uno studioso della bibbia e i suoi dubbi sull’Eterno si manifestano nei (canti ultimi), dove il salmista Qoelet, pone come nostro fine il nulla, il Divino nulla, tema Leopardiano (e la natura ci pose come fine solo la sepoltura); questo nulla lo contrappone col dolce salmo del Cantico dei Cantici, dove nella notte la fiammella ardente della fanciulla attende lo sposo, ed ecco lo sposo, la dolce e tenera figura del Cristo, luce nelle tenebre del mondo.
Ritornando alla figura del Cristo Pasoliniano, andiamo al film “La Ricotta” dove il dualismo del Cristo Ecclesiale, formale, accademico con la scena trasgressiva della deposizione si differenza nella figura di Stracci, povero Cristo delle borgate che per pura fame,(beati gli umili e i mansueti, perché è per loro il regno dei cieli), si presta ad ogni umiliazione per riempirsi la pancia, fino a morire come il Cristo sulla croce per indigestione. Pasolini fu sempre attratto per le sofferenze del popolo, prima per l’immenso mondo contadino dove in esso vedeva la profonda religiosità umana di questa gente che viveva come l’uomo era vissuto, legato alla terra e alle stagioni e al dominare della natura e in questa natura si celava la sua Divinità, che l’uomo rispettava, perché da essa dipendeva.
Mamma Roma, interpretato da Anna Magnani, Pasolini ebbe dei dubbi su Anna Magnani, perché non rispondeva al suo canone di donna del popolo, ma ad un canone borghese. La storia è quella di una prostituta che vuol abbandonare il suo destino per divenire una piccola borghese, ha un figlio che adora e lo strappa dal paesello dove era stato allevato per portalo a vivere in una delle borgate Romane per inserirlo in una vita piccolo borghese, quando sembrava che c’era riuscita, il suo vecchio protettore si ripresenta e la costringe a tornare sulla strada, il figlio dopo diverse peripezie, morirà in prigione su un vecchio tavolaccio invocando la madre che lo aveva tolto dal paesello dove viveva tanto bene. Pasolini per questa scena adoperò la figura del Cristo morto del Mantegna. Questo film, nonostante le musiche classiche a tema religioso, le inquadrature che riportavano la vita di quelle borgate, la disperazione della madre e per la morte del figlio, non riesce a dare un senso religioso, perché nel tema trattato non c’è nulla di religioso; c’è solo la povera vita di una prostituta che cerca una vita borghese e in questo rovinerà il figlio.
In Teorema, dove un bellissimo giovane, attraverso l’ossessività del sesso, viene a sconvolgere una famiglia dell’alta borghesia milanese, Pasolini identificava la borghesia come il male del mondo, entropia borghese, incapace di essere felice e questa sua infelicità la deve espandere a tutti gli esseri viventi. La figura del padre anche quando avrà la sua crisi di coscienza troverà solo il deserto e il suo perduto grido(Munch). La famiglia, incapacità di comunicare tra loro, solitudine, infelicità, disperazione. La religiosità di Pasolini anche qui si esprime nella figura della serva, che abbandonata la casa si rifugia nel suo mondo contadino e per ascesi viene venerata ma ammuffisce, presagio della fine del mondo contadino e con lui tutti i suoi valori. La figura di Riccetto analfabeta e ingenuo, la sua religiosità è la più pura, incontaminata, la religiosità della vita che basta a se stessa, la sua allegrezza, la sua spontaneità.
In Medea la religiosità Pasoliniana è arcaica legata al principio del tempo, alla società rurale, che nei loro credi religiosi e sacrificali celebravano la vita, la vita ferma nel tempo e del suo ripetersi, finché una nuova società sostanzialmente laica viene a rubare il vello d’oro e a dissacrare quel mondo. Giasone, viene allevato dal centauro nel mito della natura dove in ogni suo manifestarsi è celato il sacro, il mistero. Il centauro svelerà a Giasone che lui non è suo padre, ma lo raccolse dalle acque e i suoi genitore erano Dei e Re e che lo zio uccidendo il padre le aveva tolto il regno, che solo col recupero del vello d’oro lo può riconquistare e che il vello d’ora sta in una terra lontana. Poi Giasone diverrà adulto e il centauro non sarà più un mito sacro, ma sarà laico, dedito alla ragione e alle sue passioni. Giasone su invito dello zio parte alla conquista del vello d’oro e con l’aiuto di Medea che col fratello ruberà il vello d’oro e lo ucciderà seminando i pezzi del suo corpo per sfuggire all’ira del padre. Medea discesa nella nuova terra già non riconosce più la sacralità della nuova terra non ne sente più il mistero. Portandola in questa società laica, estranea alla sua vera natura e per essere abbandonata e tradita da Giasone, Medea sfogherà tutta la sua furia devastatrice come quella della natura su i propri figli uccidendoli, compiendo quest’atto tragico con pura lucidità, umilierà Giasone e lo condannerà al suo rimorso.
In Epido Re la religiosità è tutta personale, il tema è tutto autobiografico, il contrasto tra padre e figlio e il suo amore e odio e lo smisurato amore per la madre, quasi una schiavitù, dalla poesia (A mia madre), (il mito e il fulcro del soggetto e la tragedia è il massimo del mito, Pier Paolo Pasolini). Epido, viene fatto abbandonare dal padre con i piedi tagliati e legati sul monte Citreonte a certa morte, perché l’oracolo di Delfi da lui interrogato gli predette che il primogenito lo avrebbe ucciso, il pastore Euforbo lo trovò e lo consegnò a i regnanti di Corinto che lo allevarono. Ma il destino di Epido è già segnato come predetto dall’oracolo di Delfi, va incontro al suo destino inconsapevolmente, se è vero che le colpe dei padri ricadono sui figli innocenti (tema delle tragedie Greche), sarà condannato per l’incestuoso rapporto con la madre e l’uccisione inconsapevole del padre a vagabondare cieco, dopo essersi tolto la vista. Il tema svolto, tramite la tragedia di Sofocle è molto complesso e Pasolini identifica in questa tragedia i suoi rapporti personali con il padre e la madre. Il rapporto d’amore con la madre e il suo esclusivo vincolo, lo portarono all’omosessualità. Pasolini non aveva in sé nessuna componente femminile, se non quella dell’anima, (Il mio amore è per la donna, infante e madre), era un uomo a tutti gli effetti sia negli atteggiamenti che nel suo modo d’essere, e nella poesia (a un figlio mai nato), dove una giovane puttana dolce come un ragazzo, gli venne incontro festosa, Pasolini la fece salire nella macchina e nella felicità della vita, ebbe l’unico rapporto sessuale della sua vita con una donna. Il tema del padre e il figlio e la madre è un tema antichissimo, è il tema peculiare della nostra vita e in questo c’è una religiosità profonda, mitica, ancestrale che deriva dalla stessa natura delle cose e se questa natura viene in qualche modo alterata o sconvolta, tutto l’equilibrio naturale prende altre soluzioni e si perde nel mistero. Pasolini definì questo film, film di psicanalisi, io non credo nella psicanalisi, scienza riduttiva come tutte le scienze fine a se stesse. Pasolini di questo tema ne fece un dramma personale, già in Affabulazione, anticipa i temi di Epido, nel contrasto sessuale tra il rapporto col padre e il recupero del figlio tramite il suo mistero. Nella poesia a mia Madre (ho bisogno di corpi senza anima, perché l’anima sei tu e tu sei la mia schiavitù) e questa schiavitù che lo seguì per tutta la vita lo vincolerà alla sua omofilia.
Pasolini aveva una cultura laica, profondamente classica, occidentale, e non conosceva profondamente la cultura Russa e la sua anima, anche se aveva letto molti scrittori Russi. Prendo ad esempio da (Descrizioni di descrizioni), l’analisi che fece dei due romanzi di Dostoevskij, (Delitto e castigo e i Fratelli Karamazov), la descrizione è sempre freudiana, complesso di Epido, il super uomo di Nietzsche, i rapporti ossessivi della madre e della sorella portano il protagonista a compiere il delitto come per liberarsi della schiavitù della madre e della sorella, in delitto e castigo. Nei fratelli Karamazov l’analisi è il complesso del padre che i figli hanno e per liberarsi da questo complesso sempre freudiano compiono, simbolicamente il parricidio tutti e tre insieme ecc. Questa versione Pasoliniana dei due romanzi è sbagliata, perché come scrisse Giuseppe Ungaretti (come può il fioco lumino della psicologia occidentale dar luce alle tenebre Dostoevskijane). Dostoevskij amava profondamente Cristo, si era salvato davanti ad un plotone di esecuzione all’ultimo minuto, per le sue idee liberali ed era stato deportato per sette anni in Siberia tra la peggiore feccia umana con la sola consolazione della bibbia e del nuovo Testamento, unico libro che potevano tenere, e lì analizzò l’animo umano nelle sue più profonde tenebre dove si celano i suoi demoni. (Delitto e castigo), è la storia di uno studente che uccide una vecchia usuraia e per sbaglio la sorella convinto che l’omicidio fatto dalla sola ragione per un suo fine utile sia senza colpa, (questo concetto sarà allargato a tutta la nuova società nascente, i Bolsceviki ,e l’avvento del socialismo ateo, nel romanzo i Demoni), dopo l’omicidio lo studente crollerà per il rimorso e convivrà con i suoi demoni fino all’incontro di una fanciulla prostituta, che per l’amore della sua famiglia che viveva in stato d’indigenza e in estrema povertà si prostituiva, in questa candida fanciulla troverà quella purezza di Cristo e tramite lei confesserà il peccato e pagherà la sua colpa e avrà la sua resurrezione. Il romanzo è molto complesso, oltre al tema dominante vi si aggirano figure umane di tutti i generi nella loro assoluta solitudine e disperazione, come in tutti i romanzi di Dostoevskij. Nei fratelli Karamazov, Dostoevskij riassume quasi tutto quello che aveva scritto nei suoi romanzi precedenti. La storia ruota su un parricidio commesso da uno dei suoi quattro figli: Dimitri, Ivan, Alioscia e il figliastro Smjerdjakov. Dimitri è la figura centrale del romanzo e incarna l’anima Russa, esagerata fino allo spasimo, sessualmente vorace, per ottenere quello che desidera è pronto a perdersi, ma è anche generoso e pronto a riscattarsi. Ivan, è l’uomo nuovo, ateo, nichilista è convinto che il peccato non esiste e che la ragione può per i suoi fini giustificare tutto, anche l’omicidio (e questo pensiero che per Dostoevskij era il male assoluto, la negazione di Cristo e la vittoria dei demoni sull’uomo e la loro perdizione); porteranno Ivan alla pazzia. Questi discorsi fatti da Ivan al fratellastro Smjerdjakov, debole di mente e rancoroso verso il padre che non l’aveva riconosciuto e lo faceva vivere da servo lo porteranno a commettere il parricidio che lo porterà come giuda al suicidio. Alioscia impersona la purezza, la mitezza, la veggenza della bontà, il profondo amore per l’umanità e ama i fratelli e tenta di salvarli dai loro demoni. Il padre è un vecchio vizioso che non ama nessuno se non il suo piacere, il suo amore per Gruscenka è di puro piacere e lotta con figlio Dimitri per averla, la sua corruzione è totale è un’anima sporca. Dostoevskij poneva Cristo al di sopra di tutto era l’unica via che il popolo Russo dopo mille anni di servilismo e di schiavitù della gleba con la loro profonda religione e amore per la figura del Cristo, potessero salvare la Russia dall’anima demoniaca del male. (Anche se la pura ragione mi dimostrasse che Cristo non esiste, io sceglierei sempre Cristo). Quando conobbi Victor Motko avevo ventisei anni, era il 1977 a Ladispoli dove vivo, ero sulla spiaggia e controluce vidi questo piccolo uomo dalla barba e i capelli lunghi e lanosi di colore nero, fui folgorato come San Paolo sulla via di Damasco. Da qui nacquero i quattro anni più intensi, disperati e felici di tutta la mia vita. Victor Motko, pittore, professore, dissidente Russo, amico di Sakharov e di (Juri Orlov fondatore del Moskow Helsinki Group), arrestato a Mosca nel 1976 e poi detenuto e torturato in un manicomio Psichiatrico, per avere manifestato per la libertà di pensiero e d’espressione, per la libertà religiosa e per i diritti umani allora calpestati nell’Unione Sovietica e costretto ad abbandonare la sua Russia che tanta amava: questo piccolo uomo dalla grande anima e dall’immensa cultura fu uno dei primi col suo sacrificio a contribuire a far cadere il muro di Berlino e a ridare a milioni di persone la libertà e quei diritti che fino allora erano stati calpestati. Victor, quando lo conobbi non sapevo che cosa era un’Icona, Le Sante Icone, fondamento di tutta la religione Ortodossa, in loro si rispecchia la verità del Cristo. Victor oltre ad essere un grande pittore d’Icone come Rublov che tanto amava, era profondamente religioso, il suo amore per Cristo era totale e in questo amore si rispecchiava tutto il suo amore per la Russia antica, che sempre ha rappresentato nei suoi dipinti, da esule, da fuori uscito e anche in questi dipinti traspare la sua profonda religiosità. Mille anni di storia Russa, fino all’avvento della rivoluzione Bolscevica che in un attimo spazzò quell’immenso patrimonio culturale etico e religioso che sotto la sua trinità: Cristo, lo Zar e il popolo si era costruito dando all’anima Russa quella peculiarità che i suoi pittori, poeti, romanzieri, musicisti e registi hanno così ben descritto. Quest’anima millenaria era incarnata nell’anima di Victor. I primi tempi che ci conoscevamo, Victor aveva grandi progetti, Mario voglio andare in Egitto per studiarne l’arte, poi a Parigi in Olanda per vedere Van Gogh, il suo amato Van Gogh, voleva girare il mondo, doveva andare in America come tutti i suoi compagni dissidenti che stavano in aspettativa qui a Ladispoli per i documenti necessari per poter essere accettati dagli Americani e invece è stato sempre con me per più di cinque anni. In questi cinque anni, l’anima di Victor si fece sempre più disperata, la sua nostalgia della Russia fu totale, ossessiva, disperata e questa disperazione lo portava a bere in modo assurdo e ad essere completamente in balia degli altri, indifeso come un bambino fino a portarlo alla pazzia, alla malattia; un giorno mi disse, Mario sei come San Tommaso se non vedi non credi, quando non avrai più Victor ne avrai grande nostalgia, a quasi sessant’anni non è passato un giorno che la figura di Victor non sia riflessa nella mia mente e nella mia anima (e l’anima mia è triste fino alla morte). Non vedo più Victor dalla Pasqua del 1981, quando ormai malato mi venne a cercare a casa e non trovandomi si arrabbiò, andò alla stazione di Ladispoli ruppe un vetro e lo portarono alle carceri di Civitavecchia e da quel giorno non lo vidi mai più. Dieci anni dopo, (Era) Gorbaciov, andai alla ambasciata Sovietica di Roma, l’addetto culturale di allora fece delle ricerche, ma in Russia non era rientrato. Victor, penso, sia morto malato in qualche ospedale e messo in una fossa comune, desaparecidos, sorte toccata a quasi tutti i grandi geni: (Leopardi, Mozart, Leonardo ecc ). L’allegria è un passero di breve volo. Un passero lascia sulla neve una lieve traccia che il vento cancella subito. Il dolore è un aratro che sconvolge la terra per le messi future (Marina Cvetaeva). E il dolore è stato il compagno fedele di Victor e la sua allegria di breve volo ed io all’età di trent’anni rimasi di nuovo orfano e quel vuoto nel cosmo Pasoliniano, venne riempito dai fantasmi della morte, della tragedia, attraverso la memoria, la desolata memoria di ciò che è stato e non tornerà mai più e la malattia della vita fu sovrana.
I due film Pasoliniani dove non c’è nulla di religioso sono: Porcile e Salò, quando Pasolini in questi film affronta il tema della borghesia e del potere, in questo tema non c’è nulla di religioso, ed è questa mancanza di religiosità che rende sterile e infelice la Borghesia e il potere che si accanisce contro chi è diverso da lui per pura malvagità, perché essendo lui infelice vuol rendere infelici tutti gli altri, l’intero mondo. In Porcile il tema è quella del nuovo potere che abbandona il vecchio potere per costruire un altro, dominante e di puro consumo servendosi dei figli e illudendoli che la loro rivoluzione, la trasgressione, il loro abbandono di tutto il tempo antico e passato, potesse dargli un nuovo mondo, un mondo giusto (Il sessantotto), distruggendo se stessi hanno solo favorito il potere che li ha sfruttati per i loro fini. Qui il figlio ribelle che analizza tutto questo, si farà mangiare dai porci e di lui non rimarrà nulla neanche la memoria, perché chi non si integra nel potere deve essere eliminato, così che gli operai non sappiano nulla. Il film ha molti altri temi come il deserto e i ladroni che mangiano carne umana ma sono liberi a contrasto delle sequenze moderne, il paragone è sempre tutto Pasoliniano, la metastoria, la nuova preistoria che cancella la storia e anche in questo tema non c’è nulla di religioso, c’è la barbarie come puro atto dell’esistere, come rivolta fine a se stessa.
Salò, film terribile demoniaco senza ombra di nessuna religiosità, il nuovo potere si è costituito, tutto il mondo antico è stato cancellato i duemila anni di storia sono stati sepolti e al loro posto, l’uomo nuovo è un oggetto vuoto, dedito al consumo, arido, un nulla vivente, e così viene martirizzato, brutalizzato sodomizzato, flagellato e condannato senza nessun appello come nel (processo di Kafka) nelle sequenze dei gironi. Solo nel grido (Dio perché ci hai abbandonato), come Cristo sulla croce gridò, ma anche qui non c’è nulla di religioso è un grido arido, vuoto di sola sofferenza, come tutto il film è tutta un’inquadratura di dolore, di sofferenza, di vuoto, dove ogni speranza viene cancellata. Il film è terribile, che la mia coscienza e la mia dignità d’uomo non può accettare, ma rappresenta ogni sopruso, ogni prevaricazione, ogni tortura, ogni sfruttamento che l’uomo fa sull’uomo e il demone Dostoevskijano è ben rappresentato fino a far dire a David Maria Turoldo, che sulla terra non ci rimanga neanche più un lichene.
San Paolo, ne rimane la sceneggiatura, il film non fu mai realizzarlo, ma fu profetico quarant’anni dopo un Afro Americano viene eletto alla presidenza degli Stati Uniti, votato dalla stragrande maggioranza del popolo Americano composto da tutte le razze del mondo. E questo ha dimostrato la vera natura democratica dell’America e che le cose nel mondo possono cambiare lentamente. ylenia Carrisi poetessa, ho scritto per lei il monologo dell’amore e della sua solitudine, come Alban Berg scrisse per la figlia di Alma Mahler il famoso concerto per violino (in memoria di un angelo). Io sono un Poeta, l’epigone della poesia italiana, perché questo grande dono che ha brillato fin dalla nascita nell’anima dell’uomo è stato divorato, (il conte Ugolino, Mario pozzi). Ho ereditato da tutti i grandi poeti Italiani che mi hanno preceduto il loro sapere, il loro essere, la loro spiritualità, la cognizione della vita e della morte e la loro infinita bellezza, i loro sogni e la loro tristezza, il loro dolore. ylenia questa bellissima ragazza, che aveva studiato nelle più prestigiose scuole occidentali, colta, dall’intelligenza particolare, innamorata di Kerouac, inquieta, come tutte le grandi anime, stava scrivendo un libro sugli Afro Americani e questo fu un altro presagio della presidenza di Obama; il suo dolore, la sua tristezza, la sua inquietudine, il suo non adattamento alla vita reale l’hanno portata a soli 24 anni al suicidio, secondo una guardia Americana che la vide gettarsi nel fiume. Anima che io accosto alla mia amata Antonia. Antonia Pozzi, la più grande poetessa del novecento Italiano anche lei morta suicida a soli ventisei anni. La poesia “Il porto” di Antonia Pozzi, rispecchia appieno l’animo di questi due dolci angeli. Tornando al San Paolo, Pasolini riprende il tema del Vangelo, lo spirito rivoluzionario di Paolo che con il suo predicare e il suo messaggio farà crollare tutto il mondo antico, l’idea era di portare la vita di Paolo ai tempi d’oggi, così da spostare il panorama dove aveva vissuto Paolo: Atene, Roma, Gerusalemme, Antiochia , in quello attuale New York, Parigi, Londra, Roma. Nella prima stesura San Paolo doveva morire in una grande strada di una periferia di queste immense città, tra l’indifferenza della gente, incurante del suo martirio, acida, nemica, senza speranza nelle loro aridità, il messaggio doveva essere che in questo caos, (era tornata la parola di Dio). Poi col viaggio in America, a New York e la sua discesa ad Harlem, si schierò con gli Afro Americani e tornarono i temi del Vangelo: povertà, sfruttamento, segregazione, emarginazione. E Pasolini si rifece alla figura di Martin Luther King, e San paolo verrà ucciso in una piccola stanza di un anonimo albergo da un killer.
La trilogia della vita è un inno a tutto il mondo passato, tramite le opere del Boccaccio, di Chaucer e le Mille e una notte, rappresentò la vita attraverso la gioia della sessualità, la religiosità della sessualità, fonte dominante di tutta l’evoluzione umana. Questa trilogia è un inno alla religiosità della vita e al suo modo di concepirla, prima dell’avvento del consumismo, ad un mondo ormai scomparso e che non tornerà mai più. L’impegno sociale di Pasolini lo portò ad abiurare la trilogia, perché all’epoca furono rappresentati film di bassa lega sulla scia della trilogia e per paura di essere sfruttato l’abiurò, con una lunga accusa al mondo consumistico e al suo edonismo. L’usignolo della chiesa cattolica, dolcissimo libro immerso nella storia d’una Casarsa ancestrale, mitica come era L’Italia prima della guerra, con il tempo immoto, coronato dalle dolcissime stagioni, dai vespri, dalle aurore e dai i suoi rossori dolci come gli aprili, le sere dorate, i ruscelli e le fontane e i dolcissimi sospiri in una natura intatta, unica gioia della vita. La scoperta della sua sessualità e del suo peccato(l’omosessualità), l’ombra insaziabile della madre e la dolce figura del Cristo come redentore, infine la scoperta del marxismo ( ma, Pasolini inconsciamente non fu mai né Marxista né comunista, la sua visione del popolo era populista, umana, e vedeva nella natura il silenzio del sacro, dettata dalla sua cultura classica). Le ceneri di Gramsci, la religione del mio tempo, Poesie in forma di rosa, il mondo del dopo guerra e il popolo italiano e i paesaggi della nostra terra, che uscivano da una guerra devastante ma rimanevano intatti nella sua storia e nella sua profonda bellezza. In questi libri di profonda poesia c’è tutta la religiosità Pasoliniana e l’amore ancestrale per questa nostra Italia che duemila anni di storia ne fecero qualcosa di unico al modo. Poesia eccelsa, descrittiva, intimamente disvelata, da rendere questo poeta un gigante, un unico nella poesia Italiana. In questa poesia c’è qualcosa di veramente sacrale e profondamente vivo c’è la vita, chi è nato nella preistoria, nella non storia, non può minimante sapere né sentire quel tempo mitico dove la vita bastava a se stessa e la sua sessualità era incontaminata come le stagioni, le pure stagioni, dove i sogni ci accompagnavano nello svelarsi della vita. Io, sono un poeta ermetico, un poeta visionario, un poeta della memoria come lo era il Petrarca e il Leopardi, ho amato la poesia pura, amandola ho amato la vita e la dignità umana. La mia poesia e totalmente diversa da quella Pasoliniana, è una poesia complessa tutta interiore e di memoria ereditata dai nostri grandi poeti intimi, posseduta dall’amore per la donna e dalla sua sessualità che ne rende il mistero, il mistero del nostro vivere, del nostro disvelare del tempo, nel susseguirsi della stagioni e dei suoi inni, nel gorgo dei ricordi e dei suoi gridi persi nell’infinito, nel tempo cosmico totalmente differente dal tempo umano, tempo soggettivo al nostro sentire, al nostro percepire, al suo mistero che si cela dietro il paesaggio e il richiamo della natura come forza naturale, come madre che è lontana dal nostro sentire dandoci quella solitudine e inquietudine del nostro vivere, che solo l’amore può alleviare; è la poesia del sogno che diventa reale attraverso l’esprimersi della vita.
Caldoròn fa parte delle sei tragedie che Pasolini scrisse in brevissimo tempo, quando fu costretto per un’ulcera a stare sei mesi a letto. Teatro di poesia lo definì, teatro di parola come quello Greco: (Affabulazione, Pilade, Porcile, Orgia , Bestia da stile). La vita è un sogno (Calderòn de la barca), la vita non sta in un sogno solo ma in tanti sogni (Pier Paolo Pasolini), la vita sta in tanti sogni ma porta sempre a un sogno solo (Mario Pozzi). Calderòn, è il sogno di Rosaura che si sveglierà in tre luoghi diversi, i primi due da ricca passerà proletaria due sogni del mondo antico, due sogni quando ancora era permesso il risveglio, nel terzo sogno nel nuovo mondo consumistico, Rosaura non può più svegliarsi, perché quel mondo lo può solo sognare. Questa favola dolcissima vuol dire, che con l’avvento del consumismo i sogni sono diventati incubi. L’incubo del mondo moderno e del suo non saper vivere e il suo stravolgimento di ogni cosa naturale, la perdita dei nostri valori della nostra ricchezza, l’uccisione della poesia. Il tramonto dei sogni, (l’ultima delle mie raccolte di poesia) è l’ultimo guizzo della giovinezza ritrovata, dove (il non potrò più smemorarmi in un grido), Giuseppe Ungaretti, rivive come un sogno sulla frattura del giorno e della notte. E poi? La Poesia Italiana è alla sua fine con tutto ciò che essa contiene. Forse i nostri figli (dall’eco d’una età sepolta), Pier paolo Pasolini, ricostruiranno in un altro sogno la nostra eredità. Se il seme che cade nella terra non muore non rinascerà! (Mario Pozzi 1990).
Tutto finisce dove tutto comincia, la morte di Pier Paolo Pasolini, è stata una tragedia per il popolo Italiano, denigrato e perseguitato per quasi tutta la sua vita adulta, col solo mezzo della parola (le poesie, i romanzi sono parole scritte i suoi film, parole d’immagini), ha tenuto viva la cultura Italiana per oltre trent’anni, destando la partecipazione alla sua lotta migliaia di persone. La coscienza Italiana col benestare di tutta la pseudo intelligenza , le classi di partito e non solo si era acquietata, il frocio era stato ammazzato, ora potevano dormire tranquilli, lo specchio dove vedevano riflessa la loro vera immagine non c’era più. Era stato trucidato, flagellato come Cristo, più di duemila anni fa. Questo grande poeta che fu la coscienza della nostra società decadente, fu crocifisso, il suo martirio come quello di Cristo, pesa sulla coscienza nazionale, come la morte di Garzìa Lorca in Spagna, e di tutti i poeti che sono stati trucidati nei campi di concentramento di Hitler, o nei gulag Sovietici (Opis Mandel’stam), o di ogni uomo libero che con la sola parola esprime le sue idee. La morte non sta nel non comunicare, ma nel non essere compresi, (Pier Paolo Pasolini.
Mario Pozzi - 2010
Fonte:

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P.P.Pasolini - Petrolio

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Petrolio
Recensione di Raffaella Foresti

Chi mi segue da un po’ sa che ho un’autentica passione per quelle sculture di Michelangelo chiamate Schiavi o Prigioni.
Si tratta come noto di un gruppo di sei statue che l’artista realizzò (o meglio, avrebbe dovuto realizzare) per la tomba di Giulio II. Due di esse (lo Schiavo morente e lo Schiavo ribelle) si trovano al Louvre, mentre le altre quattro, le più belle, le più intense, le più evocative, hanno trovato (ahimè indegna) collocazione presso la Galleria dell’Accademia di Firenze, un po’ abbandonate ai lati del corridoio che conduce alla sala del perfettissimo, lucidissimo e finitissimo David.
Questi Prigioni fiorentini (lo Schiavo giovane, lo Schiavo barbuto, lo Schiavo detto Atlante e lo Schiavo che si ridesta) sono noti per essere rimasti incompiuti e per aver consegnato alla storia non solo un chiaro segno della poetica michelangiolesca (le statue in torsione escono letteralmente dal blocco di marmo grezzo, ancora ben visibile) ma anche una voce, un concetto, destinato a fare presa, in modo particolare, sull’uomo postmoderno.
Gli Schiavi, proprio perché “interrotti”, possiedono in sé la forza di bloccare il tempo in un istante eterno restituendo, in un solo momento, tutto il significato della creazione artistica, la sua frustrazione e la sua vittoria.
È proprio nel suo essere frammentario e non-finito, nel senso di cui sopra, che sta la maggior potenza di Petrolio, l’ultima opera letteraria di Pasolini.
Associo queste due forme d’arte, così distanti tra loro, perché in qualche modo sono accomunate da un suono così chiaramente udibile dall’uomo postmoderno che pur chiaramente prescinde, e di fatto trascende, i propositi dell’artista.
È ormai praticamente certo, infatti, che Michelangelo non abbia intenzionalmente lasciato questi suoi lavori a metà, allo stesso modo che per Pasolini, che anzi sentiva come un dovere civile portare a compimento il romanzo.
Questo disse P.P.P. nel 1975, l’anno prima di morire: “Voglio rimettermi a scrivere. Anzi, ho ricominciato a scrivere. Sto lavorando a un romanzo. Deve essere un lungo romanzo, di almeno duemila pagine. S’intitolerà Petrolio. Ci sono tutti i problemi di questi venti anni della nostra vita italiana politica, amministrativa, della crisi della nostra repubblica: con il petrolio sullo sfondo come grande protagonista della divisione internazionale del lavoro, del mondo del capitale che è quello che determina poi questa crisi, le nostre sofferenze, le nostre immaturità, le nostre debolezze, e insieme le condizioni di sudditanza della nostra borghesia, del nostro presuntuoso neocapitalismo. Ci sarà dentro tutto, e ci saranno vari protagonisti…”. E questo è ciò che scrisse infine: “Nel progettare e nel cominciare a scrivere il mio romanzo, io in effetti ho attuato qualcos’altro che progettare e scrivere il mio romanzo: io ho cioè organizzato in me il senso o la funzione della realtà; e una volta che ho organizzato il senso e la funzione della realtà, io ho cercato di impadronirmi della realtà. […] Nello stesso tempo in cui progettavo e scrivevo il mio romanzo, cioè ricercavo il senso della realtà e ne prendevo possesso, proprio nell’atto creativo che tutto questo implicava, io desideravo anche di liberarmi di me stesso, cioè di morire”(Appunto 99 p. 419).
In una lettera a Moravia, Pasolini fece sue (preveggendo, come sempre) le critiche che gli sarebbero state mosse nei decenni successivi alla pubblicazione di Petrolio, avvenuta solo nel 1992: questo è un libro incomprensibile, illeggibile, impubblicabile! Ecco alcuni frammenti della lettera:
Caro Alberto,
ti mando questo manoscritto perché tu mi dia un consiglio. E’ un romanzo, ma non è scritto come sono scritti i romanzi veri: la sua lingua è quella che si adopera per la saggistica, per certi articoli giornalistici, per le recensioni, per le lettere private o anche per la poesia: rari sono i passi che si possono chiamare decisamente narrativi, e in tal caso sono passi narrativamente così scoperti (“ma ora passiamo ai fatti”, “Carlo camminava…” ecc, e del resto c’è anche una citazione simbolica in questo senso: “Il voyagea…”) che ricordano piuttosto la lingua dei trattamenti o delle sceneggiature che quella dei romanzi classici: si tratta cioè di ‘passi narrativi veri e propri’ fatti ‘apposta’ per rievocare il romanzo […]
Ed ecco il consiglio che ti chiedo: ciò che ho scritto basta a dire dignitosamente e poeticamente quello che volevo dire?”.
Non sono Moravia ma ho letto il libro e ho una mia risposta: non solo ciò che vi troviamo scritto basta a dire dignitosamente e poeticamente ciò che Pasolini voleva dire. Penso che non ci sarebbe riuscito in altro modo. Come i Prigioni di Michelangelo anche Petrolio, così com’è, costituisce un lascito alla postmodernità. Anche Pasolini, dalle ultime parole della lettera a Moravia, sembra averlo capito: “Questo romanzo non serve più molto alla mia vita (come sono i romanzi o le poesie che si scrivono da giovani), non è un proclama, ehi, uomini! io esisto, ma il preambolo di un testamento, la testimonianza di quel poco di sapere che uno ha accumulato…”.
Non resta che leggere il libro e provare a raccogliere questa eredità.
Raffaella Foresti

Fonte:
http://www.raccontopostmoderno.com/2013/06/petrolio-pasolini-recensione/



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Strategie comunicative e narrative tra romanzo e adattamento cinematografico - Il silenzio del mare (Melville), Il Vangelo secondo Matteo (Pasolini), Marianna Ucrìa (Faenza)

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Strategie comunicative e narrative tra romanzo e adattamento cinematografico

Il silenzio del mare (Melville), Il Vangelo secondo Matteo (Pasolini), Marianna Ucrìa (Faenza)
Giuseppe Melizzi

Parole ed immagini non rappresentano e non possono rappresentare il reale nello stesso modo, anche se contano numerose interferenze reciproche: la grammatica filmica nelle sue dimensioni culturali, cognitive, emotive e tecniche diverge infatti totalmente dalla grammatica narrativa: essa si serve, per esempio, di una pluralità di segni per produrre immagini in movimento, e quindi di una pluralità di codici fatti di suoni, parole, significati. Inoltre, può essere fruita a diversi livelli di lettura, contemporaneamente e collettivamente, dall’intellettuale e dall’analfabeta: l’uso delle immagini come canale privilegiato, favorisce una fruizione diretta ed immediata da parte di chiunque: e ciò spiega il grande successo di pubblico fin dai suoi esordi ma, anche la sua straordinaria capacità di influenzare l’immaginario collettivo. Il libro prevede invece una fruizione individuale, ma anche un’alfabetizzazione: dunque la lettura di un testo si presenta inevitabilmente ristretta ed elitaria rispetto alla visione del film.
Il film è poi un prodotto corale del regista, degli sceneggiatori, degli attori, dei costumisti, di tutti gli operatori che partecipano alla sua realizzazione; è fatto di inquadrature, montaggio, ritmo, strutturazione delle sequenze, di sviluppo narrativo e drammatico, di dissolvenze e stacchi, di allusioni e analogie ottenute con la contiguità di immagini o di scene, di colonna sonora: di una grammatica, insomma, complessa, articolata, globale e inglobante, ben diversa da quella lineare del testo scritto, peraltro prodotto generalmente individuale dello scrittore.
Diversamente dal testo scritto, Il film è poi il prodotto di una tecnologia raffinata e complessa che si avvale di luci, inquadrature, messa a fuoco, delimitazione e divisione degli spazi, regole di composizione e di movimento della cinepresa, uso del piano-sequenza, spostamento della camera, montaggio, colore, musica, movimento e di numerosi mixages con altre visioni del reale. La sua accessibilità e la sua diffusione sono enormemente più ampie rispetto al testo letterario.
Anche le modalità di fruizione del film e del testo scritto sono del tutto diverse: lo spettatore è coinvolto contemporaneamente con tutti i canali percettivi, tattile, visivo, uditivo e cinestetico; nel testo scritto, è il solo canale visivo che funziona da tramite per ‘aprire’ altri mondi, con esiti che però possono rivelarsi altrettanto efficaci: così, Proust, con la sola parola scritta, nella Recherche sapore e l’odore della , sarà in grado di farci sentire la madeleine bagnata nel thé, ed anche di evocarne l’immagine mentale, pur senza rappresentarla visivamente.
Il film inoltre rappresenta l’immaginario e/o la realtà: quest’ultima non neutra, perché mediata dal punto di vista di chi effettua le riprese, in un certo momento, in un certo spazio, da una certa angolatura, con una certa intenzione: tutto ciò che vediamo è il risultato di scelte ed interpretazioni emotive, creative e poetiche. Il libro, descrive il reale e/o l’immaginario tanto più efficacemente quanto più ampio sarà il potere connotativo delle parole e quindi, il respiro evocativo del testo.
Il film si serve poi, contemporaneamente, e proprio come l’uomo, della comunicazione verbale o digitale (fatta soprattutto di segni: parole, note musicali, simboli matematici) e di quella non verbale o analogica (fatta di elementi sopra segmentali del discorso: intonazione, ritmo, accento, elementi prosodici, ma anche della grammatica della comunicazione corporea) strutturata in modo dinamico e circolare, in contrasto con la linearità del linguaggio verbale o digitale. La comunicazione analogica, tipica del cinema, fa cioè ricorso anche e soprattutto ad elementi extra linguistici, come la cinesica (semantica dei movimenti del corpo) o la prossemica (semantica dello spazio, inteso come fatto comunicativo): essa è meno soggetta al controllo volontario e più direttamente connessa con il mondo delle emozioni e degli atteggiamenti spontanei. E’ costituita da categorie intuitive ed immediate, approssimative e sintetiche che presentano un alto grado di ambiguità(1), e sono dunque suscettibili di numerose interpretazioni. Il testo scritto si basa invece su una comunicazione verbale (scritta) e digitale, strutturata come sintassi lineare, logica, specifica ed analitica con forte codificazione e bassi gradi di ambiguità. E’ importante notare come, in caso di dissonanza cognitiva, (quando i due messaggi, l’analogico e il digitale sono discordanti) “passi” e prevalga la comunicazione non verbale.
Ora il film, a differenza del testo scritto, proprio come nella reale comunicazione interpersonale, è in grado di “rappresentare” questo processo nella sua totalità e far passare un messaggio chiaro e oggettivo (le parole, nella loro accezione denotativa), e uno soggettivo e diversamente interpretabile (le parole nella loro accezione connotativa) ma anche gli elementi analogici, non-verbali, paralinguistici e extralinguistici che, diversamente dalle parole, non sono soggetti a censura e perciò veicolano i nostri più nascosti sentimenti, intenti e sensazioni.
Il linguaggio analogico, che è uno dei più importanti tratti distintivi del film, è estremamente ambiguo, difficilmente interpretabile; tuttavia costituisce un metalinguaggio, cioè è la principale chiave di lettura del linguaggio verbale. Se qualcuno ci dice “sei simpatico” prima di ‘accettare’ il messaggio verbale, misuriamo la concordanza con il contesto, la presenza o assenza di occhiate di scherno, il tono, i gesti, ecc. Ogni sequenza filmica presenta dunque, proprio come la comunicazione interpersonale, tutti gli elementi indicati. Il testo è invece costruito su un processo narrativo lineare, sintagmatico, con elementi grammaticali e sintattici disposti in sequenza: la comunicazione analogica non verbale che il film è in grado di mostrare, di rappresentare, subisce, nel testo scritto, una sorta di transcodificazione, nel senso che viene a sua volta ‘verbalizzata’, descritta, con esiti a volte anche ottimali, più spesso insoddisfacenti, comunque sempre assai complessi e di incerto risultato.
Anche la colonna sonora assume, nel film, un preciso ruolo semantico: può creare un ritmo narrativo, dare il senso del tempo che scorre, potenziare la luce, le ombre, le ansie, le paure, il ricordo. Insomma, è un vero e proprio livello di significato che si aggiunge al montaggio, alla fotografia, allo spazio, al tempo. Il movimento, poi, inteso nella sua qualità dinamica peculiare insieme ad altre due categorie analogiche rappresentate dallo spazio e dal tempo, o per meglio dire, dall’unica categoria - che li compenetra entrambi, del tempo/spazio(2). Infatti è proprio nel tempo e nello spazio che il corpo si esprime, comunica, si relaziona. Ma il movimento può anche paradossalmente assumere un’ espressività , come fatto significante, che favorisce o allontana la comunicazione è rappresentato con efficacia totale dal film, ne è caratteristicastatica, nella postura per esempio, che rimanda al senso del tempo/spazio, e che rivela l’enorme espressività affettiva e relazionale delle strutture anatomiche del corpo.
Il tempo del film (due ore circa), inoltre, è quantitativamente molto più ristretto rispetto al tempo del racconto (che può occupare fino a duecento pagine ed oltre). Perciò, l’eliminazione di tutte le digressioni e degli episodi secondari è necessaria per la compressione temporale. Essa ha, tuttavia, una propria funzionalità semantica di sottolineatura di un evento, di un personaggio, di un intero episodio.
Il film presenta dunque non solo ritmi e luoghi di fruizione propri, ma anche una sua logica temporale interna non controllabile dal fruitore, che, per esempio, non può “fermare” l’immagine a suo piacimento se la proiezione è pubblica. Il testo letterario invece, presenta caratteristiche di permanenza che consentono l’attivazione di particolari strategie per favorirne la fruizione: il lettore può tornare indietro, o fermarsi per riflettere, o accelerare la lettura.
Il tempo filmico, poi, è diverso anche dal punto di vista cognitivo. Infatti esso condiziona anche la percezione dello spazio da parte del fruitore/spettatore: lo “spazio” filmico attiva modalità percettive e cognitive particolari: è come se la superficie dello schermo si ‘aprisse’ per inglobare lo spazio mentale di chi guarda, e immergerlo in uno ‘spaesamento’ cognitivo. Questa correlazione tra percezione spazio-temporale e cognizione, specifica del film, che si ottiene fondendo le diverse tecniche di ripresa (soggettiva, panning, zoom, ecc) con vari tipi di montaggio (fotogramma per fotogramma, sovrapposizioni, sfumato) in un unico flusso, consente di “far muovere” lo spettatore, ed immergerlo in una esperienza totalizzante, che dà corpo e forma al tempo, ma anche allo spazio che diventa così costruzione mentale, alla luce, al movimento, come se l’occhio della camera fosse un occhio umano, sensibile e in grado di produrre sensazioni in chi guarda e in chi è guardato.
Queste modalità di attivazione di connessioni spazio-temporali, di rappresentazione della memoria e del ricordo, del pensiero e delle emozioni, ottenute mediante elaborate strategie tecnico-estetiche, legando parametri spazio-temporali, comunicativi e, oggi, anche computazionali a modalità specifiche di percezione e cognizione, hanno prodotto, soprattutto con l’evoluzione dei media elettronici, una visione cinematica ed incorporea dello spazio e del tempo lontana anni luce dal tempo e dallo spazio della letteratura. Basti solo pensare al tempo ed allo spazio proustiani per rendersene conto.
Il film è dunque un’opera corale, tecnicamente complessa(3), che adotta un sistema di scrittura articolato, analogico, computazionale, e nel contempo, magicamente creativo. Unifica ed integra sul piano estetico, attraverso una struttura formale che emerge poco a poco le contraddizioni umane: bene, male, passato, futuro, vero, falso, libertà e divieti, in una sintesi totale di contenuto e forma.
L’immagine filmica è proprio agli antipodi della parola: come afferma G. Montesanto, «con essa, è l’oggetto stesso, o almeno una sua convincente effige, che diventa linguaggio [e dunque] la magia essenziale del cinema deriva dal fatto che il ‘dato reale’ diventa l’elemento stesso della propria fabulazione»(4).
Inoltre, se il film riproduce analogicamente il reale in termini di pensiero dialettico e circolare che compenetra e amalgama gli opposti, la specificità letteraria è invece digitale: una struttura grammaticale e sintattica di tipo lineare contraddistingue infatti il testo scritto, che si realizza attraverso una fitta rete di anafore, catafore, connettivi logici, spaziali, temporali, elementi deittici, sinonimi, parafrasi, iponimi, iperonimi, ripetizioni, sostituzioni, ellissi, figure retoriche(5) del tutto intraducibili, per le loro stesse caratteristiche in un altro medium.
Il testo letterario attiva poi, in modo speculare, un codice scritto, che presenta registri e livelli di lingua assai dissimili dal codice orale, peculiare invece del film.
La focalizzazione, poi, può essere interna, esterna, o interna e esterna nello stesso tempo (focalizzazione zero); nel film, la focalizzazione non può che essere esterna, e i sentimenti, i pensieri dei personaggi non possono essere “raccontati” ma devono in qualche modo, ‘trapelare’ essere ‘resi visibili’ da un gesto, uno sguardo, un movimento, una pausa. E i sofisticati mezzi tecnici di cui il cinema dispone permettono di modulare le più profonde sensazioni con sfumature a volte non concesse alle parole.
La produzione filmica e il testo letterario, pur presentando caratteristiche diverse, mostrano però anche numerosi punti in comune. Per esempio, sia la parola (nel testo scritto) che l’immagine, (nel film) denotano e connotano: denotano perché descrivono o mostrano un pezzo di realtà; connotano perché evocano, sul piano semantico, nel lettore e nello spettatore, mondi, sensazioni, emozioni connessi al vissuto di entrambi. In quanto simboli poi, permettono al fruitore di individuare il significato oltre il significante(6) perché sia l’immagine che la parola, nei loro esiti artistici, compendiano, riassumono e trasformano il reale e l’immaginario.
Inoltre, la lettura dell’immagine filmica esige, come la lettura di un brano, una decodifica strumentale degli schemi linguistici, etici, estetici, narrativi, processuali ma anche, e soprattutto, emotivi, perché è l’area emotiva che viene maggiormente sollecitata quando si guarda un film, o quando leggiamo un libro che ci avvince tanto da finirlo d’un fiato: quando si interagisce, insomma, con immagini o storie create apposta per implicare emotivamente il destinatario. Bisognerebbe però, per una fruizione più consapevole, che il fruitore possedesse, da un lato gli strumenti per l’analisi letteraria (elementi di retorica, linguistica, semiologia), dall’altra, gli strumenti di conoscenza necessari per decodificare il linguaggio filmico, che, per quanto di immediata fruizione, segue leggi, regole e codici propri come composizione dell’immagine, inquadratura, struttura delle sequenze e dello sviluppo narrativo e drammatico, elementi linguistici come dissolvenza incrociata e lo stacco, scelte di carattere metonimico (allusione e/o analogia realizzate attraverso la contiguità di immagini o scene) o di carattere metaforico (allusione e/o analogia realizzate attraverso la sostituzione di un’immagine con un’altra o la condensazione di due o più immagini, ecc…), o musicale e così via.
Il libro, e il film, se e quando sono opere d’arte, seppure diverse, possono liberare nuovi spazi, e generare dinamicamente nuove forme e nuovi processi trasformativi in grado di trasferirsi sui fruitori: l’opera d’arte, infatti, trascende e unifica gli opposti, i dualismi della realtà e dell’uomo in una sintesi armonica dinamica e creativa. Essa è infatti sempre il risultato di un processo di trasformazione inarrestabile che costringe l’uomo a affrontare prima e modulare poi i propri fantasmi e le proprie contraddizioni e ad assumere consapevolezza del proprio immaginario.
Per entrambi, infine, il rapporto con i rispettivi fruitori si stabilisce a diversi livelli, e quelli più profondi non sono immediatamente coscienti perché sia il libro -la cui lettura è proiezione e riconoscimento di noi stessi, proprio come la visione di un film- che il film, provocano in qualche parte della nostra coscienza una sorta di contaminatio che avviene in diversi livelli e in più direzioni.
Da ultimo, è infine importante notare che qualunque film e qualunque testo scritto, si inseriscono in un circuito comunicativo e perciò pongono il problema, non neutro, dell’identità e delle intenzioni dell’emittente, della natura del messaggio veicolato, del contesto referenziale, e, soprattutto, dell’impatto del messaggio sul destinatario -lettore o spettatore- e delle funzioni comunicative palesi o soggiacenti al messaggio.
Se dunque l’adattamento ‘fedele’ non è postulabile, per la complessità e la diversità dei diversi codici implicati, è però vero che il film può cogliere l’anima della letteratura per modificarla nei modi più diversi e dunque trasformarla in altra anima. Il Vangelo secondo S. Matteo, Il Silenzio del mare, Marianna Ucria, sono esempi straordinari e diversi di come il cinema può lavorare con modelli letterari, e restituirli come forma artistica creativa, compiuta, e del tutto autonoma dal testo di provenienza. 

L’adattamento come “trasposizione creativa e poetica” ne “Il Vangelo secondo Matteo”(7) di P.P. Pasolini

Il Vangelo secondo San Matteo è un chiaro esempio di come, pur restando ‘fedeli’ al testo(8), pur riproducendone alla lettera i dialoghi, se ne possa dare una lettura personalissima, creativa, poetica, connotata e contaminata artisticamente da un uso trasversale e “magmatico” della musica, della pittura, delle inquadrature, delle luci, delle ombre, dei primi piani, dei rumori e dei silenzi.
Pasolini stesso ha spiegato, a più riprese, come il film, pur aderendo pressoché alla lettera al Vangelo, più che una ricostruzione storica fedele di tipo illustrativo, voglia, da un lato rappresentare invece una trasposizione cinematografica della visione cristica di Matteo, dall’altro, dare il senso della poesia, che c’è, è presente, nel Vangelo: «[si tratta] di una specie di ricostruzione per analogie. Cioè ho sostituito il paesaggio con un paesaggio analogo, le regge dei potenti con regge e ambienti analoghi, le facce del tempo con delle facce analoghe; insomma è presieduto alla mia operazione questo tema dell’analogia che sostituisce la ricostruzione»(9). E, in altra occasione, aggiunge: «[…] la mia idea è questa: seguire punto per punto il Vangelo secondo Matteo, senza farne una sceneggiatura o riduzione. Tradurlo fedelmente in immagini, seguendone, senza una omissione o un’aggiunta, il racconto. Anche i dialoghi dovrebbero essere rigorosamente quelli di San Matteo, senza nemmeno una frase di spiegazione o di raccordo: perché nessuna immagine o nessuna parola inserita potrà mai essere all’altezza poetica del testo. E’ quest’altezza poetica che così ansiosamente mi ispira. Ed è un’opera di poesia che io voglio fare. Non un’opera religiosa nel senso corrente del termine, né un’opera in qualche modo ideologica. In parole molto semplici e povere: io non credo che Cristo sia figlio di Dio, perché non sono credente, almeno nella coscienza. Ma credo che Cristo sia divino: credo cioè che in lui l’umanità sia così alta, rigorosa, ideale da andare al di là dei comuni termini dell’umanità. Per questo dico ‘poesia’: strumento irrazionale per esprimere questo mio sentimento irrazionale per Cristo»(10).
Ma da cosa derivano la “creatività” e la “poeticità” che fanno dell’ ‘adattamento fedele’ una ‘trasposizione poetica’ unica e irripetibile? Quali tratti estetici confluiscono nella sintassi magmatica pasoliniana, in modo da determinarne una scrittura filmica tanto coinvolgente sul piano emotivo.

Sul piano stilistico, Pasolini, come egli stesso dichiara, abbandona la ‘sacralità tecnica’, la sintassi classica, che aveva contraddistinto i primi film, per uno stile “magmatico, caotico, asimmetrico(11)”, in analogia alla diversità linguistica, stilistica e tecnica che caratterizzano il testo evangelico: «eseguire il Vangelo con una tecnica sacrale, ieratica, religiosa, era far piovere sul bagnato, infatti mi venivano fuori delle immagini tradizionali: un Cristo ieratico non era un Cristo; una panoramica solenne, maestosa, su degli Apostoli che ascoltavano Cristo perdeva di significato, mentre poteva avere valore sulle facce dei giovinottastri romani che stavano ad ascoltare neghittosamente Accattone»(12). Questo “magma”, che produrrà un cinema non conformista, ribollente di vitalità, di libertà stilistica illimitata, che cattura e implica emotivamente lo spettatore, è fondato sulla ‘contaminatio’: «Il segno sotto cui lavoro è sempre la contaminazione: infatti, se voi leggete una pagina dei miei libri noterete che la contaminazione è il fatto stilistico dominante…»(13). A questo proposito, è opportuno notare che il film di questo regista ateo e marxista, non a caso è dedicato “alla cara, lieta e familiare memoria di Giovanni XXIII”- e non a caso, al film fu assegnato il prestigioso premio cattolico O.C.I.C.(14).
Il senso della morte – che rappresenta la costante ideologica di tutta la produzione pasoliniana è, poi, un altro elemento che avvolge e compenetra il film e che Pasolini ‘rende’ facendo “sentire lo stacco”, connotando espressivamente l’attacco di montaggio, perché «[La morte] compie un fulmineo montaggio della nostra vita [e] il montaggio opera sul materiale del film quello che la morte opera sulla vita»(15). Ugualmente, il ‘magma’ stilistico è reso attraverso coraggiose ed inusuali sperimentazioni tecniche, l’uso costante dello zoom, degli obiettivi deformanti, grandangolari e speciali, delle inquadrature a ‘spalla’, delle riprese tecnicamente imperfette (messe a fuoco particolari, composizioni squilibrate) degli attacchi di montaggio volutamente imperfetti. Il regista usa il teleobiettivo per ‘captare’ un’espressione, un gesto, uno sguardo; usa la macchina a mano per rendere la ‘realtà’ , per ‘drammatizzare’ per esempio, i processi davanti a Caifa e a Pilato.

Per mostrare poi come l’umanità sia la ‘sua’ chiave di lettura del Vangelo, il regista si preoccupa non tanto di rappresentare le azioni, quanto le loro conseguenze sugli uomini e sui loro destini. A questo fine, fa costante ricorso ai piani ravvicinati che sono preponderanti rispetto ai piani medi e ai campi del film. L’universalità del messaggio cristico passa poi in modo sublime da un lato, attraverso una sorta di “ecumenicità musicale(16), una banda sonora fortemente contaminata, che assembla Bach, a canti spirituali negri, a Mozart, ai canti rivoluzionari russi; dall’altro, attraverso una stilizzazione iconografica essenziale e anch’essa inglobante che si ispira a Giotto, al Masaccio, a Piero della Francesca, al Caravaggio. Le inquadrature di Pasolini - considerato egli stesso un grande “pittore” del cinema- costruite come scene dipinte, con riferimenti precisi alla grande pittura italiana del trecento e del quattrocento, spiegano e giustificano la preferenza del regista per la fissità del campo.
Per concludere, Pasolini, dopo aver proiettato se stesso nella lettura del testo sacro perché anche la lettura non è né può essere fenomeno univoco, universale e oggettivo ma, in quanto proiezione e riconoscimento, fortemente individuale e soggettivo, dopo essersi dunque appropriato ideologicamente,intellettualmente ed emotivamente del Vangelo di Matteo, lo ha restituito con altri mezzi ed altro codice, connotandolo fortemente di sé, della sua estetica, del suo vissuto, delle sue contraddizioni. Della sua creatività insomma, e della sua poesia.
L’adattamento come “ trasposizione iconica” ne “Il silenzio del mare”(17) di J.P. Melville(18)


Jean Pierre Melville realizza l’adattamento cinematografico de “Il silenzio del mare(19) nel 1947”(20) in clandestinità, con una grande povertà di mezzi, dopo aver avuto a fatica da Vercors l’autorizzazione alla trasposizione cinematografica a patto di far visionare il film, una volta realizzato, e prima di proiettarlo sugli schermi, da un comitato di resistenti e di averne l’approvazione. Così avviene e Vercors accorderà a Melville anche il permesso di girare il film nella sua casa, nel luogo stesso in cui il libro era stato scritto. La trascrizione cinematografica del testo di Vercors è del tutto fedele: i lunghi monologhi di Werner Von Ebrennac sono testuali, il racconto si svolge sulla voce off del Narratore, che coincide con il personaggio dello zio. Il film, girato in bianco e nero, si svolge, pressoché per intero, all’interno di una stanza, con tre soli personaggi: lo zio, la nipote, l’ufficiale tedesco. Lo scenario fisso dell’interno della casa vede svolgersi giorno dopo giorno, rotta solo dai lunghi monologhi dell’ufficiale, la muta interazione tra i tre: la diffidenza e l’ostilità si trasformano, progressivamente nello zio, in ammirazione per la cultura dell’ufficiale che rivela di essere un musicista e, nella ragazza in ammirazione prima, in amore poi, rivelato da una sola parola “Adieu” pronunciata nel momento in cui l’ufficiale parte per il fronte.
Gli esterni sono imprecisati, l’incertezza sulla regione vuole suggerire che un po’ dappertutto, in Francia persone anonime che non possono combattere vecchi e ragazze per esempio, oppongono il loro rifiuto di silenziosa dignità all’occupante nazista.

Melville resta fedele al racconto, lo replica quasi testualmente attraverso una vera e propria traduzione iconografica, in cui, come del resto inevitabile, proietta e definisce il suo stile personalissimo di esteta e fine narratore attraverso un’iconografia filmica algida, distaccata, essenziale. La sua macchina da presa narra, definendole in modo mirabile, le immagini in una serie di sequenze filmiche indimenticabili, come il primo piano sull’impercettibile tremore delle mani della ragazza nella sequenza in cui l’ufficiale dichiara che, per guarire dalla guerra, “è necessario l’amore…un amore condiviso”; o quando, sulle parole di Ebrennac, per registrare il forte, controllato coinvolgimento emotivo della ragazza, la telecamera, semplicemente, si sofferma a lungo, in primo piano, sulla sua nuca, leggermente china in avanti, immobile, tesa.
Melville realizza così, attraverso il suo stile asciutto, di assoluta tensione estetica, le immagini che già Vercors aveva disegnato con sicurezza e precisione, fin nei dettagli. Il film, in bianco e nero, è tutto giocato sui chiaro-scuri, sulle ellissi, sui silenzi, sui primi e primissimi piani che registrano il linguaggio non-verbale, su un montaggio di assoluta perizia.

La musica (Beethoven e Brahms) è una chiara allegoria della Germania migliore, la Germania umanista che ama le arti e la letteratura, che si nutre di musica. Non a caso l’ufficiale, il “migliore dei tedeschi possibile”è un musicista, e la musica unisce, avvolge e in qualche modo accomuna i tre personaggi; essa gioca un fortissimo ruolo emozionale quando, nei primissimi piani, accompagna il movimento della camera. Indimenticabile, in questo senso, la sequenza senza stacchi che accompagna l”Adieu”- unica parola pronunciata dalla ragazza al momento del commiato con l’ufficiale, che assume semanticamente la valenza della più forte, sentita e repressa dichiarazione d’amore d’amore.
Il film, di rara qualità, è emblematico dello stile di Merville. Ogni fotogramma è una perfetta traduzione del testo di Vercors, un perfetto clone iconografico: cupo, essenziale, rigoroso, tutto giocato sul non-verbale, su emozioni controllate e tuttavia palesate. Il film restituisce dunque in modo perfetto la misteriosa interazione che si stabilisce tra i personaggi, e che procede impercettibilmente ma in un continuo crescendo: dalla diffidenza, alla stima, all’amore. Ma, a nostro avviso, è proprio questo il limite del film, che rende, nel suo codice specifico, ciò che il codice della lingua scritta, proprio per la valenza drammaturgica e teatrale tipica del testo di Vercors, aveva già raggiunto in modo suggestivo, evocativo e coinvolgente.
Inoltre, i lunghi monologhi dell’ufficiale, restituiti fedelmente, appesantiscono il film, lo rendono, se così si può dire, ‘letterario’; ugualmente, la voce off dello zio che ricorda gli avvenimenti, rappresenta una sorta di lettura ad alta voce che assume una valenza solo didascalica, ben lontana dalla efficacia e dalla potenza evocatrice del testo scritto.
Dunque, per quanto il film sia magistralmente realizzato, per quanto sia, comunque, opera originale di Melville in quanto vi proietta se stesso con le sue scelte etiche ed estetiche, la sua visione non aggiunge, a nostro avviso, nulla alla lettura del testo che contiene già in sé elementi teatrali in grado di suscitare nel lettore quasi naturalmente e durante tutto il filo del racconto, delle immagini mentali di pregnante ed indelebile segno evocativo.
L’adattamento come prodotto autonomo dell’opera a cui si ispira, in “Marianna Ucrìa”(21) di R. Faenza


Marianna Ucrìa, “liberamente tratto” dal romanzo La lunga vita di Marianna Ucrìa di Dacia Maraini, rappresenta appieno il prodotto “autonomo” del romanzo nel senso che il regista, pur ispirandosi a larghe linee all’”ossatura narrativa” del libro, se ne appropria metabolizzandolo, trasformandolo e restituendolo in forma affatto autonoma e originale.
Così Marianna Ucria non ha conservato, del testo della Maraini, che lo schema attanziale: l’eroe (Marianna) ha una missione da compiere (emergere dal suo grave handicap- che rappresenta metaforicamente la situazione femminile – grazie alla sua intelligenza ed alla sua volontà, e scoprirne la causa); Ma qualcuno ostacola l’eroe: è l’oppositore (il signor marito-zio) che, dopo averla stuprata ed essere la causa del suo stato, l’ha comprata con il matrimonio, reiterando lo stupro ogni volta, rendendola madre di cinque figli, e nascondendole la verità sul suo mutismo. Per contro, l’aiutante, colui che aiuta l’eroe nel compimento della sua missione, è rappresentato, da un lato, dalla bellissima figura del nonno, magistralmente interpretata da Philippe Noiret; dall’altro, dal precettore francese che inizia Marianna alle idee progressiste dell’illuminismo. Entrambi la sosterranno nel suo cammino verso la libertà: non a caso, “Freedom” è tra le prime parole, nel linguaggio dei segni, che il precettore insegna a Marianna e che Marianna insegnerà alle sue figlie.
ullo schema attanziale, che rappresenta l’idea di fondo, il regista ha poi costruito la “sua” storia, diversa, altra, con numerose aggiunte e/o omissioni : così, per esempio, il padre di Marianna, nel film, è morto, sostituito, come figura positiva, illuminata, che ha un particolare feeling con la nipotina “mutola”, dal nonno, uno straordinario e intenso Philippe Noiret. Lo stesso regista ha più volte spiegato la ragione di questo cambiamento: sarebbe apparso ben poco credibile un padre amorevole che però consegna la figlia tredicenne al cognato che l’ha stuprata. Neanche la morte del nonno, all’uscita di un postribolo, appare nel libro; così pure la figura del precettore francese. Altri personaggi, altri eventi, sono poi ridotti o sostituiti od omessi come, del resto, un ‘libero adattamento’ richiede e come, soprattutto richiede un fitto testo di duecentosessanta pagine circa.


Le scene più suggestive ed indimenticabili sono invece, a mio avviso, quelle che non sono presenti nel testo e nelle quali la creatività del regista si manifesta senza limite alcuno: penso, per esempio, alla straordinaria scena del matrimonio, sostituita, nel libro, da una lunga ellissi narrativa. Sequenze sontuose, imponenti, barocche di sicilianità. Lungo stacco del regista su Marianna che entra e appare ancora più minuta e bambina in un costume rigido, imponente scintillante di damasco dorato al braccio di suo nonno. Altro stacco sui due, fermi sull’altare, che girano il capo verso l’ingresso da dove sta arrivando lo zio Pietro.
Primo piano ravvicinato su dei piedi – scarpe rosse, calzamaglia rossa - che avanzano lentamente, ineluttabilmente. Primo piano sul viso atterrito, di Marianna.
E’ una scena che dà i brividi. I piedi sono notoriamente un simbolo erotico e feticista(22); il rosso evoca, oltre ad un aspetto trasmutativo ed alchemico, il passaggio da uno stato ad un altro, anche oscure simbologie sataniche ed emozioni amplificate e represse. Ma anche, e soprattutto, l’allarme, (il semaforo rosso è segno di pericolo) la reazione pronta a quanto sta per accadere: e infatti, a partire da questo momento, che appare il più buio, Marianna, come alcuni personaggi di Faenza – penso soprattutto a Pereira(23), e a Jona Oberski(24)- saprà contrastare non solo la propria menomazione, ma il proprio stato, la propria condizione di donna, grazie alla volontà, all’intelligenza, alla cultura, ma anche alla fiducia, alla vitalità, ad una personalità forte e vincente.
Un’altra sequenza memorabile per il suo potere evocativo e simbolico è quella che vede Marianna, dall’alto del balcone della sua nuova casa maritale, osservare un servitore che porta via le sue bambole e con esse, il resto della sua infanzia violata e, subito dopo, l’ingresso, il lungo corridoio deserto, il belare agghiacciante perché inaspettato di una capra, che appare subito dopo, dalla porta.
Primo piano sulla capra(25) -metafora di emozioni amplificate e represse, ma anche simbolo satanico di morte– che guarda fisso Marianna, con gli occhi tondi acquosi e inespressivi del signor marito-zio a cui somiglia stranamente quasi ne fosse la trans-posizione simbolica, nello sguardo (penso in particolare alla sequenza del rifiuto, quando lei si nega al marito che la guarda annichilito), nel volto triangolare, secco, scavato, malsano.
Tutto il film esprime, poi, la modernità di Marianna, che si sintetizza nelle sequenze in cui allatta al seno i suoi figli -avvenimento considerato all’epoca perfino scandaloso per una nobile- o in quella, davvero straordinaria, in cui, sillabando muta un NO riesce ad opporsi ad una penetrazione oscena, troppo a lungo subita, e a scostare dal suo ventre il corpo repellente del vecchio “signor marito-zio”. Chi, all’epoca, avrebbe osato tanto? Ma ancora di più nella sequenza a seguire, quando si avvicina a consolare, piena di umana pietà proprio lei, la vittima –il suo carnefice, quel signor “marito-zio” a cui è riuscita, comunque, a “voler bene”-, un mucchietto di ossa rannicchiato per terra, annichilito dal rifiuto.
Gli prende la mano, con tenerezza commovente.
Tra i due, è lei, - la piccola mutola, - la più forte, e Pietro pare averlo capito già il giorno del matrimonio, quando le aveva sussurrato, sull’altare, “la mia vita è nelle vostre mani”.
Un film bello e intenso, che invade chi lo guarda di colori e sapori – malgrado il regista abbia dichiarato che Marianna Ucria non è tra i suoi film preferiti”(26) - che soggioga per la modernità dei temi trattati, per la capacità del regista e della piccola straordinaria attrice di comunicare, attraverso la forte semanticità del non verbale l’intenso mondo interiore della protagonista.
La violenta sicilianità che emana dal film poi, e che invade lo spettatore di luci, di colori forti, di sapori, di odori, pervade anche Marianna. A differenza di sua madre, inetta, infelice, passiva, succube del laudano, incapace di reagire e isolata nei suoi piccoli spazi quotidiani, Marianna non tende alla chiusura e all’isolamento, ma anzi comunica, forse meglio e più di chi parla e sente, legge, si informa, è curiosa, avida di conoscenza, solare, pronta ad aprirsi agli altri, a osservarli, in un 'ascolto' empatico totale verso chi la circonda. Il regista restituisce alla perfezione, con scene di accurata delicatezza, questo complesso mondo silenzioso: e alla fine della proiezione, lo spettatore ha dimenticato che Marianna è sordomuta: resta invece l’immagine nitida e splendida di una donna che è riuscita a sottrarsi al suo destino di allevare figli, ubbidire, invecchiare precocemente, sottostare alle voglie del marito - sullo sfondo di una terra profumata , scintillante di colori, di opulenza e di miseria infinite.
Per concludere si può dunque affermare che non esiste un processo di codificazione universale dell’immaginario. Non è perciò in alcun modo possibile tradurre la produzione estetica letteraria basata su una grammatica lineare con peculiarità proprie, nella complessità alla base della produzione filmica.
Una straordinaria descrizione letteraria può essere distrutta da un’immagine che la rappresenti, perché perde il suo carattere di generalità, quel potere evocatore ed aperto all’infinito che immerge il lettore -qualunque lettore ed ognuno in modo diverso- in un mondo fantastico ed irreale, mai compiuto, mai definito. Così si esprime Flaubert: «una donna disegnata somiglia ad una donna: l’idea è chiusa, completa. Una donna descritta fa pensare a mille donne»(27).
Ma se è vero che il film, 'rappresentando', 'mostrando' l’immaginario lo chiude e lo delimita – e in questo senso l’immagine analogica può essere percepita come una violazione, che priva il racconto della sua virtualità testuale, è vero anche il contrario: se si assume cioè la descrizione letteraria solo come punto di partenza, il film, che riesce come nessun altro mezzo sa fare a trasformare il mondo in discorso servendosi del mondo stesso, e non sostituendolo con segni arbitrari, come fa la letteratura, o somiglianti come fa la pittura - darà - con l’aiuto e la progressione di altri procedimenti espressivi e tecnici quali il montaggio, visivo e sonoro, le tecniche di inquadratura (ripresa statica, panoramica, zoom, carrello, gru, dolly e inquadrature in movimento) i movimenti di macchina e l’impiego 'psicologico' e semantico del colore, della musica, delle pause, delle luci (fluorescenti, al quarzo, a riflessione interna, a scarica, ecc.), esiti estetici ancora impensabili, ma facilmente prevedibili non di 'riproduzione' del reale, ma della sua 'costruzione': della 'creazione', insomma, di una forma espressiva che coglie il punto di connessione in cui l’oggetto diventa concetto e il concetto diventa emozione: il film, appunto, 'altro' dal racconto.


Note
(1) P. Watzlawick, Pragmatica della comunicazione umana, Astrolabio, Roma 1971.
(2) F. Casetti, F Di Chio, Analisi del film, Bompiani, Bergamo 2007.
(3) Secondo Gaudreault, il racconto filmico rientra nel campo della complessità, scaturita dalla coesistenza all’interno dello stesso medium di due modi di comunicazione narrativa, la narrazione, tipica del cinema, e la mostrazione, tipica, invece, del teatro. A. Gaudreault, Dal letterario al filmico. Sistema del racconto. Lindau, Torino 2000.
(4) G. Montesanto, Didattica dell’immagine e del linguaggio audiovisivo e processi cognitivi, in Educare al film, Franco Angeli, Roma 2005.
(5) C. Segre, Avviamento all’analisi del testo letterario, Einaudi, Torino 1985.
(6) R. M. Lombardo (a cura di), Pedagogia del cinema, in «Giornale di pedagogia», n. 2, giugno 2004.
(7) Film italo-francese 140 minuti, 1964. Regia e sceneggiatura: P.P. Pasolini; Scenografia: Luigi Scaccianoce; Fotografia: Tonino delli Colli; Musica: Luis E. Bacalov, Mozart, Bach, Prokofiev, Weber; Montaggio: Nino Baragli; Interpreti: Susanna Pasolini,Ninetto Davoli, Enrique Irazoqui, Margherita Caruso, Marcello Morante, Francesco Legnetti, Paola Tedesco , Natalia Ginsburg , Alfonso; Gatto, Rodolfo Wilcock, Enzo Siciliano.
Il film racconta la nascita di Gesù e la fuga in Egitto, la predicazione in Galilea, l’arrivo a Gerusalemme, i processi, la morte e la resurrezione: Pasolini non aggiunge nessun episodio e nessun dialogo che non siano contenuti nel testo sacro ma, contrariamente a quanto dichiarato da lui stesso (Cfr nota 16) l’ordine del racconto viene talvolta alterato perché il regista anticipa o posticipa, o dilata, o contrae gli episodi scelti.
(8) “Seguo l’ordine del racconto tale e quale a S. Matteo” in Una visione del mondo epico-religiosa, colloquio con Pier Paolo Pasolini, in “Bianco e Nero”, XXV, 6, giugno 1964.
(9) P.P.Pasolini, in «Quaderni di Filmcritica», Bulzoni, Roma 1977.
(10) Pier Paolo Pasolini, Sette poesie e due lettere, a cura di Rienzo Colla, Vicenza, La Locusta, 1985.
(11) P.P.Pasolini, Confessions Techniques, in «Jeune Cinéma», nn. 27-28, gennaio/febbraio 1968
(12) AA.VV., Pier Paolo Pasolini nel dibattito culturale contemporaneo, Amm.ne Provinciale di Pavia – Comune di Alessandria, 1977.
(13) Una visione del mondo epico-religiosa, Intervista a P.P. Pasolini, in «Bianco e Nero», n. 6, giugno 1964.
(14) Office Catholique International du Cinéma.
(15) P.P. Pasolini, Osservazioni sul piano-sequenza, Garzanti, Milano, 1972.
(16) La definizione è dello stesso Pasolini.
(17) Film francese, in bianco e nero, 86 minuti, 1948. Regista: Jean- Pierre Melville; Interpreti: Howard Vernon (Werner Von Ebrennac, ufficiale tedesco), Jean-Marie Robain (lo zio), Nicole Stéphane (la nipote); Sinossi: Francia, 1941.
Un ufficiale tedesco requisisce la casa dove vivono un anziano signore e sua nipote, che, dovendo subire una forzata coabitazione, decidono di manifestare il loro sdegno e la loro resistenza all’invasore con un silenzio totale. Il loro ospite non è un tedesco come gli altri: è invece “il migliore dei tedeschi possibile”. E’ un musicista, sensibile, di grande cultura, che parla un francese perfetto e che crede in una sorta di unificazione “umanistica” tra Germania e Francia. Ogni sera, con dei lunghi monologhi, esprime i suoi ideali e la sua passione per la Francia ai suoi ospiti che gli oppongono un mutismo totale, unico mezzo per mostrare la loro ostilità verso l’occupazione tedesca. Un giorno l’ufficiale parte per Parigi, che rappresenta il sogno della sua vita, e torna dopo aver scoperto i veri intenti del sistema nazista. Tuttavia non si ribella, ma, deciso a morire, chiede di essere mandato al fronte.
(18) Melville è uno pseudonimo scelto da Jean-Pierre Grumbach durante la Resistenza, alla quale prese parte attiva.
(19) Il mare, è una metafora dello zio e della nipote: imperturbabili in superficie, in realtà agitati nell’intimo da sentimenti forti e contrastanti, proprio come il mare nasconde, sotto la superficie, un brulicante mondo vitale.
(20) “Il Silenzio del mare” è stato girato in 27 giorni, fra l’agosto e il dicembre del 47,con pochissimi mezzi finanziari, con resti di pellicola, nella casa dove Vercors aveva scritto il libro. É stato proiettato al pubblico nell’aprile del 1949.
(21) Film italo-franco-portoghese, a colori, 108’, 1997. Regista: Roberto Faenza; Sceneggiatori; Roberto Faenza, Sandro Petraglia; Interpreti: Bernard Giraudeau, Laura Betti, Lorenzo Crespi, Philippe Noiret, Roberto Herlitzka, Emmanuelle Laborit, Eva Greco, Olivia Magnani, Selvaggia Quattrini; Sinossi: Palermo, 1743.
Marianna Ucria, tredicenne bambina nobile sordo-muta, è costretta a sposarsi con lo zio materno, il vecchio duca Pietro. Madre di tre figli, dipinge, legge, scrive, apprende il linguaggio dei segni con l’aiuto di un giovane precettore francese che le fa anche conoscere le nuove idee filosofiche che percorrono l’Europa. Si sottrae poco a poco, con forza e determinazione, alla schiavitù della condizione femminile, acquisendo coscienza di sé e della sua sessualità, lottando contro le ingiustizie sociali , viaggiando. Conquista così la propria libertà, e scopre il segreto che l’ha resa sordomuta: è stata violentata a soli cinque anni, proprio da quello zio che è stata poi costretta a sposare.
(22) Non bisogna dimenticare che la psicoanalisi attribuisce spesso il feticismo al meccanismo di diniego-difesa che consiste nel rifiuto di riconoscere qualcosa di traumatizzante avvenuto nella realtà.
(23) Cfr. in: Sostiene Pereira.
(24) Cfr. in: Jona che visse nella balena.
(25) Questo episodio non c’è nel libro, ma la storia dello strano rapporto che lega l’animale a Pietro bambino è narrata in D. Maraini, La lunga vita di Marianna Ucrìa, BUR, Bergamo, 2006, pp. 150-151.
(26) «Se devo essere sincero, Marianna Ucria è uno dei miei film che mi piace di meno», in R. Marra, V. Bertone, L’Italia di de Roberto nei fotogrammi di Faenza, in http://www.step1magazine.it/v2_open_page.php?id=2669.
(27) Tradotto da G. Flaubert, Lettre à Ernest Duplan du 12 juin 1862, Correspondance III, Paris, Gallimard 1991.
Fonte:
http://www.vg-hortus.it/index.php?option=com_content&view=article&id=137

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Curatore, Bruno Esposito

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