"Le pagine corsare "
dedicate a Pier Paolo Pasolini
Eretico e Corsaro
Strategie comunicative e narrative tra romanzo e adattamento
cinematografico
Il silenzio del mare (Melville), Il Vangelo secondo Matteo (Pasolini),
Marianna Ucrìa (Faenza)
Giuseppe Melizzi
Parole ed immagini non rappresentano e non possono
rappresentare il reale nello stesso modo, anche se contano numerose interferenze
reciproche: la grammatica filmica nelle sue dimensioni culturali, cognitive,
emotive e tecniche diverge infatti totalmente dalla grammatica narrativa: essa
si serve, per esempio, di una pluralità di segni per produrre immagini
in movimento, e quindi di una pluralità di codici fatti di suoni, parole,
significati. Inoltre, può essere fruita a diversi livelli di lettura,
contemporaneamente e collettivamente, dall’intellettuale e dall’analfabeta:
l’uso delle immagini come canale privilegiato, favorisce una fruizione diretta
ed immediata da parte di chiunque: e ciò spiega il grande successo di pubblico
fin dai suoi esordi ma, anche la sua straordinaria capacità di influenzare
l’immaginario collettivo. Il libro prevede invece una fruizione individuale, ma
anche un’alfabetizzazione: dunque la lettura di un testo si presenta
inevitabilmente ristretta ed elitaria rispetto alla visione del film.
Il film è poi un prodotto corale del regista,
degli sceneggiatori, degli attori, dei costumisti, di tutti gli operatori che
partecipano alla sua realizzazione; è fatto di inquadrature, montaggio, ritmo,
strutturazione delle sequenze, di sviluppo narrativo e drammatico, di
dissolvenze e stacchi, di allusioni e analogie ottenute con la contiguità di
immagini o di scene, di colonna sonora: di una grammatica, insomma, complessa,
articolata, globale e inglobante, ben diversa da quella lineare del testo
scritto, peraltro prodotto generalmente individuale dello
scrittore.
Diversamente dal testo scritto, Il film è poi il prodotto di
una tecnologia raffinata e complessa che si avvale di luci, inquadrature,
messa a fuoco, delimitazione e divisione degli spazi, regole di composizione e
di movimento della cinepresa, uso del piano-sequenza, spostamento della camera,
montaggio, colore, musica, movimento e di numerosi mixages con altre
visioni del reale. La sua accessibilità e la sua diffusione sono enormemente più
ampie rispetto al testo letterario.
Anche le modalità di fruizione del film e
del testo scritto sono del tutto diverse: lo spettatore è coinvolto
contemporaneamente con tutti i canali percettivi, tattile, visivo, uditivo e
cinestetico; nel testo scritto, è il solo canale visivo che funziona da tramite
per ‘aprire’ altri mondi, con esiti che però possono rivelarsi altrettanto
efficaci: così, Proust, con la sola parola scritta, nella Recherche
sapore e l’odore della , sarà in grado di farci sentire la madeleine
bagnata nel thé, ed anche di evocarne l’immagine mentale, pur senza
rappresentarla visivamente.
Il film inoltre rappresenta
l’immaginario e/o la realtà: quest’ultima non neutra, perché mediata dal punto
di vista di chi effettua le riprese, in un certo momento, in un certo spazio, da
una certa angolatura, con una certa intenzione: tutto ciò che vediamo è il
risultato di scelte ed interpretazioni emotive, creative e poetiche. Il libro,
descrive il reale e/o l’immaginario tanto più efficacemente quanto più
ampio sarà il potere connotativo delle parole e quindi, il respiro evocativo
del testo.
Il film si serve poi, contemporaneamente, e proprio come
l’uomo, della comunicazione verbale o digitale (fatta soprattutto di segni:
parole, note musicali, simboli matematici) e di quella non verbale o analogica
(fatta di elementi sopra segmentali del discorso: intonazione, ritmo, accento,
elementi prosodici, ma anche della grammatica della comunicazione corporea)
strutturata in modo dinamico e circolare, in contrasto con la linearità del
linguaggio verbale o digitale. La comunicazione analogica, tipica del cinema, fa
cioè ricorso anche e soprattutto ad elementi extra linguistici, come la cinesica
(semantica dei movimenti del corpo) o la prossemica (semantica dello spazio,
inteso come fatto comunicativo): essa è meno soggetta al controllo volontario e
più direttamente connessa con il mondo delle emozioni e degli atteggiamenti
spontanei. E’ costituita da categorie intuitive ed immediate, approssimative e
sintetiche che presentano un alto grado di ambiguità(1), e sono dunque
suscettibili di numerose interpretazioni. Il testo scritto si basa invece su una
comunicazione verbale (scritta) e digitale, strutturata come sintassi lineare,
logica, specifica ed analitica con forte codificazione e bassi gradi di
ambiguità. E’ importante notare come, in caso di dissonanza cognitiva, (quando i
due messaggi, l’analogico e il digitale sono discordanti) “passi” e prevalga la
comunicazione non verbale.
Ora il film, a differenza del testo scritto,
proprio come nella reale comunicazione interpersonale, è in grado di
“rappresentare” questo processo nella sua totalità e far passare un messaggio
chiaro e oggettivo (le parole, nella loro accezione denotativa), e uno
soggettivo e diversamente interpretabile (le parole nella loro accezione
connotativa) ma anche gli elementi analogici, non-verbali, paralinguistici e
extralinguistici che, diversamente dalle parole, non sono soggetti a censura e
perciò veicolano i nostri più nascosti sentimenti, intenti e sensazioni.
Il linguaggio analogico, che è uno dei più importanti
tratti distintivi del film, è estremamente ambiguo, difficilmente
interpretabile; tuttavia costituisce un metalinguaggio, cioè è la principale
chiave di lettura del linguaggio verbale. Se qualcuno ci dice “sei simpatico”
prima di ‘accettare’ il messaggio verbale, misuriamo la concordanza con il
contesto, la presenza o assenza di occhiate di scherno, il tono, i gesti, ecc.
Ogni sequenza filmica presenta dunque, proprio come la comunicazione
interpersonale, tutti gli elementi indicati. Il testo è invece costruito su un
processo narrativo lineare, sintagmatico, con elementi grammaticali e sintattici
disposti in sequenza: la comunicazione analogica non verbale che il film è in
grado di mostrare, di rappresentare, subisce, nel testo scritto, una sorta di
transcodificazione, nel senso che viene a sua volta ‘verbalizzata’, descritta,
con esiti a volte anche ottimali, più spesso insoddisfacenti, comunque sempre
assai complessi e di incerto risultato.
Anche la colonna sonora assume, nel
film, un preciso ruolo semantico: può creare un ritmo narrativo, dare il senso
del tempo che scorre, potenziare la luce, le ombre, le ansie, le paure, il
ricordo. Insomma, è un vero e proprio livello di significato che si aggiunge al
montaggio, alla fotografia, allo spazio, al tempo. Il movimento, poi, inteso
nella sua qualità dinamica peculiare insieme ad altre due categorie
analogiche rappresentate dallo spazio e dal tempo, o per meglio dire, dall’unica
categoria - che li compenetra entrambi, del tempo/spazio(2). Infatti è proprio
nel tempo e nello spazio che il corpo si esprime, comunica, si relaziona. Ma il
movimento può anche paradossalmente assumere un’ espressività , come fatto
significante, che favorisce o allontana la comunicazione è rappresentato con
efficacia totale dal film, ne è caratteristicastatica, nella postura per
esempio, che rimanda al senso del tempo/spazio, e che rivela l’enorme
espressività affettiva e relazionale delle strutture anatomiche del corpo.
Il tempo del film (due ore circa), inoltre, è
quantitativamente molto più ristretto rispetto al tempo del racconto
(che può occupare fino a duecento pagine ed oltre). Perciò, l’eliminazione di
tutte le digressioni e degli episodi secondari è necessaria per la compressione
temporale. Essa ha, tuttavia, una propria funzionalità semantica di
sottolineatura di un evento, di un personaggio, di un intero episodio.
Il
film presenta dunque non solo ritmi e luoghi di fruizione propri, ma anche una
sua logica temporale interna non controllabile dal fruitore, che, per esempio,
non può “fermare” l’immagine a suo piacimento se la proiezione è pubblica. Il
testo letterario invece, presenta caratteristiche di permanenza che consentono
l’attivazione di particolari strategie per favorirne la fruizione: il lettore
può tornare indietro, o fermarsi per riflettere, o accelerare la lettura.
Il
tempo filmico, poi, è diverso anche dal punto di vista cognitivo. Infatti esso
condiziona anche la percezione dello spazio da parte del
fruitore/spettatore: lo “spazio” filmico attiva modalità percettive e cognitive
particolari: è come se la superficie dello schermo si ‘aprisse’ per inglobare lo
spazio mentale di chi guarda, e immergerlo in uno ‘spaesamento’ cognitivo.
Questa correlazione tra percezione spazio-temporale e cognizione, specifica del
film, che si ottiene fondendo le diverse tecniche di ripresa (soggettiva,
panning, zoom, ecc) con vari tipi di montaggio (fotogramma per
fotogramma, sovrapposizioni, sfumato) in un unico flusso, consente di “far
muovere” lo spettatore, ed immergerlo in una esperienza totalizzante, che dà
corpo e forma al tempo, ma anche allo spazio che diventa così costruzione
mentale, alla luce, al movimento, come se l’occhio della camera fosse un occhio
umano, sensibile e in grado di produrre sensazioni in chi guarda e in chi è
guardato.
Queste modalità di attivazione di connessioni spazio-temporali, di
rappresentazione della memoria e del ricordo, del pensiero e delle emozioni,
ottenute mediante elaborate strategie tecnico-estetiche, legando parametri
spazio-temporali, comunicativi e, oggi, anche computazionali a modalità
specifiche di percezione e cognizione, hanno prodotto, soprattutto con
l’evoluzione dei media elettronici, una visione cinematica ed incorporea dello
spazio e del tempo lontana anni luce dal tempo e dallo spazio della
letteratura. Basti solo pensare al tempo ed allo spazio proustiani per
rendersene conto.
Il film è dunque un’opera corale, tecnicamente
complessa(3), che adotta un sistema di scrittura articolato, analogico,
computazionale, e nel contempo, magicamente creativo. Unifica ed integra sul
piano estetico, attraverso una struttura formale che emerge poco a poco le
contraddizioni umane: bene, male, passato, futuro, vero, falso, libertà e
divieti, in una sintesi totale di contenuto e forma.
L’immagine filmica è
proprio agli antipodi della parola: come afferma G. Montesanto, «con essa, è
l’oggetto stesso, o almeno una sua convincente effige, che diventa linguaggio [e
dunque] la magia essenziale del cinema deriva dal fatto che il ‘dato reale’
diventa l’elemento stesso della propria fabulazione»(4).
Inoltre, se il film
riproduce analogicamente il reale in termini di pensiero dialettico e
circolare che compenetra e amalgama gli opposti, la specificità letteraria è
invece digitale: una struttura grammaticale e sintattica di tipo
lineare contraddistingue infatti il testo scritto, che si realizza attraverso
una fitta rete di anafore, catafore, connettivi logici, spaziali, temporali,
elementi deittici, sinonimi, parafrasi, iponimi, iperonimi, ripetizioni,
sostituzioni, ellissi, figure retoriche(5) del tutto intraducibili, per le loro
stesse caratteristiche in un altro medium.
Il testo letterario attiva poi, in
modo speculare, un codice scritto, che presenta registri e livelli di lingua
assai dissimili dal codice orale, peculiare invece del film.
La
focalizzazione, poi, può essere interna, esterna, o interna e esterna nello
stesso tempo (focalizzazione zero); nel film, la focalizzazione non può che
essere esterna, e i sentimenti, i pensieri dei personaggi non possono essere
“raccontati” ma devono in qualche modo, ‘trapelare’ essere ‘resi visibili’ da un
gesto, uno sguardo, un movimento, una pausa. E i sofisticati mezzi tecnici di
cui il cinema dispone permettono di modulare le più profonde sensazioni con
sfumature a volte non concesse alle parole.
La produzione filmica e il testo
letterario, pur presentando caratteristiche diverse, mostrano però anche
numerosi punti in comune. Per esempio, sia la parola (nel testo scritto) che
l’immagine, (nel film) denotano e connotano: denotano perché
descrivono o mostrano un pezzo di realtà; connotano perché evocano, sul piano
semantico, nel lettore e nello spettatore, mondi, sensazioni, emozioni connessi
al vissuto di entrambi. In quanto simboli poi, permettono al fruitore di
individuare il significato oltre il significante(6) perché sia l’immagine che la
parola, nei loro esiti artistici, compendiano, riassumono e trasformano il reale
e l’immaginario.
Inoltre, la lettura dell’immagine filmica esige, come la
lettura di un brano, una decodifica strumentale degli schemi linguistici, etici,
estetici, narrativi, processuali ma anche, e soprattutto, emotivi, perché è
l’area emotiva che viene maggiormente sollecitata quando si guarda un film, o
quando leggiamo un libro che ci avvince tanto da finirlo d’un fiato: quando si
interagisce, insomma, con immagini o storie create apposta per implicare
emotivamente il destinatario. Bisognerebbe però, per una fruizione più
consapevole, che il fruitore possedesse, da un lato gli strumenti per l’analisi
letteraria (elementi di retorica, linguistica, semiologia), dall’altra, gli
strumenti di conoscenza necessari per decodificare il linguaggio filmico, che,
per quanto di immediata fruizione, segue leggi, regole e codici propri come
composizione dell’immagine, inquadratura, struttura delle sequenze e dello
sviluppo narrativo e drammatico, elementi linguistici come dissolvenza
incrociata e lo stacco, scelte di carattere metonimico (allusione e/o analogia
realizzate attraverso la contiguità di immagini o scene) o di carattere
metaforico (allusione e/o analogia realizzate attraverso la sostituzione di
un’immagine con un’altra o la condensazione di due o più immagini, ecc…), o
musicale e così via.
Il libro, e il film, se e quando sono opere
d’arte, seppure diverse, possono liberare nuovi spazi, e generare dinamicamente
nuove forme e nuovi processi trasformativi in grado di trasferirsi sui fruitori:
l’opera d’arte, infatti, trascende e unifica gli opposti, i dualismi della
realtà e dell’uomo in una sintesi armonica dinamica e creativa. Essa è infatti
sempre il risultato di un processo di trasformazione inarrestabile che
costringe l’uomo a affrontare prima e modulare poi i propri fantasmi e le
proprie contraddizioni e ad assumere consapevolezza del proprio
immaginario.
Per entrambi, infine, il rapporto con i rispettivi fruitori si
stabilisce a diversi livelli, e quelli più profondi non sono immediatamente
coscienti perché sia il libro -la cui lettura è proiezione e riconoscimento di
noi stessi, proprio come la visione di un film- che il film, provocano in
qualche parte della nostra coscienza una sorta di contaminatio che
avviene in diversi livelli e in più direzioni.
Da ultimo, è infine importante notare che qualunque film e
qualunque testo scritto, si inseriscono in un circuito comunicativo e perciò
pongono il problema, non neutro, dell’identità e delle intenzioni
dell’emittente, della natura del messaggio veicolato, del contesto referenziale,
e, soprattutto, dell’impatto del messaggio sul destinatario -lettore o
spettatore- e delle funzioni comunicative palesi o soggiacenti al messaggio.
Se dunque l’adattamento ‘fedele’ non è postulabile, per la complessità e la
diversità dei diversi codici implicati, è però vero che il film può cogliere
l’anima della letteratura per modificarla nei modi più diversi e dunque
trasformarla in altra anima. Il Vangelo secondo S. Matteo, Il
Silenzio del mare, Marianna Ucria, sono esempi straordinari e
diversi di come il cinema può lavorare con modelli letterari, e restituirli come
forma artistica creativa, compiuta, e del tutto autonoma dal testo di
provenienza.
L’adattamento come “trasposizione creativa e poetica” ne
“Il Vangelo secondo Matteo”(7) di P.P. Pasolini
Il Vangelo secondo San Matteo è un chiaro esempio di
come, pur restando ‘fedeli’ al testo(8), pur riproducendone alla lettera i
dialoghi, se ne possa dare una lettura personalissima, creativa, poetica,
connotata e contaminata artisticamente da un uso trasversale e “magmatico” della
musica, della pittura, delle inquadrature, delle luci, delle ombre, dei primi
piani, dei rumori e dei silenzi.
Pasolini stesso ha spiegato, a più riprese,
come il film, pur aderendo pressoché alla lettera al Vangelo, più che una
ricostruzione storica fedele di tipo illustrativo, voglia, da un lato
rappresentare invece una trasposizione cinematografica della
visione cristica di Matteo, dall’altro, dare il senso della poesia,
che c’è, è presente, nel Vangelo: «[si tratta] di una specie di
ricostruzione per analogie. Cioè ho sostituito il paesaggio con un paesaggio
analogo, le regge dei potenti con regge e ambienti analoghi, le facce del tempo
con delle facce analoghe; insomma è presieduto alla mia operazione questo tema
dell’analogia che sostituisce la ricostruzione»(9). E, in altra
occasione, aggiunge: «[…] la mia idea è
questa: seguire punto per punto il Vangelo secondo Matteo, senza farne una
sceneggiatura o riduzione. Tradurlo fedelmente in immagini, seguendone, senza
una omissione o un’aggiunta, il racconto. Anche i dialoghi dovrebbero essere
rigorosamente quelli di San Matteo, senza nemmeno una frase di spiegazione o di
raccordo: perché nessuna immagine o nessuna parola inserita potrà mai essere
all’altezza poetica del testo. E’ quest’altezza poetica che così ansiosamente mi
ispira. Ed è un’opera di poesia che io voglio fare. Non un’opera religiosa nel
senso corrente del termine, né un’opera in qualche modo ideologica. In parole
molto semplici e povere: io non credo che Cristo sia figlio di Dio, perché non
sono credente, almeno nella coscienza. Ma credo che Cristo sia divino: credo
cioè che in lui l’umanità sia così alta, rigorosa, ideale da andare al di là dei
comuni termini dell’umanità. Per questo dico ‘poesia’: strumento irrazionale per
esprimere questo mio sentimento irrazionale per Cristo»(10).
Ma da cosa derivano la “creatività” e la “poeticità” che
fanno dell’ ‘adattamento fedele’ una ‘trasposizione poetica’ unica e
irripetibile? Quali tratti estetici confluiscono nella sintassi magmatica
pasoliniana, in modo da determinarne una scrittura filmica tanto coinvolgente
sul piano emotivo.
Sul piano stilistico, Pasolini, come egli stesso dichiara,
abbandona la ‘sacralità tecnica’, la sintassi classica, che aveva
contraddistinto i primi film, per uno stile “magmatico, caotico,
asimmetrico(11)”, in analogia alla diversità linguistica, stilistica e tecnica
che caratterizzano il testo evangelico: «eseguire il Vangelo con una tecnica
sacrale, ieratica, religiosa, era far piovere sul bagnato, infatti mi venivano
fuori delle immagini tradizionali: un Cristo ieratico non era un Cristo; una
panoramica solenne, maestosa, su degli Apostoli che ascoltavano Cristo perdeva
di significato, mentre poteva avere valore sulle facce dei giovinottastri romani
che stavano ad ascoltare neghittosamente Accattone»(12). Questo “magma”, che
produrrà un cinema non conformista, ribollente di vitalità, di libertà
stilistica illimitata, che cattura e implica emotivamente lo spettatore, è
fondato sulla ‘contaminatio’: «Il segno sotto cui lavoro è sempre la
contaminazione: infatti, se voi leggete una pagina dei miei libri noterete che
la contaminazione è il fatto stilistico dominante…»(13). A questo proposito, è
opportuno notare che il film di questo regista ateo e marxista, non a caso è
dedicato “alla cara, lieta e familiare memoria di Giovanni XXIII”- e non a
caso, al film fu assegnato il prestigioso premio cattolico
O.C.I.C.(14).
Il senso della morte – che rappresenta
la costante ideologica di tutta la produzione pasoliniana è, poi, un altro
elemento che avvolge e compenetra il film e che Pasolini ‘rende’ facendo
“sentire lo stacco”, connotando espressivamente l’attacco di montaggio,
perché «[La morte] compie un fulmineo montaggio della nostra vita [e] il
montaggio opera sul materiale del film quello che la morte opera sulla
vita»(15). Ugualmente, il ‘magma’ stilistico è reso attraverso coraggiose ed
inusuali sperimentazioni tecniche, l’uso costante dello zoom, degli obiettivi
deformanti, grandangolari e speciali, delle inquadrature a ‘spalla’, delle
riprese tecnicamente imperfette (messe a fuoco particolari, composizioni
squilibrate) degli attacchi di montaggio volutamente imperfetti. Il regista usa
il teleobiettivo per ‘captare’ un’espressione, un gesto, uno sguardo; usa la
macchina a mano per rendere la ‘realtà’ , per ‘drammatizzare’ per esempio, i
processi davanti a Caifa e a Pilato.
Per mostrare poi come l’umanità sia la ‘sua’ chiave
di lettura del Vangelo, il regista si preoccupa non tanto di rappresentare le
azioni, quanto le loro conseguenze sugli uomini e sui loro destini. A questo
fine, fa costante ricorso ai piani ravvicinati che sono preponderanti rispetto
ai piani medi e ai campi del film. L’universalità del messaggio
cristico passa poi in modo sublime da un lato, attraverso una sorta di
“ecumenicità musicale”(16), una banda sonora fortemente
contaminata, che assembla Bach, a canti spirituali negri, a Mozart, ai canti
rivoluzionari russi; dall’altro, attraverso una stilizzazione iconografica
essenziale e anch’essa inglobante che si ispira a Giotto, al Masaccio, a
Piero della Francesca, al Caravaggio. Le inquadrature di Pasolini - considerato
egli stesso un grande “pittore” del cinema- costruite come scene dipinte, con
riferimenti precisi alla grande pittura italiana del trecento e del
quattrocento, spiegano e giustificano la preferenza del regista per la fissità
del campo.
Per concludere, Pasolini, dopo aver proiettato se
stesso nella lettura del testo sacro perché anche la lettura non è né può essere
fenomeno univoco, universale e oggettivo ma, in quanto proiezione e
riconoscimento, fortemente individuale e soggettivo, dopo essersi dunque
appropriato ideologicamente,intellettualmente ed emotivamente del Vangelo di
Matteo, lo ha restituito con altri mezzi ed altro codice, connotandolo
fortemente di sé, della sua estetica, del suo vissuto, delle sue
contraddizioni. Della sua creatività insomma, e della sua poesia.
L’adattamento come “ trasposizione
iconica” ne “Il silenzio del mare”(17) di J.P.
Melville(18)
Jean Pierre Melville realizza l’adattamento cinematografico
de “Il silenzio del mare(19) nel 1947”(20) in clandestinità, con una
grande povertà di mezzi, dopo aver avuto a fatica da Vercors l’autorizzazione
alla trasposizione cinematografica a patto di far visionare il film, una volta
realizzato, e prima di proiettarlo sugli schermi, da un comitato di resistenti e
di averne l’approvazione. Così avviene e Vercors accorderà a Melville anche il
permesso di girare il film nella sua casa, nel luogo stesso in cui il libro era
stato scritto. La trascrizione cinematografica del testo di Vercors è del tutto
fedele: i lunghi monologhi di Werner Von Ebrennac sono testuali, il racconto si
svolge sulla voce off del Narratore, che coincide con il personaggio dello zio.
Il film, girato in bianco e nero, si svolge, pressoché per intero, all’interno
di una stanza, con tre soli personaggi: lo zio, la nipote, l’ufficiale tedesco.
Lo scenario fisso dell’interno della casa vede svolgersi giorno dopo giorno,
rotta solo dai lunghi monologhi dell’ufficiale, la muta interazione tra i tre:
la diffidenza e l’ostilità si trasformano, progressivamente nello zio, in
ammirazione per la cultura dell’ufficiale che rivela di essere un musicista e,
nella ragazza in ammirazione prima, in amore poi, rivelato da una sola parola
“Adieu” pronunciata nel momento in cui l’ufficiale parte per il
fronte.
Gli esterni sono imprecisati, l’incertezza sulla regione
vuole suggerire che un po’ dappertutto, in Francia persone anonime che non
possono combattere vecchi e ragazze per esempio, oppongono il loro rifiuto di
silenziosa dignità all’occupante nazista.
Melville resta fedele al racconto, lo replica quasi
testualmente attraverso una vera e propria traduzione iconografica, in
cui, come del resto inevitabile, proietta e definisce il suo stile
personalissimo di esteta e fine narratore attraverso un’iconografia filmica
algida, distaccata, essenziale. La sua macchina da presa narra, definendole in
modo mirabile, le immagini in una serie di sequenze filmiche indimenticabili,
come il primo piano sull’impercettibile tremore delle mani della ragazza nella
sequenza in cui l’ufficiale dichiara che, per guarire dalla guerra, “è
necessario l’amore…un amore condiviso”; o quando, sulle parole di
Ebrennac, per registrare il forte, controllato coinvolgimento emotivo della
ragazza, la telecamera, semplicemente, si sofferma a lungo, in primo piano,
sulla sua nuca, leggermente china in avanti, immobile,
tesa.
Melville realizza così, attraverso il suo stile asciutto, di
assoluta tensione estetica, le immagini che già Vercors aveva disegnato
con sicurezza e precisione, fin nei dettagli. Il film, in bianco e nero, è tutto
giocato sui chiaro-scuri, sulle ellissi, sui silenzi, sui primi e primissimi
piani che registrano il linguaggio non-verbale, su un montaggio di assoluta
perizia.
La musica (Beethoven e Brahms) è una chiara allegoria della
Germania migliore, la
Germania umanista che ama le arti e la letteratura, che si
nutre di musica. Non a caso l’ufficiale, il “migliore dei tedeschi
possibileӏ un musicista, e la musica unisce, avvolge e in qualche modo
accomuna i tre personaggi; essa gioca un fortissimo ruolo emozionale quando, nei
primissimi piani, accompagna il movimento della camera. Indimenticabile, in
questo senso, la sequenza senza stacchi che accompagna
l”Adieu”- unica parola pronunciata dalla ragazza al momento
del commiato con l’ufficiale, che assume semanticamente la valenza della più
forte, sentita e repressa dichiarazione d’amore d’amore.
Il film,
di rara qualità, è emblematico dello stile di Merville. Ogni fotogramma è una
perfetta traduzione del testo di Vercors, un perfetto clone iconografico: cupo,
essenziale, rigoroso, tutto giocato sul non-verbale, su emozioni controllate e
tuttavia palesate. Il film restituisce dunque in modo perfetto la misteriosa
interazione che si stabilisce tra i personaggi, e che procede impercettibilmente
ma in un continuo crescendo: dalla diffidenza, alla stima, all’amore. Ma, a
nostro avviso, è proprio questo il limite del film, che rende, nel suo codice
specifico, ciò che il codice della lingua scritta, proprio per la valenza
drammaturgica e teatrale tipica del testo di Vercors, aveva già raggiunto in
modo suggestivo, evocativo e coinvolgente.
Inoltre, i lunghi monologhi
dell’ufficiale, restituiti fedelmente, appesantiscono il film, lo rendono, se
così si può dire, ‘letterario’; ugualmente, la voce off dello zio che ricorda
gli avvenimenti, rappresenta una sorta di lettura ad alta voce che assume una
valenza solo didascalica, ben lontana dalla efficacia e dalla potenza
evocatrice del testo scritto.
Dunque, per quanto il film sia magistralmente realizzato, per
quanto sia, comunque, opera originale di Melville in quanto vi proietta se
stesso con le sue scelte etiche ed estetiche, la sua visione non aggiunge, a
nostro avviso, nulla alla lettura del testo che contiene già in sé elementi
teatrali in grado di suscitare nel lettore quasi naturalmente e durante tutto il
filo del racconto, delle immagini mentali di pregnante ed indelebile segno
evocativo.
L’adattamento come prodotto
autonomo dell’opera a cui si ispira, in “Marianna Ucrìa”(21) di R. Faenza
Marianna Ucrìa, “liberamente tratto” dal romanzo La lunga
vita di Marianna Ucrìa di Dacia Maraini, rappresenta appieno il prodotto
“autonomo” del romanzo nel senso che il regista, pur ispirandosi a larghe linee
all’”ossatura narrativa” del libro, se ne appropria metabolizzandolo,
trasformandolo e restituendolo in forma affatto autonoma e
originale.
Così Marianna Ucria non ha conservato, del testo della
Maraini, che lo schema attanziale: l’eroe (Marianna) ha una
missione da compiere (emergere dal suo grave handicap- che rappresenta
metaforicamente la situazione femminile – grazie alla sua intelligenza ed alla
sua volontà, e scoprirne la causa); Ma qualcuno ostacola l’eroe: è
l’oppositore (il signor marito-zio) che, dopo averla stuprata ed essere
la causa del suo stato, l’ha comprata con il matrimonio, reiterando lo stupro
ogni volta, rendendola madre di cinque figli, e nascondendole la verità sul suo
mutismo. Per contro, l’aiutante, colui che aiuta l’eroe nel compimento
della sua missione, è rappresentato, da un lato, dalla bellissima figura del
nonno, magistralmente interpretata da Philippe Noiret; dall’altro, dal
precettore francese che inizia Marianna alle idee progressiste
dell’illuminismo. Entrambi la sosterranno nel suo cammino verso la libertà: non
a caso, “Freedom” è tra le prime parole, nel linguaggio dei segni, che
il precettore insegna a Marianna e che Marianna insegnerà alle sue
figlie.
ullo schema attanziale, che rappresenta l’idea di fondo,
il regista ha poi costruito la “sua” storia, diversa, altra, con numerose
aggiunte e/o omissioni : così, per esempio, il padre di Marianna, nel film, è
morto, sostituito, come figura positiva, illuminata, che ha un particolare
feeling con la nipotina “mutola”, dal nonno, uno straordinario e intenso
Philippe Noiret. Lo stesso regista ha più volte spiegato la ragione di questo
cambiamento: sarebbe apparso ben poco credibile un padre amorevole che però
consegna la figlia tredicenne al cognato che l’ha stuprata. Neanche la morte del
nonno, all’uscita di un postribolo, appare nel libro; così pure la figura del
precettore francese. Altri personaggi, altri eventi, sono poi ridotti o
sostituiti od omessi come, del resto, un ‘libero adattamento’ richiede e come,
soprattutto richiede un fitto testo di duecentosessanta pagine circa.
Le scene più suggestive ed indimenticabili sono invece, a mio
avviso, quelle che non sono presenti nel testo e nelle quali la creatività del
regista si manifesta senza limite alcuno: penso, per esempio, alla straordinaria
scena del matrimonio, sostituita, nel libro, da una lunga ellissi narrativa.
Sequenze sontuose, imponenti, barocche di sicilianità. Lungo stacco del regista
su Marianna che entra e appare ancora più minuta e bambina in un costume rigido,
imponente scintillante di damasco dorato al braccio di suo nonno. Altro stacco
sui due, fermi sull’altare, che girano il capo verso l’ingresso da dove sta
arrivando lo zio Pietro.
Primo piano ravvicinato su dei piedi – scarpe rosse,
calzamaglia rossa - che avanzano lentamente, ineluttabilmente. Primo piano sul
viso atterrito, di Marianna.
E’ una scena che dà i brividi. I
piedi sono notoriamente un simbolo erotico e feticista(22); il rosso evoca,
oltre ad un aspetto trasmutativo ed alchemico, il passaggio da uno stato ad un
altro, anche oscure simbologie sataniche ed emozioni amplificate e represse. Ma
anche, e soprattutto, l’allarme, (il semaforo rosso è segno di pericolo) la
reazione pronta a quanto sta per accadere: e infatti, a partire da questo
momento, che appare il più buio, Marianna, come alcuni personaggi di Faenza –
penso soprattutto a Pereira(23), e a Jona Oberski(24)- saprà contrastare non
solo la propria menomazione, ma il proprio stato, la propria condizione di
donna, grazie alla volontà, all’intelligenza, alla cultura, ma anche alla
fiducia, alla vitalità, ad una personalità forte e vincente.
Un’altra
sequenza memorabile per il suo potere evocativo e simbolico è quella che vede
Marianna, dall’alto del balcone della sua nuova casa maritale, osservare un
servitore che porta via le sue bambole e con esse, il resto della sua infanzia
violata e, subito dopo, l’ingresso, il lungo corridoio deserto, il belare
agghiacciante perché inaspettato di una capra, che appare subito dopo, dalla
porta.
Primo piano sulla capra(25) -metafora di emozioni
amplificate e represse, ma anche simbolo satanico di morte– che guarda fisso
Marianna, con gli occhi tondi acquosi e inespressivi del signor marito-zio a
cui somiglia stranamente quasi ne fosse la trans-posizione simbolica, nello
sguardo (penso in particolare alla sequenza del rifiuto, quando lei si nega al
marito che la guarda annichilito), nel volto triangolare, secco,
scavato, malsano.
Tutto il film esprime, poi, la modernità di
Marianna, che si sintetizza nelle sequenze in cui allatta al seno i suoi figli
-avvenimento considerato all’epoca perfino scandaloso per una nobile- o in
quella, davvero straordinaria, in cui, sillabando muta un NO riesce ad opporsi
ad una penetrazione oscena, troppo a lungo subita, e a scostare dal suo ventre
il corpo repellente del vecchio “signor marito-zio”. Chi, all’epoca, avrebbe
osato tanto? Ma ancora di più nella sequenza a seguire, quando si avvicina a
consolare, piena di umana pietà proprio lei, la vittima –il suo carnefice, quel
signor “marito-zio” a cui è riuscita, comunque, a “voler bene”-, un mucchietto
di ossa rannicchiato per terra, annichilito dal rifiuto.
Gli prende la mano,
con tenerezza commovente.
Tra i due, è lei, - la piccola mutola, -
la più forte, e Pietro pare averlo capito già il giorno del matrimonio, quando
le aveva sussurrato, sull’altare, “la mia vita è nelle vostre
mani”.
Un film bello e intenso, che invade chi lo guarda di colori
e sapori – malgrado il regista abbia dichiarato che Marianna Ucria non è tra i
suoi film preferiti”(26) - che soggioga per la modernità dei temi trattati, per
la capacità del regista e della piccola straordinaria attrice di comunicare,
attraverso la forte semanticità del non verbale l’intenso mondo interiore
della protagonista.
La violenta sicilianità che emana dal film poi, e che
invade lo spettatore di luci, di colori forti, di sapori, di odori, pervade
anche Marianna. A differenza di sua madre, inetta, infelice, passiva, succube
del laudano, incapace di reagire e isolata nei suoi piccoli spazi quotidiani,
Marianna non tende alla chiusura e all’isolamento, ma anzi comunica, forse
meglio e più di chi parla e sente, legge, si informa, è curiosa, avida di
conoscenza, solare, pronta ad aprirsi agli altri, a osservarli, in un 'ascolto'
empatico totale verso chi la circonda. Il regista restituisce alla perfezione,
con scene di accurata delicatezza, questo complesso mondo silenzioso: e alla
fine della proiezione, lo spettatore ha dimenticato che Marianna è sordomuta:
resta invece l’immagine nitida e splendida di una donna che è riuscita a
sottrarsi al suo destino di allevare figli, ubbidire, invecchiare precocemente,
sottostare alle voglie del marito - sullo sfondo di una terra profumata ,
scintillante di colori, di opulenza e di miseria infinite.
Per concludere si può dunque affermare che non esiste un
processo di codificazione universale dell’immaginario. Non è perciò in alcun
modo possibile tradurre la produzione estetica letteraria basata su una
grammatica lineare con peculiarità proprie, nella complessità alla base della
produzione filmica.
Una straordinaria descrizione letteraria può essere
distrutta da un’immagine che la rappresenti, perché perde il suo carattere di
generalità, quel potere evocatore ed aperto all’infinito che immerge il lettore
-qualunque lettore ed ognuno in modo diverso- in un mondo fantastico ed irreale,
mai compiuto, mai definito. Così si esprime Flaubert: «una donna disegnata
somiglia ad una donna: l’idea è chiusa, completa. Una donna descritta fa
pensare a mille donne»(27).
Ma se è vero che il film, 'rappresentando',
'mostrando' l’immaginario lo chiude e lo delimita – e in questo senso l’immagine
analogica può essere percepita come una violazione, che priva il racconto della
sua virtualità testuale, è vero anche il contrario: se si assume cioè la
descrizione letteraria solo come punto di partenza, il film, che riesce come
nessun altro mezzo sa fare a trasformare il mondo in discorso servendosi del
mondo stesso, e non sostituendolo con segni arbitrari, come fa la letteratura, o
somiglianti come fa la pittura - darà - con l’aiuto e la progressione di
altri procedimenti espressivi e tecnici quali il montaggio, visivo e sonoro, le
tecniche di inquadratura (ripresa statica, panoramica, zoom, carrello, gru,
dolly e inquadrature in movimento) i movimenti di macchina e l’impiego
'psicologico' e semantico del colore, della musica, delle pause, delle luci
(fluorescenti, al quarzo, a riflessione interna, a scarica, ecc.), esiti
estetici ancora impensabili, ma facilmente prevedibili non di 'riproduzione'
del reale, ma della sua 'costruzione': della 'creazione', insomma, di una forma
espressiva che coglie il punto di connessione in cui l’oggetto diventa concetto
e il concetto diventa emozione: il film, appunto, 'altro' dal racconto.
Note
(1) P. Watzlawick, Pragmatica della
comunicazione umana, Astrolabio, Roma 1971.
(2) F. Casetti, F Di
Chio, Analisi del film, Bompiani, Bergamo 2007.
(3) Secondo
Gaudreault, il racconto filmico rientra nel campo della complessità, scaturita
dalla coesistenza all’interno dello stesso medium di due modi di comunicazione
narrativa, la narrazione, tipica del cinema, e la mostrazione, tipica, invece,
del teatro. A. Gaudreault, Dal letterario al filmico. Sistema del
racconto. Lindau, Torino 2000.
(4) G. Montesanto, Didattica
dell’immagine e del linguaggio audiovisivo e processi cognitivi, in
Educare al film, Franco Angeli, Roma
2005.
(5) C. Segre,
Avviamento all’analisi del testo letterario, Einaudi, Torino
1985.
(6) R. M. Lombardo (a cura di), Pedagogia del
cinema, in «Giornale di pedagogia», n. 2, giugno 2004.
(7)
Film italo-francese 140 minuti, 1964. Regia e sceneggiatura: P.P. Pasolini;
Scenografia: Luigi Scaccianoce; Fotografia: Tonino delli Colli; Musica: Luis E.
Bacalov, Mozart, Bach, Prokofiev, Weber; Montaggio: Nino Baragli; Interpreti:
Susanna Pasolini,Ninetto Davoli, Enrique Irazoqui, Margherita Caruso, Marcello
Morante, Francesco Legnetti, Paola Tedesco , Natalia Ginsburg , Alfonso; Gatto,
Rodolfo Wilcock, Enzo Siciliano.
Il film racconta la nascita di Gesù e la
fuga in Egitto, la predicazione in Galilea, l’arrivo a Gerusalemme, i processi,
la morte e la resurrezione: Pasolini non aggiunge nessun episodio e nessun
dialogo che non siano contenuti nel testo sacro ma, contrariamente a quanto
dichiarato da lui stesso (Cfr nota 16) l’ordine del racconto viene talvolta
alterato perché il regista anticipa o posticipa, o dilata, o contrae gli
episodi scelti.
(8) “Seguo l’ordine del racconto tale e quale a S. Matteo”
in Una visione del mondo epico-religiosa, colloquio con Pier Paolo
Pasolini, in “Bianco e Nero”, XXV, 6, giugno 1964.
(9) P.P.Pasolini,
in «Quaderni di Filmcritica», Bulzoni, Roma 1977.
(10) Pier Paolo
Pasolini, Sette poesie e due lettere, a cura di Rienzo Colla, Vicenza,
La Locusta,
1985.
(11) P.P.Pasolini, Confessions Techniques, in
«Jeune Cinéma», nn. 27-28, gennaio/febbraio
1968
(12) AA.VV., Pier Paolo Pasolini nel dibattito
culturale contemporaneo, Amm.ne Provinciale di Pavia – Comune di
Alessandria, 1977.
(13) Una visione del mondo epico-religiosa,
Intervista a P.P. Pasolini, in «Bianco e Nero», n. 6, giugno 1964.
(14) Office Catholique
International du Cinéma.
(15) P.P. Pasolini,
Osservazioni sul piano-sequenza, Garzanti, Milano,
1972.
(16) La definizione è dello stesso Pasolini.
(17) Film
francese, in bianco e nero, 86 minuti, 1948. Regista: Jean- Pierre Melville;
Interpreti: Howard Vernon (Werner Von Ebrennac, ufficiale tedesco), Jean-Marie Robain (lo zio), Nicole Stéphane (la
nipote); Sinossi: Francia, 1941.
Un ufficiale tedesco requisisce la casa dove
vivono un anziano signore e sua nipote, che, dovendo subire una forzata
coabitazione, decidono di manifestare il loro sdegno e la loro resistenza
all’invasore con un silenzio totale. Il loro ospite non è un tedesco come gli
altri: è invece “il migliore dei tedeschi possibile”. E’ un musicista,
sensibile, di grande cultura, che parla un francese perfetto e che crede in una
sorta di unificazione “umanistica” tra Germania e Francia. Ogni sera, con dei
lunghi monologhi, esprime i suoi ideali e la sua passione per la Francia ai suoi ospiti che
gli oppongono un mutismo totale, unico mezzo per mostrare la loro ostilità verso
l’occupazione tedesca. Un giorno l’ufficiale parte per Parigi, che rappresenta
il sogno della sua vita, e torna dopo aver scoperto i veri intenti del sistema
nazista. Tuttavia non si ribella, ma, deciso a morire, chiede di essere mandato
al fronte.
(18) Melville è uno pseudonimo scelto da Jean-Pierre Grumbach
durante la
Resistenza, alla quale prese parte attiva.
(19) Il mare, è
una metafora dello zio e della nipote: imperturbabili in superficie, in realtà
agitati nell’intimo da sentimenti forti e contrastanti, proprio come il mare
nasconde, sotto la superficie, un brulicante mondo vitale.
(20) “Il Silenzio
del mare” è stato girato in 27 giorni, fra l’agosto e il dicembre del 47,con
pochissimi mezzi finanziari, con resti di pellicola, nella casa dove Vercors
aveva scritto il libro. É stato proiettato al pubblico nell’aprile del
1949.
(21) Film italo-franco-portoghese, a colori, 108’, 1997. Regista: Roberto
Faenza; Sceneggiatori; Roberto Faenza, Sandro Petraglia; Interpreti: Bernard
Giraudeau, Laura Betti, Lorenzo Crespi, Philippe Noiret, Roberto Herlitzka,
Emmanuelle Laborit, Eva Greco, Olivia Magnani, Selvaggia Quattrini; Sinossi:
Palermo, 1743.
Marianna Ucria, tredicenne bambina nobile sordo-muta, è
costretta a sposarsi con lo zio materno, il vecchio duca Pietro. Madre di tre
figli, dipinge, legge, scrive, apprende il linguaggio dei segni con l’aiuto di
un giovane precettore francese che le fa anche conoscere le nuove idee
filosofiche che percorrono l’Europa. Si sottrae poco a poco, con forza e
determinazione, alla schiavitù della condizione femminile, acquisendo coscienza
di sé e della sua sessualità, lottando contro le ingiustizie sociali ,
viaggiando. Conquista così la propria libertà, e scopre il segreto che l’ha resa
sordomuta: è stata violentata a soli cinque anni, proprio da quello zio che è
stata poi costretta a sposare.
(22) Non bisogna dimenticare che la
psicoanalisi attribuisce spesso il feticismo al meccanismo di diniego-difesa
che consiste nel rifiuto di riconoscere qualcosa di traumatizzante avvenuto
nella realtà.
(23) Cfr. in: Sostiene Pereira.
(24) Cfr. in:
Jona che visse nella balena.
(25) Questo episodio non c’è nel
libro, ma la storia dello strano rapporto che lega l’animale a Pietro bambino è
narrata in D. Maraini, La lunga vita di Marianna Ucrìa, BUR, Bergamo,
2006, pp. 150-151.
(26) «Se devo essere sincero, Marianna Ucria è
uno dei miei film che mi piace di meno», in R. Marra, V. Bertone, L’Italia
di de Roberto nei fotogrammi di Faenza, in
http://www.step1magazine.it/v2_open_page.php?id=2669.
(27)
Tradotto da G. Flaubert, Lettre à Ernest Duplan du 12 juin 1862,
Correspondance III, Paris, Gallimard 1991.
Fonte: