"Le pagine corsare "
dedicate a Pier Paolo Pasolini
Eretico e Corsaro
Due scheletri nell'immaginario
di Federico De Melis da "il Manifesto" del 25 giugno
1994
"Quelle braccia indemoniate, quelle scure schiene, quel caos di verdi
soldati e cavalli violetti, e quella pura luce che tutto vela di toni di
pulviscolo: ed e' bufera, e' strage". Fu Oreste Del Buono, in un saggio su Piero
della Francesca del 1967, a notare quanto "inappropriata" sia la descrizione che
Pasolini fa, nella Religione del mio tempo, dell'affresco aretino colla
battaglia di Costantino e Massenzio. Dov'e', in quelle parole, il mondo fermo,
bloccato dalla sintesi prospettica del suo bagno di luce sorgiva, di cui aveva
scritto, nella monografia famosa su Piero, del '27, Roberto Longhi? Era stato
Longhi ad aprire gli occhi di Pasolini al mondo delle forme, responsabile, come
questi ricorda nella dedica di Mamma Roma, del sua "fulgurazione figurativa".
Tradendo la visione "formalistica" del maestro, Pasolini sente il bisogno di
inquinare con la passione, che e' movimento, e' vita, la natura "trascendente"
di Piero, l'"arcaica immobilita'" dei suoi affreschi aretini. Vede caos laddove
eterno s'e' imposto l'ordine, bufare e strage invece di soldati e cavalli
cristallizzati nella piramide ottica del pittore borghigiano. Che cosa lo spinge
verso questa deriva? Longhi aveva si' restituito alla storia, opponendosi
all'accademia vasariana gli "eccentrici" del cinquecento, ruotanti attorno alla
fremente pittura emiliana di Amico Aspertini manierista ante litteram, ma mai
privilegiato, se si guardi a fondo, Pontormo e Rosso, seppure gli trovo' in
Italia favolosi compagni spagnoli: Alonso Beruguete, Pedro Machoca.... La
ragione e' forse in una pagina del suo allievo prediletto Francesco Arcangeli,
il quale recensendo nel '46 il libro di Giuliano Briganti sul Manierismo e
Pellegrino Tibaldi s'era premurato, sottilmente, di distinguere tra
Lotto-Gunewald e Pontormo-Rosso, tutti pittori che l'altro aveva omologato
all'insegna di un "sentimento irrequieto, solitario, inappagato". Arcangeli
vedeva si' nello spirito "anticlassico" di Rosso e Pontormo una "geniale
rivolta", ma "interna allo spirito stesso del classicismo" ignorato in piena
liberta', invece da pittori come Grunewald e Lotto. E se di questo si trattava,
meglio allora, per Longhi, il classicismo per antonomasia del giovane Raffaello,
mai amato anch'esso, ma si' profondamente rispettato, e compreso - come ricorda
in un gran saggio Giovanni Romano -, col suo metodo "leopardiano di maneggiar la
forma prefigurata dai tempi", col suo "modo di vivere in calma dominazione di
circostanze". E l'urgenza, l'ossessione di forzare, snaturare, sfregiare un
mondo cosi' misurato e persuaso, coll'incapacita' nevrotica di uscire dal suo
orizzonte, che attrasse, a un dipresso, Pasolini. Nel 1961 Briganti diede alle
stampe la maniera italiana, n libro-epoca che faceva tabula rasa del manierismus
e dei suoi vacui cantori internazionali: vi si assumevano integralmente le
critiche di Arcangeli, cosicche' Pontormo e Rosso contro l'idea spiritualistica
dei tedeschi, i quali continuavano a vedervi all'opera "l'eterno spirito gotico"
sulla traccia del loro Friedlander, ci erano restituiti come gli eroi
dell'impotenza, cacciati indietro dal Moloch del classicismo, incapaci di nuove
mete: del tutto interni alla vicenda italiana, per quanto sensibili, in
determinate fasi, agli influssi dureniani e anche danubiani. E' nella pagine di
Briganti, e nelle bellissime tavole che le illustravano in un volume degli
Editori Riuniti esemplare per l'editoria italiana, che Pasolini "scopri'" i due
manieristi fiorentini, riconosciuti subito come suoi fratelli. E' li' che si
imbatte' in quella definizione famosa "una disperata vitalita'", che Briganti
aveva preso a prestito da Longhi, e sarebbe diventata il titolo di uno dei
poemetti della sua raccolta "manierista" dei primi anni sessanta Poesia in forma
di rosa. Una disperata vitalita': nulla di piu' moderno che questo, negli anni
in cui l'Italia contadina era messa a morte. Pasolini sapeva bene, infatti, che
tra i carnefici c'era pure lui. Cosi' come non si potranno considerare esenti da
colpe, per l'instaurarsi dell'omologante dittatura manierista, sotto il segno di
Carlo V, gli "indemoniati" che a Santa Felicita, alla Certosa del Galluzzo, a
San Lorenzo, a San Francesco a Volterra s'erano illusi, giocando al massacro, di
far pittura d'opposizione, per poi finire preda dei propri deliri sulle
muscolature michelangiolesche, come Pontormo o, come Rosso Fiorentino,
cortigiani del nuovo stile internazionale a Fointanebleau, dopo estetico
girovagare: destini tuttavia cosi' diversi da consigliare vivamente, ai giovani
d'oggi, di lavorare a ricavarne due specifiche costellazioni formali, contro
l'idea novecentista della "coppia diabolica", sviluppando magari di piu', sul
versante Pontormo, il motivo naturalistico che dalla Cena in Emmaus degli
Uffizi, come un fiume carsico, percorrera' l'intero cinquecento fiorentino, per
sboccare in fine secolo nella pittura dei riformatori a cui guardera',
sull'altra sponda del Mediterraneo, il Velazquez. La "diperata vitalita'" che lo
aveva spinto a contraffare la battaglia aretina di Piero, e da cui sortiva,
Poesia in forma in rosa, quel grido iconoclasta contro Giotto, sui cui
"memorabili affreschi" immaginava di spendere mani di calce, Pasolini la trovo'
tradotta in figura nel "cinquecento nero" di Pontormo e di Rosso. Che gli veniva
incontro da fantasma, o scheletro, della modernita', portata sulle spalle come
una croce. Era una messinscena, e Pasolini lo sapeva, come quella che organizzo'
sul set del film sulla passione introno a cui, nella Ricotta, si svolge la
passione "vera" di Stracci. "Cristo nel nostro tempo". E c'era si' blasfemia nei
tableaux vivants intrisi di puro colore con cui citava le deposizioni di
Pontormo e di Rosso. Lacerato dal suo status, che lo costringeva a dibattersi
tra passione e ideologia, Pasolini non poteva essere dalla parte di Stracci.
Sapeva d'essere, come regista, tra la gente "bene" invitata ad assistere, dopo
lo spuntino apparecchiato sotto i piedi di Cristo, al ciak finale sulla
crocefissione. Certo, era Stracci, con la faccia camusa che "Giotto vide tra
ruderi castrensi" e i "fianchi rotondi" impestati e chiaro-scurati da Masaccio,
il suo eroe antimoderno, ma il Regista, Orson Welles, che da antiche convinzioni
marxiste s'era perso nel cinismo e nell'estetismo, la sua condanna sociale.
Cosi', per quanto giurasse sulla grande pittura trecentesca, o sugli anonimi
affreschi scrostati delle pievi appeniniche, la sua fantasia formale
s'infiammava alla lascivia anatomica e cromatica di Pontormo, all'immaginazione
maligna e sarcastica, del Rosso: "miscredenti" che alla prova della
"riproducibilita'" si sarebbero dimostrati ben labili, e consumati, contro la
storia, nella grande masturbazione novecentesca che ne segui'. Dalla quale,
certo, fa parte anche Petrolio, dove Pontormo, piu' che Rosso, fa i suoi numeri,
non visto: liberandosi d'ogni riserva decandente, d'ogni remora "classicista",
per approdare, qui si', ad altre rive, di cui nulla si conosce. La blasfemia
della Ricotta Pasolini s'illuse d'espiarla tornando al Piero aretino, che nelle
citazione del Vangelo, il film voluto in piena frontalita', restitui'
fedelmente, in immagini fermate nel fluire dei fotogrammi. Ma era pur sempre il
polo di una dialettica bloccata, la testimonianza appassionata di una tradizione
divenuta ossessione.
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Curatore, Bruno Esposito
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