Ma è poi vero che si deve a tutti i costi somigliare agli
altri, che si deve diventare normali, cioè come gli altri e non diversi? Qui sussistono troppe confuse
categorie, mi sembra. La mise en
prose delle quali, rischia en
effet di apparentarsi, anche se in modo assai goliardico, ad una mise en abîme. Dell'imbecillità, del
resto, aveva scritto Flaubert, ancor prima di Pasolini. E qui casca l'asino,
cioè il bue, dentro cui l'asino si trova. Se è vero, infatti, che l'esperienza
che ci troviamo a vivere è quella del silenzio, che è ciò che sostiene Vittorio
Foa ne Il silenzio dei comunisti, è
vero anche, a riprova del fatto, che il clangore assordante del mercato non
suona per tutti allo stesso modo; ma a quale mercato ci riferiamo, quando
parliamo, o scriviamo, di mercato?
Dunque, ognuno per la propria strada, o per il suo rivolo, anche se - ed è questo il grottesco -
non ci sono più rivoli, né strade praticabili, umanamente e animalescamente parlando. Ma solo
autostrade virtuali, splendidi
rifacimenti di giacimenti petroliferi, offshore e oltremodo smerdicchianti. Ma
vi rendete conto, scrive - o forse dice
soltanto - Foa "che egli
ha capito per primo che si doveva diventare normali, si doveva essere come
gli altri e non diversi?". O più sopra: "Vi sono momenti in cui si avverte che
la storia sta cambiando (…) e allora avvertiamo che le parole usate normalmente sono prive di senso. E arriva il
silenzio". E più avanti: "Come mai si imputa la fine del compromesso storico
alla morte di Moro?". Altra nobile domanda. Ognuno per la propria strada, si
diceva - o forse scriveva - là dove
sono le radici di ognuno, a scandire
come pietre miliari, il secolo breve.
Così, anche Pasolini era disperatamente legato alle proprie. Perché è da quel
momento, cioè da sempre, che il tempo ha cessato di svilupparsi secondo una
linea progressiva. Già Nietzsche lo ricordava, riconducendosi al dionisiaco
delle origini, alla storia come eterno circolo, eterno ritorno del rimosso, ricordando
in ciò anche un Vico. Anche il comunismo, agli albori del secolo scorso, ha
percorso l'utopia della fine della storia, in modo consapevole e tragico: "Se il
mito però, contrariamente all'idea di Barthes, ha a che fare con la creazione e
la trasformazione del mondo, allora saranno mitologiche innanzitutto
l'avanguardia e la politica di sinistra, che assegando all'artista, al
proletariato, al partito, al leader politico il ruolo del demiurgo, li
inseriscono naturalmente nella mitologia universale". Per il marxismo "il fatto di venire
inserito nell'unico racconto mitologico della creazione del mondo degli oggetti
per mezzo dell'attività lavorativa permette all'uomo di uscire dai limiti dei
suoi condizionamenti terreni e di mutare se stesso, diventare 'uomo nuovo',
cambiando le condizioni della sua esistenza". Questa mancanza di memoria, non solo
storica, fa sì che ricerchiamo nel
mito ciò che non ritroviamo più nella storia.
Nel saggio commemorativo del '78, Pasolini maestro e amico,
Paolo Volponi, nel tentativo di trascinarlo fuori dal mito e ricondurlo
nei più civili e articolati percorsi
poetico-letterari, formula "un alto giudizio di valore sull'eredità poetica,
culturale e politica pasoliniana, fondato su rilievi originali: la
triangolazione Leopardi-Gramsci-Pasolini, l'interpretazione psicanalitica di
Musatti, l'incontro-scontro con la neo-avanguardia, il profetico giudizio sul
'68". In apertura, l'enunciato, o
dichiarazione tematica, per cui Pasolini sarebbe stato "un grande poeta civile;
un intellettuale che nella sua poesia ha affrontato i temi della nostra società
e che ha capito, come poeta, come il nostro popolo fosse estraneo ad ogni
possibilità reale di partecipare e di scegliere, come fosse costretto -nei suoi
dialetti, nelle sue piazze, nei suoi gruppi- a vivere una vita per certi aspetti
ricca di rapporti, ma alla fine deprivata della cittadinanza, della possibilità
di decidere". O incivile, direi piuttosto, nel senso
oggi più rimarchevole d'un'arte che quando fa politica "è come se uscisse da se
stessa. E del resto, quando lo fa, vuol dire che proprio non ne può più, vuol
dire che è già fuori di sé", o in quello indicato da Pasolini
stesso: "Sono infiniti i dialetti, i gerghi,
/ le pronunce, perché è infinita / la forma della vita", nel suo congedarsi da
quel "poemetto in terzine a rime incatenate (di matrice pascoliana)" come
emblema d'una scrittura in cui "s'incarna al massimo grado quella perenne
tensione fra norma e libertà, ordine e disordine, mimesi e invenzione", che S. Agosti titola,
significativamente, La parola fuori di
sè, o che Brevini associa all'autore dei
Poemetti, delle Myricae e dei Canti di Castelvecchio, come componente antagonistica che il
dialetto conserverebbe nei confronti della lingua. Perciò, scrive Volponi "Ecco che
Pasolini, capite queste cose, fin da giovanissimo fa una scelta e si iscrive al
Pci. Era nella sua piccola Casarsa, il paese friulano della madre, che lui ha
amato e sentito profondamente. Lì aveva organizzato una piccola accademia
dialettale di poeti, contadini, artigiani, studenti, avviato delle ricerche sui
costumi, sulla lingua, sulle tradizioni, sulla miseria di quella gente,
all'interno della stessa comunità, cioè con il contributo vivo di tutti". Ma il
bello deve ancora venire. Già in
quella "storica" raccolta di documenti intitolata Pasolini: cronaca giudiziaria, persecuzione,
morte, apparsa nel novembre del '77 viene riportata l'intervista ad Aldo
Semerari, in cui lo psichiatra dichiarava che
Pasolini poteva essere salvato da se stesso, se solo avesse accettato di curarsi
per quella che, in termini tecnici, è stata definita una "psicopatia
dell'istinto", ma che in volgare
suona come "omosessualità". Dunque una "devianza", una diversità. Lo stesso Volponi annota:
"Era amato da tutto il paese, considerato veramente un piccolo profeta. Ma
improvvisamente è esploso quello che poi è stato il dramma della sua vita.
Allora tutto il paese, che lo aveva amato moltissimo, insorse sconvolto e
furente contro di lui". Sempre Volponi, citando Musatti:
"…in lui (come in molti altri) l'omosessualità non era né costituzione né vizio,
né men che mai mancanza di coscienza morale. Anzi, era l'effetto di una
impostazione ipermoralistica. In base alla quale, il giuoco dell'amore poteva
esser fatto solo fra ragazzi (e Pasolini si sentiva ancora ragazzo adesso).
Anche il ceto in cui ricercava i suoi compagni doveva essere non maturato, quale
appunto è (o era nelle sue nostalgie) il mondo delle borgate. Non per esercitare
il potere dell'uomo colto e munito di denaro sui poveri e gli sprovveduti, ma
nel desiderio di essere con loro in condizioni di parità, senza far valere né
cultura né denaro, ma soltanto una forma di affettuosità quasi materna (…)
Pasolini avrebbe dovuto temere i giovani borgatari incattiviti (…) ma quando
partiva la sera, alla ricerca dei suoi incontri, quella stessa istanza
pseudomorale che gli impediva il contatto fisico con la donna, lo induceva a
rinunciare ad ogni cautela per la propria incolumità". Ma qui si confonde l'arte con la
vita, la poesia con la sessualità, la psicanalisi col mondo arcaico, diranno i critici. Ed ecco allora l'incontro con
l'ideologia, che fa da correttivo, tentando di tamponare la ferita. Scrivere
vuol dire, allora, mantenere acceso il conflitto, aumentare il senso di colpa
verso la natura. E se questa scrittura si allarga colludendo in molteplici
registri, in una moltitudine di linguaggi, corrompendosi in nuovi schemi, in
materiali sempre distanti e diversi,
in un meticciato senza più scampo, diventa allora impossibile invocare coperture
"borghesi": l'uguaglianza, la solidarietà non paternalistica, un senso più
profondo della vita come miscidazione, come voglia di fraternizzare coi più
deboli, cogli emarginati, tutto ciò ed altro ancora pone allo scoperto la
ferita, impedendone in modo allarmante la rimarginazione. Il lavoro diviene
frenetico, fuoriesce dai margini dell'organismo sociale, non sta più nei limiti, invade l'orizzonte del politico, si fa portatore d'istanze che
lo pervadono di sempre nuovi orizzonti e, per di più, come conciliarlo con una
costante opera di desublimazione notturna? Qui l'ideologia, come rimedio al
disordine della vita, viene messa a dura prova. "La morte non è ordine, superbi
/ monopolisti della morte, / il suo silenzio è una lingua troppo diversa /
perché voi possiate farvene forti". La mediazione razionale diviene
impalpabile: solo un' intelligenza critica, veloce e agguerrita, spesso
contraddittoria. Un' intellettualità diffusa, acuta e a tratti dolente, contro
il nulla della sintesi tra opposti.
La ragione, come luogo della pacificazione dei contrasti, diviene impraticabile.
Scoppia il mito. In una citazione forse un po' troppo agiografica, del curatore dell'edizione delle
opere complete di Pier Paolo Pasolini, il mito viene riportato alla
definizione che ne dà Roland Barthes in Mythologies. Barthes inizia la propria analisi
con una asserzione che dovrebbe rispondere alla domanda Che cos'è un mito, oggi? La risposta è
del tipo etimologico: Il mito è una
parola. Non un concetto, terminologia secondo Antonio Negri troppo abusata
da troppe lunghe guerre e da troppe diverse tradizioni interpretative. Ma neanche un oggetto, un'idea;
bensì un modo di significare, una forma; può essere mito tutto ciò che
subisce le leggi di un discorso. Dal modo, dunque, in cui il messaggio viene
profferto, dacchè "Ogni oggetto del mondo può passare da un'esistenza chiusa,
muta, a uno stato orale, aperto all'approvazione (o disapprovazione) della società", secondo un valore d'uso sociale che si aggiunge
alla pura materia. Il mito, cioè, non è un qualcosa di naturale, non può sorgere
dalla natura delle cose. In quanto al
concetto, "il sapere contenuto nel concetto mitico è un sapere confuso, formato
da associazioni incerte, indefinite". Il mito, secondo Barthes, risponde
ad una concettualità aperta e funzionale, ad una tendenza in cui confluiscono molteplici
significanti, in un insieme dove a dominare è la sproporzione tra il
significante ed il significato che lo trascende. La sua funzione è di
deformarne il senso, alienandolo in un metalinguaggio immaginante, in un alibi perpetuo che scarica su ogni soggetto la sua
provocazione a nominarlo, un invito imperioso, personale: "viene a cercarmi per
obbligarmi a riconoscere l'insieme di intenzioni che lo hanno motivato, messo lì
come segnale di una storia individule, come una confidenza e una complicità (…)
sembra sia stato creato sul momento, per
me, come un oggetto magico sorto nel mio presente senza alcuna traccia della
storia che lo ha prodotto (…) Perché questa parola interpellativa è,
contemporaneamente una parola congelata: al momento di raggiungermi, si ferma,
gira su se stessa e ricupera una
generalità: s'irrigidisce, si discolpa, è innocente (…) alla superficie del
linguaggio qualcosa non si muove più (…) Perché il mito è una parola rubata e restituita. Solo che la parola
riportataci non è più interamente quella sottratta: nel riportarla, non la si è
esattamente rimessa al suo posto. Questo rapido furto, questo breve momento di una falsificazione costituisce l'aspetto
congelato della parola mitica (…) mai completamente arbitraria (…) sempre in
parte motivata" contenente "fatalmente una parte di analogia (…)"
giocata "sull'analogia del senso e della forma". Principio stesso del mito sarebbe
quello di trasformare la storia in natura "corrompendo tutto, fino al movimento
stesso che gli si rifiuta". Ma, a ben vedere, tutto il discorso
e la conseguente analisi a cui Barthes sottopone il mito, nasce da un sotteso
punto di vista teorico, oggi tendente allo sgretolamento, che è rappresentato
dall' ideologia come metalinguaggio. "Ma il mito, di fatto, se proprio ha
rapporto con la teoria, lo ha solo in quanto narra della sua creazione e dunque
la legittima; e soprattutto nel nostro tempo, quando descrivere il mondo in modo
nuovo equivale praticamente a crearlo, si iscrive a sua volta nella mitologia
tradizionale". Un cane che si morde la coda,
dunque. Alla colonizzazione del
linguaggio operata dal mito, alla sua stessa prostituzione, per cui, seguendo di pari
passo l'angolazione critica della parafrasi barthesiana, ben si potrebbe
titolare il presente pezzo "Pasolini,
un linguaggio che si prostituisce al mito", manca quella che un tempo veniva
chiamata la ragione di fondo. In tal senso, alla dimostrazione barthesiana forse
non sempre si affianca un'analisi del soggetto, rappresentato, in questo caso,
dal mondo esterno dell'editoria, dei
media e dello spettacolo, in altre parole da ciò che produce il mito, che lo trasforma in un
valore commerciale, imponendo al tempo stesso un modo di produzione che, a sua volta condiziona
la fruizione del mito e dunque crea consenso: il mercato. Chi ci guadagna è
l'industria del libro e dello spettacolo nel suo insieme, in altre parole
l'attività autocelebrativa del soggetto e, insieme, l'altra pur sempre
autocelebrativa, dell' esistente. Quella di Pasolini sarebbe, dunque, la
parabola tragicomica e autopunitiva d'un poeta, d'un intellettuale, d'uno
scrittore di teatro e d'un cineasta alla ricerca spasmodica del successo. Ma
allora perché, ancora oggi, se ne continua a parlare? Cos' è che rimane
incompiuto e irrisolto in questa vicenda? Scrive infatti Volponi: "Pasolini ha
avuto un decennio di tranquillità e anche di felicità negli anni di maggior
successo: era ambizioso in modo un poco infantile: gli piaceva molto di essere
riconosciuto per la strada, essere salutato dalla gente, avere numerosissimi
lettori, ricevere lettere di complimento. Gli piaceva molto il successo. E
questo ha finito in qualche modo per limitarne le possibilità, specialmente in
campo letterario. Allora in quegli anni, i suoi libri ottenevano un grosso
successo: Ragazzi di vita è uno dei
primi libri italiani che si è venduto a decine di migliaia di copie in pochi
mesi, suscitando discussioni e ottenendo traduzioni in tutto il mondo. E' forse
il primo libro che ha rotto la tradizionale composizione sociologica dei lettori
del nostro Paese, per arrivare davvero a tutti". Non era ancora la tiratura di un
best-seller quale sarà quella degli anni sessanta-settanta e ancor meno di oggi,
ma considerando che alla fine degli anni cinquanta l'Italia vive il difficile
trapasso da civiltà contadina a civiltà industriale, conservando vecchi retaggi
della prima, non conoscendo pienamente le trasformazioni della seconda, la
figura di Pasolini, contraddittoria e polemica nel porsi al tempo stesso come
personaggio e antipersonaggio, "provocatoria e antistituzionale, libera da
pregiudizi sessuali e da opportunismi politici" nel suo esporsi in prima persona come
interlocutore dell'Italia del suo tempo, odiato sia da fascisti che da
democristiani, faceva notizia. Basta rileggere la Sentenza del tribunale di Milano pronunciata
il 4 luglio 1956 nella causa penale contro "Ragazzi di vita", così come viene riportata da Walter
Siti in Il romanzo sotto accusa - posta a seguito di quella del 1933
con cui il giudice distrettuale degli Stati Uniti John M. Woolsey consente all' “Ulisse”di Joyce di entrare
negli Stati Uniti - nella quale viene sottolineato l'impegno dello stesso
imputato Pasolini "di giustificare la sua opera sul piano morale, di porne in
luce il significato artistico, letterario, di palesarne, per così dire, la
chiave ed il motivo conduttore", senza contare le successive querele
per aggressione (1961), per diffamazione (1962), per oscenità a proposito di mamma Roma (1963), per vilipendio alla religione ecc., a
mettere in moto la nuova macchina da guerra della critica antipasoliniana più
sofisticata, quella dell’Extratesto.
Ed è sull'analisi di ciò che Barthes definirebbe forse con il termine astratto
di pasolinità, cioè sul suo
mitologizzarsi, che si sofferma nel suo intervento sul n.6 del 2005 di
Micromega, dedicato alla scrittura e l'impegno, ancora Siti che applica la semiologia barthesiana
all'immagine di Pasolini, prendendone come "significante" l'intera opera, "ma
anche le fotografie che lo ritraggono, o gli spezzoni di video in cui compare",
e come "significato" quello di uno degli intellettuali "più intelligenti e
coraggiosi della seconda metà del Novecento in Italia, le tesi che ha sostenuto,
la bellezza che è riuscito a creare, ma anche un uomo nevrotico e
contraddittorio, e un artista che ha spesso sprecato il suo talento in testi
ridondanti e non esenti dal kitsch". Insieme, significante e significato
diverrebbero una coppia per il significante del mito Pasolini, senza che per far
ciò si debba necessariamente attraversarne l'opera. In esso s'individuano alcune
componenti : a) la poesia assassinata dalla società; b) esistono i profeti, che
intuiscono e vedono per noi; c) il coraggio delle proprie idee, fino alla morte;
d) basta la passione per capire; e) l'omosessualità esemplare. Per concludere,
dopo aver constatato come il mito Pasolini sia "politicamente, un mito
trasversale", con il dubbio circa la legittimità d'un'operazione che tenda a
scindere l'opera dal mito.
È il mito della poeticità contrapposto al
lavoro poetico, alla produzione come alla fruizione d'una poesia che, come ogni
altro lavoro, alterna fasi di entusiastica adesione a tempi di noia mortali, che
spinge l'intervento dell'esegeta pasoliniano alla radicalità d'una esclamazione
che ha il sapore d'una provocazione estetica. Nel commentare la poesia
assassinata dalla società si afferma: "Pasolini ha disseminato la poesia anche
fuori dei suoi versi, aveva il ‘fisico’ del Poeta. Non importa quello che ha scritto.
Pasolini ci regala la soddisfazione di amare la poesia senza la noia di
leggerla". È evidente qui uno iato profondo,
tra il mondo del lavoro (ma non
soffre anche il Lavoro d'una sua originaria mitologia?) e una nebulosa quanto
violenta colonizzazione del
linguaggio, operata attraverso l'insinuazione d'una forma parassitaria - il mito
- che inevitabilmente, quanto cruentemente, lo adopera e lo stravolge. Mentre
nel concludere sul Che fare?,
coniugando esibizionismo e santità, lo si accosta ad Artaud, Karol Wojtyla e
Marilyn. Insomma, qui si pone il rapporto tra
ciò che uno scrittore scrive e la sua maggiore o minore capacità di divulgazione
con altri mezzi della propria scrittura. Forse basta meno, o ci vuole di più? È
un problema di dosaggio e di autoironia, credo, ma la società dello spettacolo
ci abitua oggi a ben altro. Paradossalmente, l'opera di Pasolini, soprattutto
quella scritta, è la più nascosta, rispetto alla visibilità del personaggio che
se ne fa d'altro canto veicolo. Ma
forse questo - c'è da dire purtroppo?
- non riguarda solo Pasolini: si legge poco e si mitizza molto: si vive troppo
d'immagini, di mitologia e di rituali collettivi. Ma perché "troppo"? O forse
"troppo poco"? Viene in mente, ad esempio, un altro esibizionista delle lettere,
di cui si lamenta la poca frequentazione delle opere e che pagò con il carcere i
suoi scandali, un certo Oscar Wilde, dacché non ogni artista, ma ogni
parola è a rischio di mito, dal momento che la forma mitica
dell'immaginario umano è il modo più economico di raggiungere quei saperi che
altrimenti rimarrebbero sepolti per sempre nel tempo. Il simbolo è la maniera
più facile per accostarsi ad un sapere che altrimenti permarrebbe occulto. E di
questo Pasolini era cosciente. Il progresso dei media non ha fatto altro che
aggiungere tecnologia ad un'operazione dell'intelletto umano, già presente e
operativa ancor prima del lungo lavoro di simbolizzazione dei linguaggi. Solo
che in tempi recenti si è giunti ad una fase di maggior consapevolezza ed allora
è iniziato nella modernità il pensiero critico volto alla demistificazione della
società e della cultura. Come il suicidio di Catone, la morte annunciata di Pasolini è un atto
simbolico. Innanzi tutto l'espressione d'un grande carattere che, al pari di
Catone rappresenta l'ultima protesta contro un nuovo ordine di cose. La
successiva elaborazione del lutto, fa parte del vuoto che i simboli, più sono
forti, lasciano nel vissuto collettivo. Pasolini ha lasciato un gran vuoto,
perché? "In realtà Pasolini non ha previsto praticamente niente del futuro
italiano e mondiale" continua Siti, e "là dove ha azzardato delle profezie (…)
le ha generalmente sbagliate, com'è giusto e umano. Lui, certo, ha visto con
straordinaria precocità cose che stavano già accadendo, e le ha viste con quella
chiarezza e quella prontezza perché per lui non erano solo dati sociologici,
erano questioni di vita o di morte. Ma il mito di massa preferisce pensare che
in lui fosse all'opera, invece che un'ossessione dolorosa, una misteriosa
capacità di veggente (forse da relazionare, ancora una volta, con la Poesia
Mitica). Se ci sono i Profeti, noi possiamo smettere di sforzarci".
Ma forse Pasolini aveva anche più di una
ragione. La sua insofferenza, la sua critica, la sua lingua minore e, in ultimo, la sua disperata vitalità erano povere armi barbariche aizzate contro il Potere, contro la nascente americanizzazione
dello stile di vita, e non solo di quello. Ma c'era in lui anche un senso
diverso della storia, del tempo che non traccia una linea progressiva
coincidente con lo sviluppo reale
dell'animale-uomo, c'era un senso panico della corruzione che lo faceva
somigliare a un povero cristo
crocifisso lungo la via del progresso: in questo senso vanno letti i suoi
interventi polemici e provocatori contro l'aborto, contro l'omologazione, contro
le neo-avanguardie e, da ultimo, contri i capelloni e gli studenti contestatori.
Si ha in lui uno spaccato della vita del suo tempo, della religione del suo tempo, ma non solo:
c'è anche qualcosa che lo travalica, che lo trascende, che lo fa pervenire a
tratti ad una visione, forse ad una illuminazione di tipo antropologico e
atemporale, di cui restano emblematici, al fine di trovare quel suo personale
inferno, alcuni passaggi del romanzo incompiuto La Mortaccia, dove la morte, per essere
allontanata, viene rincorsa ancora una volta: "Arrivarono davanti a una porta,
piccola, in tutta quella parete, gialla e nuda, dove stava scritto: ‘Carcere
Penitenziario’. Teresa si fermò, leggendo e rileggendo quelle parole: e subito
le prese il mammatrone, tanto che cominciò a tremare tutta, a non tenersi più,
finchè le vennero le convulsioni, e si buttò per terra, strappandosi le vesti,
piangendo, come una ragazzina, perché sentiva come nel cuore che, da quella
prigione, non sarebbe risortita mai più".
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