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Biografia, lavori in corso - a breve anche il 1974 e il 1975

giovedì 7 gennaio 2021

Pier Paolo Pasolini - Fuori dal Palazzo

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro



@Lettere Luterane



Fuori dal Palazzo


Il lettore mi perdoni se parto «giornalisticamente» da una situazione esistenziale. Mi sarebbe difficile farne a meno. 
Sono in uno stabilimento di Ostia, tra il turno di lavoro del mattino e quello del pomeriggio. Intorno a me c'è la folla dei bagnanti in un silenzio simile al frastuono e viceversa. Infuria la balneazione. 
Quanto a me - occupato a rigenerarmi dal buio insano del laboratorio di doppiaggio – ho in mano «L'Espresso». L'ho letto quasi tutto, come fosse un libro. 
Guardo la folla e mi chiedo: 
«Dov'è questa rivoluzione antropologica di cui tanto scrivo per gente tanto consumata nell'arte di ignorare?» 
E mi rispondo: 
«Eccola». 
Infatti la folla intorno a me, anziché essere la folla plebea e dialettale di dieci anni fa, assolutamente popolare, è una folla infimo-borghese, che sa di esserlo, che vuole esserlo. 
Dieci anni fa amavo questa folla; oggi essa mi disgusta. 
E mi disgustano soprattutto i giovani (con un dolore e una partecipazione che finiscono poi col vanificare il disgusto): 
questi giovani imbecilli e presuntuosi, convinti di essere sazi di tutto ciò che la nuova società offre loro: anzi, di essere, di ciò, esempi quasi venerabili. 
E io sono qui, solo, inerme, gettato in mezzo a questa folla, irreparabilmente mescolato ad essa, alla sua vita che mostra tutta la sua «qualità» come in un laboratorio. Niente mi ripara, niente mi difende. Io stesso ho scelto questa situazione esistenziale tanti anni fa, nell'epoca precedente a questa, ed ora mi ci trovo per inerzia: perché le passioni sono senza soluzioni e senza alternative. D'altra parte dove fisicamente vivere? 
Ho «L'Espresso» in mano, come dicevo. Lo guardo, e ne ricevo un'impressione sintetica: 
«Come è diversa da me questa gente che scrive delle stesse cose che interessano a me. Ma dov'è, dove vive?» 
Ë un'idea inaspettata, una folgorazione, che mi mette davanti le parole anticipatrici e, credo, chiare: 
«Essa vive nel Palazzo». 
Non c'è pagina, riga, parola in tutto «L'Espresso» (ma probabilmente anche in tutto «Panorama», in tutto «Il Mondo», in tutti i quotidiani e settimanali dove non ci siano pagine dedicate alla cronaca) che non riguardi solo e esclusivamente ciò che avviene «dentro il Palazzo». 
Solo ciò che avviene «dentro il Palazzo» pare degno di attenzione e interesse: tutto il resto è minutaglia, brulichio, informità, seconda qualità... 
E naturalmente, di quanto accade «dentro il Palazzo», ciò che veramente importa è la vita dei più potenti, di coloro che stanno ai vertici. Essere «seri» significa, pare, occuparsi di loro. Dei loro intrighi, delle loro alleanze, delle loro congiure, delle loro fortune; e, infine, anche, del loro modo di interpretare la realtà che sta «fuori dal Palazzo»: questa seccante realtà da cui infine tutto dipende, anche se è così poco elegante e, appunto, cosi poco «serio» occuparsene. 
Negli ultimi due o tre anni questa concentrazione degli interessi sui vertici e sui personaggi al vertice è diventata esclusiva, fino all'ossessione. Non era mai successo in questa misura. 
Gli intellettuali italiani sono sempre stati cortigiani; sono sempre vissuti «dentro il Palazzo». 
Ma sono stati anche populisti, neorealisti e addirittura rivoluzionari estremisti: cosa che aveva creato in essi l'obbligo di occuparsi della «gente». Ora, se della «gente» si occupano, ciò avviene sempre attraverso le statistiche di «Doxa» o «Pragma» (se ricordo bene i nomi). Per esempio: è indecoroso occuparsi di casalinghe, nominare le quali può al massimo mettere in un'ottima disposizione di spirito: le casalinghe, a quanto pare, non possono essere che dei personaggi comici. E infatti sull'« Espresso» ci si occupa delle casalinghe – questi animali enigmatici, lontani, perduti nelle profondità della vita quotidiana - perché una statistica di «Doxa» o di «Pragma» ha appurato che il loro voto è stato notevolmente importante per la vittoria comunista alle ultime elezioni. Cosa che ha fatto tremare il Palazzo, causando terremoti nelle gerarchie del potere. Le casalinghe vivono nella cronaca, Fanfani o Zaccagnini nella storia. Ma tra le prime e i secondi si apre un vuoto immenso, una «diacronia» che è probabilmente l'anticipazione dell'Apocalisse. 
A cosa si deve questo vuoto, questa diacronia? 
Perché la cronaca che è stata sempre così importante dal 1945 in poi, è ora chiusa in un reparto stagno, relegata in un ghetto mentale? 
Analizzata, sfruttata, manipolata, è vero, in tutti i modi possibili suggeriti dalle norme del consumo, ma non collegata con la «storia seria», non resa, cioè, significativa? 
Perché rapine, rapimenti, criminalità minorili, effettivi coprifuochi, furti, esecuzioni capitali, omicidi gratuiti, sono in concreto «esclusi» dalla logica e comunque mai concatenati? 
Due ragazzi di diciassette anni a Ladispoli (luogo di villeggiatura della malavita) hanno ferito mortalmente a rivoltellate un loro coetaneo perché non gli aveva dato le candele della sua motocicletta che servivano alla loro: e il «Paese Sera» intitola il pezzo su questo fatto di cronaca 
Assurdo a Ladispoli. 
Assurdo forse nel '65. Oggi è la normalità. Quel pezzo doveva essere intitolato
Normale a Ladispoli. 
Perché questo anacronismo nel «Paese Sera»? 
Non lo sanno i giornalisti di «Paese Sera» che l'eccezione è trovare nelle borgate romane un diciassettenne senza rivoltella? 
Perché nessun giornale ha parlato di una sparatoria con mitra, a causa di una «Porsche» rubata, avvenuta due o tre sere fa a Tormarancio? 
Perché nessun giornale ha parlato dei colpi di rivoltella sparati alle gambe di un «giovanotto che fa il culturismo» da un ragazzo di quindici anni che gli ha gridato: «La prossima volta ti sparo in bocca»? 
Voglio dire: perché la stampa rimuove e fa passare sotto silenzio migliaia di reati come questi (i furti e gli scippi non si contano) che avvengono ogni notte nelle grandi città, trascegliendo fra tali reati solo quelli di cui non si può decentemente tacere? 
E per di più, sdrammatizzandoli, imponendo all'opinione pubblica un adattamento? 
Ma non voglio rincarare la dose, e passare per un uomo d'ordine. Sia ben chiaro che la «malavita» mi interessa solo in quanto i suoi rappresentanti sono umanamente mutati rispetto a quelli di dieci anni fa. E ciò non è un episodio. Fa parte di un tutto unico: 
di una rivoluzione antropologica unica, che comprende anche la mutazione delle casalinghe... 
La domanda reale è: perché questa diacronia tra la cronaca e l'universo mentale di chi si occupa di problemi politici e sociali? 
E perché, all'interno della cronaca, questa «divisione dei fenomeni»? 
Ciò che avviene «fuori dal Palazzo» è qualitativamente, cioè storicamente, diverso da ciò che avviene «dentro il Palazzo»: è infinitamente più nuovo, spaventosamente più avanzato. Ecco perché i potenti che si muovono «dentro il Palazzo», e anche coloro che li descrivono – stando anch'essi, logicamente, «dentro il Palazzo» per poterlo fare – si muovono come atroci, ridicoli, pupazzeschi idoli mortuari. In quanto potenti essi sono già morti, perché ciò che «faceva» la loro potenza – ossia un certo modo di essere del popolo italiano - non c'è più: il loro vivere è dunque un sussultare burattinesco. 
Uscendo «fuori dal Palazzo» si ricade in un nuovo «dentro»: cioè dentro il penitenziario del consumismo. E i personaggi principali di questo penitenziario sono i giovani. 
Strano a dirsi: è vero che i potenti sono stati lasciati indietro dalla realtà con addosso, come una ridicola maschera, il loro potere clerico-fascista, ma anche gli uomini all'opposizione sono stati lasciati indietro dalla realtà con addosso, come una ridicola maschera, il loro progressismo e la loro tolleranza. 
Una nuova forma di potere economico (cioè la nuova, reale anima - se Moro permette - della democrazia cristiana, che non è più un partito clericale perché la Chiesa non c'è più) ha realizzato attraverso lo sviluppo una fittizia forma di progresso e tolleranza. I giovani che sono nati e si sono formati in questo periodo di falso progressismo e falsa tolleranza, stanno pagando questa falsità (il cinismo del nuovo potere che ha tutto distrutto) nel modo più atroce. Eccoli qui, intorno a me, con un'ironia imbecille negli occhi, un'aria stupidamente sazia, un teppismo offensivo e afasico – quando non un dolore e un'apprensività quasi da educande, con cui vivono la reale intolleranza di questi anni di tolleranza... 
Nello stesso numero dell'«Espresso» che dicevo, Moravia recensisce un film che parla di un padre perbene che ha un figlio contestatore, assassino ecc, e conclude – in assoluta coerenza con tutto se stesso – che a un simile padre, in un simile frangente, non resta altro che «cercar di capire il figlio»: non fare tragedie, non ammazzarlo, non ammazzarsi, ma cercar di capirlo. E dopo che l'ha capito?, mi chiedo io, dopo che ha compiuto questo magnifico atto di liberismo morale? Certo, il capire di cui parla Moravia è un capire razionale, cioè occidentale, e comporta dunque la necessità di un susseguente agire. Ammettiamo che questo padre - dopo essersi messo nello stato d'animo di un entomologo che studia il suo insetto – riesca alla fine a capire il figlio, e trovi che egli è un imbecille, un presuntuoso, un incerto, un aggressivo, un vanitoso, un criminaloide, – oppure anche un sensibile disperato – cosa dovrebbe fare? Accontentarsi di averlo capito? Ma l'accontentarsi di capire implica imparzialità e indifferenza. Ë l'agire che qualifica. 
E un padre che ama agisce. Egli è destinato a restare morto nella polvere come il negletto Laio: non esiste altra possibilità. Dunque il capire è il meno. E l'agire non può consistere in altro che nell'aggredire il figlio, per poter restare appunto alla fine morto sulla polvere. Io guardo i figli, cerco di capirli e infine agisco: agisco dicendo loro quella che io credo la verità sul conto loro. 
«Voi vivete nella cronaca, che è la vera storia perché – anche se non è definita, non è accettata, non è parlata - è infinitamente più avanti della nostra storia di comodo; perché la realtà è nella cronaca " fuori dal Palazzo " e non nelle sue interpretazioni parziali o peggio ancora nelle sue rimozioni.

Ma questa cronaca vi vuole sconvolti in una crisi di valori, perché il potere, creato in conclusione da noi, ha distrutto ogni cultura precedente, per crearne una propria, fatta di pura produzione e consumo e quindi di falsa felicità.

La privazione dei valori vi ha gettato in un vuoto che vi ha fatto perdere l'orientamento, e vi ha umanamente degradati. La vostra "massa" è una "massa" di criminaloidi a cui non si può più- parlare in nome di niente. Le vostre poche élites colte – socialiste o radicali o cattoliche avanzate - sono soffocate da una parte dal conformismo e dall'altra dalla disperazione. Gli unici che si battono ancora per una cultura e in nome di una cultura, in quanto si tratta di una cultura "diversa", proiettata verso il futuro, e quindi al di là, fin da principio, delle culture perdute (quella di classe, borghese, e quella arcaica, di popolo) sono i giovani comunisti. Ma per quanto potranno difendere ancora la loro dignità? »







«Corriere della Sera»,24 luglio 1975. Fuori dal Palazzo




@Eretico e Corsaro - Le Pagine Corsare

Curatore, Bruno Esposito

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Pasolini - Bisognerebbe processare i gerarchi DC - [lettera inviata al direttore de Il Mondo, 1975]

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro


@Eretico e Corsaro - Le Pagine Corsare

Pasolini - Bisognerebbe processare i gerarchi DC
[lettera inviata al direttore de Il Mondo, 1975]


Caro Ghirelli, credo che mi resterà a lungo impressa nella memoria la prima pagina del «Giorno» del 21 luglio 1975. Era una pagina anche tipograficamente particolare: simmetrica e squadrata come il blocco di scrittura di un manifesto, e, al centro, un’unica immagine anch’essa perfettamente regolare, formata dai riquadri uniti di quattro fotografie di quattro potenti democristiani.
Quattro: il numero di De Sade.
Parevano infatti le fotografie di quattro giustiziati, scelte dai familiari tra le loro migliori, per essere messe sulla lapide. Ma, al contrario, non si trattava di un avvenimento funebre, bensì di un rilancio, di una resurrezione. Quelle fotografie al centro della monolitica pagina del «Giorno» parevano infatti voler dire allo sbalordito lettore, che quella lì era la vera realtà fisica e umana dei quattro potenti democristiani. Che gli scherzi erano finiti. Che le raggianti risate di chi detiene il potere non sfiguravano più le loro facce. Né le sfigurava più l’ammiccante furbizia. Il brutto sogno si era dissolto nella chiara luce del mattino. Ed eccoli lì, veri. Seri, dignitosi, senza smorfie, senza ghigno, senza demagogia, senza la bruttura della colpevolezza, senza la vergogna della servilità, senza l’ignoranza provinciale. Si erano rinfilati il doppiopetto e li baciava in fronte il futuro delle persone serie.
Sarei però ingiusto se non aggiungessi che il «Giorno» non è stato il solo ad assumersi il ruolo di rassicurare, in quel momento, la nazione, e di dare il crisma della pacificazione generale alla soluzione del quadrumvirato (e poi a quella del «rispettabile» Zaccagnini).

Anche il “Corriere della Sera” ha manifestato, per esempio, lo stesso sentimento di sollievo.
E del resto tutta la stampa italiana: anche quella borghese più sprezzantemente all’opposizione. Ciò che se ne desume è questo: tutto il mondo politico italiano era, ed è, pronto ad accettare sostanzialmente la continuità del potere democristiano, o con fiducia «miracolistica», mascherata da serietà professionale, o con gratificante disprezzo.
 
Ora, quando si saprà, o, meglio, si dirà, tutta intera la verità del potere di questi anni, sarà chiara anche la follia dei commentatori politici italiani e delle élites colte italiane. E quindi la loro omertà.
Del resto tale «verità del potere» è già nota, ma è nota come è nota la «realtà del Paese»: è nota cioè attraverso un’interpretazione che «divide i fenomeni», e attraverso la decisione irrevocabile, nelle coscienze di tutti, di non concatenarli.

Non praticare più la «divisione dei fenomeni», rendendoli, così, logici in un tutto unico, significherebbe rompere - e certo pericolosamente - una continuità. Ma non anticipiamo...

Tu, caro Ghirelli, ti sei accinto da qualche settimana all’impresa di dirigere una rivista politico-culturale. Mai una simile impresa è stata più difficile che in questi anni, perché mai la distanza tra il potere (quello che in un articolo di varietà ho chiamato il «Palazzo») e il Paese è stata più grande. Si tratta (dicevo) di una vera e propria diacronia storica: per cui nel Palazzo si reagisce a stimoli ai quali non corrispondono più cause reali nel Paese. La meccanica delle decisioni politiche del Palazzo è come impazzita: essa obbedisce a regole la cui «anima» (Moro) è morta.
Ma c’è di più, come accennavo. I fenomeni (impazziti e marcescenti) del Palazzo avvengono in comparti stagni, ognuno, si direbbe, dentro l’invalicabile area di potere di uno degli appartenenti alla mafia oligarchica, che, provenuta dal fondo della provincia più ignorante, governa da qualche decennio l’Italia.
Ognuno di tali potenti si assume le sue responsabilità (mai però, finora, pagate): e grazie a questa separazione delle responsabilità, salva l’insieme del potere. Ciò di cui è colpevole Andreotti non è colpevole Fanfani, ciò di cui è stato colpevole Gronchi non è stato colpevole Segni, e così via e viceversa. Nessuno ha mai avuto il coraggio di abbracciare con un solo sguardo l’Insieme.
Nel tempo stesso, fuori dal Palazzo, un Paese di cinquanta milioni di abitanti sta subendo la più profonda mutazione culturale della sua storia (coincidendo con la sua prima vera unificazione): mutazione che, per ora, lo degrada e lo deturpa. Ma anche qui le nostre coscienze di osservatori si sono macchiate dell’imperdonabile colpa di avere, come dicevo, «separato i fenomeni» di tale degradazione e deterioramento: di non averne mai osato abbracciare con un solo sguardo l’Insieme. 
 



Ti faccio due esempi minimi ma tipici.

I) A proposito della «separazione dei fenomeni» di Palazzo, ecco un divertente aneddoto. Dopo la famosa notte in cui è stato, peraltro ingiustamente, ridotto a capro espiatorio, Fanfani si è sfogato contro un suo protetto ingrato, uno (non ricordo come si chiami) di quella che, del resto volgarmente, si definisce «greppia» del potere. Costui (è Fanfani a parlare) si era a lungo prosternato davanti al potente segretario della DC per ottenere non so che carica ministeriale: l’aveva adulato nel modo più osceno («gettando la sua giacca sotto i miei piedi» dice esattamente Fanfani). In conclusione, Fanfani ha concesso quella carica, tanto ardentemente desiderata, al suo adulatore. Sappiamo, così, come in Italia viene concessa una carica pubblica a livello di governo. Ora, se tutto ciò accade, vuol dire o che un regime parlamentare non funziona (e allora hanno ragione gli extraparlamentari), oppure che bisogna farlo funzionare... Ma, ancora, non anticipiamo. Anche gli osservatori più informati, non scomponendosi (sia pure per eccesso di aristocratico disprezzo) di fronte a questa impudente confessione di Fanfani, si sono resi, intanto, suoi complici: ma, quel che è peggio, hanno appunto continuato a non voler considerare questa elargizione di cariche pubbliche come una delle tante tessere che formano un mosaico: non hanno voluto vedere il mosaico.


II) A proposito della «separazione dei fenomeni» del Paese, mi viene in mente, fra le tante, la notizia apparsa qualche tempo fa sui giornali a proposito di un convegno sulla criminalità minorile in Italia. I dati che in quella notizia giornalistica si riassumevano, in merito alla criminalità minorile, erano terrificanti: tali da rivoluzionare del tutto l’idea che si ha del «minore» in Italia. Ma anche qui: la «criminalità minorile» non è nella nostra coscienza che una delle tessere (anzi, la formula di una delle tessere) che compongono il mosaico della realtà italiana. Che non si può guardare nel suo insieme se non a costo di restare impietriti.


Dunque, per quanto riguarda un osservatore, o un luogo di osservazione com’è una rivista (per esempio quella che tu dirigi):
a) ciò che succede nel Palazzo e ciò che succede nel Paese sono due realtà separate, le cui coincidenze sono solo meccaniche o formali: ognuna in effetti va per conto suo;
b) in queste due diverse realtà, la stessa diacronia che le separa si ripete nei fenomeni che avvengono nel loro interno.

La causa prima di tale separazione tra il Palazzo e il Paese, e della conseguente separazione dei fenomeni all’interno del Palazzo e del Paese, consiste nella radicale mutazione del «modo di produzione» (enorme quantità, transnazionalità, funzione edonistica): il nuovo potere reale che ne è nato ha scavalcato gli uomini che fino a quel momento avevano servito il vecchio potere clerico-fascista, lasciandoli soli a fare i buffoni nel Palazzo, e si è gettato nel Paese a compiere «anticipatamente» i suoi genocidi.
Tu mi dirai:
«Questa tua lettera mi sembra un pochino goffa e ripetitiva. Quandoquidem et Cato dormitat?».
Si, è vero, ma qui è finita la prima parte, diligente, della presente mia lettera. E vengo alla conclusione che, essendo perfettamente logica, è anche sconvolgente.
Nel meccanismo (Palazzo, Paese, Nuovo Potere) che ti ho descritto, intervengono anche altre forze: il PSI, il PCI, che da tale meccanica sarebbero libere. E sarebbero libere precisamente perché la loro interpretazione della realtà dovrebbe essere culturale e non pragmatica: politicizzando il tutto, se ne dovrebbe vedere l’insieme: e quindi il principio: per cui si potrebbe, appunto, ricomincare.
Perché allora sia il PSI che il PCI sospendono ogni forma, sia pur timida, di interpretazione dell’Insieme, adeguandosi anch’essi alla regola prima cui si attengono tutti gli osservatori politici italiani, di ogni classe e partito, la regola cioè di intervenire solo fenomeno per fenomeno?

Le ipotesi sono due:
I) Il PSI e il PCI non possiedono più una interpretazione culturale della realtà, essendosi ormai identificati, nel pragma e nel buon senso, con la DC: accettazione dello Sviluppo, con quanto di democratico, tollerante, progressista esso (falsamente, io sostengo) comporta. In tale ipotesi valgono certamente le pazzesche sollecitazioni, che si levano ormai da ogni parte, alla DC di «imparare» qualcosa dal PCI, specie nel suo rapporto reale con le masse. Ed effettivamente in tal caso il PCI avrebbe qualcosa da insegnare alla DC, qualcosa di indubbiamente fondamentale: l’onestà.
II) Il PSI e il PCI possiedono invece, ancora, la loro visione ormai classica di interpretazione «altra» della realtà, ma non ne fanno uso. E non ne fanno uso perché, se ne facessero uso, essi dovrebbero ricorrere, logicamente, a soluzioni estreme.
E quali sarebbero queste soluzioni estreme?
Forse quelle degli estremisti?
Non proprio:
ciò non rientrerebbe nel metodo, ormai ben stabilizzato, del PSI e specialmente del PCI: tali soluzioni estreme si manterrebbero nell’ambito della Costituzione e del parlamentarismo: anzi, sarebbero - secondo uno stile semmai di carattere radicale - l’esaltazione della Costituzione e del parlamentarismo.


In conclusione, il PSI e il PCI dovrebbero per prima cosa (se vale questa ipotesi) giungere ad un processo degli esponenti democristiani che hanno governato in questi trent’anni (specialmente gli ultimi dieci) l‘Italia. Parlo proprio di un processo penale, dentro un tribunale. Andreotti, Fanfani, Rumor, e almeno una dozzina di altri potenti democristiani (compreso forse per correttezza qualche presidente della Repubblica) dovrebbero essere trascinati, come Nixon, sul banco degli imputati. Anzi, no, non come Nixon, restiamo alle giuste proporzioni: come Papadopulos. Visto fra l’altro che Nixon è stato salvato da Ford dal processo vero e proprio. Nel banco degli imputati come Papadopulos.
E quivi accusati di una quantità sterminata di reati, che io enuncio solo moralmente (sperando nell’eventualità che, almeno, venga prima o poi celebrato un «processo Russell» finalmente impegnato e non conformistico e trionfalistico com’è di solito):
indegnità, disprezzo per i cittadini, manipolazione del denaro pubblico, intrallazzo con i petrolieri, con gli industriali, con i banchieri, connivenza con la mafia, alto tradimento in favore di una nazione straniera, collaborazione con la Cia, uso illecito di enti come il Sid, responsabilità nelle stragi di Milano, Brescia e Bologna (almeno in quanto colpevole incapacità di punirne gli esecutori), distruzione paesaggistica e urbanistica dell’Italia, responsabilità della degradazione antropologica degli italiani (responsabilità, questa, aggravata dalla sua totale inconsapevolezza), responsabilità della condizione, come suol dirsi, paurosa, delle scuole, degli ospedali e di ogni opera pubblica primaria, responsabilità dell’abbandono «selvaggio» delle campagne, responsabilità dell‘esplosione «selvaggia» della cultura di massa e dei mass media, responsabilità della stupidità delittuosa della televisione, responsabilità del decadimento della Chiesa, e infine, oltre a tutto il resto, magari, distribuzione borbonica di cariche pubbliche ad adulatori.

Senza un simile processo penale, è inutile sperare che ci sia qualcosa da fare per il nostro Paese. È chiaro infatti che la rispettabilità di alcuni democristiani (Moro, Zaccagnini) o la moralità dei comunisti non servono a nulla.


Saggi sulla politica e sulla società, Meridiani Mondadori, Milano 1999
(Il Mondo, 28 agosto 1975; poi in Lettere luterane)




Fonte:


@Eretico e Corsaro - Le Pagine Corsare

Curatore, Bruno Esposito

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Pier Paolo Pasolini - LETTERA LUTERANA A ITALO CALVINO.

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro



Pier Paolo Pasolini


LETTERA LUTERANA A ITALO CALVINO


. Tu dici (“Corriere della Sera”, 8 ottobre 1975): 
"I responsabili della carneficina del Circeo sono in molti e si comportano come se quello che hanno fatto fosse perfettamente naturale, come se avessero dietro di loro un ambiente e una mentalità che li comprende e li ammira". 
Ma perché questo? 

Tu dici: 


" Nella Roma di oggi quello che sgomenta è che questi esercizi mostruosi avvengono nel clima della permissività assoluta, senza più l’ombra di una sfida alle costruzioni repressive...."
Ma perché questo? 

Tu dici: 


"... il pericolo vero viene dall’estendersi nella nostra società di strati cancerosi..."
Ma perché questo? 

Tu dici: 


"Non c’è che un passo dall’atonia morale e dalla irresponsabilità sociale (di una parte della borghesia italiana, tu dici) alla pratica di seviziare e massacrare..."
Ma perché questo? 

Tu dici: 


" Viviamo in un mondo in cui l’escalation nel massacro e nella umiliazione della persona è uno dei segni più vistosi del divenire storico (onde criminalità politica e criminalità sessuale sembrano in questo caso definizioni riduttive e ottimistiche, tu dici)".
Ma perché questo? 

Tu dici 


" I nazisti possono essere largamente superati in crudeltà in ogni momento"
Ma perché questo? 

Tu dici 


" In altri paesi la crisi è la stessa, ma incide in uno spessore di società più solido"
Ma perché questo? 

Io sono più di due anni che cerco di spiegarli e volgarizzarli questi perché. E sono finalmente indignato per il silenzio che mi ha sempre circondato. Si è fatto solo il processo a un mio indimostrabile refoulement cattolico. Nessuno è intervenuto ad aiutarmi ad andare avanti ed approfondire i miei tentativi di spiegazione. Ora, è il silenzio, che è cattolico. Per esempio il silenzio di Giuseppe Branca, di Livio Zanetti, di Giorgio Bocca, di Claudio Petruccioli, di Alberto Moravia, che avevo nominalmente invitato a intervenire in una mia proposta di processo contro i colpevoli di questa condizione italiana che tu descrivi con tanta ansia apocalittica: tu, così sobrio. E anche il tuo silenzio a tante mie lettere pubbliche è cattolico. E anche il silenzio dei cattolici di sinistra è cattolico (essi, dovrebbero avere finalmente il coraggio di definirsi riformisti, o con più coraggio ancora luterani. Dopo tre secoli sarebbe ora).
Lascia che ti dica che non è cattolico, invece, chi parla e tenta di dare spiegazioni magari dal vivo, e circondato dal profondo silenzio. Non sono stato capace di starmene zitto, come non sei capace di startene te zitto tu ora. "Bisogna aver molto parlato per poter tacere " (è uno storico cinese che, stupendamente, lo dice.) Dunque parla una buona volta. Perché?
Tu hai steso un cahier de doléance in cui sono allineati fatti e fenomeni a cui non dai spiegazioni, come farebbe Lietta Tornabuoni o un giornalista sia pure indignato della Tv. Perché?
Eppure io ho anche da ridire sul tuo cahier, al di fuori della mancanza dei perché.
Ho da ridire che tu crei dei capri espiatori, che sono: "parte della borghesia", "Roma", "i "neofascisti".
Risulta evidente da ciò che tu ti appoggi a certezze che valevano anche prima. Le certezze che ti dicevo in un’altra lettera che ci hanno confortato e anche gratificato in un contesto clerico-fascista. Le certezze laiche, razionali, democratiche, progressiste. Così come esse sono non valgono più. Il divenire storico è divenuto, e quelle certezze son rimaste com’erano.
Parlare ancora come colpevole di "parte della borghesia" è un discorso antico e meccanico perché la borghesia, oggi, è nel tempo stesso troppo peggiore che dieci anni fa, e troppo migliore. Tutta. Compresa quella dei Parioli o di San Babila. È inutile che ti dica perché è peggiore (violenza, aggressività, dissociazione dall’altro, razzismo, volgarità, brutale edonismo) ma è inutile che ti dica perché è migliore (un certo laicismo, una certa accettazione di valori che erano solo di cerchie ristrette, votazioni al referendum, votazioni al 15 giugno).
Parlare come colpevole della città di Roma, è ripiombare nei più puri anni cinquanta, quando torinesi, milanesi (friulani) consideravano Roma il centro di ogni corruzione: con aperte manifestazioni razzistiche. Roma con i suoi Parioli, non è affatto peggiore di Milano col suo San Babila, o di Torino.
Quanto ai neofascisti (giovani) tu stesso ti sei reso conto che la loro nozione va immensamente allargata: e la possibile crudeltà nazista di cui parli (e di cui da tanto vado parlando io) non riguarda solo loro.
Ho da ridire anche su un altro punto del “cahier senza perché”.
Tu hai privilegiato i neofasciti pariolini del tuo interesse e della tua indignazione, perché sono borghesi, La loro criminalità ti pare interessante perché riguarda i nuovi figli della borghesia. Li porti dal buio truculento della cronaca alla luce dell’interpretazione intellettuale, perché la loro classe sociale lo pretende. Ti sei comportato - mi sembra - come tutta la stampa italiana, che negli assassini del Circeo vede un caso che la riguarda, un caso, ripeto, privilegiato. Se a fare le stesse cose fossero stati dei "poveri" delle borgate romane, oppure dei “poveri” immigrati a Milano o a Torino, non se ne sarebbe parlato tanto in quel modo. Per razzismo. Perché i "poveri" delle borgate o i "poveri" immigrati sono considerato delinquenti a priori.
Ebbene i "poveri" delle borgate romane e i "poveri" immigrati, cioè i giovani del popolo, possono fare e fanno effettivamente (come dicono con spaventosa chiarezza le cronache) le stesse cose che hanno fatto i giovani dei Parioli: e con lo stesso identico spirito, quello che è oggetto della tua "descrittività".
I giovani delle borgate di Roma fanno tutte le sere centinaia di orge (le chiamano “batterie”) simili a quelle del Circeo; e inoltre, anch’essi drogati.
L’uccisione di Rosaria Lopez è stata molto probabilmente preterintenzionale (cosa che non considero affatto un’attenuante): tutte le sere, infatti, quelle centinaia di batterie implicano un rozzo cerimoniale sadico.
L’impunità di tutti questi anni per i delinquenti borghesi e in specie neofasciti non ha niente da invidiare all’impunità dei criminali di borgata. (I fratelli Carlino, di Torpignattara, godevano della stessa libertà condizionale dei pariolini.) Impunità miracolosamente conclusasi in parte con il 15 giugno.
Cosa dedurre da tutto questo? Che la "cancrena" non si diffonde da alcuni strati della borghesia (romana) (neofascista) contagiando il paese e quindi il popolo. Ma che c’è una fonte di corruzione ben più lontana e totale. Ed eccomi alla ripetizione della litania.
È cambiato il "modo di produzione" (enorme quantità, beni superflui, funzione edonistica). Ma la produzione non produce solo merce, produce insieme rapporti sociali, umanità. Il "nuovo modo di produzione" ha prodotto quindi una nuova umanità, ossia una "nuova cultura" modificando antropologicamente l’uomo (nella fattispecie l’italiano). Tale "nuova cultura ha distrutto cinicamente (genocidio) le culture precedenti: da quella tradizionale borghese, alle varie culture particolaristiche e pluralistiche popolari. Ai modelli e ai valori distrutti essa sostituisce modelli e valori propri (non ancora definiti e nominati): che sono quelli di una nuova specie di borghesia. I figli della borghesia sono dunque privilegiati nel realizzarli, e, realizzandoli (con incertezza e quindi con aggressività), si pongono come esempi a coloro che economicamente sono impotenti a farlo, e vengono ridotti appunto a larvali e feroci imitatori. Di qui la loro natura sicaria, da SS. Il fenomeno riguarda così l’intero paese. E i perché sono ben chiari. Chiarezza che certo, lo ammetto, non risulta da questa tabella che ho qui stilato come un telegramma. Ma tu sai bene come documentarti, se vuoi rispondermi, discutere, replicare. Cosa che finalmente pretendo che tu faccia. 


NB. I politici sono difficilmente recuperabili a una tale operazione. La loro è una lotta per la pura sopravvivenza. Devono trovare ogni giorno un aggancio per restare attaccati e inseriti là dove lottano (per sé o per gli altri, non importa). La stampa rispecchia fedelmente la quotidianità, il vortice in cui sono presi e travolti. E rispecchia anche fedelmente le parole magiche, o i puri verbalismi, cui sono attaccati riducendovi le prospettive politiche reali ("morotei", "dorotei", "alternativa", "compromesso", "giungla retributiva"). I giornalisti autori di tale rispecchiamento sembrano essere complici di tale pura quotidianità, mitizzata (come sempre la "pratica") in quanto "seria". Manovre, congiure, intrighi, intrallazzi di Palazzo passano per avvenimenti seri. Mentre per uno sguardo appena un po’ disinteressato non sono che contorcimenti tragicomici e, naturalmente, furbeschi e indegni.
I sindacalisti non possono essere di maggiore aiuto. Lama, sotto cui tutti i facitori di opinione hanno preso l’abitudine di accucciarsi come cagnette in fregola sotto il cane, non saprebbe dirci nulla. Egli è uguale e contrario, ossia contrario e uguale a Moro, con cui tratta. La realtà e le prospettive sono verbali: ciò che conta è un oggi arrangiato. Non importa se Lama è costretto a questo, mentre i democristiani vivono di questo. Oggi pare che solo platonici intellettuali (aggiungo: marxisti) - magari privi di informazione, ma certo privi di interesse e di complicità - abbiano qualche probabilità di intuire il senso di ciò che sta veramente succedendo: naturalmente però a patto che tale loro intuire venga tradotto - letteralmente tradotto - da scienziati anch’essi platonici, nei termini dell’unica scienza la cui realtà è oggettivamente certa come quella della Natura, cioè l’Economia politica.


Pier Paolo Pasolini  
Il Mondo, 30 ottobre 1975

Fonte:

@Eretico e Corsaro - Le Pagine Corsare

Curatore, Bruno Esposito

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1975 * Intervento al Congresso del Partito Radicale * Pier Paolo Pasolini

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro



Pier Paolo Pasolini


Pier Paolo Pasolini
[Intervento al congresso del Partito radicale]
novembre 1975

Pubblichiamo il testo dell'intervento che Pier Paolo Pasolini avrebbe dovuto tenere al Congresso del Partito radicale del novembre 1975. Poté essere solo letto, davanti ad una platea sconvolta e muta, perché due giorni prima Pasolini moriva ucciso. C'è un grave pericolo - ci avverte il poeta e saggista - che incombe sul Partito radicale proprio per i grandi successi ottenuti nella conquista dei diritti civili. Un nuovo conformismo di sinistra si appresta ad appropriarsi della vostra battaglia per i diritti civili "creando un contesto di falsa tolleranza e di falso laicismo". Proprio la cultura radicale dei diritti civili, della Riforma, della difesa delle minoranze sarà usata dagli intellettuali del sistema come forza terroristica, violenta e oppressiva. Il potere insomma si accinge ad "assumere gli intellettuali progressisti come propri chierici". La previsione di Pasolini si è avverata, non solo in Italia, ma nel resto della società occidentale dove, proprio in nome del progressismo e del modernismo, si è affermata una nuova classe di potere totalizzante e trasformista, di certo più pericolosa delle tradizionali classi conservatrici. "Contro tutto questo - concludeva Pasolini - voi non dovete fare altro (io credo) che continuare semplicemente a essere voi stessi: il che significa essere continuamente irriconoscibili. Dimenticate subito i grandi successi e continuate imperterriti, ostinati, eternamente contrari, a pretendere, a volere, a identificarvi col diverso; a scandalizzare; a bestemmiare."

[Il testo soprastante è tratto dal "Numero unico" pubblicato dal Partito radicale per il suo 35° Congresso, Budapest, aprile 1989: il testo dell'intervento pasoliniano risulta, in tale "Numero unico", riportato soltanto parzialmente, con alcuni "omissis". Qui di seguito tale intervento viene proposto nella sua versone integrale (da Meridiani Mondadori). L'intervento venne letto al Congresso del Partito radicale da Vincenzo Cerami]

* * *
Prima di tutto devo giustificare la presenza della mia persona qui. Non sono qui come radicale. Non sono qui come socialista. Non sono qui come progressista. Sono qui come marxista che vota per il Partito Comunista Italiano, e spera molto nella nuova generazione di comunisti. Spera nella nuova generazione di comunisti almeno come spera nei radicali. Cioè con quel tanto di volontà e irrazionalità e magari arbitrio che permettono di spiazzare - magari con un occhio a Wittgenstein - la realtà, per ragionarci sopra liberamente. Per esempio: il Pci ufficiale dichiara di accettare ormai, e sine die, la prassi democratica. Allora io non devo aver dubbi: non è certo alla prassi democratica codificata e convenzionalizzata dall'uso di questi tre decenni che il Pci si riferisce: esso si riferisce indubbiamente alla prassi democratica intesa nella purezza originaria della sua forma, o, se vogliamo, del suo patto formale.
Alla religione laica della democrazia. Sarebbe un'autodegradazione sospettare che il Pci si riferisca alla democraticità dei democristiani; e non si può dunque intendere che il Pci si riferisca alla democraticità, per esempio, dei radicali.



Paragrafo primo



A) Le persone più adorabili sono quelle che non sanno di avere dei diritti.
B) Sono adorabili anche le persone che, pur sapendo di avere dei diritti, non li pretendono o addirittura ci rinunciano.
C) Sono abbastanza simpatiche anche quelle persone che lottano per i diritti degli altri (soprattutto per coloro che non sanno di averli).
D) Ci sono, nella nostra società, degli sfruttati e degli sfruttatori. Ebbene, tanto peggio per gli sfruttatori.
E) Ci sono degli intellettuali, gli intellettuali impegnati, che considerano dovere proprio e altrui far sapere alle persone adorabili, che non lo sanno, che hanno dei diritti; incitare le persone adorabili, che sanno di avere dei diritti ma ci rinunciano, a non rinunciare; spingere tutti a sentire lo storico impulso a lottare per i diritti degli altri; e considerare, infine, incontrovertibile e fuori da ogni discussione il fatto che, tra gli sfruttati e gli sfruttatori, gli infelici sono gli sfruttati.
Tra questi intellettuali che da più di un secolo si sono assunti un simile ruolo, negli ultimi anni si sono chiaramente distinti dei gruppi particolarmente accaniti a fare di tale ruolo un ruolo estremistico. Dunque mi riferisco agli estremisti, giovani, e ai loro adulatori anziani.
Tali estremisti (voglio occuparmi soltanto dei migliori) si pongono come obiettivo primo e fondamentale quello di diffondere tra la gente direi, apostolicamente, la coscienza dei propri diritti. Lo fanno con determinazione, rabbia, disperazione, ottimistica pazienza o dinamitarda impazienza, secondo i casi. E dato che non si tratta solo di suscitare (negli adorabili ignari) la coscienza dei propri diritti, ma anche la volontà di ottenerli, la propaganda non può non essere soprattutto pragmatica.


Paragrafo secondo



Disobbedendo alla distorta volontà degli storici e dei politici di mestiere, oltre che a quella delle femministe romane - volontà che mi vorrebbe confinato in Elicona esattamente come i mafiosi a Ustica - ho partecipato una sera di questa estate a un dibattito politico in una città del Nord. Come sempre poi succede, un gruppo di giovani ha voluto continuare il dibattito anche per strada, nella serata calda e piena di canti. Tra questi giovani c'era un greco. Che era, appunto, uno di quegli estremisti marxisti "simpatici" di cui parlavo.
Sul suo fondo di piena simpatia, si innestavano però manifestamente tutti i più vistosi difetti della retorica e anche della sottocultura estremistica. Era un "adolescente" un po' laido nel vestire; magari anche addirittura un po' scugnizzo: ma, nel tempo stesso, aveva una barba di vero e proprio pensatore, qualcosa tra Menippo e Aramis; ma i capelli , lunghi fino alle spalle, correggevano l'eventuale funzione gestuale e magniloquente della barba, con qualcosa di esotico e irrazionale: un'allusione alla filosofia braminica, all'ingenua alterigia dei gurumparampara.
Il giovane greco viveva questa sua retorica nella più completa assenza di autocritica: non sapeva di averli, questi suoi segni così vistosi, e in questo era adorabile esattamente come coloro che non sanno di avere diritti...
Tra i suoi difetti vissuti così candidamente, il più grave era certamente la vocazione a diffondere tra la gente ("un po' alla volta", diceva: per lui la vita era una cosa lunga, quasi senza fine) la coscienza dei propri diritti e la volontà di lottare per essi.
Ebbene; ecco l'enormità, come l'ho capita in quello studente greco, incarnata nella sua persona inconsapevole.
Attraverso il marxismo, l'apostolato dei giovani estremisti di estrazione borghese - l'apostolato in favore della coscienza dei diritti e della volontà di realizzarli - altro non è che la rabbia inconscia del borghese povero contro il borghese ricco, del borghese giovane contro il borghese vecchio, del borghese impotente contro il borghese potente, del borghese piccolo contro il borghese grande.
E' un'inconscia guerra civile - mascherata da lotta di classe - dentro l'inferno della coscienza borghese. (Si ricordi bene: sto parlando di estremisti, non di comunisti). Le persone adorabili che non sanno di avere diritti, oppure le persone adorabili che lo sanno ma ci rinunciano - in questa guerra civile mascherata - rivestono una ben nota e antica funzione: quella di essere carne da macello.
Con inconscia ipocrisia, essi sono utilizzati, in primo luogo, come soggetti di un transfert che libera la coscienza dal peso dell'invidia e del rancore economico; e, in secondo luogo, sono lanciati dai borghesi giovani, poveri, incerti e fanatici, come un esercito di paria "puri", in una lotta inconsapevolmente impura, appunto contro i borghesi vecchi, ricchi, certi e fascisti.
Intendiamoci: lo studente greco che qui ho preso a simbolo era a tutti gli effetti (salvo rispetto a una feroce verità) un "puro" anche lui, come i poveri. E questa "purezza" ad altro non era dovuta che al "radicalismo" che era in lui.



Paragrafo terzo


Perché è ora di dirlo: i diritti di cui qui sto parlando sono i "diritti civili" che, fuori da un contesto strettamente democratico, come poteva essere un'ideale democrazia puritana in Inghilterra o negli Stati Uniti - oppure laica in Francia - hanno assunto una colorazione classista. L'italianizzazione socialista dei "diritti civili" non poteva fatalmente (storicamente) che volgarizzarsi. Infatti: l'estremista che insegna agli altri ad avere dei diritti, che cosa insegna? Insegna che chi serve ha gli identici diritti di chi comanda. L'estremista che insegna agli altri a lottare per ottenere i propri diritti, che cosa insegna? Insegna che bisogna usufruire degli identici diritti dei padroni. L'estremista che insegna agli altri che coloro che sono sfruttati dagli sfruttatori sono infelici, che cosa insegna? Insegna che bisogna pretendere l'identica felicità degli sfruttatori. Il risultato che in tal modo eventualmente è raggiunto è dunque una identificazione: cioè nel caso migliore una democratizzazione in senso borghese. La tragedia degli estremisti consiste così nell'aver fatto regredire una lotta che essi verbalmente definiscono rivoluzionaria marxista-leninista, in una lotta civile vecchia come la borghesia: essenziale alla stessa esistenza della borghesia. La realizzazione dei propri diritti altro non fa che promuovere chi li ottiene al grado di borghese.



Paragrafo quarto



In che senso la coscienza di classe non ha niente a che fare con la coscienza dei diritti civili marxistizzati? In che senso il Pci non ha niente a che fare con gli estremisti (anche se alle volte, per via della vecchia diplomazia burocratica, li chiama a sé: tanto, per esempio, da aver già codificato il Sessantotto sulla linea della Resistenza)? E' abbastanza semplice: mentre gli estremisti lottano per i diritti civili marxistizzati pragmaticamente, in nome, come ho detto, di una identificazione finale tra sfruttato e sfruttatore, i comunisti, invece, lottano per i diritti civili in nome di una alterità. Alterità (non semplice alternativa) che per sua stessa natura esclude ogni possibile assimilazione degli sfruttati con gli sfruttatori. La lotta di classe è stata finora anche una lotta per la prevalenza di un'altra forma di vita (per citare ancora Wittgenstein potenziale antropologo), cioè di un'altra cultura. Tanto è vero che le due classi in lotta erano anche - come dire? - razzialmente diverse. E in realtà, in sostanza, ancora lo sono. In piena età dei Consumi.


Paragrafo quinto


Tutti sanno che gli "sfruttatori" quando (attraverso gli "sfruttati") producono merce, producono in realtà umanità (rapporti sociali).
Gli "sfruttatori" della seconda rivoluzione industriale (chiamata altrimenti consumismo: cioè grande quantità, beni superflui, funzione edonistica) producono nuova merce: sicché producono nuova umanità (nuovi rapporti sociali).
Ora, durante i due secoli circa della sua storia, la prima rivoluzione industriale ha prodotto sempre rapporti sociali modificabili. La prova? La prova è data dalla sostanziale certezza della modificabilità dei rapporti sociali in coloro che lottavano in nome dell'alterità rivoluzionaria. Essi non hanno mai opposto all'economia e alla cultura del capitalismo un'alternativa, ma, appunto, un'alterità. Alterità che avrebbe dovuto modificare radicalmente i rapporti sociali esistenti: ossia, detta antropologicamente, la cultura esistente.
In fondo il "rapporto sociale" che si incarnava nel rapporto tra servo della gleba e feudatario, non era poi molto diverso da quello che si incarnava nel rapporto tra operaio e padrone dell'industria: e comunque si tratta di "rapporti sociali" che si sono dimostrati ugualmente modificabili.
Ma se la seconda rivoluzione industriale - attraverso le nuove immense possibilità che si è data - producesse da ora in poi dei "rapporti sociali" immodificabili? Questa è la grande e forse tragica domanda che oggi va posta. E questo è in definitiva il senso della borghesizzazione  totale che si sta verificando in tutti i paesi: definitivamente nei grandi paesi capitalistici, drammaticamente in Italia.
Da questo punto di vista le prospettive del Capitale appaiono rosee. I bisogni indotti dal vecchio capitalismo erano in fondo molto simili ai bisogni primari. I bisogni invece che il nuovo capitalismo può indurre sono totalmente e perfettamente inutili e artificiali. Ecco perché, attraverso essi, il nuovo capitalismo non si limiterebbe a cambiare storicamente un tipo d'uomo: ma l'umanità stessa. Va aggiunto che il consumismo può creare dei "rapporti sociali" immodificabili, sia creando, nel caso peggiore, al posto del vecchio clerico-fascismo un nuovo tecno-fascismo (che potrebbe comunque realizzarsi solo a patto di chiamarsi anti-fascismo), sia, com'è ormai più probabile, creando come contesto alla propria ideologia edonistica un contesto di falsa tolleranza e di falso laicismo: di falsa realizzazione, cioè, dei diritti civili.
In ambedue i casi lo spazio per una reale alterità rivoluzionaria verrebbe ristretto all'utopia o al ricordo: riducendo quindi la funzione dei partiti marxisti ad una funzione socialdemocratica, sia pure, dal punto di vista storico, completamente nuova.

Paragrafo sesto.

Caro Pannella, caro Spadaccia, cari amici radicali, pazienti con tutti come santi, e quindi anche con me: l'alterità non è solo nella coscienza di classe e nella lotta rivoluzionaria marxista. L'alterità esiste anche di per sé nell'entropia capitalistica. Quivi essa gode (o per meglio dire, patisce, e spesso orribilmente patisce) la sua concretezza, la sua fattualità. Ciò che è, e l'altro che è in esso, sono due dati culturali. Tra tali due dati esiste un rapporto di prevaricazione, spesso, appunto, orribile. Trasformare il loro rapporto in un rapporto dialettico è appunto la funzione, fino a oggi, del marxismo: rapporto dialettico tra la cultura della classe dominante e la cultura della classe dominata. Tale rapporto dialettico non sarebbe dunque più possibile là dove la cultura della classe dominata fosse scomparsa, eliminata, abrogata, come dite voi. Dunque, bisogna lottare per la conservazione di tutte le forme, alterne e subalterne, di cultura. E' ciò che avete fatto voi in tutti questi anni, specialmente negli ultimi. E siete riusciti a trovare forme alterne e subalterne di cultura dappertutto: al centro della città, e negli angoli più lontani, più morti, più infrequentabili. Non avete avuto alcun rispetto umano, nessuna falsa dignità, e non siete soggiaciuti ad alcun ricatto. Non avete avuto paura né di meretrici né di pubblicani, e neanche - ed è tutto dire - di fascisti.


Paragrafo settimo



I diritti civili sono in sostanza i diritti degli altri. Ora, dire alterità è enunciare un concetto quasi illimitato. Nella vostra mitezza e nella vostra intransigenza, voi non avete fatto distinzioni. Vi siete compromessi fino in fondo per ogni alterità possibile. Ma una osservazione va fatta. C'è un'alterità che riguarda la maggioranza e un'alterità che riguarda le minoranze. Il problema che riguarda la distruzione della cultura della classe dominata, come eliminazione di una alterità dialettica e dunque minacciosa, è un problema che riguarda la maggioranza. Il problema del divorzio è un problema che riguarda la maggioranza. Il problema dell'aborto è un problema che riguarda la maggioranza. Infatti gli operai e i contadini, i mariti e le mogli, i padri e le madri costituiscono la maggioranza. A proposito della difesa generica dell'alterità, a proposito del divorzio, a proposito dell'aborto, avete ottenuto dei grandi successi. Ciò - e voi lo sapete benissimo - costituisce un grande pericolo. Per voi - e voi sapete benissimo come reagire - ma anche per tutto il paese che invece, specialmente ai livelli culturali che dovrebbero essere più alti, reagisce regolarmente male.

Cosa voglio dire con questo?

Attraverso l'adozione marxistizzata dei diritti civili da parte degli estremisti - di cui ho parlato nei primi paragrafi di questo mio intervento - i diritti civili sono entrati a far parte non solo della coscienza, ma anche della dinamica di tutta la classe dirigente italiana di fede progressista. Non parlo dei vostri simpatizzanti. Non parlo di coloro che avete raggiunto nei luoghi più lontani e diversi: fatto di cui siete giustamente orgogliosi. Parlo degli intellettuali socialisti, degli intellettuali comunisti, degli intellettuali cattolici di sinistra, degli intellettuali generici, sic et simpliciter: in questa massa di intellettuali - attraverso i vostri successi - la vostra passione irregolare per la libertà, si è codificata, ha acquistato la certezza del conformismo, e addirittura (attraverso un "modello" imitato sempre dai giovani estremisti) del terrorismo e della demagogia.



Paragrafo ottavo



So che sto dicendo delle cose gravissime. D'altra parte era inevitabile. Se no cosa sarei venuto a fare qui? Io vi prospetto - in un momento di giusta euforia delle sinistre - quello che per me è il maggiore e peggiore pericolo che attende specialmente noi intellettuali nel prossimo futuro. Una nuova trahison des clercs: una nuova accettazione; una nuova adesione; un nuovo cedimento al fatto compiuto; un nuovo regime sia pure ancora soltanto come nuova cultura e nuova qualità di vita.
Vi richiamo a quanto dicevo alla fine del paragrafo quinto: il consumismo può rendere immodificabili i nuovi rapporti sociali espressi dal nuovo modo di produzione "creando come contesto alla propria ideologia edonistica un contesto di falsa tolleranza e di falso laicismo: di falsa realizzazione, cioè, dei diritti civili".
Ora, la massa degli intellettuali che ha mutuato da voi, attraverso una marxizzazione pragmatica di estremisti, la lotta per i diritti civili rendendola così nel proprio codice progressista, o conformismo di sinistra, altro non fa che il gioco del potere: tanto più un intellettuale progressista è fanaticamente convinto delle bontà del proprio contributo alla realizzazione dei diritti civili, tanto più, in sostanza, egli accetta la funzione socialdemocratica che il potere gli impone abrogando, attraverso la realizzazione falsificata e totalizzante dei diritti civili, ogni reale alterità. Dunque tale potere si accinge di fatto ad assumere gli intellettuali progressisti come propri chierici. Ed essi hanno già dato a tale invisibile potere una invisibile adesione intascando una invisibile tessera.
Contro tutto questo voi non dovete far altro (io credo) che continuare semplicemente a essere voi stessi: il che significa essere continuamente irriconoscibili. Dimenticare subito i grandi successi: e continuare imperterriti, ostinati, eternamente contrari, a pretendere, a volere, a identificarvi col diverso; a scandalizzare; a bestemmiare.



Fonte:
 http://www.maurizioturco.it/bddb/1975-11-intervento-al-congr.html


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