Omicidio Pasolini - Le notizie trasformate in sentenze.
LA STAMPA
Anno 109 - Numero 255
Martedì 4 Novembre 1975
(Trascrizione curata da Bruno Esposito)
Sono in un caffè di Roma, col mio pacco di giornali sotto il braccio, tutti con i titoli grandi e le fotografie emozionanti. Pasolini è stato assassinato. Intorno a me preme la folla romana del cappuccino. Sento le voci della mattina, accalorate, confuse Parlano tutti di Pasolini. Involontariamente le ascolto; voci uguali e sfasate, chiare e confuse, come in un montaggio alla radio. E questo groviglio di voci — che sono gli «editoriali spontanei» della gente, degli ascoltatori e lettori dei mezzi di comunicazione di massa, la mattina dopo lo scoppio di una tragedia — mi fa venire in mente una immagine tragica e grottesca dei tempi della pop-art. Un giorno in una galleria d'arte ho visto uno strano carro funebre. Davanti era una limousine, nera, lucente, foderata di velluto di cuoio. Dietro era un carro dell'immondizia. In mezzo c'era un cristallo come quelli che separavano una volta l'autista dai suoi padroni.
Il fiume di notizie sulla morte di Pasolini, le voci che sento e che ripetono senza fine i comunicati dell'Ansa, mi ricordano quella costruzione scombinata e tristemente ridicola. Di qua c'è il ricordo serio e commosso di letterati e di artisti, le parole del dolore e quelle del ritratto di artista. Ma di là c'è la storia morbosa e «completa» del fatto. E qui c'è qualcosa di terribile che colpisce in faccia coloro che si occupano di comunicazioni e che hanno la responsabilità delle notizie. Muore Pasolini, nel modo tragico che sappiamo e in poche ore viene fuori una storia completa di ogni dettaglio: il modo, il luogo, le tappe, il «tipo di rapporti», e (per usare l'espressione del famoso film di Scola)
«tutti i particolari in cronaca».
Ma di che particolari si tratta? Si tratta di un collage deformato, composto mettendo insieme la legittima e disperata difesa del ragazzo, e tutte le cose che Pasolini avrebbe detto e fatto. All'uno, all'imputato viene tolto il diritto sacro di tutte le società democratiche, di essere considerato solo come indiziato. All'altro, alla vittima — o alla parie civile che ne dovrà rappresentare i diritti — viene buttata addosso la pietra del fatto compiuto, della narrazione completa, ora che la sua voce di «parte lesa» non può più essere ascoltata. Nel mio caffè romano all'ora del cappuccino tutti avevano in mano i giornali pieni di grandi titoli commossi. Ma tutti si raccontavano a voce la storia diffusa dall'Ansa, il racconto completo in cui i verbi al condizionale sono sfuggiti alla gente che, come un tribunale di milioni conclude:
eh già, quelli muoiono tutti così.
Se un fatto del genere avvenisse in Inghilterra o in America (dove ogni ricostruzione del fatto, ogni narrazione è vietata agli organi ufficiali di una inchiesta) il giudice dichiarerebbe che «il processo è impossibile». Impossibile perché la gente ha già giudicato e archiviato il caso. Il problema è specialmente grave se visto dalla parte dei giornalisti. Infatti i cronisti che sono stati tutto il giorno a contatto con la polizia parlano di cautela, di perplessità, di discrezione e rispetto.
Ma qualcuno, nelle agenzie, ha compilato la storia con «tutti i particolari in cronaca» che milioni di italiani hanno ascoltato, formulata e accettata come un verdetto finale. Questo modo, di fare diventare certezza ciò che non è né compiuto né certo né giuridicamente autentico (e persino: non consentito, si tratta di segreto istruttorio fino a una sentenza) fa nascere quel continuo moto pendolare dell'opinione pubblica in Italia: credere a tutto subito, dubitare di tutto in seguito, con una sfiducia che erode sempre di più il rapporto fra il cittadino e le sue istituzioni.
Il torrente di notizie e dettagli — giunti alla gente come finali e sicuri sulla morte di Pasolini — si è trasformato in una sentenza illegittima. Viola il diritto della difesa, pubblicandone le ragioni (che sono ragioni di parte e diventano invece narrazione del fatto). E viola le ragioni della vittima, lasciando affiorare abbastanza chiaramente che sotto c'è il pregiudizio per questo tipo di vittima.
Pregiudizio vuol dire letteralmente « giudicare in anticipo ». Questo giudicare in anticipo non è un diritto, anzi è la violazione del diritto contro cui è urgente che chi ha responsabilità di informazione protesti. Io mi aspetto che protesti anche il giudice. E' come se qualcuno gli avesse tolto di mano il privilegio esclusivo, che il giudice esercita a nome di tutti, di indagare, ascoltare, confrontare, concludere. Anche il suo diritto, dall'informazione apparentemente «completa», è stato violato.
Furio Colombo.
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