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Biografia, lavori in corso - a breve anche il 1974 e il 1975

sabato 25 maggio 2019

PASOLINI E CARAVAGGIO - Roberto Chiesi

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro




PASOLINI E  CARAVAGGIO
Roberto Chiesi
Cineteca Bologna

© EMUI_  EuroMed University Editions, Roma 2017 · ISSN 1889-7231 




“Carissimo Luciano, eccomi a Roma in una variazione della mia dimessa avventura romana. Mi sono servito dei miei sensi per imprimervi un generico paesaggio romano (in primavera), ma soprattutto alcuni colori e alcuni gesti inenarrabili del Caravaggio, di Giovanni di Paolo, di Lorenzetti, di Piero della Francesca... te li dico, questi nomi, secondo l'ordine naturale in cui mi emergono nella memoria”(1).

È l'inizio di una lettera di Pier Paolo Pasolini all'amico Luciano Serra, datata presumibilmente 9 aprile 1946. A quell'epoca la guerra era terminata da appena un anno e il ventiquattrenne Pasolini, che risiedeva a Casarsa della Delizia, aveva intrapreso un viaggio a Roma, probabilmente ospite dello zio Gino Colussi. Le prime parole della lettera, da cui trabocca un evidente, appassionato entusiasmo, sono dedicate alla pittura e descrivono vividamente l'emozione provata vedendo i quadri di Caravaggio, Piero della Francesca e di altri pittori, artisti che il giovane poeta aveva studiato seguendo la lezione di Roberto Longhi. 

Quando Pasolini divenne Pasolini, dopo il trasferimento a Roma, ossia divenne lo scrittore “scandaloso” che aveva scoperto il mondo popolare e “dannato” delle borgate romane, degli emarginati dalla capitale, il rapporto biografico con la figura e l'arte di Michelangelo Merisi, detto Il Caravaggio, sembrano diventare evidenti, persino ovvi: entrambi artisti 'maledetti', entrambi ispirati dalla vitalità selvaggia e dalla morale 'altra' del mondo che pulsa al di fuori della legalità borghese, del mondo dei bassifondi, entrambi decisi a compromettersi con quel mondo, a immergervisi senza reticenze.  
Ma non è solo un rapporto biografico, ovviamente: lo stesso Pasolini evidenzia alcuni nessi iconografici fra il proprio cinema e la pittura caravaggesca, quando ricorda di avere scelto un ragazzo del popolo romano, Ettore Garofolo, per il ruolo di protagonista accanto a Anna Magnani in Mamma Roma (1962), dopo averlo visto in un ristorante dove lavorava come cameriere, “mentre portava una fruttiera e sembrava una figura uscita da una tela del Caravaggio”(2 ). O ancora quando in un articolo definisce l'inquadratura di Ettore morente, legato al letto di contenzione nell'ultima parte dello stesso film, “un'assurda e squisita mistione tra Masaccio e Caravaggio”(3). 
A questo proposito, uno dei più sottili studiosi di cinema (e di Pasolini), Sandro Bernardi, ha scritto alcune acute osservazioni sugli echi caravaggeschi che si possono individuare in quella celebre sequenza di Mamma Roma, quando Ettore, dopo essere stato sorpreso in ospedale dove si era recato per rubare con alcuni complici, viene incarcerato e quindi legato ad un letto di contenzione perché dava segni di violenta irrequietudine: “Questo letto di morte, improvvisamente e inopinatamente, è diventato, quasi per un salto metaforico che ci porta indietro nel tempo, un tavolaccio di legno nudo, sul quale sta legato Ettore in mutande con le caviglie e i piedi incatenati al legno mentre un raggio di luce dura, caravaggesca, filtra da fuoricampo e cade sopra il suo corpo. La finestra che filtra e struttura la luce, e che apparirà in una seconda inquadratura, non appartiene verosimilmente a una stanza d'ospedale, e neppure a una cella di rigore, ma è la finestra di un carcere cinquecentesco.  
Il conflitto fra l'alto e il basso, fra il sacro e il profano si trasforma così in un contrasto fra rappresentazione e mondo rappresentato, fra contenuto e stile, dove il primo riguarda i nostri tempi e il secondo ci trasporta fuori dal tempo. La citazione anche in questo caso serve a far entrare due mondi in collisione, due universi incompatibili e di fatto coesistenti. 
La scena della morte è costituita da due magnifici dolly con movimento indietro e in discesa che partono dal volto e sfiorano il corpo di Ettore fermandosi ai suoi piedi, raggiungendo sempre tutti e due il punto di vista del Cristo morto del Mantegna. L'inquadratura della finestra (un dettaglio collegato a uno sguardo di Ettore che lo fa sembrare una soggettiva) con la grossa inferriata è una citazione della luce caravaggesca che ricorda esplicitamente sia La vocazione di San Matteo, per la forma del raggio di luce, sia La decollazione del Battista, per la forma della finestra, omaggio nascosto a Roberto Longhi, cui Pasolini dedicò anche la sceneggiatura del film, con la frase famosa: “A Roberto Longhi, cui sono debitore della mia “fulgurazione figurativa”. (…)  
Il dettaglio della finestra caravaggesca e il punto di vista di Mantegna sono nascosti dentro la forma dell'inquadratura, ma non tanto che non si riesca a individuarli con sufficiente chiarezza”(4). 
È probabile che nella composizione dell'inquadratura si celi, quindi, un velato riferimento alla lezione longhiana e alle sue considerazioni sulla luce di Caravaggio. Ricordiamo, però, che fu lo stesso Pasolini a smentire la citazione del Cristo morto di Mantegna, avanzata da alcuni critici cinematografici, proprio interpellando il suo antico maestro(5). 

Ma in realtà fra Caravaggio e Pasolini esistono delle differenze di fondo, anche più significative delle analogie.
Come scrive lo storico dell'arte Francesco Galluzzi: “tra pittore e poeta 'maledetti' è sempre sembrato naturale cogliere una relazione quasi elettiva, alla deriva entrambi nel gran corpo palpitante di Roma. La pittura caravaggesca viene spesso assunta quindi come una chiave privilegiata per decifrare l'immaginario poetico pasoliniano”(6).  
Galluzzi cita critici quali Cesare Garboli, Dominique Fernandez, Pietro Citati e Stefano Casi che hanno sottolineato le affinità tra i due artisti, ma “in realtà, a un riscontro sui testi, le innegabili reminiscenze caravaggesche nell'opera di Pasolini risultano essere in genere piuttosto topiche; come elementi di una rielaborazione della tradizionale iconografia della vita brulicante della metropoli suburbana da cui vengono assorbiti tutti gli stimoli di quel folklore (nel senso più alto del termine) di matrice colta che che ha contribuito a determinare nel corso dei secoli l'immagine del sottoproletariato romano”(7). Infatti giustamente Galluzzi sottolinea una differenza macroscopica fra la visione dei due artisti: “mentre il Caravaggio raffigurava i Santi come popolani, Pasolini ambiva a raffigurare i popolani come Santi”(8). 

Nel suo libro Galluzzi accenna ad alcune filiazioni dall'arte caravaggesca che sono riconoscibili soprattutto nell'evocazione dei fenomeni luministici esistenti nella poesia pasoliniana, in particolare in Quadri friulani della raccolta Le ceneri di Gramsci (1957) o nella narrativa, come in un brano di Una vita violenta (1959). 
Ma esiste un'altra relazione, che ha un significato importante nell'opera pasoliniana ed è relativa all'ultima fase della sua opera. 
Consideriamo a questo proposito un testo che Pasolini scrisse nel 1974 ma che non pubblicò in vita ed è stato edito per la prima volta nell'edizione di “Tutte le opere” dei Meridiani Mondadori, nei Saggi sulla letteratura e sull'arte, con il titolo La luce di Caravaggio(9). 
Pasolini apre il testo scrivendo che tutto ciò che sa della sua arte “è ciò che ne ha detto Longhi”. Con questo sottolinea il valore seminale che ha avuto la lezione longhiana sulla propria formazione e sulla sua visione di alcuni artisti, nutrita dalle analisi del grande storico dell'arte. Quindi Pasolini ricorda che Caravaggio ha inventato “un nuovo mondo che secondo la terminologia cinematografica si dice profilmico”, un mondo di ambienti, oggetti e individui collocati per la prima volta davanti ad un cavalletto e ritratti sulla tela”. 

In secondo luogo scrive che Caravaggio “ha inventato una nuova luce: al lume universale del Rinascimento platonico ha sostituito una luce quotidiana e drammatica. Sia i nuovi tipi di persone e di cose che il nuovo tipo di luce, il Caravaggio li ha inventati perché li ha visti nella realtà. Si è accorto che intorno a lui - esclusi dall’ideologia culturale vigente da circa due secoli – c’erano uomini che non erano mai apparsi nelle grandi pale o negli affreschi e c'erano ore del giorno, forme di illuminazione labili ma assolute, che non erano mai state riprodotte e respinte sempre più lontano dall’uso e dalla norma, avevano finito col divenire scandalose, e quindi rimosse. Tanto che probabilmente i pittori, e in genere gli uomini fino al Caravaggio probabilmente non le vedevano nemmeno”. 

Come spesso accade quando Pasolini parla di altri artisti, sembra che in realtà si riferisca a se stesso. Anche in questo caso la “scoperta” di un'umanità ignorata come soggetto artistico può essere accostato all'analoga scoperta compiuta dallo stesso Pasolini quando aveva scritto i romanzi Ragazzi di vita (1955) o Una vita violenta, e realizzando i film Accattone (1961), Mamma Roma appunto e La ricotta (1963), rendendo visibile un'umanità disprezzata e reietta che neanche il Neorealismo aveva reso protagonista delle storie che aveva narrato. Un discorso analogo può valere per la luce satura, non realistica, che Pasolini aveva scelto per il suo primo film, Accattone, luce che imprimeva alle immagini un senso di calcificazione, di morte, che si stendeva come una profezia sul destino segnato del personaggio protagonista. Collocando al centro delle sue storie, l'esistenza di un “ultimo uomo” come Accattone, uno sfruttatore di donne, Pasolini aveva mostrato al pubblico cinematografico che anche quest'”ultimo uomo” era un uomo, che possedeva una sua umanità, sepolta e nascosta nella sua degradazione. Un'umanità che fino a quel film molti non avevano mai preso in considerazione, come se non esistesse. 

Poi Pasolini prosegue: ”La terza cosa che ha inventato il Caravaggio è un diaframma (anch’esso luminoso, ma di una luminosità artificiale che appartiene solo alla pittura e non alla realtà) che divide sia lui, l’autore, sia noi, gli spettatori, dai suoi personaggi, dalle sue nature morte, dai suoi paesaggi. Questo diaframma, che traspone le cose dipinte dal Caravaggio in un universo separato, in un certo senso morto, almeno rispetto alla vita e al realismo con cui quelle cose erano state percepite e dipinte, è stato stupendamente spiegato da Roberto Longhi con la supposizione che il Caravaggio dipingesse guardando le sue figure riflesse in uno specchio”. 
Lo specchio implica una distanza, un filtro che immerge le figure in un'altra dimensione luministica, così da imprimere una diversa connotazione, una diversa qualificazione alla corporalità di quelle figure. 
“Tali figure erano perciò quelle che il Caravaggio aveva realisticamente scelto, negletti garzoni di fruttivendolo, donne del popolo mai prese in considerazione, ecc., e inoltre esse erano immerse in quella luce reale di un’ora quotidiana concreta, con tutto il suo sole e tutta la sua ombra: eppure… eppure dentro lo specchio tutto pare come sospeso come a un eccesso di verità, a un eccesso di evidenza, che lo fa sembrare morto.” La luce è quella del quotidiano, umile, realistica ma “dentro lo specchio” qualcosa cambia, si verifica un fenomeno che la muta: le figure dipinte con il filtro della superficie che le riflette, scivolano in una sospensione “a un eccesso di evidenza” che Pasolini interpreta come funereo, mortuario. 
“Posso amare criticamente la scelta realistica del Caravaggio nel ritagliare nei personaggi e negli oggetti il mondo da dipingere; posso amare, ancor più, criticamente, l’invenzione di una nuova luce dove far accadere gli immobili avvenimenti.” È proprio l'immobilità di corpi vivi e pulsanti a suggerire che vivi non lo sono più, che sono precipitati in un'altra dimensione.
“Tuttavia quanto al realismo occorre una buona dose di storicismo per individuarlo in tutta la sua imponenza: non essendo io un critico d’arte, e vedendo le cose in un prospettiva storica falsa e schiacciata, tutto sommato a me il realismo del Caravaggio mi sembra un fatto abbastanza normale, superato lungo i secoli da altre, nuove forme di realismo.
” Con queste parole Pasolini confessa la propria reazione emozionale alle opere di Caravaggio, e sottolinea il distacco che prova, forse proprio per evidenziare con più forza quei fenomeni che invece lo toccano, come artista, nel profondo e a cui dedicherà le ultime righe del suo testo. 
Continua a confessare la propria estraneità anche alla luce drammatica caravaggesca: “Quanto alla luce, posso apprezzarne l’invenzione stupendamente drammatica, ma per una mia particolare forma estetica – dovuta chissà a quali manovre del mio inconscio - non amo le invenzioni di luce, preferisco di gran lunga le invenzioni di forme. Un nuovo modo di sentire la luce mi entusiasma molto meno che un nuovo modo di sentire mettiamo il ginocchio di una madonna sotto il manto o lo scorcio del primo piano di un santo: amo le invenzioni e le abolizioni dei chiaroscuri, delle geometrie, delle composizioni. Di fronte al caos luminoso del Caravaggio resto ammirato ma un po’ staccato (se è la mia opinione strettamente personale che qui si vuole conoscere).
”  Finalmente arriva al punto nodale del testo: “Ciò che mi entusiasma è la terza invenzione del Caravaggio: cioè il diaframma luminoso che fa delle sue figure delle figure separate, artificiali, come riflesse in un specchio cosmico. Qui i tratti popolari e realistici dei volti si levigano in una caratteriologia mortuaria; e così la luce, pur restando così grondante dell’attimo del giorno in cui è colta, si fissa in una grandiosa macchina cristallizzata. Non solo il Bacchino è malato ma anche la sua frutta. E non solo il Bacchino, ma tutti i personaggi del Caravaggio sono malati, essi che dovrebbero essere per definizione vitali e sani, hanno invece la pelle macerata da un bruno pallore di morte”. 

Nello stesso periodo Pasolini sta scrivendo il “progetto di romanzo” che rimarrà incompiuto, Petrolio, iniziato nel 1972 e che sarà pubblicato da Einaudi soltanto nel 1992. Negli Appunti numerati 71 e seguenti, lo scrittore immagina che il protagonista, l'ingegnere Carlo segua lungo alcune strade di Roma (via Torpignattara e altre) un giovane appartenente al sottoproletariato romano, che secondo Pasolini era orrendamente degenerato negli anni '70, tanto che lo denomina dispregiativamente “il Merda”. Questa figura che non parla e si limita a passeggiare, abbracciato stretto alla fidanzata, percorre una serie di gironi che ricalcano quelli dell'Inferno dantesco ma dove all'ordine tassonomico dei vizi umani, è sostituito una nuova classificazione comprendenti quelli che, nella critica della modernità pasoliniana, sono diventati i connotati della massificazione e dell'omologazione del ceto popolare in massa piccoloborghese.  
Ogni girone è raffigurato come un quadro, illuminato dalla luce proveniente da dietro e riflessa e diffusa da superficie trasparenti, come in una scenografia cinematografica, con la presenza di un tabernacolo alla maniera medioevale. Un'altra particolarità è che due scene coesistono in trasparenza l'una nell'altra, come nell'effetto filmico della sovrimpressione: la Scena della Visione, che corrisponde al presente, dove sono visibili i caratteri di ripugnante degradazione dei giovani appartenenti ai ceti popolari, e la Scena della Realtà, dove invece appare come gli stessi erano in un passato recente, appena sette anni prima, quando possedevano ancora le loro identità, la loro fisionomia originaria. Scrivendo del senso di malattia e morte suggerito dalla luce di Caravaggio, Pasolini sta probabilmente pensando al luminismo mortuario, funebre, che avvolge con violenta, cruda evidenza i corpi di una gioventù che ai suoi occhi è ormai diventata completamente e colpevolmente connivente con il trionfo del consumismo e della massificazione e reca nel proprio corpo, i segni della debolezza, della malattia e della morte.
Ecco che il diaframma di Caravaggio e la “cristallizzazione” che opera sulla realtà diviene, per Pasolini, una forma entro cui rappresentare l'orrore della fine di un mondo, di un modo di essere uomini – cioè la cultura popolare, tramandata per secoli nei suoi rituali - che non ritornerà mai più.
Roberto Chiesi

Note:

1 Pier Paolo Pasolini, A Luciano Serra – Bologna, Roma, lunedì 9 [aprile 1946], in Id., Lettere 1940 – 1954, a cura di Nico Naldini, Einaudi, Torino 1986, p. 246. 
2 Pasolini su Pasolini. Conversazioni con Jon Halliday, a cura di Jon Halliday, Guanda, Parma 1992, p. 58. 
3 Pier Paolo Pasolini, Sfogo per “Mamma Roma”, “Vie nuove”, n. 40, 4 ottobre 1962, ora in Id., I dialoghi, a cura di  Giovanni Falaschi, Editori Riuniti, Roma 1992. 
4 Sandro Bernardi, Ibridazione e citazione nel cinema: Pasolini e Godard, in Cinema / pittura. Dinamiche di scambio, a cura di Leonardo De Franceschi, Lindau, Torino 2003, pp. 139-140. 
5 Pier Paolo Pasolini, Sfogo per “Mamma Roma”, op. cit. 
6 Francesco Galluzzi, Pasolini e la pittura, Bulzoni, Roma 1994, p. 81. 
7 Ibidem. 
8 Francesco Galluzzi, Pasolini e la pittura, op. cit., p. 83. 
9 Pier Paolo Pasolini, [La luce di Caravaggio], in Id., Saggi sulla letteratura e sull'arte, a cura di Walter Siti e Silvia de Laude, Tomo II, Mondadori, Milano 1999, pp. 2672-2674. 




Curatore, Bruno Esposito

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mercoledì 1 maggio 2019

Omicidio Pasolini - Sentenza della Corte d'Appello 4 dicembre 1976

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro




Omicidio Pasolini
Sentenza della Corte d'Appello 4 dicembre 1976

[...] In sostanza ogni strada è stata percorsa tutte le indagini ragionevolmente possibili sono state svolte e hanno avuto esito negativo, come risulta dai relativi atti allegati al processo [...] Nessun elemento è emerso che potesse essere utilmente fatto oggetto di ulteriori accertamenti da parte del Tribunale, e che possa ora giustificare l'avvio di una attività istruttoria da parte della corte. Non sono ravvisabili, in definitiva, lacune di sorta negli accertamenti compiuti in primo grado, cui occorra rimediare attraverso una rinnovazione di indagini, la quale non soltanto sarebbe quanto mai aleatoria e riferibile – al di fuori della funzione del dibattimento – a oggetti privi di sufficiente concretezza, ma non potrebbe consistere che nella negativa ripetizione di tentativi di ricerca già inutilmente compiuti.
[...]
la corte non ritiene di dover procedere a una più estesa analisi dell'intera narrazione dell'imputato – che pure presenta non pochi elementi di inattendibilità – ma di dover prima tentare di accertare se egli abbia agito da solo, come si sostiene nei motivi d'appello, oppure insieme ad altri, come ha affermato la sentenza impugnata. Quest'accertamento, se dovesse concludersi nel secondo senso, sarebbe infatti risolutivo quanto alla natura dolosa del fatto.
Va ancora una volta ribadito che nessun dubbio consistente circa la partecipazione di terzi al delitto trae origine da elementi o da seri sospetti ricavabili da dati diversi da quelli offerti dal racconto dell'imputato e dall'analisi dei reperti, delle tracce, dei risultati delle perizie: cosicché si tratta di vagliare se questi dati giustificano le deduzioni attraverso le quali il Tribunale è giunto a una ricostruzione del delitto implicante il concorso di altre persone.
Un elemento essenziale di tale ricostruzione è la scissione della vicenda in due fasi ben distinte, la prima delle quali – secondo la sentenza impugnata – si sarebbe svolta vicino alla porta del campo di calcio, la seconda nel luogo in cui il corpo di Pasolini tu ritrovato. A questo riguardo il Tribunale attribuisce determinante valore al rinvenimento della camicia di Pasolini nella primi zona, e inoltre al fatto che sul terreno dell'area di rigore furono rilevate impronte di scarpe con suola gommata (probabilmente scarpe da tennis) sicuramente non appartenenti né a Pelosi né a Pasolini, e insieme a esse altre numerose impronte denuncianti che nell'area della porta vi fu quella notte un notevole movimento di persone. Vari indizi portano poi a ritenere che il bastone e la tavola siano stati usati soltanto all'ultimo momento
[...]
La corte rileva in contrario un primo dato di grande importanza e dal Tribunale taciuto: ed è che nella zona attorno alla porta del campo di gioco e al punto in cui la camicia rimase abbandonata non è stata trovata la minima traccia di sangue. Se si considera che avrebbe dovuto trattarsi (dato lo stato in cui fu rinvenuta la camicia) di perdite di sangue abbondanti, le quali certamente avrebbero lasciato tracce vistose sul terreno, si può subito negare con tutta sicurezza che vi sia stata una prima aggressione nel modo e nel luogo ritenuti dal Tribunale.
Per di più alle impronte di scarpe gommate, le quali avrebbero costituito un elemento di per sé decisivo se si fosse potuto stabilire che furono lasciate contestualmente alla vicenda delittuosa, non è invece possibile attribuire alcun rilievo indiziario. La sentenza impugnata si dà carico di escludere che le impronte potessero essere state lasciate sul terreno dopo il delitto (e in particolare da un gruppo di ragazzi che giocarono a pallone nella mattinata del 2 novembre, ma quando i rilievi della polizia erano già stati eseguiti); trascura però di domandarsi se non potessero essere state lasciate prima, e precisamente nel corso della giornata festiva del 1°novembre, in cui è probabilissimo che il campo di calcio fosse stato frequentato da giovani giocatori, come fa ritenere il fatto che sul posto fu rilevata la confusa presenza anche di moltissime altre impronte. Così stando le cose, e non essendo stato possibile escludere che queste altre numerose impronte fossero state lasciate in ore precedenti e tanto meno attribuirle soltanto a Pelosi e Pasolini, non si può assegnare alle impronte di scarpe gommate, solo perché isolabili per la loro peculiarità, alcun significato.
Approfondendo l'analisi delle deduzioni del Tribunale, si deve poi rilevare che appare difficilmente spiegabile perché mai l'uso iniziale di strumenti di offesa più consistenti ed efficaci, che sarebbero stati sufficienti a far stramazzare la vittima, avrebbe dovuto essere seguito dall'impiego di strumenti meno efficienti (e che peraltro i periti hanno giudicato perfettamente idonei a provocare le lesioni riscontrate). Se ne deduce che la scissione dell'aggressione in due distinte fasi sarebbe resa meno verosimile dall'uso dei mezzi supposti dal Tribunale: ma più in generale essa appare meno verosimile in rapporto all'ipotesi stessa della presenza di più aggressori, i quali è difficile credere che avrebbero concesso a Pasolini una tregua sufficiente per sfilarsi la camicia e asciugarsi il sangue, o ai quali certo più difficilmente egli sarebbe riuscito per qualche tempo a sfuggire. Cosicché l'episodio della camicia, pur restando oscuro per più aspetti, s'accorda meglio con l'ipotesi che Pasolini e Pelosi siano stati soli a fronteggiarsi, e non può essere affatto utilizzato per desumerne la partecipazione di terzi all'aggressione.
Gli altri elementi che la sentenza impugnata ha considerato come indizi del concorso di più persone sono i seguenti:
- nell'automobile di Pasolini furono rinvenuti un golf verde e un plantare per scarpa destra non appartenenti né a lui né al Pelosi;
- non furono rinvenuti il pacchetto di sigarette e l'accendisigari che il Pelosi, prima di scendere dall'auto insieme a Pasolini, posò sul portaoggetti situato vicino al cambio;
- sul tetto della macchina furono rinvenute, dalla parte del passeggero, incrostazioni di sangue di Pasolini: nessuna traccia di sangue di Pasolini fu invece rinvenuta dall'altro lato dell'automobile, né, soprattutto, sul volante;
- troppo scarse furono le tracce di sangue rimaste addosso a Pelosi, in rapporto all'entità delle emorragie subite da Pasolini e alle modalità della colluttazione descritte dall'imputato; troppo scarse ugualmente, le lesioni riportate da Pelosi, in confronto a quelle riportate da Pasolini;
- il calcio ai testicoli fu troppo violento e preciso per poter essere stato assestato durante una colluttazione a due, svoltasi a distanza ravvicinata;
- un pezzo del paletto e un frammento della tavola furono entrambi trovati sotto il corpo di Pasolini (il che fa pensare a un uso
contemporaneo dei due legni da parte di più persone); l'altro pezzo del paletto e i due della tavola furono trovati a notevole distanza fra loro (il che fa pensare che siano stati presi e gettati via da persone diverse, anche perché la tavola, più insanguinata, avrebbe lasciato su Pelosi maggiori tracce di sangue);
- il tempo di circa un'ora fra l'arrivo all'Idroscalo e l'arresto dell'automobile da parte dei Carabinieri non poté essere tutto impiegato nel modo raccontato da Pelosi (il che fa presumere che il tempo vuoto sia stato utilizzato per decidere una comune linea di condotta tra le più persone che avevano partecipato all'aggressione).
Ancora una volta gli elementi che potrebbero avere rilevanza decisiva – il plantare e il golf appartenenti a sconosciuti, rinvenuti nell'automobile – si rivelano in realtà privi di valore indiziario. La loro importanza dovrebbe desumersi, nell'argomentazione del Tribunale, dal fatto che la mattina del 31 ottobre la cugina di Pasolini (teste Chiarcossi) ripulì sommariamente la macchina e non li notò. Ma è da ritenere che quando fece, secondo le sue parole, "un minimo di pulizia" della vettura (probabilmente, come ha detto in istruttoria, ma non sicuramente, il giorno 31), la teste non vide i due oggetti perché il plantare si trovava in posizione nascosta (cioè sotto il sedile del posto di guida) e perché il golf si trovava nel portabagagli (ove fu rinvenuto al momento dell'ispezione, e non sembra da ritenere più attendibile, come fa il Tribunale, il ricordo dei due Carabinieri che fermarono Pelosi, secondo i quali il golf sarebbe stato sul sedile posteriore insieme agli altri indumenti rinvenuti, giacché non si spiegherebbe perché durante le poche ore precedenti l'ispezione esso soltanto, e non gli altri oggetti di vestiario, sarebbe stato spostato nel bagagliaio). In ogni caso non sarebbe possibile escludere che il piantare e soprattutto il golf siano stati lasciati nell'autovettura da qualche accompagnatore di Pasolini dopo la ripulitura da parte della Chiarcossi, cioè nel corso delle giornate del 31 ottobre o dello stesso 1° novembre, durante il quale la macchina, secondo le dichiarazioni istruttorie della stessa Chiarcossi, fu usata due volte prima di sera. Senza dire che ben poco verosimile è che qualcuno abbia potuto togliersi il golf di dosso nella fredda notte del delitto; e inoltre i supposti complici, se veramente avessero freddamente concordato col Pelosi la linea di condotta immaginata dal Tribunale, avrebbero certamente avuto cura di non lasciare loro tracce sull'automobile.
Maggiore rilievo deve essere invece attribuito al mancato rinvenimento, nell'interno dell'autovettura e sul luogo del delitto, dell'accendisigari e del pacchetto di sigarette che Pelosi ha detto di aver lasciato nella macchina e che ricercò subito dopo l'arresto. In effetti, se egli li lasciò veramente sul portaoggetti della vettura, la loro sparizione non sarebbe facilmente spiegabile. Non può però escludersi che il ricordo dell'imputato non sia stato preciso, o il suo racconto non sia stato fedele, e che ad esempio egli abbia nuovamente fumato dopo essersi lavato le mani alla fontana e abbia smarrito i due oggetti in quel luogo, o che questi, caduti a terra sullo spiazzo dell'Idroscalo, siano stati prelevati da una delle persone che giunsero sul posto prima dell'arrivo della polizia. Deve anche osservarsi che l'ipotesi del prelevamento da parte di supposti complici non s'accorderebbe con l'atteggiamento tenuto da Pelosi quando fu fermato giacché egli si sarebbe ben guardato dal far balenare la possibilità che accendisigari e sigarette potessero essere stati presi da altre persone. Tutto ciò, peraltro, non toglie che la circostanza della sparizione desti qualche perplessità, anche se non è possibile ritenerla un indizio univoco nel senso voluto dal Tribunale.
- Attenta considerazione meritano poi, e soprattutto, la sproporzione fra le lesioni riportate da Pasolini e quelle riscontrate sull'imputato, la scarsità delle tracce di sangue di Pasolini sui vestiti di Pelosi, l'assenza di tracce di sangue di Pasolini sul volante e la presenza d'una traccia sul tetto dell'autovettura dal lato opposto a quello di guida, il rinvenimento di frammenti di due corpi contundenti sotto il corpo della vittima. Che questi elementi possano spiegarsi con l'ipotesi della partecipazione di più persone è indubbio; che ne siano indici sicuri e incontrovertibili è da negare. Il Tribunale ha fatto di essi una analisi acuta e dettagliata, senza però raffrontarli a sufficienza con l'ipotesi alternativa che Pelosi fosse solo, mentre è evidente che se con questa essi si mostrassero compatibili, la loro forza indiziaria (lei concorso ne sarebbe incrinata. Orbene, se si procede a questo necessario raffronto si deve ammettere che la detta compatibilità non può essere esclusa rispetto a nessuno degli elementi considerati.
Per quanto riguarda, in primo luogo, la sproporzione delle lesioni subite dai due contendenti, essa certo s'accorda malamente con la versione dell'imputato, ma può trovare piena spiegazione proprio ipotizzando che, invece che essere stato aggredito, sia stato lui ad aggredire Pasolini, cogliendolo di sorpresa e menomandone fin dall'inizio la capacità di difendersi. Questa supposizione non è affatto contraddetta, come invece si prospetta nella sentenza impugnata, dall'agilità e robustezza fisica di Pasolini, che peraltro era di complessione fisica assai minuta (59 kg di peso e 1.67 m di altezza), poiché Pelosi poté valersi non soltanto della maggiore vigoria della giovane età, ma verosimilmente d'una determinazione a offendere che in Pasolini mancò, e con tutta probabilità lo portò a colpire duramente per primo e d'improvviso. Cosicché, a questo riguardo perde altresì importanza stabilire se le due più rilevanti lesioni riscontrate su Pelosi gli furono prodotte da Pasolini o furono da lui riportate nel brusco arresto della macchina quando fu fermato dai Carabinieri.
[...]
Ciò che qui è da rilevare, a ogni modo, è che la lieve entità delle lesioni subite da Pelosi non è indice univoco della presenza di altre persone, ma al contrario – e a maggior ragione se le due lesioni più importanti furono da lui riportate nell'automobile – può convalidare l'ipotesi d'una aggressione improvvisa e violenta da parte sua, alla quale Pasolini non poté reagire in modo efficace.
Ciò vale anche a fornire una plausibile spiegazione della limitatezza delle tracce di sangue di Pasolini riscontrate su Pelosi. Queste tracce, in verità, non furono, sproporzionate a quelle rinvenute nell'ambiente circostante. E vero, infatti, che l'imbrattamento della camicia e le macchie sulle tavole e sul bastone dimostrano che Pasolini subì forti emorragie, ma il luogo del delitto non rimase cosparso di sangue in modo esteso (oltre alle chiazze sotto il corpo, soltanto tre piccole macchie e alcuni schizzi in zona, a circa sette metri dal cadavere, secondo la descrizione della polizia scientifica), cosicché non pare esatta l'affermazione della sentenza impugnata secondo cui le percosse con i corpi contundenti dovettero provocare veri e propri getti di sangue. D'altra parte sangue di Pasolini è stato rinvenuto sul polsino sinistro della maglia a carne di Pelosi, sulla parte terminale del suo pantalone destro e sotto la suola di una scarpa, e altre tracce possono essere state completamente eliminate con il lavaggio, senza che ne rimanessero residue sbavature. Senza dubbio l'imputato sarebbe rimasto sporcato in maniera più evidente se la lotta, com'egli ha dichiarato, si fosse svolta in fasi alterne con continui afferramenti, senza che fino all'ultimo egli riuscisse ad avere il sopravvento. Ma da ciò, come s'è detto, si può trarre la deduzione che egli abbia mentito intorno allo svolgimento della colluttazione, e non soltanto desumere che egli abbia avuto una parte secondaria nella vicenda e Pasolini sia stato colpito anche da altri.
Anche la presenza di una piccola traccia di sangue di Pasolini sul lato destro del tetto dell'autovettura (immediatamente al di sopra dello sportello posteriore) e l'assenza di tracce sul volante possono spiegarsi in modo diverso da quello supposto dal Tribunale. Anzitutto può ipotizzarsi che Pelosi, lasciato Pasolini esanime al suolo e direttosi nuovamente verso l'area della porta, abbia urtato contro il tetto dell'autovettura.
[...]
Che poi il volante non sia rimasto sporco di sangue di Pasolini può spiegarsi pensando che Pelosi ne fosse imbrattato solo al dorso delle mani e non sulle palme – cosa del tutto verosimile se durante l'intera aggressione egli continuò a stringere nelle mani uno dei corpi contundenti, con cui può anche aver cagionato lo strappo della ciocca di capelli rinvenuta sul terreno – oppure che si fosse in qualche modo ripulito strofinando le palme sulla camicia di Pasolini o più probabilmente sullo straccio celeste, trovato in terra sporco di sangue di Pasolini, oppure ancora che prima di salire in macchina abbia indugiato i pochi minuti sufficienti a far coagulare le macchie che avesse avuto sulle palme, o infine che le incrostazioni rimaste sul volante siano state asportate dal successivo attrito delle mani di Pelosi stesso e di chi guidò poi la macchina fino alla caserma.
Le possibili spiegazioni, tutte ragionevoli, sono dunque più d'una, e per conseguenza a quella prospettata dal Tribunale non può essere attribuito il preteso valore.
La stessa cosa è da dire quanto alla contemporanea presenza di frammenti dei due corpi contundenti sotto e intorno al corpo di Pasolini. Anche a questo riguardo la supposizione fatta nella sentenza impugnata, che i due legni siano stati usati nello stesso tempo da diverse persone, è in astratto ammissibile, ma non può escludersi che sia stato soltanto Pelosi ad adoperarli nello stesso luogo in tempi consecutivi, tanto più se la vittima, già raggiunta dai calci ai testicoli, era ormai già immobilizzata e probabilmente in ginocchio, fino a quando, colpita ancora ripetutamente, cadde bocconi.
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Da ultimo la corte deve attribuire mero valore congetturale alle induzioni che la sentenza impugnata vuole trarre dalla precisione e violenza del calcio ai testicoli, che sarebbe stato inferto da uno dei complici mentre Pasolini veniva tenuto da altri, e dal tempo di circa un'ora trascorso fra l'arrivo all'Idroscalo e l'arresto dell'imputato, che sarebbe stato in buona parte impiegato dai concorrenti per decidere il da farsi dopo il delitto. Trattasi in verità di illazioni che non sono suffragate da alcun elemento, non potendosi escludere che Pelosi sia riuscito a colpire Pasolini al basso ventre quando l'altro non se l'aspettava, né essendo in alcuna maniera individuabili i risultati della supposta concertazione, che del resto troverebbe spiegazione in una ricostruzione dei tempi basata sul racconto di Pelosi, per altri versi dimostratasi non credibile.
L'ipotesi del concorso appare poi improbabile per alcune considerazioni di carattere generale.
Innanzitutto non è facile ipotizzare che Pelosi e Pasolini siano stati preceduti o seguiti sul luogo del delitto da terze persone. I sospetti dovrebbero restringersi (com'è prospettato anche nella sentenza impugnata) agli amici con cui Pelosi si trovava al momento dell'incontro con Pasolini, perché questi soltanto avrebbero potuto sapere da Pelosi in quale luogo lui e Pasolini sarebbero andati, e là attenderli o raggiungerli, oppure avrebbero potuto seguire la macchina di Pasolini fino all'idroscalo
Secondo la prima ipotesi, l'informazione avrebbe potuto essere data da Pelosi quando egli ritornò a piazza dei Cinquecento, dopo circa mezz'ora, per richiedere al Seminara le chiavi di casa (e in quel momento la scelta dell'Idroscalo avrebbe già dovuto essere stata concordata con Pasolini). Stando invece alla seconda ipotesi, gli amici di Pelosi avrebbero dovuto porsi all'inseguimento della macchina di Pasolini, arrestarsi e attenderla durante le soste, non perderla di vista fino all'Idroscalo.
Ma se la prima alternativa fosse vera, cioè se il piano criminoso fosse stato concordato quando Pelosi ritornò indietro, è da credere che tutti avrebbero taciuto di questo ritorno, che invece fu subito dichiarato sia da Pelosi sia dai suoi amici uditi come testi. Se invece i compagni di Pelosi avessero deciso di seguire i due, è da supporre che l'inseguimento sarebbe incominciato subito, senza che il gruppo si intrattenesse ancora per più di mezz'ora, come fece, in piazza dei Cinquecento. Se poi la decisione dell'inseguimento fosse stata presa dopo il ritorno di Pelosi, ancora una volta varrebbe l'osservazione che verosimilmente questo ritorno non sarebbe stato confessato.
D'altra parte, con riferimento alla prima ipotesi, deve osservarsi che è molto più verosimile che sia stato Pasolini, da cui era provenuto l'invito, a scegliere il luogo di destinazione, quasi certamente a lui noto per averlo frequentato altre volte (così come scelse la trattoria per la cena, dove, a detta del teste Panzironi, si era più volte recato), mentre nessun elemento è emerso da cui possa desumersi che Pelosi lo conoscesse. (La contraria illazione che il Tribunale ha voluto desumere dal fatto che Pelosi, quando volle lavarsi le mani e i vestiti, arrestò l'automobile prima della piazza in cui si trovava la fontana, appare arbitraria, posto che si trattò di una distanza di pochi metri, appena dieci o quindici dalla fontanella, e l'imputato è credibile quando dichiara che decise di non parcheggiare la macchini rubata nella piazza perché temeva che qualcuno lo vedesse). [...]
Con riferimento all'ipotesi dell'inseguimento deve invece rilevarsi anche l'improbabilità che gli inseguitori, rimasti all'esterno della trattoria in attesa che Pasolini e Pelosi finissero la cena, non siano stati notati dal trattore che accompagnò i due clienti all'uscita del locale (teste Panzironi), né successivamente, al distributore di benzina, dall'altro automobilista sopraggiunto (teste De Angelis). Con riferimento all'una e all'altra ipotesi non può poi non rilevarsi che se è vero che Pasolini, come afferma la sentenza impugnata, aveva motivi di diffidenza verso i compagni di Pelosi, egli non avrebbe mancato di mettersi in sospetto e invertire la marcia notando le luci del veicolo inseguitore. Inoltre è assai importante la circostanza che nessuna traccia di veicoli, oltre quelle ben evidenti lasciate dall'auto di Pasolini, sia stata trovata sul terreno dell'Idroscalo.
Quanto alla conciliabilità dell'ipotesi del concorso con l'atteggiamento tenuto dal Pelosi dopo l'omicidio, le ragioni di dubbio sono molteplici. In primo luogo non pare credibile che Pelosi non avrebbe lasciato il luogo del delitto insieme con i suoi complici, a bordo del veicolo o dei veicoli da loro utilizzati per arrivare sul posto. Anche se si temeva che Pelosi avrebbe potuto alla fine essere rintracciato attraverso le testimonianze del De Angelis e del Panzironi, per le autorità inquirenti egli sarebbe stato l'unico addentellato per poter giungere all'identificazione dei concorrenti, e costoro avrebbero avuto tutto l'interesse a occultare ogni connessione fra lui e il delitto, in primo luogo non esponendolo a essere trovato in possesso dell'automobile di Pasolini. Se poi nel piano comune fosse rientrato anche il furto dell'autovettura, o se per altra non comprensibile ragione si fosse deciso di far esporre Pelosi all'arresto, concordandosi che avrebbe allora dovuto raccontare di essersi difeso perché era stato aggredito, ebbene in tal caso Pelosi, per essere credibile, avrebbe subito dovuto avanzare questa versione una volta arrestato.
[...]
In definitiva, le conclusioni che da tutta la disamina che precede la corte trae intorno alla possibilità della partecipazione di altre persone al delitto, anche se non possono essere espresse in termini di totale e assoluta certezza, sono tuttavia sufficientemente tranquillanti, e possono essere riassunte come segue:
a) Un primo punto è certo, ed è che non può assolutamente essere condivisa, e anzi deve essere considerata ingiustificata alla luce di una più approfondita e completa analisi dei fatti, la sicurezza con cui il giudice di primo grado ha affermato l'esistenza del concorso di persone. Non esiste infatti alcuna prova fisica della presenza di terzi sul luogo del delitto: ma non esiste neppure quella molteplicità di indizi seri e concordanti, per la quale i singoli elementi, pur se dubbi o insufficienti ove presi singolarmente, acquisterebbero forza probante proprio in virtù della loro coesistenza. I dati che il Tribunale ha considerato imponenti e univoci, e dunque decisivi anche perché collegati all'esistenza di prove positive della presenza di altre persone, sono invece per la massima parte – come s'è visto ampiamente – inesistenti o labili, e per la parte residua privi di univocità, cioè perfettamente compatibili anche con l'ipotesi che Pelosi abbia commesso da solo il delitto.
b) La valutazione complessiva delle circostanze, dei tempi, delle possibilità in genere del raggiungimento del luogo del delitto da parte di altre persone, la mancanza di tracce della presenza di altri sul luogo del delitto, nonché la supposizione del comportamento successivo che i concorrenti, compreso il Pelosi, avrebbero ragionevolmente dovuto tenere, portano a escludere, piuttosto che ad ammettere, l'ipotesi del concorso. Certo, la possibilità che chi ha commesso un omicidio tenga atteggiamenti irragionevoli non può essere negata, ma la cosa è meno verosimile quando si tratti di un delitto preordinato da più persone, che denuncia maggiore freddezza di propositi e quindi maggiore capacità, almeno da parte di qualcuno dei compartecipi, di concepire e imporre la condotta che meglio possa servire ad assicurare l'impunità. Ciò che deve recisamente escludersi, a ogni modo, è che il comportamento tenuto da Pelosi dopo il delitto possa essere meglio spiegato – come si pretende nella sentenza impugnata – se lo si collega alla complicità di altre persone.
c) Restano tuttavia alcuni lievi margini di dubbio sul concorso di terzi, nascenti da alcune lacunosità del racconto di Pelosi e dalla astratta possibilità di interpretare in maniera diversa alcune delle circostanze sopra esaminate: in particolare la sparizione dell'accendisigari e delle sigarette, il ritrovamento di pezzi del bastone e insieme della tavola sotto il corpo di Pasolini, la sproporzione fra le lesioni subite dalla vittima e quelle riportate dall'imputato: e insieme a esse la ciocca di capelli ritrovata prima del punto in cui Pasolini cadde, che potrebbe far pensare che egli sia stato afferrato mentre fuggiva: la stessa distanza fra l'automobile e il punto di caduta, che pure potrebbe essere attribuita a un tentativo di fuga. Trattasi però di circostanze che possono tutte trovare spiegazioni anche escludendo che Pelosi fosse con altri, e dunque non costituiscono indizi univoci del concorso di persone.
In definitiva, esprimendo il proprio definitivo giudizio sull'ipotesi del concorso di altri nell'omicidio, la corte afferma di ritenere estremamente improbabile, per tutte le cose dette, che Pelosi possa avere avuto uno o più complici.
Quanto alle conseguenze giuridiche ditale residua e pur marginale incertezza, esso impedisce certo di affermare che su tutte le modalità del delitto si sia potuto fare piena luce (ciò che del resto era tanto più vero secondo la tesi della sentenza impugnata, la quale dal suo punto di vista non ha certo potuto chiarire quale sarebbe stato il numero dei concorrenti, quale la concreta partecipazione di ognuno, quale la ragione del supposto concerto criminoso), ma non ha influenza sul l'accertamento della responsabilità dell'imputato, accertamento che non rimane pregiudicato – come s'è detto a proposito della correlazione fra accusa e sentenza – dal lieve dubbio residuale che Pelosi possa avere ucciso Pasolini anche con l'aiuto di terzi.
In linea giuridica, invero, vale il principio che quando il giudice non arriva ad appurare in maniera totale e dettagliata ogni modalità del fatto criminoso, non ne rimane perciò incrinato il giudizio di colpevolezza ove sia dissolto ogni dubbio sugli elementi essenziali dell'azione e sul rapporto di causalità fra l'azione stessa e l'evento: in particolare, poiché nel diritto penale la concausa è trattata come causa, la residua incertezza che non sia stato possibile sciogliere intorno al carattere concorrente o esclusivo dell'azione non influisce sull'accertamento del nesso di causalità. Mentre l'opinione che Pasolini fosse stato vittima di più persone aveva facilitato al Tribunale il proprio giudizio sulla colpevolezza dell'imputato, essendo implicito nella partecipazione di più complici il carattere doloso dell'azione di tutti i compartecipi, la corte deve ora giudicare della colpevolezza muovendo dal presupposto che Pelosi agì da solo: ma ritiene ugualmente, con tranquilla coscienza, che non possa aversi alcun dubbio sulla natura dolosa dell'azione dell'imputato e sull'assenza di cause di giustificazione.
Alla formazione di questo fermo convincimento valgono già gran parte dei rilievi fin qui fatti, e innanzitutto l'acclarata falsità del racconto dell'imputato, che certamente non appare attribuibile, se collegata con i dati obiettivi, a un maldestro tentativo di difesa.
S'è visto che la narrazione di Pelosi s'è rivelata anzitutto menzognera in rapporto alla circostanza della camicia e dell'effetto dei calci ai testicoli. Ma le sue menzogne non finiscono qui. È falsa, in primo luogo, l'affermazione che egli non sapeva di essersi accompagnato con Pasolini. In piazza dei Cinquecento lo scrittore era stato riconosciuto dagli amici dell'imputato, due dei quali avevano anche conversato con lui, gli avevano proposto un giro in macchina e scherzando gli avevano chiesto una particina in un film. Sia i due sia il Seminara dissero a Pelosi che l'uomo della macchina era Pasolini.
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Le menzogne sulla conoscenza dell'identità di Pasolini e delle sue tendenze sono evidentemente un accorto tentativo di non far apparire che egli aveva accettato l'idea delle prestazioni sessuali che poi sostenne di non aver voluto, e per opporsi alle quali avrebbe reagito. L'imputato si è reso ben conto che la sua versione d'essersi difeso contro un'aggressione alla libertà sessuale sarebbe stata in contraddizione con un suo iniziale consenso a rapporti sodomitici indifferenziati, e ha contestato ogni elemento da cui quel consenso potesse implicitamente apparire.
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Quanto alla materialità dell'aggressione, che secondo l'imputato sarebbe stata tale da giustificare la propria violenza difensiva, la corte rileva che se si ricerca a fondo nel suo racconto, anche senza voler tener conto delle incongruenze di cui è infrcito, in quale modo l'aggressione stessa si sia estrinsecata, non si trova nulla che possa far credere che la libertà sessuale dell'imputato o la sua integrità fisica siano state veramente messe in pericolo o siano potute a lui apparire gravemente minacciate.
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È ben vero che qualche lesione Pelosi l'ha riportata, e dunque un qualche scambio di colpi fra lui e Pasolini ci deve essere stato:
ma la sola ipotesi che appare verosimile, data la sproporzione delle conseguenze dall'uno e dall'altro subite e date le caratteristiche di molte delle lesioni riscontrate sul corpo di Pasolini (contusioni a carico dell'avambraccio e del dorso delle mani, che secondo i periti denotano un atteggiamento difensivo), è che Pasolini si sia limitato a cercare di difendersi, e se pure raggiunse Pelosi con qualche percossa, lo fece soltanto per contrastare un attacco, senza avere l'intenzione o la possibilità di arrecare grave offesa e probabilmente incredulo delle reali intenzioni dell'altro, venendo ben presto raggiunto da colpi di calci ai testicoli che gli tolsero ogni capacità di resistere. Ciò è convalidato dal fatto che sul paletto sono stati trovati soltanto sangue e capelli di Pasolini, il che da un lato fa escludere che il legno sia stato da lui stesso usato, o semmai soltanto in una fase iniziale e (data la friabilità) senza particolare violenza, e dall'altro dimostra che Pelosi ebbe modo di adoperare entrambi i corpi contundenti, così come egli ha finito per ammettere (pur mentendo circa l'ordine del loro impiego, e mentendo altresì sul fatto che la tavola si sarebbe rotta a primo colpo, giacché tracce di sangue di Pasolini sono state trovate su entrambe le facce di tutti e due i pezzi) negli ultimi interrogatori.
In definitiva, la generale inattendibilità del racconto di Pelosi dimostrata dalle sue menzogne circa la camicia e circa le conseguenze dei calci ai genitali, l'incongruenza dei particolari da lui descritti, e infine l'analisi dei dati obiettivi portano a ritenere che quando i due finirono per trovarsi, per ragioni che rimangono non chiare, a una cinquantina di metri dall'automobile (ma occorre ricordare che in uno dei suoi interrogatori l'imputato ha dichiarato che Pasolini gli aveva proposto di fare un giretto) vi dovette essere fra loro una colluttazione durante la quale Pelosi riuscì ad afferrare Pasolini per i capelli [...] e a raggiungerlo con violenza ai testicoli. Subito dopo, mentre Pasolini era incapace di difendersi, lo colpì alla testa con il paletto; quindi prese la tavola e continuò a dar colpi con furiosa insistenza [...]
Nello stesso tempo, si deve affermare che dal racconto dell'imputato non appare verosimile che Pasolini abbia posto in essere un tentativo di violenza carnale o altra immotivata aggressione fisica [...j.
[...]
Infine, contro la tesi dell'aggressione si pone nettamente il comportamento successivo dell'imputato. A parte il fatto che la preoccupazione di disperdere i mezzi di offesa e di eliminare da sé ogni traccia di sangue coi lavaggio alla fontana, oltre che priva di giustificazione, sarebbe stata incompatibile con lo stato d'animo di chi avesse dovuto difendersi da una violenza, è certo che se Pelosi avesse agito per legittima difesa avrebbe mostrato ben diverso atteggiamento di fronte ai Carabinieri che lo fermarono: non avrebbe cercato di sfuggire loro per occultare il furto della macchina, avrebbe raccontato immediatamente l'accaduto, non avrebbe tentato di far apparire legittimo, come fece in un primo tempo, il possesso dell'automobile, e poi di far credere che se ne era impossessato in luogo e circostanze diversi [...]
Intorno alla propria consapevolezza che Pasolini fosse a terra esanime sulla strada percorsa dall'automobile l'imputato ha fornito versioni contraddittorie. Ha detto infatti in dibattimento «credevo che l'uomo si fosse rialzato e se ne fosse andato»; «ero sconvolto perché forse si era recato al commissariato a denunciarmi»; ma ha detto anche «avrei fatto una telefonata anonima perché qualcuno andasse a soccorrerlo»; «non volevo assolutamente confessare l'omicidio ai Carabinieri perché avevo paura che mi picchiassero»; «per scherzare dissi in carcere a un amico che avevo ammazzato Pasolini»; e in istruttoria aveva detto «di lì Pasolini non si mosse più»; «al mio vicino di cella dissi di avere ammazzato Pasolini perché pensavo che per tutte le botte che gli avevo dato e perché era rimasto lì fosse morto o potesse essere morto». Tale contrasto di dichiarazioni non sembra casuale, ma piuttosto diretto ad accreditare l'affermazione che quando ritornò verso la macchina egli era sconvolto e non fu più in grado di pensare o stabilire dove la sua vittima fosse o non fosse, non la vide più, non fu capace di rendersi conto che passando con l'auto avrebbe potuto investirla.
Ciò su cui, tuttavia, non può nutrirsi alcun dubbio è che l'imputato, quando cessò di vibrare colpi, per simulare un incidente o comunque confondere gli indizi, raccoglie i due pezzi della tavola e il pezzo più lungo del paletto (il più corto era rimasto sotto il corpo di Pasolini), raccoglie anche la camicia (non è infatti dubbio che questa deve identificarsi con lo "straccio o carta" di cui egli ha parlato, perché solo così si spiega che l'indumento sia finito accanto ai pezzi di tavola) pone attenzione a non insanguinarsi troppo e avvolge i pezzi di legno nella camicia, supera poi il punto in cui è l'automobile per andare a gettarli oltre la porta del campetto di gioco, in una zona erbosa e piena di detriti.
Successivamente, nonostante che non conosca il tipo di autovettura, riesce ad avviarla, ad accendere le luci, a compiere con precisione una manovra di retromarcia, passando sotto la porta larga non più di sei metri.
A questo punto la narrazione dell'imputato comprende due circostanze del tutto inattendibili: la prima è che egli avesse il volto e gli occhi coperti di sangue, tanto da rimanergliene ostacolata la vista; la seconda è che fosse partito "a tutto gas" (interrogatorio del 5 novembre) e che la macchina sbandasse perché non riusciva a dominarla (interrogatorio dibattimentale). La prima circostanza è certamente falsa, poiché – come si è visto – egli non aveva riportato alla testa alcuna lesione che potesse produrgli una abbondante emorragia, né poteva essersi imbrattato a tal punto il viso entrando in contatto con Pasolini (cosa di per sé da escludere alla luce dei rilievi sopra fatti intorno allo svolgimento della colluttazione) senza che anche i suoi indumenti ne rimanessero sporcati in modo molto più vistoso. La seconda circostanza non è credibile perché la presenza di profonde buche nel terreno (salvo che nell'ultimo tratto più vicino al punto in cui giaceva Pasolini), che anche a detta dell'imputato facevano sobbalzare la macchina, non consentiva di spingere ai massimo la velocità e perché le tracce rimaste sul terreno non denotano alcuno sbandamento, ma sono invece perfettamente rettilinee.
Quanto all'illuminazione del percorso, l'imputato ha in un primo tempo dichiarato che aveva acceso le luci (interrogatorio (lei 2 novembre), poi che non ricordava se aveva acceso i fari (interrogatorio del 15 novembre), quindi che era riuscito ad accendere i fari, e anche a riaccenderli dopo che essi si erano spenti durante la retromarcia (interrogatorio del 9 dicembre), infine (nel corso del dibattimento) che quando accese il quadro si accesero i fari, ma che non sapeva se fossero «le luci di posizione o altro».
Da tali dichiarazioni – le quali rivelano ancora una volta l'accortezza con la quale in dibattimento l'imputato ha cercato di attenuare, con parziali abili modificazioni, la portata di precedenti ammissioni – la corte trae la certezza che Pelosi non procedette con le insufficienti luci di posizione ma con i proiettori a luce abbagliante o anabbagliante, anche questi ultimi idonei, data la bassa velocità tenuta, a illuminare il corpo di Pasolini da una distanza sufficiente per riuscire a evitarlo.
Quanto a questa possibilità e alla conseguente volontarietà dell'investimento, la difesa ha preteso di attribuire molta importanza alla presenza di un'angolatura nella recinzione delimitante la strada, rasentando la quale l'automobile avrebbe necessariamente dovuto, seguendo un percorso rettilineo, passare sul punto in cui giaceva il corpo. Sta però di fatto:
a) che il corpo di Pasolini, posto in posizione obliqua rispetto all'asse stradale, aveva la testa a m 4,10 dalla recinzione delimitante la strada a sinistra secondo il senso di marcia dell'auto (e il tronco e le gambe a distanza ancora minore) e a m 8,50 dalla recinzione di destra:
b) che lo spigolo della recinzione di destra sopraddetto, oltre il quale la recinzione stessa subiva un'ampia rientranza, era a m 22-23 dal corpo:
c) che se dopo l'investimento l'auto avesse conservato la medesima direzione rettilinea, che tenne fino al corpo, sarebbe andata poco dopo a urtare contro la recinzione di sinistra:
d) che in effetti, dopo il punto dell'investimento, le tracce dei pneumatici – com'è agevole rilevare dalle fotografie e dalla planimetria – deviano verso destra di quel tanto che fu sufficiente per riprendere la direzione esatta.
Se ne desume che l'imputato, a parte la cautela con cui avrebbe dovuto procedere sapendo della presenza del corpo di Pasolini, aveva uno spazio ampiamente sufficiente sia prima di raggiungere il corpo (m 22 partendo dallo spigolo della recinzione) sia sulla destra di esso (m 8,50), per evitare con tutta facilità di investirlo, senza dover compiere una brusca manovra ma soltanto con una lieve e progressiva correzione di direzione. Ma se ne desume anche che il percorso naturale dell'automobile, se il conducente non avesse voluto portarla proprio sopra il corpo, avrebbe piegato leggermente verso destra subito dopo lo spigolo della recinzione. Non è credibile, in altre parole, che una tale leggera necessaria deviazione sarebbe stata ritardata fino a che non fosse stato raggiunto il punto dove in effetti fu eseguita, e, correlativamente, si deve pensare che se fu operata proprio nel punto dell'investimento, quando le ruote di sinistra erano venute a trovarsi a meno di quattro metri dal limite sinistro della strada e a circa nove metri dal destro, ciò fu dovuto alla volontà di investire. Desta anzi impressione l'inesorabile precisione con cui, nelle fotografie. le tracce dell'automobile puntano direttamente fin da lontano verso il corpo di Pasolini, ne sormontano (quelle delle ruote di sinistra) il tronco, e riprendono poi, per effetto di una immediata correzione di marcia, la giusta direzione.
Da tutto quanto precede la corte ricava il duplice convincimento che, dopo aver colpito Pasolini con insistente reiterazione, Pelosi conservò il dominio di se stesso, e volle l'investimento con uguale determinazione.
La lucidità e freddezza del suo comportamento sono convalidate dall'atteggiamento che egli tenne subito dopo, quando, invece di fuggire in preda al panico, si preoccupò di eliminare le tracce della lotta che ancora conservava su di sé e si arrestò alla fontana, ebbe cura di non esporre troppo in vista la macchina rubata, si lavò accuratamente gli indumenti e le mani. Pochi minuti dopo, quando venne avvistato dai Carabinieri, decise immediatamente di darsi alla fuga guidando con perizia e elevatissima velocità, fu capace di simulare di arrestarsi per poi ripartire all'improvviso, seppe subito inventare bugie a proposito del furto dell'auto. La piena consapevolezza delle azioni che aveva compiuto e delle conseguenze di esse è poi dimostrata dalle dichiarazioni fatte la mattina successiva al suo vicino di cella, al quale disse che stava in prigione perché aveva ucciso Pier Paolo Pasolini. Ciò fa anzi supporre che, dopo l'investimento, egli possa essersi arrestato per assicurarsi che Pasolini non desse più segni di vita.
L'azione finale si collegò, dunque, nella sua fredda determinazione, a quella precedente, quando Pasolini, ormai in balia del suo aggressore, venne colpito ripetutamente, senz'altro scopo che quello omicida, alla testa e alla nuca. Allo stesso modo Pelosi, salito sull'automobile, non soltanto non si curò di evitare il corpo di Pasolini giacente a terra, che sapeva bene dove fosse e che altrettanto bene vedeva alla luce dei fari, ma si diresse decisamente su di esso e non cambiò direzione che quando l'ebbe schiacciato con le ruote.
[...]
Quanto precedentemente esposto sulla mancanza di prova che
il delitto di omicidio sia stato da Pelosi commesso in concorso con altri comporta l'eliminazione della modifica al capo b) della rubrica, apportata dal Tribunale. P.Q.M. - Visto l'art. 523 C.p.p. in parziale riforma della sentenza del Tribunale per i minorenni di Roma in data 26.4.76, appellata dall'imputato Pelosi Giuseppe e dal Pg, assolve Pelosi Giuseppe dal reato di atti osceni a lui ascritti al capo a) dell'imputazione e conferma le statuizioni della impugnata sentenza relativa ai due reati al Pelosi ascritti ai capi b) e c) dell'originaria imputazione Roma, 4 dicembre 1976
Corte composta da: Ferdinando Zucconi Galli Fonseca, Presidente; Consiglieri: Almo Fratoni, Giovanni Del Basso, Maria Luisa Lanza, Marcello Vacchini.

Fonte:
http://www.google.it/url?sa=t&rct=j&q=&esrc=s&frm=1&source=web&cd=50&ved=0CHgQFjAJOCg&url=http%3A%2F%2Fwww.itisavezzano.it%2Fpublic%2FPIERPAOLOPASOLINI.pdf&ei=XUiWUbP2IITFPIPogZAC&usg=AFQjCNEHPM6SNZNMzzWup57Yy_lnNPPLxA&sig2=byzGSvkup2EzcUWXOqc1cQ
Vedi anche:
Pasolini.net



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Curatore, Bruno Esposito

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