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Biografia, lavori in corso - a breve anche il 1974 e il 1975

domenica 7 aprile 2013

Pasolini racconta “La rabbia”

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro



Pasolini racconta “La rabbia”

Il testo che segue, scritto da Pier Paolo Pasolini, è apparso sul n. 38 del 20 settembre 1962 sulla rivista "Vie nuove", con cui Pasolini collaborava, ed è stato raccolto, insieme ad altri interventi, nel volume Le belle bandiere, a cura di Gian Carlo Ferretti, Editori Riuniti, Roma. Pasolini risponde a un lettore che gli aveva rivolto appunto alcune domande sul film.
«È un film tratto da materiale di repertorio (novantamila metri di pellicola: il materiale cioè di circa sei anni di vita di un settimanale cinematografico, ora estinto). Un'opera giornalistica, dunque, più che creativa. Un saggio più che un racconto. Per dargliene un'idea più precisa, le accludo il "trattamento" del lavoro: le solite cinque paginette che il produttore chiede per il noleggio. Tenga quindi conto della destinazione di questo scritto: una destinazione che implica da una parte una certa ipocrita prudenza ideologica (il film sarà molto più decisamente marxista, nell'impostazione, di quanto non sembri da questo riassunto), e dall'altra parte una certa goffagine estetica (il film sarà molto più raffinato, nel montaggio e nella scelta delle immagini, di quanto non si deduca da queste affrettate righe).

La rabbia
Cos'è successo nel mondo, dopo la guerra e il dopoguerra? La normalità.
Già, la normalità. Nello stato di normalità non ci si guarda intorno: tutto, intorno si presenta come "normale", privo della eccitazione e dell'emozione degli anni di emergenza. L'uomo tende ad addormentarsi nella propria normalità, si dimentica di riflettersi, perde l'abitudine di giudicarsi, non sa più chiedersi chi è.
È allora che va creato, artificialmente, lo stato di emergenza: a crearlo ci pensano i poeti. I poeti, questi eterni indignati, questi campioni della rabbia intellettuale, della furia filosofica. Ci sono stati degli avvenimenti che hanno segnato la fine del dopoguerra: mettiamo, per l'Italia, la morte di De Gasperi.
La rabbia comincia lì, con quei grossi, grigi funerali.
Lo statista antifascista e ricostruttore è "scomparso": l'Italia si adegua nel lutto della scomparsa, e si prepara, appunto, a ritrovare la normalità dei tempi di pace, di vera, immemore pace.
Qualcuno, il poeta, invece, si rifiuta a questo adattamento.

Egli osserva con distacco - il distacco dello scontento, della rabbia - gli estremi atti del dopoguerra: il ritorno degli ultimi prigionieri, ricordate, in squallidi treni, il ritorno delle ceneri dei morti... E... il ministro Pella, che, tronfiamente, suggella la volontà dell'Italia a partecipare all'Europa Unita.
È così che ricomincia nella pace, il meccanismo dei rapporti internazionali. I gabinetti si susseguono ai gabinetti, gli aeroporti sono un continuo andare e venire di ministri, di ambasciatori, di plenipotenziari, che scendono dalla scaletta dell'aereo, sorridono, dicono parole vuote, stupide, vane, bugiarde.
Il nostro mondo, in pace, rigurgita di un bieco odio, l'anticomunismo. E sul fondo plumbeo e deprimente della guerra fredda e della Germania divisa, si profilano le nuove figure dei protagonisti della storia nuova.
Krusciov, Kennedy, Nehru, Tito, Nasser, De Gaulle, Castro, Ben Bella.
Finché si arriva a Ginevra, all'incontro dei quattro grandi: e la pace, ancora turbata, va verso un definitivo assestamento. E la rabbia del poeta, verso questa normalizzazione che è consacrazione della potenza e conformismo, non può che crescere ancora.

Cos'è che rende scontento il poeta?
Un'infinità di problemi che esistono e nessuno è capace di risolvere: e senza la cui risoluzione la pace, la pace vera, la pace del poeta, è irrealizzabile.
Per esempio: il colonialismo. Questa anacronistica violenza di una nazione su un'altra nazione, col suo strascico di martiri, di morti.
O: la fame, per milioni e milioni di sottoproletari.
O: il razzismo. Il razzismo come cancro morale dell'uomo moderno, e che, appunto come il cancro, ha infinite forme. E' l'odio che nasce dal conformismo, dal culto della istruzione, dalla prepotenza della maggioranza. E' l'odio per tutto ciò che e' diverso, per tutto ciò che non rientra nella norma, e che quindi turba l'ordine borghese. Guai a chi è diverso! questo il grido, la formula, lo slogan del mondo moderno. Quindi odio contro i negri, i gialli, gli uomini di colore: odio contro gli ebrei, odio contro i figli ribelli, odio contro i poeti.
Linciaggi a Little Rock, linciaggi a Londra, linciaggi in Nord Africa; insulti fascisti agli ebrei.

È cosi' che riscoppia la crisi, l'eterna crisi latente.
I fatti d'Ungheria, Suez.
E l'Algeria che comincia piano piano a riempirsi di morti.
Il mondo sembra, per qualche settimana, quello di qualche anno avanti. Cannoni che sparano, macerie, cadaveri per le strade, file di profughi stracciati, i paesaggi incrostati di neve.Morti sventrati sotto il solleone del deserto.
La crisi si risolve, ancora una volta, nel mondo: i nuovi morti sono pianti e onorati, e ricomincia, sempre più integrale e profonda, l'illusione della pace e della normalità'. Ma, insieme alla vecchia Europa che si riassesta nei suoi solenni cardini, nasce l'Europa moderna: il neocapitalismo; il Mec, gli Stati Uniti d'Europa, gli industriali illuminati e "fraterni", i problemi delle relazioni umane, del tempo libero, dell'alienazione.
La cultura occupa terreni nuovi: una nuova ventata di energia creatrice nelle lettere, nel cinema, nella pittura. Un enorme servizio ai grandi detentori del capitale.Il poeta servile si annulla, vanificando i problemi e riducendo tutto a forma.
Il mondo potente del capitale ha, come spavalda bandiera, un quadro astratto.

Così, mentre da una parte la cultura ad alto livello si fa più raffinata e per pochi, questi "pochi" divengono, fittiziamente, tanti: diventano "massa". E' il trionfo del "digest" e del "rotocalco" e, soprattutto della televisione. Il mondo travisato da questi mezzi di diffusione, di cultura, di propaganda, si fa sempre più irreale: la produzione in serie, anche delle idee, lo rende mostruoso.
Il mondo del rotocalco, del lancio su base mondiale anche dei prodotti umani, è un mondo che uccide.
Povera, dolce Marylin, sorellina ubbidiente, carica della tua bellezza come di una fatalità che rallegra e uccide.
Forse tu hai preso la strada giusta, ce l'hai insegnata. Il tuo bianco, il tuo oro, il tuo sorriso impudico per gentilezza, passivo per timidezza, per rispetto ai grandi che ti volevano così, te, rimasta bambina, sono qualcosa che ci invita a placare la rabbia del pianto, a voltare le spalle a questa realtà dannata, alla fatalità del male.

Perché: finché l'uomo sfrutterà l'uomo, finché l'umanità sarà divisa in padroni e in servi, non ci sarà né normalità né pace. La ragione di tutto il male del nostro tempo è qui.
E ancora oggi, negli anni sessanta le cose non sono mutate: la situazione degli uomini e della loro società è la stessa che ha prodotto le grandi tragedie di ieri.
Vedete questi? Uomini severi, in doppiopetto, eleganti, che salgono e scendono dagli aeroplani, che corrono in potenti automobili, che siedono a scrivanie grandissime come troni, che si riuniscono in emicicli solenni, in sedi splendide e severe: questi uomini dai volti di cani o di santi, di jene o di aquile, questi sono i padroni.
E vedete questi? Uomini umili, vestiti di stracci o di abiti fatti in serie, miseri, che vanno e vengono per strade rigurgitanti e squallide, che passono ore e ore a un lavoro senza speranza, che si riuniscono umilmente in stadi o in osterie, in casupole miserabili o in tragici grattacieli: questi uomini dai volti uguali a quelli dei morti, senza connotati e senza luce se non quella della vita, questi sono i servi.
È da questa divisione che nasce la tragedia e la morte.
La bomba atomica col suo funebre cappuccio che si allarga in cieli apocalittici è il futuro di questa divisione.
Sembra non esservi soluzione da questa impasse, in cui si agita il mondo della pace e del benessere. Forse solo una svolta imprevista, inimmaginabile... una soluzione che nessun profeta può intuire... una di quelle sorprese che ha la vita quando vuole continuare... forse... Forse il sorriso degli astronauti: quello forse, è il sorriso della vera speranza, della vera pace. Interrotte, o chiuse, o sanguinanti le vie della terra, ecco che si apre, timidamente, la via del cosmo.»

Fonte:
http://temi.repubblica.it/micromega-online/pasolini-racconta-la-rabbia/


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La morte di Pasolini. Quando Oriana Fallaci arrivò vicinissima alla verità

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro





La morte di Pasolini. Quando Oriana Fallaci arrivò vicinissima alla verità

Sono convinto che per svelare il segreto degli ultimi istanti di vita di Pier Paolo Pasolini occorre partire da un articolo uscito il 14 novembre 1975 su L'Europeo, scritto di getto 12 giorni dopo la morte del poeta e poco prima che il settimanale chiudesse per andare in stampa, da Oriana Fallaci. Oriana aveva con Pier Paolo un rapporto di frequentazione. Capitava spesso che andassero a cena insieme lei, lui e Alekos Panagulis.
La giornalista non ha mai rivelato l'identità delle sue "fonti" e si è portata i loro nomi nella tomba. Nemmeno una condanna a quattro mesi di reclusione per reticenza la convinse a venir meno alla parola data. Oriana era una donna caparbia e lo aveva dichiarato subito che non avrebbe mai violato il segreto. "Io non rivelerò mai, mai, mai il nome della persona o delle persone da cui ho saputo che ad ammazzare Pasolini non era stato Pelosi da solo. Io sono una persona d’onore. Giurai di non fare il loro nome e non lo farò mai, morirò col mio segreto punto e basta".
Solo mettendo insieme i piccoli frammeti di verità che si possono rintracciare nelle tante interviste d Pino Pelosi e di "altri" protagonisti della vicenda, è possibile ipotizzare che la Fallaci fosse riuscita - attraverso alcuni giornalisti dell'Europeo - a parlare con testimoni diretti sia dell'omicidio che delle fasi precedenti. Attorno alla zona dell'Idroscalo di Fiumicino, attorno al "pratone" dove Pasolini aveva fermato la sua automobile c'erano all'epoca delle baracchette. Una in particolare era frequentata da "marchettari" e "puttane" e dai loro occasionali clienti. La notte del 2 novembre 1975 là dentro c'era qualcuno. E' molto probabile che le fonti di Oriana raccontarono solo una parte della "verità" poiché avevano l'esignza di proteggersi. Ad ogni modo la "contro inchiesta" andata avanti per 35 anni inizia con le parole di Oriana Fallaci. Eccole.


Pasolini ucciso da due motociclisti?

di Oriana Fallaci

Esiste un'altra versione della morte di Pasolini: una versione di cui, probabilmente, la polizia è già a conoscenza ma di cui non parla per poter condurre più comodamente le indagini. Essa si basa sulle testimonianze che hanno da offrire alcuni abitanti o frequentatori delle baracche che sorgono intorno allo spiazzato dove Pier Paolo Pasolini venne ucciso. In particolare, si basa su ciò che venne visto e udito per circa mezz'ora da un romano che si trovava in una di quelle baracche per un convegno amoroso con una donna che non è sua moglie. Ecco ciò che egli non dice, almeno per ora, ma che avrebbe da dire.
Pasolini non venne aggredito e ucciso soltanto da Giuseppe Pelosi, ma da lui e da altri due teppisti, che sembrano assai conosciuti nel mondo della droga. I due teppisti erano giunti a bordo di una motocicletta dopo mezzanotte, ed erano entrati insieme a Pasolini e al Pelosi in una baracca che lo scrittore era solito affittare per centomila lire ogni volta che vi si recava. Infatti non si tratta di baracche miserande come appare all'esterno: le assi esterne di legno fasciano villette vere e proprie, munite all'interno dei normali servizi igienici, di acqua corrente, a volte ben arredate e perfino con moquette. Le urla di un alterco violento cominciarono dopo qualche tempo che i quattro si trovarono dentro la baracca. A gridare: «Porco, brutto porco» non era Pasolini ma erano i tre ragazzi. A un certo punto la porta della baracca si spalancò e Pasolini uscì correndo verso la sua automobile. Riuscì a raggiungerla e si apprestava a salirci quando i due giovanotti della motocicletta lo agguantarono e lo tirarono fuori. Pasolini si divincolò e riprese a fuggire. Ma i tre gli furono di nuovo addosso e continuarono a colpirlo. Stavolta con le tavolette di legno e anche con le catene. Ciascuno di loro aveva in mano una tavoletta e i due teppisti più grossi avevano in mano anche le catene. Il testimone che, terrorizzato, si rifiuta di raccontare la storia alla polizia, dice anche che, a un certo punto, vide i tre giovanotti in faccia.

Erano circa le una del mattino e le urla dell'alterco continuarono, udite da tutti, per quasi o circa mezz'ora. Vide anche che Pasolini cercava di difendersi. Quando Pasolini si abbatté esanime, i due ragazzi corsero verso la sua automobile, vi salirono sopra, e passarono due volte sopra il corpo dello scrittore, mentre Giuseppe Pelosi rimaneva a guardare. Poi i due scesero dall'automobile, salirono sulla motocicletta, partirono mentre Giuseppe Pelosi gridava: «Mo' me lasciate solo, mo' me lasciate qui». Continuò a gridare in quel modo anche dopo che i due si furono allontanati. Allora si diresse a sua volta verso l'automobile di Pasolini, vi salì e scappò.

La scena sarebbe stata vista non soltanto da chi era nelle "baracche" ma anche da una coppia appartata dentro un'automobile, poco lontano. E tale versione risolverebbe i dubbi che tutti hanno avanzato fino a oggi sulla possibilità che un uomo robusto e sportivo come Pasolini potesse essere sopraffatto da una persona sola, anzi da un ragazzo di diciassette anni, meno forte di lui. E il caso di sottolineare che in un primo tempo fu detto dalla polizia che nelle unghie di Pasolini erano stati trovati residui di pelle. Secondo la versione ora fornita, Pasolini tentò disperatamente di difendersi. Sul volto e sul corpo di Giuseppe Pelosi non esistono segni di una colluttazione. Tali segni, o tali graffi, si dovrebbero trovare sul volto o sul corpo degli altri due teppisti.

Perché il Pelosi non parla e si assume tutta la responsabilità? È legato anche lui al mondo della droga? Perché lui stesso ha messo sulla pista la polizia raccontando di avere perso un anello che nessuno, fino a quel momento, sapeva che fosse suo? È possibile perdere un anello durante una colluttazione? Oppure l'anello è stato gettato lì di proposito, e il Pelosi ha parlato, raccontando tutto, e la polizia non ce ne dà notizia?
Fonte:
http://vitaliquida.blogspot.it/2010/03/la-morte-di-pasolini-quando-oriana.html#!/2010/03/la-morte-di-pasolini-quando-oriana.html

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Pasolini...Povero Cristo

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro




Povero Cristo

La storia e la personalità di Pier Paolo Pasolini raccontate da Valerio Riva


"Coscientemente ho cercato la morte dopo una breve giovinezza, che pure a me pare eterna, essendo l'unica, l'insostituibile che io avessi avuto in sorte. Coscientemente ho rinunciato all'inenarrabile gioia di essere al mondo... ma ho pagato questa rinuncia con uno strazio tale che solo un vivo può comprenderlo". Queste parole, di trent'anni fa, Pier Paolo Pasolini le scrisse, idealmente, a nome di suo fratello Guido, ucciso il 7 febbraio 1945 nel tragico eccidio di Porzùs, nel Friuli. Le ritrova per me Giuseppe Zigaina, il pittore di Cervignano intimo amico di Pasolini: l'altro giorno, frugando tra le pubblicazioni di quella "Academiuta" (a metà tra scuola dominicale e accademia folclorica) che Pasolini aveva fondato a Casarsa, gli sono capitate sott'occhio: una specie di testamento spirituale vergato, oltre la morte, dalla pietà fraterna. Poi è squillato il telefono con l'annuncio della morte dell'amico, e Zigaina è partito per Roma. Adesso si rigira in mano questa paginetta: "Credo", dice assorto Zigaina, "che se potesse, dopo la morte, Pier Paolo riscriverebbe le stesse parole per sé". E mi sottolinea una seconda frase: "Non c'è confronto possibile fra tutto ciò che è di codesta vita e il silenzio terribile della morte..."; e Pasolini è precipitato anche lui nel silenzio terribile della morte, e queste frasi suonano come una straziante, impossibile invocazione alla felicità da parte di uno che era troppo diverso dagli altri. "Ma è mai stato felice, quest'uomo?" chiedo allora a Zigaina e a Nico Naldini, il cugino e l'amico fedelissimo di Pasolini, dall'infanzia ad oggi. Mi rispondono tutti e due, senza esitare: "È stato anche molto felice. Ma poche volte".
54 anni di vita, la maggior parte dei quali triturati dal rovello di sentirsi respinto e offeso fin nell'attimo in cui la gloria più sembrava arridergli; un'adolescenza spezzata da una tragedia familiare (la morte del fratello, lo strazio della madre, il rancore del padre); una giovinezza difficile; una maturità accidentata dalle polemiche e dai processi, lui che era un uomo così mite e riguardoso. E solo due o tre momenti di grande, totale, solare felicità.
Il primo di quei momenti è il tempo del Friuli, di Casarsa della Delizia, dove si era trasferito, da Bologna, al seguito del padre ufficiale di carriera e della madre maestra. La campagna e i giochi dei ragazzi lungo gli argini; la montagna e le pazze corse con gli sci; la poesia che nasce. È un mondo perfetto dove l'entusiasmo del ragazzo molto dotato si dilata quasi senza costrizioni, trasformando l'innocenza infantile e la scoperta della sessualità nel mito di una paidìa trionfante. Il 7 febbraio 1945 quel mondo s'incrina, ma non si spezza. La morte del fratello Guido è brutale, in un modo che quasi preconizza la morte di Pier Paolo. Membro di una formazione di partigiani "bianchi" del Friuli, Guido è ucciso nello sterminio del comando della "Osoppo" per opera di garibaldini, cioè comunisti, persuasi (a torto) che gli osovani avessero avuto intelligenza col nemico. La morte di Guido è uno strazio: ferito, fugge, cerca scampo in casa d'una donna, è scovato, trasportato altrove in fin di vita e sterminato. Da qui cominciano per il fratello sopravvissuto il calvario e l'apoteosi.
Per una misteriosa rivalsa, Pasolini si avvicina proprio ai comunisti, affascinato da un episodio di lotta di classe dell'immediato dopoguerra: le lotte bracciantili all'epoca del lodo De Gasperi. Al quasi ellenistico idillio originale si sovrappone e si fonde la felicità di sentirsi profeta e vate d'un pezzo di popolo, che si ritrova nella propria lingua e nel proprio orgoglio. Ma l'arcadia, anche sociale, non è possibile. Vigilia delle elezioni del 18 aprile '48: un ragazzetto confessa al parroco d'aver avuto rapporti sessuali con Pasolini: il prete, violando il segreto del confessionale, corre a raccontarlo a quelli della Dc; i giornali cattolici sbandierano il fatto a prova della protervia comunista. Frettolosamente il Pci locale prende le distanze dallo scomodo poetino. Pasolini ha 28 anni. Fugge a Roma. Due anni di miseria, di umiliazione, di non lavoro o di lavori malpagati. Eppure è il suo secondo periodo di grande felicità. Giorno e notte percorre in lungo e in largo la Roma barocca, e il suo fasto, e la Roma popolare, e la sua triviale e insieme inesauribile fantasia. Una realtà sontuosa e stracciona, gloriosa e bieca; ma Pasolini è un re Mida che trasforma il mondo che tocca.
Il suo eros, la sua forza fisica, la sua gioia di vivere sembrano non avere limitazioni; l'umiliazione del '48 pare dimenticata. Ma la gloria e i processi che gli arrivano a metà degli anni Cinquanta, con Ragazzi di vita, lo spingono in una "diversità" che più lo imprigiona e più gli sembra oscena, disumana. "Diverso" com'è per costrizione sociale, da questo momento lotterà disperatamente per non rinnegare se stesso. Ma come i suoi "Riccetti" non riescono a uscire dall'adolescenza se non con la morte, così per Pasolini le soluzioni ottimistiche di Una vita violenta (diventare un buon "compagno") non risolvono nulla. Il terzo e ultimo momento di felicità è quello della scoperta della sopravvivenza del sottoproletariato nel Terzo mondo, in Arabia, in Africa, e dell'eros panico che ancora vi fiorisce. Ma è una felicità di ritorno. Il ricordo della friulana felicità originaria gli dà l'illusione che l'estremo attimo fosse fatto durare. Ma, anche questo paradiso cambia rapidamente. È il tempo che ormai manca a Pasolini.
A metà degli anni Cinquanta Pasolini visitava la realtà 24 ore su 24; nel '60, come scrisse, vi dedicava l'intero pomeriggio e la notte; nei giorni che hanno preceduto la sua morte, non gli rimaneva, per andare in cerca della sua realtà differente da quella di tutti gli altri, se non qualche ora notturna. A Parigi, il giorno prima di morire, racconta Philippe Bouvard, guardava sempre l'orologio: veniva da Stoccolma, aveva fretta di tornare a Roma. A Roma, quel giorno fatale, ebbe troppi impegni. Quel paio d'ore, tra le 22, quando lasciò Ninetto Davoli e la famiglia, e l'una circa in cui morì, erano un tempo troppo breve per la felicità.

Fonte:
http://archivio900.globalist.it/it/articoli/art.aspx?id=5717


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Pasolini, a rischio della vita

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A rischio della vita

Da L'Espresso del 09/11/1975

La storia e la personalità di Pier Paolo Pasolini raccontate da Giovanni Testori


Sull'atroce morte di Pasolini s'è scritto tutto; ma sulle ragioni per cui egli non ha potuto non andarle incontro, penso quasi nulla. Cosa lo spingeva, la sera o la notte, a volere e a cercare quegli incontri? La risposta è complessa, ma può agglomerarsi, credo, in un solo nodo e in un solo nome: la coscienza e l'angoscia dell'essere diviso, dell'essere soltanto una parte dl un'unità che, dal momento del concepimento, non è più esistita; insomma, la coscienza e l'angoscia dell'essere nati e della solitudine che fatalmente ne deriva. La solitudine, questa cagna orrenda e famelica che ci portiamo addosso da quando diventiamo cellula individua e vivente e che pare privilegiare coloro che, con un aggettivo turpe e razzista, si ha l'abitudine di chiamare "diversi".
Allora, quando Il lavoro è finito (e, magari, sembra averci ammazzati per non lasciarci più spazio altro che per il sonno e magari neppure per quello); quando ci si alza dai tavoli delle cene perché gli amici non bastano più; quando non basta più nemmeno la figura della madre (con cui, magari, s'è ingaggiata, scientemente o incoscientemente, una silenziosa lotta o intrico d'odio e d'amore) e si resta lì, soli, prigionieri senza scampo, dentro la notte che è negra come il grembo da cui veniamo e come il nulla verso cui andiamo, comincia a crescere dentro di noi un bisogno infinito e disperante di trovare un appoggio, un riscontro; di trovare un "qualcuno"; quel "qualcuno" che ci illuda, fosse pure per un solo momento, dl poter distruggere e annientare quella solitudine; di poter ricomporre quell'unità lacerata e perduta. Gli occhi, quegli occhi; la bocca, quella bocca; i capelli, quei capelli; il corpo, quel corpo; e l'inesprimibile ardore che ogni essere giovane sprigiona da sé, come se in esso la coscienza di quella divisione non fosse ancora avvenuta, come se lui, proprio lui, fosse l'altra parte che da sempre ci è mancata e ci manca. Mettere dl fronte a queste disperate possibilità e a queste disperate speranze il pericolo, fosse pure quello della morte, non ha senso. Io penso che non s'abbia neppure il tempo per fare dì questi miseri calcoli; tanto violento è il bisogno di riempire quel vuoto e di saldare o almeno fasciare quella ferita.
Del resto, chi potrebbe segnalarci che dentro quegli occhi, dentro quella bocca, quei capelli e quel corpo, si nasconde un assassino? Nella mutezza del cosmo queste segnalazioni non arrivano; e anche se arrivassero, torno a ripetere che il bisogno di vincere quell'angoscia risulterebbe ancora più forte e ci vieterebbe d'intendere.
Si parte; e non si sa dove s'arriva. Per sere e sere, una volta avvenuto l'incontro, l'illusione riprecipita in se stessa. Ma nella liberazione fisica s'è ottenuta una sorta di momentanea requie; o pausa; o riposo. La sera seguente tutto riprende; giusto come riprende il buio della notte. E così gli anni passano. La distanza dal punto in cui l'unità perduta è diventata coscienza si fa sempre maggiore, mentre sempre minore diventa quella che ci separa dal reingresso finale nella "nientità" della morte; e dalle sue implacabili interrogazioni. Le ombre, allora, s'allungano; più difficile si rende la possibilità che quell'incontro infinite volte cercato, finalmente si verifichi; più difficile, ma non meno febbricitante e divorante. La vicinanza della morte chiama ancora più vita; e questo più o troppo di vita che cerchiamo fuori di noi, in quegli incontri, in quegli occhi, in quelle labbra, non fa altro che avvicinare ulteriormente la fine. Così chi ha voluto veramente e totalmente la vita può trovarsi più presto degli altri dentro le mani stesse della morte che ne farà strazio e ludibrio. A meno che il dolore non insegni la "via crucis" della pazienza. Ma è una cosa che il nostro tempo concede? E a prezzo di quali sacrifici, dl quali attese o di quali terribili e sanguinanti trasformazioni o assunzione di quegli occhi e di quelle labbra?

Fonte:
http://archivio900.globalist.it/it/articoli/art.aspx?id=5721


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Così Pasolini censurò i suoi Ragazzi di vita

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Così Pasolini censurò i suoi Ragazzi di vita

RETROSCENA Mentre viene riproposta l’edizione «purgata»
Ecco i passi scabrosi del romanzo che Garzanti chiese di cancellare
 
 
Riemergono le pagine più scabrose della versione originale di Ragazzi di vita, il romanzo d’esordio che Pier Paolo Pasolini purgò di sua mano mediante un’«autocensura imposta» dall’editore Livio Garzanti. La ricostruzione è di Silvia De Laude, collaboratrice dei Meridiani, e avviene in occasione della ristampa del libro. I documenti erano conservati nel fondo pasoliniano del Gabinetto Vieusseux di Firenze.
La ristampa di Ragazzi di vita presso Garzanti, le celebrazioni pasoliniane appena concluse, un saggio in preparazione di Silvia De Laude sono l'occasione per una ricostruzione puntuale delle sofferte vicende editoriali, in parte inedite e per lo più ignote al pubblico, del primo romanzo dello scrittore friulano.
«D’altra parte sono vissuto in una specie di incubo (e ancora non ne sono del tutto fuori)». Qual è l'incubo di cui Pier Paolo Pasolini parla il 9 maggio 1955 a Vittorio Sereni? «Garzanti all'ultimo momento— scrive Pasolini—è stato preso da scrupoli moralistici e si è smontato. Così mi trovo con delle bozze morte fra le mani, da correggere e da castrare.Unavera disperazione, credo di non essermi trovato mai in un più brutto frangente letterario...».Non è certo una novità. Si sapeva che l'edizione di Ragazzi di vita che noi conosciamo è il frutto di un'«autocensura imposta».
Ne abbiamo varie testimonianze nel carteggio dello scrittore. Si sapeva che il romanzo nacque da «un magma narrativo eterogeneo» i cui primi nuclei sono del '50 e che un capitolo del romanzo, presentato come racconto autonomo, venne anticipato su Paragone nel '51. Si sapeva anche che nell'ottobre 1953 sulla stessa rivista diretta da Roberto Longhi e da Anna Banti apparve una seconda parte del libro in lavorazione. Non si sapeva invece che quella pubblicazione fu il risultato di una prima «autocensura imposta» che precedette di un paio d’anni quella garzantiana.
Lo si viene a sapere oggi grazie a Silvia De Laude, studiosa che ha collaborato con Walter Siti ai Meridiani mondadoriani. De Laude ha trovato, nel fondo pasoliniano del Gabinetto Vieusseux di Firenze, una lettera datata 5 maggio 1953 in cui la Banti allude alla richiesta di tagli e mutilazioni. Per il primo brano inviato si parla di una redazione «purgata» allo scopo di poterlo proporre «a un pubblico d'abbonati "scolastico" (...)». Il testo, sottoposto anche a Bassani per un consiglio, viene però bocciato: «Purtroppo, anche l'opinione di Bassani è stata per il no». Migliore sorte toccherà al secondo, ma a qualche condizione: «Mi sembra che, procedendo a una decina di mutilazioni (che Lei effettuerebbe, naturalmente) la stampa sarebbe realizzabile. Che ne dice?».
Sulla base di quelle prime uscite, Attilio Bertolucci consigliò a Livio la pubblicazione del volume. E l'editore accettò di buon grado. Il fatto è che quando si ritrovò tra le mani le bozze di Ragazzi di vita, Garzanti si rese conto che il romanzo, così com'era, avrebbe finito per sconvolgere il buonsenso comune. In realtà, già alla fine del '54, l'editore aveva espresso qualche dubbio di carattere stilistico, se Pasolini il 28 novembre precisava: «I suoi consigli mi paiono molto giusti e sensati, specie per quel che riguarda la lingua: (...), ma ne terrò conto nel correggere il libro quando sarà completo».
Il dattiloscritto, disperso, verrà inviato a Garzanti il 13 aprile 1955. Quel che rimane è una copia carbone (conservata alla Biblioteca Nazionale di Roma e individuata dalla De Laude) con le stesse correzioni autografe inserite nel testo inviato all'editore: dunque una sorta di «copia originale». Lo stesso Pasolini, nella lettera d'accompagnamento, si sofferma su qualche preoccupazione lessicale: «Quanto alle parolacce, come vede, ho fatto molto uso di puntini: potrei farne (naturalmente a malincuore) ancora di più, se Lei lo credesse opportuno». E' qui che comincia l'incubo. E Silvia De Laude lo racconterà in un saggio previsto per il Saggiatore.
La lettera in cui Garzanti chiede allo scrittore di intervenire non è reperibile. Quel che si intuisce però è che si tratta di una revisione radicale che Pasolini è costretto a compiere nel giro di un mese. Tant'è vero che l'11 maggio 1955 scriverà a Garzanti di aver sostituito con puntini tutte le brutte parole «con rigorosa omologazione». E inoltre: «Ho attenuato gli episodi più spinti (Nadia a Ostia, ecc.: ma non quello del "frocio", per consiglio di tutti gli amici, oltre che per intima convinzione), ho sfrondato notevolmente (...), ho tolto "Il Dio C..." (...). E' un errore credere che il romanzo vada molto ridotto (oltre le ragionevoli riduzioni che vi ho apportato), perché importa in modo determinante proprio la sua complessione massiccia e ossessiva ».

Fonte:
http://archivio900.globalist.it/it/news/news.aspx?id=777



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La difficile scelta di essere “contro”

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dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro





La difficile scelta di essere “contro”
Da Corriere della Sera del 03/11/1975
L’orrore della sua fine pareva presagito negli ultimi scritti
Non era mai stato accettato dalla Roma intellettuale: aveva invece amicizie anonime e popolane. Accuse e insulti

E’ la prima volta, almeno nel Novecento, che a uno scrittore italiano tocca una fine così atrocemente violenta. Adesso, a Roma, gli amici dicono che Pasolini è morto, nel giorno dei morti, come uno dei suoi personaggi; dicono che l’orrore di questa morte pareva presentito e prefigurato nei suoi ultimi articoli, dedicati alla nuova oscura ferocia della criminalità giovanile a Roma.
Roma non gli piaceva più: «E’ cambiata estremamente in peggio, diventata piccolo-borghese, meschina, impastata di inautenticità e di nevrosi. Non voglio più capirla, provo verso la città un rifiuto totale». Ventisei anni fa, il suo arrivo a Roma, metropoli «scomposta, stupenda e misera» aveva invece coinciso con la scoperta del mondo popolare, del sottoproletariato protagonista delle sue prime opere: le borgate calcinate e povere.
Quella era la Roma che aveva amato e raccontato negli anni Cinquanta; non la Roma monumentale, con il Colosseo o le Terme di Caracalla sviliti a luogo di incontri loschi; non la Roma bianca, squadrata e anonima dell’Eur, dove abitava.
A Roma, lui non è mai piaciuto. Ne era uno dei personaggi più famosi, ma per anni ha rappresentato per molti l’emblema dello scandalo, la personificazione della trasgressione provocatoria. Gli sketches radiofonici o i settimanali umoristici lo citavano beffardi come prototipo di indecenza, i giornali di destra lo attaccavano con volgarità furibonda. I fascisti lo assalivano picchiandolo, lordandolo di vernice rossa; in tribunale lo accusavano di rapina a mano armata contro un benzinaio di San Felice Circeo. Vocazione e condanna, lo scandalo ha continuato anche più tardi a circondare i suoi film censurati, vituperati, sequestrati, accusati d’essere veicolo di corruzione.
Anticonformista, scomodo, estremo, Pasolini non era certo per piacere al pigro cinismo dei romani: e anche all’ambiente degli intellettuali e dei letterati non si era mai integrato. Tra gli scrittori, i suoi amici veri erano veramente pochi.
La società letteraria romana ne subiva la soggezione; ne riconosceva la genialità di scrittore e di polemista; ne ammirava l’intuito, il talento di suscitare discussione e dibattito con ogni intervento sui problemi della collettività; ne rispettava la figura recente di moralista in pubblico, di predicatore violento e «ingenuo»; ne discuteva appassionatamente le idee; ne invidiava la versatilità, la prontezza, la grande capacità di lavoro.
Ma, anche nell’ambiente intellettuale romano, Pasolini suscitava disagio per la sua diversità. Salotti o cerimonie letterarie, persone «giuste» o importanti non ne frequentava mai: aveva invece amicizie popolane, anonime e pericolose. Lavorava disperatamente. Si divideva tra il mondo borghese della vita familiare (l’appartamento all’Eur, il vecchio castello di Chia nella campagna viterbese per i periodi di riposo, la villa di Sabaudia per l’estate, i rapporti ubbidienti e tenerissimi con la madre o la cugina) e il mondo segreto della vita personale. Non aveva il gusto del mangiare né del bere, non faceva mai pettegolezzi né distratte conversazioni qualsiasi.
Gli altri scrittori capivano male il «mito della gioventù» che a 53 anni lo ossessionava, i suoi vestiti da ragazzo (giubbetti, jeans, stivaletti con i tacchi), la sua snella magrezza, la vanità delle automobili veloci e vistose; capivano male la sua vitalità fisica, le partite di calcio giocate coi ragazzi nei campetti di periferia, le sfide a «braccio di ferro» o a «ditate», la forza muscolare che aveva sviluppato e conservato. Ironizzavano sul suo «masochismo», sull’intrepido coraggio privo di rispetti umani con cui si esponeva nelle polemiche, affrontava nel 1969 un’intera fischiante aula universitaria di studenti ostili, fronteggiava nel 1973 a Venezia una piazza affollata di tumultuanti spettatori d’un suo film. Ironizzavano sul «narcisismo» che lo induceva a recitare parti nei film propri o altrui, a poetare: «Narcisismo! – sola forza consolatoria, sola salvezza!». Ironizzavano sulle indulgenze mondane d’un breve periodo: l’amicizia con Maria Callas, l’incontro amichevole con la moglie dell’ex presidente americano Johnson, certe serate di beneficenza mondana all’Opera di Parigi dove compariva tra la signora Pompidou e la baronessa Rotschild.
La gente di cinema sopportava male il suo successo grandissimo di regista. Gli intellettuali della sinistra gli perdonavano a fatica il modo viscerale, «innocente», contraddittorio di intervenire sui fatti della politica, certe impreviste prese di posizione che parevano dare una dignità culturale a idee conservatrici: contro la contestazione studentesca al tempo della famosa poesia in difesa della polizia; contro il divorzio; contro l’aborto; contro la permissività contemporanea; contro la criminalità crescente; contro il progresso distorto e in lode del buon tempo antico delle «lucciole»; contro la classe dirigente chiamata alla sbarra d’un «processo» globale e senza appello; per l’abolizione della scuola o della televisione. A quel tanto di eccessivo, di fuori del comune, di diretto che caratterizzava i suoi interventi civili, il mondo politico romano, che non lo amava, rispondeva ignorandolo oppure polemizzando con ira sprezzante, dandogli sufficienti lezioni di realismo. Era soprattutto ai radicali che Pasolini, dopo anni di vicinanza ai partiti marxisti, si sentiva oggi vicino: come loro «uomo d’utopia e di rivoluzione».
In ventisei anni a Roma, Pasolini è stato l’artista più discusso, commentato, contrastato. Anche insultato con le beffe persecutorie e razziste riservate agli omosessuali, che lo indignavano ma non lo addoloravano. Diceva una sua poesia: «Cosa conterà la mia “vita privata” / miseri scheletri, senza vita / né privata né pubblica, ricattatori / cosa conterà o conteranno le mie parole, / sarò io, dopo la morte, in primavera, / a vincere la scommessa».

Fonte:
http://archivio900.globalist.it/it/articoli/art.aspx?id=5724


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Tutta la vita per una morte violenta

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Tutta la vita per una morte violenta
Da Corriere della Sera del 03/11/1975

Ho conosciuto per la prima volta Pier Paolo Pasolini ventidue anni fa, quando era un giovane scrittore completamente ignoto, che viveva alla periferia di Roma, insegnando per ventimila lire al mese in una scuola media di Ciampino. Mi pregò di accompagnarlo a Fiuggi, dove cercava materiale per un libro, che due anni dopo sarebbe comparso con il titolo di Ragazzi di vita.
Per tutto un pomeriggio, lo ascoltai domandare notizie su un furto a un ragazzo delle borgate romane. Voleva sapere tutto – l'ora della notte, il quartiere, la casa, le cancellate, la fuga per le strade di Roma inseguiti dalla polizia – con una minuzia meticolosa, come se il destino del libro e di lui stesso dipendessero dalla sua esattezza nel registrare ogni gesto e colore. Così imparai che la letteratura è soprattutto figlia della precisione.
Allora era lontanissimo dall'immagine pubblica che, cogli anni, si è incrostata sopra di lui. Non ho mai conosciuto una persona così innaturalmente e dolorosamente gentile: così pronta a chiarire, a spiegare, a venire incontro, a cancellarsi dietro il suono lento e un poco spento della sua voce. Mi domandavo perché fosse tanto gentile. Non chiedeva perdono per le proprie colpe, sebbene sapesse di averne. Non chiedeva nemmeno il piacere dell’amicizia, sebbene allora ne avesse disperatamente bisogno. Col passare del tempo uno capiva che questo innaturale fiore di gentilezza nasceva dalla dolcezza morbida e correggesca del giovane Narciso, che non distingue tra sé e il mondo, che si sente illimitato come il mondo, e riversa sopra di esso l’indistinta pienezza di sensazioni che attraversa la sua mente e il suo corpo. Quando si guardava allo specchio e dallo specchio emergevano insieme al suo volto tutte le cose della terra, doveva avere il timore di perdersi: di diventare pianta, erba, animale, pioggia d'autunno, temporale che si scatena all'orizzonte.
Ho sempre avuto paura per lui, come fosse un’ombra che può dissolversi da un momento all’altro o venire calpestata dai piedi ignari e crudeli dei passanti.
Tra il 1955 e il 1961, ebbe la sua stagione gloriosa: una serie di libri diversi (La meglio gioventù, L’usignolo della chiesa cattolica, Le ceneri di Gramsci, La religione del mio tempo), due romanzi (Ragazzi di vita, Una vita violenta) e il Canzoniere italiano rivelarono il maggior talento della sua generazione.
Sembrava che avesse tentato una scommessa con se stesso: mettere in ogni modo alla prova la sua sensibilità illimitata, suscitarla con tutte le armi dell'intelligenza e della cultura, battezzarla in forme sempre diverse, come un manierista del Cinquecento o un decadente del principio del nostro tempo. Tutto pareva riuscirgli, quasi avesse scoperto dentro di sé un tesoro così ricco che solo i decenni potevano esaurire. Ma all'improvviso, diventò più secco e distante: i suoi occhi infantili si spensero: la sua gentilezza non era più quella di chi si perde nella sfinita dolcezza della terra, ma di chi capisce guardando da molto lontano.
Poco dopo Pasolini si mise a fare film di successo, e a scrivere articoli sui giornali. Per quanto potessero significare queste produzioni, erano appena la pallidissima eco di ciò che aveva scritto una volta. Pasolini lo sapeva benissimo. Pensavo che il suo talento si fosse esaurito: che fosse troppo orgoglioso per accettare la dorata e bene amministrata decadenza del letterato; e volesse agire freneticamente, offendere e colpire, venire offeso e colpito, per dimostrare di essere vivo.
Non era così. Una figura lo aveva sempre ossessionato: Cristo deriso, sputato, colpito, lapidato, inchiodato, ucciso sulla croce. Facendo film, scrivendo e vivendo, egli cercava soltanto di venire lapidato ed ucciso, come la pietra dello scandalo, la pietra d'inciampo, che viene respinta dalla società umana. Ma Cristo morì per salvare gli uomini. Lui sapeva di non potere salvare nessuno, tanto meno se stesso. Voleva soltanto conoscere la morte atroce, immotivata, vergognosa – la vera morte, non quella lenta e pacifica che noi sopportiamo nei nostri letti educati: la morte che aveva sempre reso terribile la sua dolcezza.

Fonte:
http://archivio900.globalist.it/it/articoli/art.aspx?id=5723


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