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Biografia, lavori in corso - a breve anche il 1974 e il 1975

giovedì 8 gennaio 2015

Fortini di traverso Pasolini

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro




Fortini di traverso Pasolini
di Luana Tritto 
Ad un anno dalla morte del suo autore, nell’aprile 1993, viene pubblicato presso Einaudi, Attraverso Pasolini di Franco Fortini, «un campione o frammento» del «magnum opus» annunciato come «in preparazione» nella raccolta del 1978 Una volta per sempre (Einaudi) con il titolo Un giorno o l’altro. Diari e cronache 1945-1975, pubblicato postumo e incompiuto. L’opera costituisce una sorta di autobiografia di Fortini e, nel contempo, documenta il suo rapporto personale e intellettuale con Pasolini.

I.«Ragione nell’ordine della ragione, torto di fronte al’albero d’oro della vita»
 

«Aveva torto e non avevo ragione» (Fortini 1993, VII), è con questa espressione concisa, che riassume icasticamente il rapporto fra due grandi intellettuali del Novecento, che comincia la storia dei rapporti tra Pasolini e Fortini in Attraverso Pasolini, raccolta di saggi, lettere e articoli di un quarantennio (1952-92). Il torto non allude alla poesia, perché essa «non ha né torto né ragione ma presenza »; bensì, al non aver saputo vincere la passione per il progetto che proponeva a se stesso e agli altri. Si mirava all’oggettività e all’impersonalità, avvalendosi, però, di un accento privato ed “idiota”.

L’obiettivo della raccolta – e non saggio, come lo stesso Fortini tiene a precisare (ivi, VIII: «Su Pasolini, le pagine che seguono non sono un saggio ma una raccolta di quanto ne ho scritto in quarant’anni») – è di ripetere da sobrio quel che qualche decennio prima aveva detto da ebbro; dunque, non un lavoro critico sul’opera pasoliniana, ma un percorso etico, o estetico, o esoterico “di traverso” Pasolini, indicando con tale locuzione un reciproco intoppo, una contraddizione. Non si tratta, pertanto, di un tragitto dentro o lungo gli scritti pasoliniani, perché altri sono gli autori che ha sperato di attraversare (Ivi, XIV: «Per quanto mi riguarda, non lui ma altri sono stati gli amici e gli autori che ho sperato di aver attraversato»), convinto inesorabilmente sin dagli anni di Officina che tra di loro non ci fosse ostilità, ma inconciliabilità.
Perché, dunque, quasi alla fine dei suoi giorni tornare a parlare di Pasolini? Perché «nella propria opera nessuno scrittore italiano del nostro secolo ha accumulato, come Pasolini, giudizi sulla storia contemporanea e la società in cui visse; con altrettanta costanza nessun altro ha fatto di quei giudizi materia del proprio scrivere». Pasolini diviene l’espediente, il miglior espediente, per ripercorrere gli anni degli errori, degli inverni, della guerra antifascista, del XX Congresso del Partito comunista dell’Urss, della contestazione giovanile, dell’ardore, a cui si contrappone la rabbia attuale «di non aver saputo con bastante energia rifiutare la ridicola e non innocente enfiagione dei ruoli che il potere – o l’antipotere, che del primo non di rado è complice – attribuisce alle corporazioni delle arti e delle lettere» (Ivi, X).
 
II. Pasolini: l’altro ramo dell’Avanguardia
 
«Bisogna scrivere pensando di poter essere tradotti nella lingua dei Paesi socialmente più sviluppati. Questo significa sapere riconoscere l’importanza dei linguaggi burocratici, anzi del connettivo burocratico che tiene insieme i linguaggi specialistici. (Per questo Pasolini ha torto)» (Ivi, 17). Non vi deve essere un eccessivo distacco fra scrittura discorsiva e scrittura letteraria, perché la letteratura deve comunicare; essa ha una funzione edificante: lottare contro la disintegrazione degli uomini. Pasolini, invece, mantiene fermo il divario che esiste fra discorso poetico e non poetico. Luzi, pur essendo un esponente dell’ermetismo fiorentino, rappresentante di una tradizione orfica e ascetica dell’espressione, diviene poeta di immediatezza tale da far coincidere lingua e parola. Pasolini, che lavora con l’alone neorealistico, «diviene il poeta la cui condizione è proprio la divaricazione fra tutti gli elementi espressivi» (ivi, 18). Il suo pastiche crea una commistione fra presente e passato e la sovrapposizione di vari registri linguistici. La giustapposizione di stile alto-letterario e gerghi, l’antitesi infanzia-adulta infelicità, sono anacronistici per il pensiero marxista, tuttavia attuali per la borghesia italiana neocapitalista.
Fortini rimproverava a se stesso l’incapacità di essere prolisso, di marcare tutti i passaggi, i nessi della costruzione di un discorso; in contraddizione con i suoi intenti pedagogici e didascalici. Come ha dichiarato in un’intervista, il fascino che Brecht ha sempre avuto su di lui, risiedeva nella sua capacità di comunicare, pur essendo conciso:
Tutta la ragione dell’immenso fascino che Brecht ha avuto su di me e la ragione di molti dei discorsi che sono venuto facendo in questi anni, è il sogno e il desiderio di una prosa che avesse, oltre alla brevità, la capacità di comunicazione estrema che hanno le poesie, senza però rinunciare alla corposità e immediatezza,, e quindi al discorso per  metafore del proverbio, del linguaggio sapienziario, della sapienza popolare o agraria, o delle scritture sacre (Fortini 2006, 419).
Quella di Pasolini è la «fioritura ritardata di un ramo dell’Avanguardia» (Fortini 1993, 35) che non celebra il falso, ma non si umilia neppure al vero, la sua scrittura risente dello psicologismo tipico del Decadentismo. Fortini condivide con Lukács l’idea che l’Avanguardia pone immediatamente le contraddizioni,
il paradosso dell’Avanguardia – che è “integrata” e non vuol esserlo […] – è quello di non accettare l’incarnazione, […] di rifiutare il compromesso […]. Porre le contraddizioni nude e crude è lo stesso atto intellettuale che negarle con altrettale immediatezza […]. Credo  fermamente che ogni troppo rapido assenso alla negazione, alla svalutazione e al disprezzo del mondo così com’è […] possa celare entro di sé, incontrollato, un accordo con quella realtà, una dipendenza filiale  (Fortini 1974, 113-115).
L’abbondanza di aggettivi e apposizioni nello stile pasoliniano indicano, non una prevalenza del momento espressivo su quello discorsivo, ma un atteggiamento di distanza, «sotto apparenza di ragionante immediatezza» (Fortini 1993, 35) .
 
III. Pasolini nemico del popolo
 
Il concetto di popolo in Pasolini assume caratteri arcaici tali da assumere una connotazione astratta, assolutamente avulsa dalla realtà:
C’è per lui una realtà sociale «preistorica» o «astorica» di cui una sua operazione stilistica è stata il riflesso-equivalente e che è, come sarà l’Africa, il Medioevo, la Grecia preclassica, la Padanìa capitalistica e così via fino a Petrolio,  «una serie di cristalli fuori dalla storia» perché,  in realtà, la «storia non c’è», non c’è un “donde” e un “dove”; e non solo la «nostra» storia dell’ultimo verso delle Ceneri di Gramsci (Ivi, 124).
La civiltà contadina è medievalità cristiana, felicità erotica; la “morte” di tale civiltà nell’ “universo orrendo” del capitalismo ha cancellato ogni forma di paradiso terrestre, prima rappresentato dal Friuli, poi dal quartiere di Rebibbia del suo soggiorno romano, poi l’Africa nei primi anni Sessanta ed infine il vicino Oriente nei film di fine anni Sessanta. Il bisogno ossessivo di Pasolini di regredire nasce dal rifiuto della storia, di qui l’utilizzo del dialetto, concepito come una lingua anteriore, una lingua non reale, metaforica.
Fortini sottolinea come Pasolini approda ad una solitudine totale arroccata all’apparato culturale degli anni Cinquanta: aveva ignorato Lukács, Brecht, la scuola di Francoforte; «preferiva considerarsi un condannato alla parola, un artista, una “bestia da stile”» (Ivi, 199). Egli, infatti, aveva dichiarato di aver amato più la realtà che la verità, ossia la raffigurazione piuttosto che l’interpretazione. Ma, ribatte Fortini, la raffigurazione non è forse anch’essa un’interpretazione? E non è dovere di chi osserva la realtà interpretarla e mutarla in verità?
Nell’ottobre del 1971, sul n. 44-45 di «Quaderni piacentini», Fortini pubblicò uno scritto Pasolini non è la poesia che appare tutt’ora corretto agli occhi dell’autore; esso contiene un invito rivolto a Pasolini a tacere, perché il silenzio è «l’accettazione della verifica periodica con uno di quegli strumenti che la meccanica di precisione chiama “giudici”» (Ivi, 48).
Molte cose Pasolini sa fare.  Non la più importante per lui: che sarebbe di stare un po’ zitto. Quando in versi e in prosa lamenta l’incomprensione dei «giovani» per la poesia (il riferimento è a La poesia della tradizione), certo si rende conto di stare facendo, come si dice, peggio della grandine […]. Ecco perché molti dei giovani  pensano: se la poesia è quella cosa che ci viene consigliata da gente nemica del popolo come Pasolini, allora meglio non avere nulla a che fare con i poeti; e, appena possibile, i poeti a zappare.
Quei molti hanno torto.
Non perché Pasolini non sia un nemico del popolo (alla parola nemico come alla parola popolo non metto le virgolette per fiducia nella intelligenza del lettore). Egli lo è e più di quasi tutti i poeti italiani viventi messi insieme e più seriamente dei più reazionari poeti italiani viventi – che non sono pochi – perché è probabilmente l’unico a sapere in senso profondo che cosa significhi essere nemico del popolo.[…]
Quei molti hanno torto: perché non c’è interlocutore o locutore (per quanto puro e per quanto corrotto) che non possa portare una verità preziosa […]. 
Perché i suoi lamenti diventassero autentici dovrebbero, invece di celebrare le qualità della poesia, ricordare l’esistenza della qualità. Ma l’esistenza della qualità, la sua affermazione o evocazione ha una forza singolare: per un attimo – che è difficile calcolare col tempo degli orologi – non lascia pietra su pietra di ogni altro nostro discorso. La prima testimonianza di quel che Pasolini vuol dire, se veramente avesse a cura le qualità, sarebbe il silenzio. […] Anch’io che scrivo ho dovuto far silenzio per ricevere quanto di vero c’era, nonostante Pasolini, nei suoi discorsi; e più in genere, in quelli degli apologeti della poesia (Fortini 1993, 48).
L’errore di Pasolini consisteva nell’aver confuso moralismo e moralità: il primo consiste nell’agire coerentemente con i propri valori, la seconda è l’errore di chi crede che non esistano altri comportamenti o valori diversi dalla propria moralità.
In La poesia della tradizione, rivolgendosi alla “generazione sfortunata” dei giovani, biasima il loro essere vittima del potere negando l’unico, vero, reale strumento di contestazione, la cultura: «Venisti al mondo, che è grande eppure così semplice, // e vi trovasti chi rideva della tradizione, // e tu prendesti alla lettera tale ironia fintamente ribalda, // erigendo barriere giovanili contro la classe dominante del passato […] La lotta di classe vi cullò e vi impedì di piangere: // irrigiditi contro tutto ciò che non sapesse di buoni sentimenti».
Il rigore, il cinismo dei giovani, impediscono loro un rapporto “patetico”, di coinvolgimento emotivo con la poesia, di cogliere la bellezza, perché anestetizzati dal’ironia. E non è forse quel che sosteneva Fortini quando affermava: «Quanto in lui [Pasolini] e in me si agitò in quelle occasioni non può non apparire alcunché di incomprensibile, quasi al confine della mania per un giovane di oggi. Ma non eravamo né pazzi né fanatici. Eravamo, a poco più di dieci anni dalla fine della Seconda Guerra, nel cuore del secolo, ancora ricchi di qualcosa che – scrisse Pasolini – ci faceva piangere guardando Roma città aperta. Le lacrime non sono affatto un buon criterio di giudizio. Eppure mi piacerebbe sapere che cosa oggi fa piangere un uomo di trent’anni, che tanti allora Pier Paolo ne aveva» (Ivi, X). Forse che alla fine dei suoi anni anch’egli aveva avvertito l’anestesia da cui erano affetti i giovani?
La monografia di Berardinelli dedicata a Fortini (Berardinelli 1974) è preceduta da un’intervista in cui lo scrittore dichiara che i giovani, nonostante gli strumenti che hanno a disposizione, di gran lunga superiori a quelli da lui posseduti da ragazzo, non hanno affatto accresciuto la loro libertà di agire.
Ci sono grandi correnti di pensiero, parti essenziali del sapere attuale, che mi sono ignote o estranee, irrecuperabili: la teoria dell’informazione, le filosofie del linguaggio, l’epistemologia scientifica, l’economia contemporanea. Con  i poveri strumenti di cui poteva disporre un “letterato” fiorentino degli Anni Trenta ho cercato di capire e di imparare quel che ho potuto. […] I ragazzi di oggi sanno tutto, non è vero? A vedere di che cosa possono sapere, di quali strumenti possano disporre i giovani…Eppure la libertà di fare non è affatto cresciuta (Ivi, 4).
Il 29 novembre 1956 Fortini rispose alle accuse mosse da Pasolini nel poemetto Una polemica in versi, datato al settembre-ottobre 1956. Vi si biasima di Fortini e degli altri di Ragionamenti non l’estremismo, «ma una certa forma di misticismo […] e la sospetta volontà di annullare la propria persona in un rigido e spento anonimato moralistico».
All’interno della replica in versi fortiniana (Al di là della speranza) si legge in corsivo un frammento scritto l’anno precedente in risposta all’interrogativo posto in Le ceneri di Gramsci «la nostra storia è finita?». Nella lettera indirizzata a Pasolini contenente tali versi, ancora una volta lo scrittore fiorentino mette in dubbio il senso di “fratellanza” pasoliniana al suo pregetto ideologico: «Non so insomma se conoscendoti meglio dovrei considerarti di razza fraterna o nemica» (Fortini 1993, 69).
 
Ma tu chi sei che di pietà impietosa
dài grazia ai versi dove sono ciechi
fuor di te, tutti? Nei vicoli biechi
e teneri ti svegli, dell’afosa
notte di Roma, e poi torni e ti rechi
intatto al verso. Quella libertà
che ti perdoni, ad altri tu la togli
e del nulla sei complice e del male
del tuo popolo. A corte, poi, ti vale
leggere come l’anima disciogli
nei tuoi poemi in limpide querele,
fra chi, come te, sa…
La nostra storia non è mai finita.
quando tu lo chiedevi, io scrissi in odio
alla  pietà che ti vinceva, in odio
a chi vanta nel verso tuo la Vita
miele dei morti e del peccato, vischio
che fa dolce la nausea e la pietà.
 
Non le “limpide querele”, non il distacco letterario si addicevano ai tempi, bensì la furia, come si afferma nella citazione lucreziana posta ad inizio di poesia Nam neque nos agere hoc patriai tempore iniquo // possumus aequo animo (Lucrezio, De rerum natura, I, 41-42).
Il medesimo distacco letterario che si fonda su un distacco reale della passione ideologica, hanno fatto di Pasolini “ un nuovo tipo di vecchia volpe”. In una lettera del Capodanno 1957 (Fortini 1993, 77-78) Fortini afferma che nel leggere Le Ceneri di Gramsci si era costruito un personaggio, un Pasolini probabilmente immaginario, fatto non tanto di orgoglio-solitudine-sensualità, quanto piuttosto di distacco dalla passione ideologica, dalla tematica politica e morale. Ha sospettato di avere dinanzi a lui, non una personalità scissa tra passioni pratiche e passioni formal-stilistiche, ma una vecchia volpe, cinica, distaccata, “letteraria”che giocasse con i loro forse astratti furori. Fortini rifiuta l’incomunicabilità, il suo democraticismo è furioso, perché agitato dal sospetto di “cooptazione carismatica alla saggezza”. È dovere di chi sa trasmettere il proprio sapere a condizione che “questo sapere sia vero sapere, non scienza segreta, iniziatica”.
Il popolo descritto da Pasolini è avulso dalla realtà, è selvaggio (citazione di Tolstoj ad inizio del cap. IV di Ragazzi di vita: «Il popolo è un gran selvaggio nel seno della società»), è sentito e descritto nella prospettiva istintuale e passionale, vicino ad un mai esistito “stato di natura”. Pasolini, come si è detto, tacciava Fortini di misticismo e moralismo, di distacco dalla realtà, di una visione ideologica degli operai ed in genere del mondo. Ma non ci si fa popolo: o lo si è o non lo si è (diceva Pavese). Farsi popolo per Fortini «vorrebbe dire accettare le servitù peggiori del popolo – che non sono solo quelle della miseria ma quelle del detrito ideologico delle classi dominanti, passate e presenti. E questo è impossibile. L’intellettuale non può spogliare il proprio gusto e il proprio giudizio […] E’ un discorso sugli scalzi tenuto a gente calzata» (Fortini 1993, 93).
Pasolini si era rifiutato di entrare a far parte dell’ “universo orrendo”della società capitalistica, di avere un rapporto razionale con gli ultimi, con i reietti; la sua religione era l’allegria del proletariato, non «la millenaria sua lotta». Nell’organizzazione, nel progetto politico, egli vi intravedeva qualcosa di acerbo, di non vero, non sentito, tanto da diventare fittizio; era incapace di accettare l’ambiguità di ogni comunicazione, come dovrebbe saper fare un adulto. Eppure Pasolini non vedeva solo in se stesso l’incapacità di essere adulto, di adattarsi, di concepire il compromesso; la vedeva anche in Fortini: «anche questo abbiamo in comune, un fondamentale candore e infantilismo, portato a sopravvalutare e a ingrandire» (lettera datata al 10 gennaio 1957, citata in Fortini 1993, 80).
Emblematica a tal proposito è una breve poesia di Pasolini, la prima di una sequenza di 15 poesie, inserite nella raccolta Roma 1950, sottotitolo Un diario.
 
Adulto? Mai – mai, come l’esistenza
che non maturo – resta sempre acerba,
di splendido giorno in splendido giorno-
io non posso che restare fedele
alla stupenda monotonia del mistero.
Ecco perché, nella felicità
non mi sono abbandonato-ecco
perché nell’ansia delle mie colpe
non ho mai toccato un rimorso vero.
Pari, sempre pari con l’inespresso,
all’origine di quello che io sono. 
 
«Pasolini, è terribile doverlo dire, non è stato mai né cristiano né comunista, è stato un rousseauiano del 1770 e un decadente del 1870 in lotta con una realtà del 1970» (Ivi, 205). Con strumenti anacronistici, col suo barocco e la sua arcadia intonava l’elegia della morte di un mondo, quel mondo prerazionale, astorico, autentico, da lui tanto compianto. La sua mancanza di “martelli reali” con cui combattere, la sua inerzia di fronte allo scandalo e all’ingiustizia, conducono Fortini a «credere che una delle operazioni di bonifica intellettuale e politica in Italia debba cominciare dalla demolizione del modello rappresentato da Pasolini politico. […] Finì coll’identificarsi al vischio, al parassita senza radici che cresce sulle cose morte» (Ibidem).
 
IV. Fortini, gli errori, la speranza
 
 «L’errore mio fu quello di pretendere da Pasolini quel che egli non poteva dare, ossia una conversione religiosa o una conversione politica. Era a noi e a se stesso che profetizzando aveva pensato quando aveva scritto: “Il mistico rigore di un’azione // sempre pari all’idea non vi chiedo: si paga, // anche questo, con l’aridità. […] E’ all’errore// che io vi spingo, al religioso // errore”. Aveva, contro di noi, la ragione della passione; non quella dell’ideologia» (Ivi, 229).
Pasolini non voleva padri, non voleva maestri, ma fratelli; la sua “disperata vitalità”, la sua passione della ragione, lo conducevano a cantare il nulla, una realtà inesistente. Fortini non poteva accettare una separazione fra etica e politica, il fine dell’arte è accrescere il senso di umanità (Ivi, 230: «La gente non vuole più vivere. Disprezza la propria vita perché ha capito che è una vita di bestia. Ha il rimpianto di una vita umana. Ma ha perso ogni speranza di poterla vivere. Non è vero che sia attaccata all’esistenza. Sa già di che morte dovrà morire: di week-end, di cancro, di ospizio per i vecchi, di colpo di stato, di ictus alle coronarie, di colera, di anidride solforosa. Tutti i persuasori ufficiali, dal papa a Pasolini, gli hanno detto che non deve sperare nulla in questo mondo. Tutti i difensori pubblici, dai sindacati ai professori comunisti, gli hanno spiegato che non servono né gli aumenti di stipendio né le manifestazioni né la Cina e nemmeno il Partito di Gramsci»), non abbattere la speranza (Pasolini, infatti, parlava in riferimento a Fortini di «fraterno, disperato moralismo»). Egli è socraticamente convinto che dovere degli intellettuali e dei politici sia essere una sorta di pedagoghi, di intermediari che agiscono per il miglioramento collettivo, tale era l’ingenua illusione di Fortini. La sua passione era fatta di ragione, il fine della sua letteratura edificante, mal sopportava gli –ismi, chi rimaneva arroccato e inerte nella propria turris eburnea.
Come non pensare a Fortini leggendo il celeberrimo dialogo tra Socrate e Callicle nel Gorgia?
«Ti sembra che i rètori parlino sempre pensando al meglio, preoccupati solo che i cittadini, in virtù dei loro discorsi, diventino migliori, o anch’essi, gli oratori politici, solamente si propongono di compiacere alla cittadinanza, e in funzione del proprio vantaggio personale, senza pensare affatto al bene comune, parlino ai popoli come se fossero ragazzi, cercando solo di compiacerli, senza che neppure passi loro per la mente se con ciò i popoli divengano migliori o peggiori?[…] Una volta entrato in politica, quale altra mai cura ti occuperà se non questa soltanto, se non di fare di noi degli ottimi cittadini? Non abbiamo convenuto più volte nel concludere appunto che questo è il dovere dell’uomo politico?» (Platone, Gorgia, 503a e 515a).
Pasolini non aveva tale credo, nutrito certamente di sapienza ebraica e cristiana, intriso, però, di quella filantropia, quell’humanitas che spingeva Fortini non a cercare i corpi, ma a toccare le anime. I suoi saggi di critica letteraria sono volti ad andare oltre l’epifenomeno, a tralasciare la qualità astratta dei poeti, degli scrittori, per cogliere il dato politico che, per Fortini, come si è detto, coincide con quello etico. È necessario, perciò, guidare i lettori, condurli per mano nel cammino paideutico e didascalico della letteratura. I giovani amano tanto Leopardi materialista, pessimista, amante della morte, non Manzoni ideologo e moralista. Essi vogliono l’immediatezza, la facile verità, perché rifiutano «la pazienza dell’incarnazione, la categoria della mediazione» (nota manoscritta al saggio inedito del 1973, Storia e antistoria nell’opera di Alessandro Manzoni, conservato nell’AFF). L’opera manzoniana è salutare contro le mitologie dell’immediatezza, contro il trionfante pensiero borghese che contrapponeva etica e politica; Manzoni riporta la politica alla morale, di qui la sua modernità.
Quello che non c’è in Pasolini è «l’erosione critica della realtà», il momento dell’analisi; vi prevale, invece, il momento esclamativo ed estatico di grido e di morte. La sua vita pubblica, fatta di calcoli «brutti e anche goffi», ha contribuito al male. Questo Fortini non poteva perdonarglielo; acuiva, al contrario, il suo rancore che riversava nei suoi giudizi pungenti, che rasentavano quasi l’offesa. «Ma anche le mie offese coscienti hanno sempre avuto qualcosa di puerile, perché erano di uno che non ha armi» (Fortini 2006, 422).
luanatritto@virgilio.it
Bibliografia
Alfonso Berardinelli, Franco Fortini, La Nuova Italia, Firenze 1974.
Franco Fortini, Verifica dei poteri. Scritti di critica e di istituzioni letterarie, Garzanti, Milano 1974.
Franco Fortini, Attraverso Pasolini, Einaudi, Torino 1993.
Franco Fortini, Un giorno o l’altro, Quodlibet, Macerata 2006.


Fonte:
http://narrazionionline.com/2014/05/22/saggi-fortini-di-traverso-pasolini/


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Pasolini e la Tv di Italo Moscati

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Pasolini e la Tv di Italo Moscati
11 novembre 2009

 

 Nel luglio del 1971 sarebbe dovuta andare in onda una puntata di "Terza B: facciamo l’appello", trasmissione di Enzo Biagi. Ma fu sospesa per una vicenda giudiziaria che convolse Pasolini nella sua qualità di direttore responsabile di "Lotta Continua". Sarà presentata quattro anni dopo, il 3 novembre 1975, all’indomani del suo assassinio.


"Terza B: facciamo l’appello" era una rimpatriata di compagni di liceo. Dice nella puntata, andata in onda postuma, lo stesso Pasolini che avere ritrovato i suoi compagni non è gradevole, anche se - incontrandosi dopo tanti anni - sono riusciti ad andare oltre i microfoni e il video, ricostruendo qualcosa di reale: nonostante la situazione creata nello studio risultasse "brutta, falsa".

Biagi quasi si risente. Invita il suo ospite a dare una spiegazione. Pasolini dice semplicemente che si trova con gli altri dentro una logica alienante di un medium di massa.
Biagi si indispettisce. Replica affermando che il dialogo, lì nello studio, sta avvenendo con grande libertà e senza alcuna inibizione. Il suo illustre ospite, con la sua voce sottile e garbata, gli risponde che non è vero. "Perchè?" gli domanda il conduttore. La risposta di PPP è nello stesso tempo una forma di reazione, una dimostrazione di comportamento, una lezione di teoria della comunicazione. Dice che lui non può dire quello che vuole e che deliberatamente si autocensura, perchè se non lo facesse direbbe parole troppo sincere e vere che potrebbero danneggiare lui e il pubblico che sta davanti alla tv. Lui potrebbe essere accusato di vilipendio e il pubblico potrebbe non capire per via della ingenuità e della sprovvedutezza di "certi ascoltatori".


Sono passati passati più di trent’anni dalla trasmissione recuperata e trasmessa. Non saprei dire che siano oggi i "certi ascoltatori". Il pubblico è diverso, scafato,cinico, ingenuo, crudele, viziato, manipolato, protagonista (spesso fa da sfondo o da comparsa o da gladiatore). Non c’è più Biagi e soprattutto non c’è più Pasolini, curioso nemico della tv. La giudicava malissimo ma la faceva bene, come dimostrano i suoi doc per Tv 7 e altri programmi. Il panorama è cambiato. Le tv sono molte. La concorrenza è spietata.

Ma soprattutto se i corpi vanno nudi alla meta, le parole vanno povere, umiliante e umiliate, nella babele delle risse, delle liti, delle battaglie finte, per partito preso, dei soliti noti e ignoti, degli imbonitori e degli opinionisti a gettone.

Pasolini, in quella testimonianza, ricordava e ci ricorda che gli studi e i microfoni delle tv vogliono vedere e sentire "solo" chi può dire ciò che vuole perchè non sa quel che dice, perché non l’ascolta chi fa le domande e attende le risposte, perchè il chiasso è tutto. I toni sommessi, ragionati, rispettosi; le parole misurate, ricche di significati, dense; e il rispetto delle opinioni sono fuori nel grande, real cortile.

Di questo e altro, con misura, parleremo nell’incontro che condurrò a Casarsa con la partecipazione di Giacomo Marramao, Walter Siti, Bruno Voglino, Giampaolo Gri. Ma non saranno esercizi spirituale. La babele preme alle porte. Silenzio. E colpi di parola. Di idee. Le intenzioni sono queste. Nella libertà di essere a Casarsa e , come diceva Pasolini, quindi in un luogo in cui non è il caso di autocensurarsi. Ritrovare la libertà poi in tv di dire quel che serve. Davvero.
Italo Moscati


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“Forse la giovinezza è solo questo / perenne amare i sensi e non pentirsi”

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dedicate a Pier Paolo Pasolini

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“Forse la giovinezza è solo questo / perenne amare i sensi e non pentirsi”
di Sandra Bardotti

“Perché realizzare un’opera quando è così bello sognarla soltanto?” si chiede l’allievo di Giotto nel Decameron, con stupore innamorato, osservando la propria opera d’arte e la realtà da cui essa ha preso forma. Parole che dovevano essere pronunciate da Sandro Penna, al quale Pasolini aveva deciso di affidare la parte dell’allievo nel suo film. Penna all’ultimo si rifiutò, e così fu Pasolini stesso a personificare il ruolo. Il fatto che Pasolini avesse pensato a Penna per una parte in cui c’era bisogno di pronunciare solo queste poche parole ma significative, è importante per capire l’idea che Pasolini aveva di Penna, della sua figura e della sua poesia.
La grandezza di Penna si avverte anche solo nella difficoltà a trovare misure adatte per definirlo. Alla base del problema sta il fatto che la poesia di Penna nasce dalle illuminazioni del desiderio. Tutto, nella vita di questo amante del mondo, felice di girare con il suo “bianco taccuino sotto il sole”[1], oscilla tra l’espressione panica e luminosa dell’io e una regressione nell’infelicità. Quasi come trovarsi d’improvviso a metà Novecento tra Pascoli e D’Annunzio. La libido si presenta in maniera discontinua: ai momenti in cui essa si manifesta e agisce come una droga, facendo sfavillare la realtà e la presenza del poeta in essa, si alternano le cadute, i risvegli, segni del nume che ci rinnega e ci esclude dalla visione numinosa del mondo, l’esilio. Proprio dal riconoscimento dell’estraneità e della fuggevolezza nasce l’amore di Penna per le cose del mondo e per la vita. E se tutto, nella sua poesia fatta di presente già passato e di passato fulmineo come il presente[2], sembra essere sempre nuovo, emozione mai vissuta, è perché l’appagamento del poeta non nasce dall’immedesimazione con la natura e le cose, ma dal riconoscimento dell’esclusione. Dunque esso può ricostruirsi ogni volta come fosse nuovo, grazie alle illuminazioni concesse dalla libido. Il distacco dalla realtà diventa essenziale per far sì che la visione delle cose risulti sempre nuova, inesplorata. Infatti, la realtà, dopo che il soggetto l’ha trasposta nel proprio mondo, nel proprio spazio vitale, deve essere rifiutata, in modo che la sola verità superstite, quella che conta, sia prodotto del soggetto desiderante. Solo così è possibile garantire verità a una poesia epigrammatica, di piccole cose quotidiane, che non ha pretese se non quella di esistere nel mondo che istantaneamente l’ha creata. Ma il soggetto non può esistere al di fuori del mondo. Così Penna deciderà, per scelta consapevole, di vivere al di qua del mondo e della storia, “al di qua, mai al di là, di ogni inquietudine morale e di ogni complessità romantica e sentimentale riflessione” (Anceschi)[3]. L’indifferenza di Penna nei confronti delle vicende storiche sembra assoluta. Il contrasto tra intensità del desiderio e inappagamento si risolve così, nella scelta di una vita sul marciapiede, tutta incentrata sul proprio io amante e amoroso. L’eros è la molla di ogni impulso vitale, forza a cui tutta la vita di Penna ha deciso di votarsi, anche solo per vivere dei piccoli attimi di felicità narcotica concessi dal Dio. Non c’è altra legge che quella dettata dagli alti e bassi dell’energia erotica vitale. Una sensualità evidente attraversa tutta la sua poesia, una sensualità che non può appartenere all’umano per il suo carattere intermittente e misterioso. È questa onnipotenza del desiderio che affascinò profondamente Pasolini, e che lo portò ad essere sempre attento lettore e critico di Penna. Se la vita di Penna, il suo carattere così evanescente, insicuro, a tratti scontroso e indifferente, non potevano che suscitare il suo biasimo, la poesia di questo piccolo poeta epigrammista di sensazioni lo attirava in una rete di incanto. Pasolini non avrebbe mai potuto scegliere di vivere al di qua della storia. È una questione di carattere e di scelta ideologica. L’obiettivo della poesia pasoliniana era completamente estraneo a Penna: coniugare la propria biografia, la propria esperienza sofferta di uomo e di diverso, con la storia e la cronaca. È proprio da questa osmosi che Penna era fuggito, come spaventato da quelle che sarebbero potute essere le conseguenze della realtà che veniva in contatto con il suo mondo infantile. Come se non fosse stato in grado di sopportarle, come se avesse avuto paura che le illuminazioni sarebbero venute meno e lo avrebbero recluso nella banale quotidianità. In Penna non si manifesta l’urgenza del dire, come invece in Pasolini. E forse, proprio per questo, la poesia di Penna non poteva che realizzarsi entro forme metriche brevi e in sé perfette, lunghe quanto la durata dell’attimo di magia concesso dal Dio; e, ancora per questo, d’altro canto, la poesia di Pasolini non poteva che rivelarsi talvolta mancante alla compiutezza dell’espressione. Ma il fascino dell’eros nella poesia di Penna era forte, tanto che non si attardò a definirlo “il più grande, e il più lieto, poeta italiano vivente”[4].
 
Lo stato di Penna è quello di uno che si senta punito e torturato ingiustamente: si torce sotto il dolore della punizione e si sente innocente. Se appena gli si presenta il sospetto della colpevolezza, lo rimuove. Intendiamo, appunto, la consapevolezza di non essere nella coscienza e nella storia: di aver ridotto il mondo a teatro delle vicende e dei trascorsi dell’io.[5]
 
È soprattutto nell’ Eros indisciplinato e innocente che Pasolini sente una vicinanza con la poesia di Penna. L’omosessualità, sicuramente, poneva Pasolini così vicino a Penna. Eppure Garboli riconosce la profonda differenza dell’omosessualità di Penna da quella di Pasolini: “L’eros di Pasolini è virile, marziale, da flagellazione caravaggesca; quello di Penna è femminile, androgino, da discreto mistero umbro”[6]. Ma uno stesso amore per i ragazzi delle borgate romane accomuna i due poeti. E come ci si sente vicini ai compagni di pena, così Pasolini non può che guardare a Penna come un fratello, che condivide con lui il peso di una colpa. La poesia di Penna è colma di una fisicità traboccante. Il corpo è come se si sostituisse all’anima, determinando la ragione di essere ed esistere di una vita intera. Il mondo sociale è avvertibile tramite l’esperienza del corpo; il mondo storico, invece, dovrebbe essere avvertibile tramite la memoria morale e ideologica. È come se Penna, dunque, avesse rinunciato a quest’ultima. Per questo la sua poesia si presenta di per sé, in virtù di questa semplice condizione, mostruosa. Penna non compie nessun scandalo, nessun gesto moralmente inaccettabile, perché la sua visione della realtà, spoglia dei codici che regolano la normale comprensione, tutta orientata dalla percezione corporea, basta da sola a creare un alone di oscurità intorno alla sua poesia; alone che rende ancora oggi un poeta all’apparenza semplice e cantabile come Penna un “monstrum”[7], un mistero insondabile. È la fedeltà che Penna dimostra nei confronti del Dio-amore che attrasse tanto Pasolini, l’obbedienza alle ragioni del corpo e dell’Eros pronta a spingersi fino al martirio. In questa posizione Pasolini riusciva a intravedere l’unica forma perfetta di santità possibile.
In cosa consiste la sua santità? Nel silenzio con cui ha rinunciato alla vita e al suo godimento così come è inteso nella nostra parte di storia in cui siamo apparsi su questa terra. Ripeto, ha cercato il suo godimento altrove, in cose considerate da tutti futili, remote, incomprensibili, infantili e sconvenienti. Anche Penna è stato, ripeto, un po’ predone di quella realtà che forse dovrebbe essere unicamente contemplata. Ma è proprio da questi suoi momenti di peccato – in cui è venuto meno alla regola della rinuncia e della umile, silenziosa, monastica protesta contro il mondo, così sublime e così in accogliente – che ha trovato le ispirazioni per la sua poesia. Essa consiste nell’osservazione lieta e priva di ogni speranza delle cose (per Penna pochissime, anzi forse una sola) che si possono avere nel mondo per sopravviverci: ma questa osservazione è compiuta nel silenzio di quel luogo dove non si vive più ma, appunto, si contempla soltanto. Questa sua esclusione di se stesso da un mondo che del resto lo escludeva, è stata una lunga ascesi, fatta di notti e di giorni senza regola, in cui si ride e si piange, come ingenui personaggi di opere romantiche senza principio né fine, con le loro croci e le loro delizie: una lunga ascesi in cui, anziché pregare, egli ha cantato le forme del mondo lontano.[8]
Dunque l’ammirazione di Pasolini sembra passare anche attraverso una lettura para-cristiana, che invece è del tutto estranea al profondo realismo di cui è intrisa la poesia di Penna. Concordiamo con il critico Alfonso Berardinelli nel pensare che la diversità assoluta di Penna inquietasse Pasolini, e che egli, come per scongiurare la paura di qualcosa che non si fa mai conoscere completamente e a fondo, cercasse di ricondurre la sua poesia su toni eufemistici. La figura che ne è venuta fuori è quella di un Penna problematico, che sublima e nasconde. Ma in realtà Penna non sublima o nasconde: semplicemente, ignora. La sua è un’indifferenza assoluta nei confronti della morale, il suo linguaggio è solo quello della nuda vita, fuori dalla storia, presenza reale e non paradosso ideologico. Le sole leggi da cui si lascia governare sono quelle naturali, perché inspiegabili e non umane. 
Penna e Pasolini furono amici a Roma. Si frequentavano vicendevolmente, anche grazie alle amicizie comuni, in primis quella con Elsa Morante. Dunque ebbero modo di apprezzarsi direttamente, di scambiarsi poesie e pensieri. Eppure l’insofferenza nella vita di Penna negli ultimi anni era giunta ad un punto tale che l’atteggiamento di Pasolini nei suoi confronti si fece addirittura bonariamente ironico. Non mancò mai il rispetto e l’ammirazione nei confronti del grande poeta, ma Pasolini imparò a non prenderlo più così sul serio, almeno nelle sue scelte di vita ed editoriali. Ne abbiamo testimonianza in una lettera a Nico Naldini del marzo 1952, dove consiglia al cugino di non inviare poesie a Penna: “È perfettamente inutile mandare poesie a Penna: se ne frega altamente di tutto. Comunque ha sempre una vaga idea di scrivere sul tuo friulano (nota che sono alcuni anni che non scrive una riga: quindi c’è poco da sperare)”[9].
Nonostante ciò, Pasolini fu un grande ammiratore e sostenitore di Penna. Quel Penna, poeta vagabondo, era destinato a diventare, dopo la prima raccolta di poesie, un piccolo maestro per le nuove generazioni, soprattutto per quelle della scuola romana, come Pasolini e Dario Bellezza.
Il secondo libro di versi di Penna uscì nel 1950 nelle edizioni milanesi della Meridiana col titolo di Appunti. Pasolini gli dedica un articolo su ‹‹Il Popolo di Roma››, il 28 settembre dello stesso anno. E già in questo si può vedere la sincera ammirazione per la poesia pura di Penna, per il mistero che essa racchiude e svela a tratti, a illuminazioni improvvise. Significativamente Pasolini accosta la figura di Penna a quella di un altro grande maestro:
Naturalmente, la tecnica di Penna è inimitabile, come, del resto, è senza veri precedenti: se gli volessimo trovare una figura cui assimilarlo, crediamo che l’unico nome da fare sarebbe quello di Rimbaud, il Rimbaud ragazzo, con tutto il suo dérèglement ancora potenziale, e magari con una vena melodica ancora più fluida e tersa. Come Rimbaud, Penna è, nelle lettere italiane, il ribelle infantile e assolto. Naturalmente anch’egli giunge spesso, nel suo quotidiano delirio, a un’illogica saggezza, a un’acerba e ingenua maturità.[10]
Nel 1955 vi fu la pubblicazione di Una strana gioia di vivere, che costituisce un punto fermo nella storia di Sandro Penna, accolta molto bene dalla critica tanto da meritare l’assegnazione di un premio letterario, il fiorentino “Le Grazie”, e Pier Paolo Pasolini, lettore attento del volume, con un articolo su ‹‹Paragone››, a. VII, n. 76, aprile 1956, riconobbe la modernità della poeta, analizzando e controbattendo le critiche che finora si erano sviluppate nel panorama letterario. Quella di Pasolini è una delle prime letture originali e intelligenti fatte della poesia di Penna. Pasolini è uno dei critici più profondi e analitici della sua poesia. E il mondo di sensazioni che Penna riusciva miracolosamente a creare con la forza dell’Eros non poteva non entrare anche nel mondo poetico e narrativo di Pasolini, anche in Petrolio.
Nel 1956 esce la raccolta Poesie, che vinse il premio Viareggio insieme con Le ceneri di Gramsci dello stesso Pasolini.
“Io ho fatto un culto di Penna: e, come tutti i culti, esso mi dà il rimorso di non essere così forte e fedele da praticarlo degnamente”[11] scriverà Pasolini nel ‹‹Segnalibro›› all’edizione di Tutte le poesie di Penna, uscita nel 1970 per Garzanti. È il segno di una stima che va ben oltre la parola poetica, e anche sintomo di un’identificazione personale che si è consumata tra due poeti accomunati dall’aver scelto Roma come patria di elezione e dall’averla vissuta negli stessi anni, portandosi dietro lo scandalo dell’omosessualità.
L’ultimo grande elogio per Penna è la recensione che Pasolini dedica alla raccolta Un po’ di febbre, sul ‹‹Tempo››, a. XXXV, n. 23, 10 giugno 1973. Nell’epoca fascista niente è stato più antifascista della visione che Penna dette dell’Italia di quel periodo. Egli ha preferito rimanere al di qua della storia, descrivendo la bellezza e la bontà del nostro paese senza immettervi tracce della ferocia e dell’ottusità fascista.
Che paese meraviglioso era l’Italia durante il periodo del fascismo e subito dopo!
[…]
Le città finivano con grandi viali, circondati da case, villette o palazzoni popolari dai “cari terribili colori” nella campagna folta: subito dopo i capolinea dei tram o degli autobus cominciavano le distese di grano, i canali con le file dei pioppi o dei sambuchi, o le inutili, meravigliose macchie di gaggie e more. I paesi avevano ancora la loro forma intatta, o sui pianori verdi, o sui cocuzzoli delle antiche colline, o di qua e di là dei piccoli fiumi. La gente indossava vestiti rozzi e poveri (non importava che i calzoni fossero rattoppati, bastava che fossero puliti e stirati); i ragazzi erano tenuti in disparte dagli adulti, che provavano davanti a loro quasi un senso di vergogna per la loro svergognata virilità nascente, benché così pieni di pudore e di dignità, con quei casti calzoni dalle saccocce profonde; e i ragazzi, obbedendo alla tacita regola che li voleva ignorati, tacevano in disparte, ma nel loro silenzio c’era una intensità e una umile volontà di vita (altro non volevano che prendere il posto dei loro padri, con pazienza), un tale splendore di occhi, una tale purezza in tutto il loro essere, una tale grazia nella loro sensualità, che finivano col costituire un mondo dentro il mondo, per chi sapesse vederlo. È vero che le donne erano ingiustamente tenute in disparte dalla vita, e non solo da giovinette. Ma erano tenute in disparte, ingiustamente, anche loro, come i ragazzi e i poveri. Era la loro grazia e la loro umile volontà di attenersi a un ideale antico e giusto, che le faceva rientrare nel mondo, da protagoniste. Perché cosa aspettavano, quei ragazzi un po’ rozzi, ma retti e gentili, se non il momento di amare una donna? […]
Per quelle città dalla forma intatta e dai confini precisi con la campagna, vagavano in gruppi, a piedi, oppure in tram: non li aspettava niente, ed essi erano disponibili, e resi da questo puri. La naturale sensualità, che restava miracolosamente sana malgrado la repressione, faceva sì che essi fossero semplicemente pronti a ogni avventura, senza perdere neanche un poco della loro rettitudine e della loro innocenza. Anche i ladri e i delinquenti avevano una qualità meravigliosa: non erano mai volgari.[12]
E questa realtà descritta da Penna è la stessa che è stata amata e riprodotta da Pasolini nei suoi primi due romanzi romani, quando ancora l’illusione della purezza del mondo delle borgate romane sopravviveva.
 
Ora che tutto è laido e pervaso da un mostruoso senso di colpa – e i ragazzi brutti, pallidi, nevrotici, hanno rotto l’isolamento cui li condannava la gelosia dei padri, irrompendo stupidi, presuntuosi e ghignanti nel mondo di cui si sono impadroniti, e costringendo gli adulti al silenzio o all’adulazione – è nato uno scandaloso rimpianto; quello per l’Italia fascista o distrutta dalla guerra.
[…]
Nel libro di Penna quel mondo appare ancora in tutta la sua stabilità ed eternità, quando era “il” mondo, e nulla avrebbe mai fatto sospettare che sarebbe cambiato. 
[…]
Tanto che è difficile parlare di Un po’ di febbre come di un libro: esso è un brano di tempo ritrovato. È qualcosa di materiale. Un delicatissimo materiale fatto di luoghi cittadini con asfalto e erba, intonaci di case povere, interni coi modesti mobili, corpi di ragazzi coi loro casti vestiti, occhi ardenti di purezza e di innocente complicità.
[…]
Un dolore sconfinato vi è a malapena contenuto come presentimento di perdere quella gioia. Questa illimitatezza sentimentale, fa intravedere in questo poeta, che (forse con Bertolucci) è realmente il più grande poeta italiano vivente – anche quel poeta che egli non è stato: un poeta al di fuori dei limiti che egli si è imposti con commovente e purissimo rigore.[13]
Questo è l’ultimo pensiero di Pasolini su Penna. E in Petrolio, là dove vi sono quelle grandi descrizioni paesistiche, lungo le prefazioni, si sente l’eco di quella città e di quegli esseri viventi descritti mirabilmente da Penna. Non ci si può sbagliare. È la stessa realtà ad essere invocata, è lo stesso sole che getta una luce avvolgente su quei palazzi grigi e su quelle esistenze povere. È la bellezza che non può più resistere alla corruzione. Ma Pasolini non può reagire come Penna davanti a questa immanente distruzione. Pasolini è per vocazione tutto immerso nella storia e non può ignorare il degrado in cui la stessa istituzione culturale lascia sprofondare questa bella Italia del periodo fascista e subito seguente. La mercificazione, l’omologazione, la distruzione di una purezza originaria delle coscienze non può lasciarlo indifferente, né limitarlo a descrivere con nostalgia. Pasolini è un poeta civile, in primo luogo, e dunque non può starsene a guardare con gli occhi incantati di Penna quella dissoluzione.



[1] S. Penna, Poesie, Garzanti, Milano 2006, pag. 151.
[2] Anche Pasolini aveva scritto delle considerazioni importanti su questo aspetto temporale anomalo, nuovo e affascinante della poesia di Penna: “Ogni accenno naturalistico poi, per la stessa qualità dello stile, si configura come un paradigma del cosmo: non è mai visto e descritto se non in funzione dell’assoluto (non c’è mai un’indicazione di luogo, di tempo, una caratterizzazione linguistica locale o anagrafica); il particolare, che è sempre estremamente vivido (come osservatore della realtà in quanto mondo quotidiano, bisogna riconoscere a Penna una grande libertà e limpidezza) viene distratto dalla sua totalità reale e immesso in una totalità reale ma in un mondo percepito da una personalità che ne sia imbevuta e deformata. La vanità delle cose è uguale alla loro eternità. Dire ieri o dire oggi è l’identica cosa. Vedere il ripetersi previsto dei fenomeni, è stupendo e insieme doloroso”; in Penna. Una strana gioia di vivere, apparso su ‹‹Paragone››, a. VII, n. 76, aprile 1956; ora in Saggi sulla letteratura e sull’arte, a cura di W. Siti e S. De Laude, Meridiani Mondadori, Milano 1999, pag. 1135.
[3] Il giudizio di Anceschi è riportato da Pasolini nel saggio Penna. Una strana gioia di vivere, apparso su ‹‹Paragone››, a. VII, n. 76, aprile 1956; ora in Saggi sulla letteratura e sull’arte, a cura di W. Siti e S. De Laude, Meridiani Mondadori, Milano 1999, pag. 1130.
[4] P. P. Pasolini, ‹‹Segnalibro››, in S. Penna, Tutte le poesie, Garzanti, Milano 1970; ora in Saggi sulla letteratura e sull’arte, a cura di W. Siti e S. De Laude, Meridiani Mondadori, Milano 1999, pag. 2544.
[5] P. P. Pasolini, Penna. Una strana gioia di vivere, apparso su ‹‹Paragone››, a. VII, n. 76, aprile 1956; ora in Saggi sulla letteratura e sull’arte, a cura di W. Siti e S. De Laude, Meridiani Mondadori, Milano 1999, pag. 1137.
[6] C. Garboli, Avete mai provato, relazione che ha inaugurato il Convegno dedicato a S. Penna dal Comune di Prato nell’aprile 1985; ora in C. Garboli, Penna papers, Garzanti, Torino 1989, pag. 90.
[7] Così Pasolini definisce la resistenza all’analisi di alcuni prodotti puri della poesia di Penna, in Penna. Una strana gioia di vivere, apparso su ‹‹Paragone››, a. VII, n. 76, aprile 1956; ora in Saggi sulla letteratura e sull’arte, a cura di W. Siti e S. De Laude, Meridiani Mondadori, Milano 1999, pag. 1134.
[8] P. P. Pasolini, ‹‹Segnalibro››, in S. Penna, Tutte le poesie, Garzanti, Milano 1970; ora in Saggi sulla letteratura e sull’arte, a cura di W. Siti e S. De Laude, Meridiani Mondadori, Milano 1999, pagg. 2543-2544.
[9] P. P. Pasolini, Vita attraverso le lettere, a cura di N. Naldini, Einaudi, Torino 1994, pag. 142.
[10] P. P. Pasolini, Gli Appunti di Sandro Penna, in ‹‹Il Popolo di Roma››, 28 settembre 1950; ora in Saggi sulla letteratura e sull’arte, a cura di W. Siti e S. De Laude, Meridiani Mondadori, Milano 1999, pag. 352.
[11] P. P. Pasolini, ‹‹Segnalibro›› in S. Penna, Tutte le poesie, Garzanti, Milano 1970; ora in Saggi sulla letteratura e sull’arte, a cura di W. Siti e S. De Laude, Meridiani Mondadori, Milano 1999, pag. 2543.
[12] P. P. Pasolini, Sandro Penna: Un po’ di febbre, in ‹‹Tempo››, a. XXXV, n. 23, 10 giugno 1973; ora in P. P. Pasolini, Saggi sulla politica e sulla società, a cura di W. Siti e S. De Laude, Meridiani Mondadori, Milano 1999, pag. 421-423.
[13] P. P. Pasolini, Sandro Penna: Un po’ di febbre, in ‹‹Tempo››, a. XXXV, n. 23, 10 giugno 1973; ora in P. P. Pasolini, Saggi sulla politica e sulla società, a cura di W. Siti e S. De Laude, Meridiani Mondadori, Milano 1999, pag. 423-425.




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Jacqueline Spaccini, « Massimo Fusillo, La Grecia secondo Pasolini. Mito e cinema »

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro


 
Massimo Fusillo, La Grecia secondo Pasolini. Mito e cinema
Jacqueline Spaccini

Non nuovo allo studio della Grecia antica, Massimo Fusillo torna alla classicità greca analizzandola sotto la duplice lente del mito nel cinema. L’opera filmica è quella – pasoliniana – dell’Edipo Re (1967), di Medea (1970) con uno sguardo attento alla versione pasoliniana dell’Orestea teatrale di Gassman (1960).

In verità, seppur l’autore proponga un aggiornamento dei suoi tre saggi più significativi, pubblicati oltre dieci anni fa, non si creda che il tempo abbia scalfito la brillantezza delle sue osservazioni : la « giustezza » del suo scrivere è tale che il lettore può a pieno titolo gustare le pagine come fossero appena uscite dalla penna di Fusillo.
 
I due saggi dedicati al cinema « barbarico » di Pasolini sono preceduti da una lunga introduzione, la quale si incarica di riassumere il senso del passaggio dal Pasolini scrittore al Pasolini cineasta ; una sorta di « conversione », la sua : « all’inizio il cinema fu soprattutto un mezzo per trascrivere con una tecnica nuova il mondo dei romanzi romani ».
 
Non già per fare del regionalismo coatto ; al contrario, la tecnica cinematografica che prevede una lingua non verbale (e per ciò stesso non esclusivamente italiana) permette a Pasolini di fare dell’arte transnazionale. Non il Tevere malandrino di Ragazzi di vita, né le borgate romane di Accattone : più ancora che il sottoproletariato urbano, è il mondo contadino – osserva Fusillo – il luogo perduto e perciò rimpianto dallo scrittore regista. Nel cinema, Pasolini ha a cuore la nettezza di ciò che è « immediato, primitivo, primigenio ».
 
5iviso tra istinto e didattica, il regista realizza due film che sono a metà strada tra il sogno e il documentario ; la sua peculiarità tecnica non dimentica la lezione dei Dreyer, Rossellini o Chaplin : il suo è un cinema volutamente spoglio, povero, essenziale. Pasolini affida al volto umano e all’inquadratura frontale una carica ieratica : gli sguardi di Silvana Mangano fissi sulla camera che la ritrae non sono inferiori a certi primi piani di bergmaniana memoria. E che il suo sia un neo-neorealismo – come lo definisce Fusillo – lo prova anche l’ostinata risoluzione di avvalersi di attori non professionisti (ad eccezione dei protagonisti), nonché l’ambientazione delle storie filmiche in luoghi desertici, cristallizzati, quasi surreali.
 
E allora anche la Grecia messa in scena da Pasolini non è quella levigata del periodo classico (troppo spesso ridotta a una sorta di parodia nei film di peplum), bensì quella barbarica di cui non si ha memoria e che al lettore/spettatore evocherà più facilmente alcune comunità dell’Africa arcaica.
 
Quella di Pasolini è dunque una riscrittura delle due tragedie ; il suo macrotesto tuttavia non è un’opera postmoderna, come ve ne sono un po’ ovunque, giacché è assente in lui ogni intenzione consapevolmente ironica. Fusillo osserva che c’è uno scarto ossimorico tra la messa in scena della tragedia a teatro e quella al cinema : la prima è affidata al dominio della parola mentre la seconda è pre-razionale e per ciò stesso pre-verbale. Pochissimi sono i dialoghi nei due film, anche se spesso forte è la presenza della parola scritta (in Edipo Re) ad esprimere il pensiero dei protagonisti, in una sorta di estremo omaggio al cinema muto.
 
Il Mito non appartiene alla sfera del razionale, bensì a quella del mistero ; in esso non c’è intellettualismo e la parola è come interdetta. L’Edipo cinematografico di Pasolini è antintellettuale e non solo, spiega Fusillo : l’interesse del regista è piuttosto spostato sull’antagonismo padre-figlio in chiave chiaramente (e dichiaratamente) autobiografica, mettendo in secondo piano il rapporto figlio-madre, quasi che l’incesto con Giocasta fosse qualcosa di più « naturale » (se la società è barbarica, il tabù pur essendo forte, è più spesso violato).
 
È colpevole, è innocente, Edipo ? Antica quaestio che annovera Pasolini tra gli innocentisti ; così scrive Fusillo, anche se tale convinzione fatica a reggere dinanzi allo schermo. A nostro avviso, cioè, per essere innocente l’Edipo pasoliniano dovrebbe semplicemente non sapere (e non sa perché non ha visto) ; in realtà, egli non vuole più ricordare quel che ha visto. Ci riferiamo alla scena in cui lo spettatore capisce che Edipo sta barando, ben sapendo d’esser proprio lui l’assassino di suo padre. Vediamola da vicino.
 
Il giovane Edipo, avvertito del terribile destino che lo attende, decide di non tornare a casa (Corinto) e sceglie di recarsi a Tebe. Lungo la strada, ad un crocevia, incontra un anziano, a bordo di un carro, accompagnato da un servo e scortato da quattro soldati. L’uomo è arrogante, chiede ad Edipo, che apostrofa straccione, di farsi da parte e cedergli il passo (scena che ricorderà quella del Lodovico manzoniano prima di farsi frate). Dopo aver rifiutato, Edipo scaglia una pietra contro uno dei soldati e urlando di rabbia fugge. Una volta eliminati i guerrieri che lo inseguivano, il giovane torna al crocevia, come in preda ad una furia sanguinaria. Nel frattempo, il vecchio arrogante si è alzato in piedi ed Edipo vede ch’egli si mette un copricapo sulla testa, una sorta di corona, dinanzi alla quale, il giovane scoppia a ridere. Ciò non gli impedisce di uccidere il vecchio (Laio) e mentre il servo scappa (sarà il testimone), guarda fissamente il volto di colui che ha trucidato. Tutto ciò non sarebbe poi così importante se non ritrovassimo, in una scena successiva, quello stesso copricapo – la strana corona – in testa ad Edipo e proprio nell’atto di chiedere che venga ricercato e condannato l’assassino di Laio.
 
Passando a gesti e oggetti assurti a metafora da decrittare, l’Edipo ne presenta alcuni (procedimento simbolico assente in Medea) sui quali Pasolini insiste come a volerne rimarcare l’importanza. Si pensi alle mani con le quali Edipo si nasconde il volto fin da bebè quando vuole ritrarsi dalla violenza altrui, rifiutandosi di vederla. O ancora, alla mano ch’egli si morde ogniqualvolta è in preda ad « una pulsione angosciosa », scrive Fusillo, come exemplum di un codice del corpo, quel linguaggio non verbale, di cui « il Pasolini antropologo [ha] chiara coscienza ». L’autore del libro rimanda anche alla valenza dello sguardo (non diegetico) dei protagonisti nella camera, soprattutto nelle scene di sesso, « quasi a sottolineare il voyeurismo dello spettatore (che poi è una caratteristica sempre latente nel pubblico cinematografico) », una sorta di trasposizione dello sguardo che la tahitiana di Aha ohe feii ? rivolge a colui che osserva il quadro di Gauguin. A nostro avviso, più facilmente lo sguardo rivolto alla camera può esser letto come l’espressione neanche tanto nascosta di un narcisismo ingenuamente strafottente da buttare in faccia allo spettatore. Quanto agli oggetti, la spilla di Giocasta è senz’altro quello più rappresentativo di una simbologia tutta giocata sulle due tematiche attorno alle quali girano le tragedie greche pasoliniane : eros e thanatòs, l’istinto sessuale e la morte. La spilla della moglie-madre è quella che trattiene le sue vesti e nasconde la di lei nudità. Togliere la spilla dalle vesti di Giocasta equivale a usare la chiave che apre l’accesso al suo corpo, inteso come intimità. E di quella stessa spilla si servirà Edipo per accecarsi, definitivamente, abbandonando la metafora, e diventare per davvero cieco : non a caso, infatti, la scena finale vede Edipo, ormai cieco, suonare il flauto in una modernissima Bologna.
 
In conclusione, l’Edipo pasoliniano rifiuta di vedere poiché la vista dà la conoscenza e la conoscenza appartiene alla sfera del sapere e dunque della ragione, dell’odierno, secondo Fusillo. Ciò che è razionale è il contrario di ciò che è « arcaico, mitico e misterioso », centro di ogni interesse per stessa ammissione di Pasolini in una delle tante interviste fattegli.
 
In Medea tutto è meno cinematograficamente tecnico ; qui, la simbologia è, semmai, nella messa in scena dei due personaggi antagonisti : Medea a illustrare il mondo della sacralità arcaica mitica e misteriosa (ma anche passionale, crudele e utopica) e Giasone a rappresentare il mondo della razionalità pragmatica, borghese e calcolatrice. La rottura tra i due non è esplicabile con il disamore di Giasone nei confronti di Medea, bensì è da rintracciare nell’inconciliabilità dei loro due universi. Pasolini è arrivato a gridare quel che poteva sembrare ancora realizzabile qualche anno prima (l’utopica sintesi ch’egli aveva intravisto nell’Orestea teatrale scritta nel 1960) : « Niente è più possibile, ormai », dirà Medea ; vale a dire : la parola non salva, il dialogo non è possibile.
 
Pasolini è a suo modo un espressionista : se infatti la sua novità, osserva Fusillo, « è la convinzione che il cinema, proprio perché arte giovane, […] possa […] giungere al mistero ontologico delle cose », ecco che in Medea il significato delle cose lo si coglie attraverso il personaggio interpretato da Laurent Terzieff, il Centauro Chirone ; per meglio dire, attraverso la visione del suo corpo.
 
Nel prologo, costui dispensa la sua Weltanschauung a un Giasone dapprima bambinello, poi adolescente e infine giovanotto. Ebbene, se dapprima egli gli dice che « tutto è santo » e che « niente, nella natura, è naturale », terminerà l’ultimo suo proposito con un lapidario « non c’è nessun dio ».
 
Perché ? Dov’è la verità ? Secondo noi, lo spettatore si accorge (sia pure ad una seconda visione) che è il pensiero di Giasone ad echeggiare nella bocca del Centauro e non quello del Centauro stesso, sebbene le inquadrature non siano in soggettiva. Il nostro punto di vista diventa visibile (e condivisibile) se si osserva attentamente la figura del centauro : quando lo vediamo per la prima volta è mezzo uomo e mezzo cavallo ; nel prosieguo della sua lunga allocuzione, al Giasone tredicenne è dato ancora immaginare ch’egli sia come lo aveva conosciuto, ma noi – gli spettatori – vediamo che la parte equina è nascosta tra il fogliame delle siepi ed è soltanto il torace nudo a darci l’impressione che sia ancora Centauro. Ma quando Giasone è ormai adulto, ecco che Chirone non soltanto è interamente uomo e interamente vestito, ma addirittura egli dice che la realtà nel mito, inteso da Pasolini come esperienza concreta, è cosa lontana, che la ragione è divina (seppur fallace) e che non esiste nessun dio ; in ultima istanza, nulla è sacro. In dieci minuti di monologo, il mondo di Giasone si è trasformato da arcaico in moderno.
 
Tutto il contrario dell’universo della donna. Nel mondo di Medea, regola è ciò che è barbarico (beninteso, agli occhi di un’altra civiltà dominante), onirico, rituale, misterico, magico. In una parola : arcaico. L’incontro tra l’uomo e la sacerdotessa è piuttosto la storia dello scontro tra ciò che è antico e ciò che è moderno e della loro inconciliabilità. Tra Giasone e Medea in realtà non esiste amore, la donna non si innamora del giovane tessalo ; ella è attratta dal suo corpo (ricordiamo che Pasolini scelse un atleta di fama mondiale, il lunghista Giuseppe Gentile, per rappresentare l’eroe greco). È l’eros che tutto muove e sommuove.
 
In Pasolini come nei classici greci, eros e thanatòs, inteso come morte ma soprattutto come (auto)distruzione, vanno insieme. E dunque la lunga sequela di morte e distruzione investe dapprima il giovane Apsirto, poi Glauce e suo padre Creonte, infine i figli stessi di Medea e Giasone. Al pari del Sole, il Fuoco regna su tutto. Più che negli altri, l’ellissi è la tecnica narrativa che Pasolini utilizza in questo film : non vengono rappresentati gli atti cruenti e nemmeno si allude ad essi (se si astrae dal doppio suicidio di Glauce e di Creonte che si gettono dall’alto di una torre, ma che la macchina da presa ritrae lontanissimi), se non nella scena del sacrificio umano, giacché l’espressionismo pasoliniano passa attraverso i colori e gli sguardi, non attraverso l’esibizione dello spargimento di sangue.
 
Paradossalmente, lo spettatore prende coscienza dell’atto doppiamente infanticida proprio davanti all’immagine materna di una Medea che lava e accarezza i suoi figli. Infine, non sul suicidio di Giasone si chiude il film, bensì sulla netta separazione dei due mondi, col fuoco a dividere i due protagonisti : « perché cerchi di passare attraverso il fuoco – urla Medea a Giasone disperato per i figli morti – non potrai farlo ; è inutile tentare ! ». Quando l’inconciliabilità dei due mondi è acclarata, e il dialogo è vano, echeggia l’ultima invettiva di Medea : « È inutile ; niente è più possibile ormai ».
 
L’ultimo saggio di Massimo Fusillo è incentrato sull’Orestea di Eschilo che nel 1959 Gassman chiese a Pasolini di tradurre. Più di ogni altra analisi, qui è estremamente interessante la riflessione che l’autore del libro porta sulla traduzione. Diciassette pagine sono dedicate alla riabilitazione della versione pasoliniana contro le accuse di plagio e di incompetenza che all’epoca mossero grecisti più o meno noti (Degani, su tutti). In realtà, Pasolini rese pubblici i suoi debiti filologici fin da subito, nella Lettera (o Nota) del Traduttore. Quel che Fusillo tiene tuttavia a mettere in risalto (appoggiandosi a testi che hanno fatto la storia delle teorie traduttive) è che un poeta non può tradurre come un traduttore qualsiasi. Translation as Creation, scrive, prendendo in prestito le parole di Louis G. Kelly ; « il traduttore di poesia deve rinunciare nella maggior parte dei casi a riprodurre gli effetti espressivi dell’originale (soprattutto quelli fonici), ma può cercare di compensare la perdita creandone parallelamente di nuovi ; d’altronde anche Jakobson sosteneva che non ci può essere vera traduzione di poesia, ma solo “trasposizione creativa” ».
 
Tornando al rapporto tra mito e cinema e sul mondo greco restituito ossimoricamente nella sua barbaricità, concluderemo con le parole di Fusillo, dicendo che per Pasolini il tema del mito greco trova proprio nel cinema la sua massima estrinsecazione, giacché in esso si attua quella « ricerca di un linguaggio che potesse cogliere il mistero ontologico del reale, quel mistero che, a differenza dell’enigma, non può essere decodificato dalla ragione ».
 
Fonte:
http://italies.revues.org/4241



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Curatore, Bruno Esposito

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