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Biografia, lavori in corso - a breve anche il 1974 e il 1975

giovedì 3 dicembre 2020

1975, l'omicidio Pasolini e la strage del Circeo

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro



1975, l'omicidio Pasolini e la strage del Circeo

Sulla Gazzetta del Sud, il 3 novembre 1975, ovvero il giorno dopo l’uccisione di Pier Paolo Pasolini e un mese dopo il massacro del Circeo, compare sul giornale un singolare articolo che mette in relazione questi due fatti di cronaca nera:
La sua scontata morte violenta non ci turba, né ci commuove, né ci emoziona. Pasolini figlio dell’Italia del boom economico e dello sviluppo anomalo non cessò mai di rinunciare alla sua euforia vitale, espressa in autentiche notti di violenza psicologica e fisica, come era abbastanza noto a tutti e come è stato confermato dal fatto del suo ultimo incontro. A distanza di qualche settimana abbiamo in questo bel Paese, da parte degli stessi personaggi colti, la giusta condanna dei pariolini che affogarono Rosaria Lopez, ragazza di borgata, per punirla della volontà di disporre del suo corpo, e la grottesca esaltazione di un Pasolini; sfortunato però, perché a differenza dei pariolini lo scrittore ha fatto le spese di un’analoga ribellione, quella di un ragazzo pure di borgata che gli ha reso pan per focaccia affermando, se pur attraverso la controviolenza, come aveva fatto Rosaria Lopez, il diritto al suo corpo che era stato pagato anticipatamente con un pasto in trattoria.

È una vera e propria apologia di reato, una provocazione. Ma per uno dei tanti scherzi della storia molte cose iniziano a cambiare, nel modo di vedere i fatti della vita, proprio dall’intreccio di queste due storie.





Ogni epoca ha i suoi mostri, i ragazzi “normali” del Circeo

Roma, nella notte tra il 1 e il 2 ottobre del ‘75, in via Pola, una strada di un tranquillo ed elegante quartiere borghese, vengono ritrovate due ragazze nel bagagliaio di una Fiat 127, avvolte in dei sacchi di plastica: una morta, l’altra quasi. I carabinieri sono arrivati sul posto solo perché una donna che non riusciva a dormire ha sentito dei lamenti provenire da una macchina. Le due ragazze sono Rosaria Lopez, 18 anni e la sedicenne Donatella Colasanti. Arrivata all’ospedale, Donatella riuscirà a dare una prima testimonianza:
Mi avevano messo un laccio intorno al collo e tiravano, tiravano, e poi vedendo che non riuscivo a morire mi hanno presa a sprangate sulla testa e dicevano sempre: “Madonna, questa qui resiste troppo, quand’è che muore? Casomai dopo gli diamo una pistolettata.” Quando mi hanno messa nel portabagagli, hanno detto: “Finalmente è morta”.

Dopo poche ore Donatella riesce a fornire particolari sufficienti per individuare i responsabili: sono Gianni Guido, 20 anni, figlio di un dirigente bancario (la 127 era quella di suo padre), Angelo Izzo, 17 anni, figlio di un ingegnere costruttore, e Andrea Ghira, 22 anni, anch'egli figlio di un costruttore. I primi due vengono immediatamente arrestati, mentre Ghira riesce a fuggire. Nessuno lo prenderà mai più.

Il giornalista Giuseppe Colomba parla dei protagonisti:
Erano ragazzi di tutti i giorni, ragazzi in cui si poteva riconoscere una gran parte della città. Erano pariolini di Piazza Euclide, ragazzini per bene, di questi che giravano con le automobili, con le prime motociclette. E le ragazze, anche loro erano normali, comuni, non c’erano ambienti diversi, non c’era la politica. Si trattava di vita quotidiana e quindi la consapevolezza che tutto questo sarebbe potuto accadere a chiunque, ha provocato in quella circostanza uno shock nuovo. Questo disprezzo per la vita umana, questo sadismo nell’infliggere sofferenze gratuite, era un film dell’orrore, uno dei primi film dell’orrore.

Ma chi sono Guido, Izzo e Ghira? Loro stessi si definiscono fascisti. Ghira, in particolare, teorizza il crimine come mezzo legittimo di affermazione sociale. La sua camera è tappezzata di bandiere naziste, mezzibusti di Hitler e Mussolini, e libri del filosofo Julius Evola.

“Comincia l’inferno”: il racconto di Donatella Colasanti

Tutto è cominciato una settimana fa, con l’incontro con un ragazzo all’uscita del cinema che diceva di chiamarsi Carlo, lo scambio dei numeri di telefono e la promessa di vederci all’indomani insieme ad altri amici. Con Carlo così, vengono Angelo e Gianni, chiacchieriamo un po’, poi si decide di fare qualcosa all’indomani, io dico che non avrei potuto, allora si fissa per lunedì. L’appuntamento è per le quattro del pomeriggio. Arrivano solo Angelo e Gianni, Carlo, dicono, aveva una festa alla sua villa di Lavinio, se avessimo voluto raggiungerlo…ma a Lavinio non arrivammo mai. I due a un certo punto si fermano a un bar per telefonare a Carlo, così dicono; quando Gianni ritorna in macchina dice che l’amico avrebbe gradito la nostra visita e che andassimo pure in villa che lui stava al mare. La villa era al Circeo e quel Carlo non arrivò mai. I due si svelano subito e ci chiedono di fare l’amore, rifiutiamo, insistono e ci promettono un milione ciascuna, rifiutiamo di nuovo. A questo punto Gianni tira fuori una pistola e dice: “Siamo della banda dei Marsigliesi, quindi vi conviene obbedire, quando arriverà Jacques Berenguer non avrete scampo, lui è un duro, è quello che ha rapito il gioielliere Bulgari”. Capiamo che era una trappola e scoppiamo a piangere. I due ci chiudono in bagno, aspettavano Jacques. La mattina dopo Angelo apre la porta del bagno e si accorge che il lavandino è rotto, si infuria come un pazzo e ci ammazza di botte, e ci separano: io in un bagno, Rosaria in un altro. Comincia l’inferno. Verso sera arriva Jacques. Jacques in realtà era Andrea Ghira, dice che ci porterà a Roma ma poi ci hanno addormentate. Ci fanno tre punture ciascuna, ma io e Rosaria siamo più sveglie di prima e allora passano ad altri sistemi. Prendono Rosaria e la portano in un’altra stanza per cloroformizzarla dicono, la sento piangere e urlare, poi silenzio all’improvviso. Devono averla uccisa in quel momento. A me mi picchiano in testa col calcio della pistola, sono mezza stordita, e allora mi legano un laccio al collo e mi trascinano per tutta casa per strozzarmi, svengo per un po’, e quando mi sveglio sento uno che mi tiene al petto con un piede e sento che dice: “Questa non vuole proprio morire”, e giù a colpirmi in testa con una spranga di ferro. Ho capito che avevo una sola via di uscita, fingermi morta, e l’ho fatto. Mi hanno messa nel portabagagli della macchina, Rosaria non c’era ancora, ma quando l’hanno portata ho sentito chiudere il cofano e uno che diceva: “Guarda come dormono bene queste due”.

Ma qual è la vera natura di questa tragedia?

I cronisti fanno fatica a inquadrare questa terribile storia, lo stesso pubblico non riesce a cogliere nessuna traccia del movente passionale: non si tratta, infatti, solo di violenza sessuale, non è il solito delitto di qualche maniaco. Gli assassini sono ricchi e giovani, e seviziano le due ragazze perché “inferiori”, perché ragazze semplici del “popolo”, che vivono in periferia.
Prende piede un altro tipo di racconto, meno legato agli schemi classici della cronaca nera; un racconto più politico e sociologico: si sottolineano i quartieri di provenienza dei protagonisti, le loro famiglie, il loro background.

Il processo, finalmente in Italia si osa pronunciare la parola “stupro”

Nel luglio del ‘76 a Latina inizia il processo per i fatti del Circeo in Corte d’Assise. Il fatto clamoroso è che, per la prima volta, il movimento femminile chiede di potersi costituire come parte civile.

Edda Billi, Associazione Federale Femministe Italiane:
Questo processo ha dato una presa di coscienza a una nazione intera, ci sono stati uomini che si sono vergognati di essere uomini, questo vuol dire molto; è cambiato il costume. Fino ad allora lo stupro era considerato delitto contro la morale, da quel momento furono gettate le basi per la futura legge che all’Articolo 1 dice: La violenza sessuale è delitto contro la persona». Anita Pasquali, Associazione Federale Femministe Italiane: “Per esempio fare una ferita al braccio è un delitto contro la persona, lo stupro invece non era un reato contro la persona, ma contro la dignità che sappiamo che, come la morale, è un concetto astrattissimo che si può tirar di qui, tirar di là... .
Lo storico Giordano Bruno Guerri, a proposito della costituzione del movimento femminile al processo, afferma:
È evidentemente un assurdo giuridico perché le donne avevano comunque dignità pari agli uomini già dal ’46 quando si votava ecc…Quindi non ha senso; però ha un senso storico perché le donne erano oggettivamente in uno stato di inferiorità, nonostante le leggi, per tradizione e per abitudini, e il movimento femminista del ‘68 stava alzando il tiro pretendendo di più per una parità vera. Individuò quindi nella violenza del Circeo un punto di attacco per creare un problema.

La sentenza: ergastolo, ergastolo, ergastolo

Intanto durante il processo Angelo Izzo, unico imputato, è pallido e tremante e urla che Donatella mente sapendo di mentire. Questo il commento della vittima alle telecamere del Tg2: “È un vigliacco, è un vigliacco e basta. Hanno voluto fare i grandi con noi che eravamo delle ragazzine, però adesso tremano quando devono parlare…È una stupida farsa, se [sic] vede benissimo che recita, recita pure male”.

A Latina il processo di primo grado si avvia velocemente verso la fine. Il Pm Vito Giampietro: “Non vi è follia nel comportamento di Guido e di Izzo e di Ghira, non vi è la follia che ottunde il sentimento, che ottenebra la volontà, che obnubila il cervello. Il delitto è lucido, freddo, spietatamente voluto per il perseguimento di un fine ben determinato!” Così la fine della sua requisitoria: “Ergastolo per Izzo, ergastolo per Ghira, ergastolo per Guido!”.

Dopo il processo il giornalista Giuseppe Marrazzo intervista il Pm Giampietro: “Lei non ha avuto esitazioni a chiedere l’ergastolo?”, il Pm: “Assolutamente”, Marrazzo: “Non le è passato per la mente neanche per un momento il bisogno di una perizia psichiatrica di tre giovani che uccidono in quel modo?”, il Pm: “Assolutamente no”, Marrazzo: “Perché?”, il Pm: “Perché li ritengo del tutto sani di mente”.

La sentenza del 29 luglio del ’76 conferma la richiesta di ergastolo per tutti e tre. Intanto Ghira, che è latitante, pensa ai suoi amici e scrive loro: “Cari amici Giovanni e Paolo, non mi avranno mai. Vi assicuro che quella bastarda la faccio fuori, per voi non c’è pericolo, a fine anno ‘76 uscirete - tutti - per libertà provvisoria. Anche se sanno tutto questi bastardi faranno una - brutta fine - anche loro. Comunque non vi preoccupate per la mia latitanza ho circa 13 milioni di lire, forse andrò via da Roma. Per quanto riguarda quella stronzetta - farà la fine della Lopez - state calmi, a presto, Berenguer Ghira”.

Ma Ghira mancherà alla sua promessa di farli fuggire, e nel 1980 la Corte d’Appello conferma l’ergastolo per Izzo e per Ghira, portando la pena a 30 anni per Guido. Nell’81 la pena viene confermata anche dalla Corte di Cassazione.

Izzo e Guido continueranno a far palare di sé: nel gennaio ‘77 tentano di evadere prendendo in ostaggio una guardia carceraria, ma il piano fallisce. Successivamente Guido, trasferito nel carcere di San Gimignano, grazie a una condotta modello, riesce a ottenere un trattamento tanto privilegiato da avere libero accesso alla portineria del penitenziario dalla quale fugge il 25 gennaio ‘81. Ma due anni dopo viene arrestato sotto falso nome in Argentina dove vende automobili. Ricoverato perché ferito, in attesa di estradizione, riesce nuovamente a fuggire il 15 aprile ’85. Sarà intercettato quasi dieci anni dopo a Panama dove ha contatti con narcotrafficanti, venditori di armi e neofascisti. Nel ‘94 viene trasferito in Italia, nel carcere di Rebibbia.

Anche Izzo farà parlare ancora di sé: nell’85 fa sapere agli inquirenti che è deciso a collaborare, confessa altri sei omicidi e diventa un pentito “buono per tutte le stagioni”, dall’eversione di destra alla mafia. Nell'agosto del ‘93, approfittando di un permesso di uscita, non rientra nel carcere di Alessandria e fa perdere le sue tracce. Dopo quindici giorni viene arrestato a Parigi. Nel ‘95 ricomincia a fare rivelazioni. Nel 2004 gli viene concessa la semilibertà, ma il 30 aprile torna in carcere per duplice omicidio: le vittime sono Maria Carmela Linciano e sua figlia Valentina, trovate sepolte nel giardino di una villa a Mirabello Sannitico.

Il giornalista Enzo Rava riguardo il massacro del Circeo, mette in luce che “da questo tragico fatto siano nati altri fatti positivi: l’opinione pubblica, si è creata una nuova coscienza nei confronti dei diritti delle donne. Lo stupro non è più solo contro la morale, ma contro la persona. Sono delle contraddizioni della storia: come alle volte dal bene nasce il male, alle volte avviene il contrario”.

Pasolini, un genio morto da omosessuale

Il 2 novembre del ‘75 viene ritrovato presso l’Idroscalo di Ostia il corpo di Pier Paolo Pasolini.
La prima persona che ha scoperto il suo corpo è la signoria Maria Lollobrigida: “Sì, alle sei e mezza mentre scendevo dalla macchina ho detto: ma tu guarda gettano sempre i rifiuti in mezzo alla strada. Io gentilmente venivo a raccojerla per buttarla e so’ arrivata al punto lì e ho detto: non è immondizia è un cadavere”. Se l’assassino di Pasolini non avesse preso la sua automobile per fuggire, non sarebbe stato fermato dai carabinieri e il caso sarebbe stato archiviato come “compiuto da ignoti”. Lo scrittore, omosessuale dichiarato, “ha trovato la morte sua”, questo, più o meno, è quello che si ascolta spesso in quel novembre del ‘75.

Se seguiamo il ragionamento di Alberto Moravia, secondo il quale un eroe muore da eroe, uno scienziato da scienziato, e un esploratore da esploratore, Pasolini non ha avuto una morte intonata alla sua vita, non è morto da scrittore, giornalista, regista, comunista, politico, poeta e uomo di teatro, ma ha avuto una morte intonata ai pregiudizi. Moravia, infatti, al suo funerale dirà: “Abbiamo perso prima di tutto un poeta e di poeti non ce ne sono tanti nel mondo, ne nascono tre o quattro soltanto dentro a un secolo! Quando sarà finito questo secolo, Pasolini sarà tra i pochissimi che conteranno come poeti!”.

Nell’articolo comparso su “il Manifesto”, il 4 novembre ’75, In morte di Pasolini Rossana Rossanda scrive: «Non piaceva a nessuno quel che negli ultimi tempi andava scrivendo. Non a noi, la sinistra, perché battagliava contro il 1968, le femministe, l'aborto e la disobbedienza. Non piaceva alla destra perché queste sue sortite si accompagnavano a un'argomentazione sconcertante, per la destra inutilizzabile, sospetta. Non piaceva soprattutto agli intellettuali; perché era il contrario di quel che in genere essi sono, cauti distillatori di parole e di posizioni, pacifici fruitori della separazione fra “letteratura” e “vita”, anche quelli cui il ‘68 aveva dato “cattiva coscienza”. Solo uno di essi, Sanguineti ha avuto, ieri, il coraggio di scrivere “finalmente ce lo siamo tolto dai piedi, questo confusionario, residuo degli anni Cinquanta”».

Pasolini infatti, era un uomo che cercava di guardare avanti, di capire dove si stava dirigendo il mondo, la nostra società, e lo faceva con grande onestà intellettuale, libero da pregiudizi. Pasolini: “Il regime è un regime democratico eccetera eccetera, però quell’acculturazione quell’omologazione che il fascismo non è riuscito assolutamente a ottenere, il potere di oggi, cioè il potere della società dei consumi, invece riesce a ottenerlo facilmente, distruggendo le realtà particolari, e questa cosa avviene talmente rapidamente che non ce ne siamo resi conto”

Il colpevole o i colpevoli? Non si saprà mai...

Per i carabinieri è tutto chiaro: c’è il morto, l’assassino, Giuseppe Pelosi, e il movente. Il movente è torbido: lo scrittore ha rimorchiato un ragazzetto, si sono appartati al buio, hanno litigato, forse non si sono messi d’accordo sulla prestazione, e allora ecco le botte, la violenza. Ma allora perché transennare subito tutto? Perché allontanare i curiosi? Perché sequestrare immediatamente l’automobile? Perché usare la carta millimetrata e i numeri sul terreno per capire la dinamica dell’agguato? Cambia qualcosa se Pelosi era da solo o in compagnia, oppure “Tanto se lo era meritato”?

Queste e altre domande iniziano a influenzare la morale comune, a destare dei sospetti. Un omosessuale deve morire da omosessuale oppure è giusto indagare meglio e cercare di capire se si è trattato di un attentato premeditato? Quindi, come afferma lo psicologo Emanuele Nutile: “Questo fatto fu un detonatore perché si discutesse più approfonditamente del problema dell’omosessualità. Questo poi si verifica spesso: che dei fatti negativi, delittuosi, possano verificare dei percorsi virtuosi per cui poi si arriva a una discussione che poi potrà servire per superare delle situazioni negative, come ad esempio l’intolleranza verso l’omosessualità. Da allora, quindi, un movimento molto forte si sollevò a difesa della tolleranza verso l’omosessualità; ricordo che i Radicali erano in prima battuta in questo tipo di lotta”.

Il merito di questa spinta verso una sana discussione delle problematiche omosessuali, e verso una trasformazione, seppur lenta, dell’opinione pubblica, secondo Enzo Rava, lo si deve anche al “Corriere della Sera, diretto allora da Piero Ottone, che ebbe il coraggio di pubblicare un’inserzione in difesa dei diritti degli omosessuali. Denunciò la stampa, la tv e la radio di aver speculato sul caso Pasolini per costringere ancora di più nel ghetto la società omosessuale”.

Giuseppe (Pino) Pelosi verrà rilasciato nell’84 per poi tornare in carcere pochi anni dopo. Nei 20 anni successivi diversi libri, inchieste e film hanno cercato di riportare all’attenzione alcune implicazioni che non erano state mai chiarite. Ma non si è giunti mai a nulla di nuovo, finché il 7 maggio 2005, durante la trasmissione “Le ombre del giallo”, dopo aver scontato quasi 30 anni in carcere, Pino Pelosi, ha dichiarato di non essere stato lui l’autore dell’omicidio e di non avere avuto il coraggio di dire la verità fino a quel momento per paura delle conseguenze.

Pino Pelosi, nella sua nuova versione, non si limita ad accusare i tre sconosciuti, descrive un vero e proprio agguato che aveva come obiettivo Pier Paolo Pasolini in quanto intellettuale, in quanto “sporco comunista”. In seguito alle dichiarazioni di Pelosi, la Procura di Roma ha riaperto il fascicolo sul delitto Pasolini, fascicolo che però è stato subito richiuso, senza giungere a nessuna nuova conclusione.

La morte opera una rapida sintesi della vita passata e la luce retroattiva che essa rimanda su tale vita ne trasceglie i punti essenziali facendone degli atti mitici o morali fuori del tempo. Ecco, questo è il modo con cui una vita diventa una storia.
Pier Paolo Pasolini

fonte...La storia siamo noi.


@Eretico e Corsaro - Le Pagine Corsare


Curatore, Bruno Esposito

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Pasolini, intervista: «C’è un abisso tra Nehru e gli indiani», «Paese Sera», 25-26 febbraio 1961- di Adolfo Chiesa

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro


Biblioteca nazionale centrale Roma


Pasolini: «C’è un abisso tra Nehru e gli indiani»

di Adolfo Chiesa
Paese Sera
25-26 febbraio 1961.

Biblioteca nazionale centrale Roma

(Trascrizione curata da Bruno Esposito)


Un particolare interesse ci ha spinto ad intervistare Pier Paolo Pasolini, tornato in questi giorni a Roma, dopo un breve soggiorno in India e in Africa, come ha reagito l’autore di << Ragazzi di vita >>, il poeta delle << Ceneri di Gramsci >>, alle suggestioni umane e sociali dell’India, al dramma della miseria, dell’analfabetismo, della disoccupazione? Lo scrittore è riuscito a vedere in tanta degradazione collettiva lo spiraglio di una luce, il filo di una speranza per i quattrocento milioni di individui travolti dalla fame? << Nehru, dico più o meno a Pasolini, parla di una linea della speranza all’altezza della quale mantenere il popolo indiano durante questi anni, in attesa di riforme e di concreti miglioramenti…>> ma lo scrittore mi interrompe:
<< Se la linea della speranza è quella che ho visto io nel mio viaggio, Nehru ha una ben disperata visione del suo paese. A me pare che gli indiani vivano non solo molto sotto la linea della speranza, ma addirittura molto sotto la linea della sopportabilità umana. Ora, io non so quali siano le ricchezze dell’India, ho solo visto che l’agricoltura nel Sud è abbastanza fiorente, e così la pastorizia. Ma industrie praticamente non ce n’è. L’India consiste in un enorme sottoproletariato agricolo di tipo feudale, con una borghesia che si sta appena formando, ed ha l’aria atterrita e quasi istupidita per il caos che le vortica intorno e di cui non è possibile stabilire proporzioni umane. I piccoli, poveri, miserandi, dolcissimi
indiani si moltiplicano a ritmo disperato. Moravia, con rapida coordinazione dice che "crescono di un Belgio all’anno". Il disastro è tutto qui: è da questa crescita mostruosa della popolazione che nasce la mancanza di proporzioni, l’impossibilità a fare preventivi.
L’intelligentissimo socialdemocratico empirico che è Nehru non può fare nulla. Tra lui e il suo paese si ha l’impressione che ci sia un abisso. Del resto, che cosa fare? Io scherzando dicevo a Moravia che ci sarebbe un rimedio, tassare i figli dal terzo in poi. La idealistica propaganda antidemografica cade nel nulla, in un paese che del resto non ha su questo punto una casistica cattolica, ed è quindi ricettivo: ma è enorme. con l’ottanta per cento di analfabeti: non è certo in grado di percepire un motivo così moderno, così scomodo e così antisentimentale. Gli indiani adorano i bambini. Sono tutti un po’ "mammaroli". E in fondo, millenni di miseria li hanno abituati alla miseria: ne sono vaccinati, come contro l’ameba. Non pare per loro un problema così urgente. Bisogna vedere la dolcezza, la naturalezza, la pace con cui muoiono. L’unica cosa consolante e rassicurante nell’atroce vita indiana sono i roghi dei morti >>.
Fa un certo effetto sentir parlare Pasolini in modo tanto disperato, lui che nei suoi libri, nel più 
umile dei suoi personaggi, ha lasciato sempre intravedere una spinta all’azione, una coscienza di vita. Un modo tutto diverso, quindi, quello del popolo indiano dall'altro dei ragazzi di vita: un'altra atmosfera psicologica. Vien fatto di porre una domanda quasi assurda: lo scrittore ambienterebbe un suo romanzo in India?
<< Non saprei, risponde Pasolini, quasi trasalendo. I miei personaggi appartengono a un sottoproletariato pre-cristiano, stoico, che spinge in qualche modo all’azione, a lottare, se non altro per mangiare, contro il mondo della cultura superiore. Nasce perciò, la durezza, la delinquenza, la coscienza anche confusa di certi diritti. In India la maggioranza della popolazione è indù: l’induismo è una stupenda religione che ha reso gli uomini miti, dolci, ragionevoli (anche se spesso i riti di tale religione sono degenerati e un po’ immondi): è tale spirito di mitezza che ha reso possibile la stupenda azione politica di Gandhi: la non violenza >>.
Ma usciamo dal generico: a volte, per richiamare un atmosfera, un modo di vita, basta 
tratteggiare un personaggio, un breve episodio. Certo la coscienza viva dello scrittore ne avrà registrati parecchi...
<< Infiniti, riflette Pasolini, perché per un mese non ho fatto che vivere fisicamente, con tutti i sensi all’erta. Ma chissà perché, a questa domanda mi viene in mente un’immagine che in realtà è semplicissima e insignificante: e tuttavia ha nella mia memoria uno strano peso. È quasi un'immagine simbolica o araldica. È stato nella Resthouse, statale, di Tangiore. Decrepita, sporca, scomoda, la vecchia casa inglese aperta a tutti i venti, e a tutti i serpenti, con un manipolo di servitù stracciona e sporca; atroce la città, un piccolo borgo ammucchiato senza senso intorno al tempio, che è, invece, uno dei più belli dell’India, e forse una delle più belle costruzioni del mondo. La mattina, partendo da quell’albergo, abbiamo distribuito le solite mance, piccole e numerose (quello che qui in Italia fa un cameriere là lo fanno in tre o quattro: ci sono sempre molti cani intorno a un osso). Uno dei servi, vecchio, serio, vestito con uno straccio intorno ai fianchi e uno straccio in testa, ha preso la moneta che gli davo in silenzio, quasi genuflettendosi, con un gesto di grazia quasi femminile, cioè spostando indietro la gamba sinistra, come fanno le giovinette dei buoni collegi. Così, nell’inchino, la
sua testa è venuta a trovarsi molto più in basso della mia, e le mani tese a raccogliere la moneta erano all’altezza della sua fronte. Queste mani poi, erano riunite a scodella: perché io potessi gettarvi dentro la moneta senza toccarle. Era un intoccabile: vecchio, e perciò manteneva le vecchie abitudini. Ora l’intoccabilità è stata di nome abolita: di fatto non ancora. Non riesco a togliermi di dosso l’appiccicaticcia immagine di quel povero vecchio che aveva fatto della propria intoccabilità una abitudine così muta, umile, assoluta. Dall’India si torna grondanti, bagnati, sporchi di pietà >>.
<< ...Nella stessa Bombay, continua Pasolini, dove c’è una parvenza di vita normale, c’è un quartiere, Kamatipura, di uno squallore indicibile. È il quartiere della malavita e della prostituzione, grande almeno come il quartiere Prati a Roma, e come tutto il Mandrione; eppure è il più fantasticamente orientale che si possa immaginare. Non glielo posso stare a descrivere, così, oralmente. Occorre un forte impegno stilistico, per poter dare un’idea di quelle case di legno, cadenti, marce, trapelanti di luce, quei vicoli di una sporcizia che arriva al sublime, quelle decine di migliaia di dormenti sui marciapiedi, quel brulichio...>>.
E dopo l’addio all’India, l’Africa, il breve soggiorno nel Kenya e nello Zanzibar, il ritorno a 
bordo di un Comet. Lo scrittore è stato ripreso dal vortice della sua multiforme attività: sul suo tavolo sono tornati ad accumularsi fogli su fogli: a giorni comincerà a girare il suo film, quel faticato << Accattone  >> che sembrava non poter mai vedere la luce.
Gli chiedo quali impressioni gli abbia suscitato il ritorno, dopo un mese e mezzo, qualcosa sull'Africa:
<< Ero in aeroplano, dice,  il Comet partito da Nairobi alle ore 16.30 del giorno 15. Sotto di me l’Africa stava scomparendo, impoverendo, riprecipitando nella non-esistenza. Io comprimevo a fatica il dispiacere di lasciare quel paese dove ero stato solo pochi giorni, ma dove avevo fatto in tempo a fare delle affettuose amicizie. I negri africani sono gente di una simpatia unica: orgogliosi, seri, profondamente sani. La hostess viene e mi dà delle riviste: dei rotocalchi italiani. La rabbia. Il senso di umiliazione e meschinità, di sporcizia che mi hanno dato questi giornali potrei descriverlo solo nella lingua emozionata della poesia. È stato un momento di vera disperazione. Avrei voluto tornare a Mombasa per sempre.  L'Italia da lontano, in un mese, era andata sempre più rimpicciolendo: perfettamente ignota alla gente e ai giornali sia indiani che africani. non ne avevo sentito più parlare per un pezzo, Era diventata una specie di capsula in cui l'italiano era diventato un prodotto sintetico, senza più distinzioni tra Nord e Sud, tra Roma e Milano. Inoltre i problemi italiani, commisurati con quelli dell'India erano diventati di una irrilevanza e di una semplicità, per cui maggiore era dentro di me la furia contro coloro che. potendo risolverli, non li
risolvono. Preferivo non pensarci. L'evasione era atto. Adesso tornando con la velocità folle del Comet, vedevo quella cosa piccola e insignificante, ingrandirsi,  ingigantirsi, ingoiarmi. E II mio unico sentimento era quello di tomare indietro >>. 
<< Ora sono qui, conclude lo scrittore, coi nervi tirati, e pieno di angosciose domande dentro di me. Ma quello che più temevo, cioè di trovarmi spento di fronte ai motivi e ai problemi della mia opera, non succede. Ho visto che in continenti interi il problema più vivo, e perciò più capace di equivalenza estetica, è il passaggio del sottoproletariato a uno stato di coscienza, con le sue lotte cieche, la sua vitalità inespressa: in tutta l’India, in tutta l’Africa ho trovato delle situazioni sociologicamente simili a quelle del sottoproletariato romano e meridionale: la fine di una società agraria feudale che viene immediatamente a contatto con una società moderna in crisi. I giovani che dal contado di Heyderabad vanno a cercare lavoro e fortuna a Bombay, o i giovani che emigrano da Karatina o Kangundo per Nairobi, sono estremamente simili ai pugliesi e ai calabresi che vengono a Roma. Parlando con me, dicono addirittura quasi le stesse parole, in urdu, in swaili, o in un dialetto italiano. Lo spirito castale in India, lo spirito tribale in Africa e lo spirito tradizionale in Italia pongono le stesse inibizioni a chi vuole diventare moderno: la differenza tra i vecchi e i giovani presenta dei fenomeni analoghi.
Insomma, mentre il borghese italiano, con la sua televisione e i suoi rotocalchi è un ignoto 
provinciale, i cui problemi sono talmente ai margini, il contadino italiano specie nel Sud, è invisibilmente e inesprimibilmente legato alle immense masse contadine sottosviluppate dell’Africa, del Medio Oriente e dell’India, e i suoi problemi si presentano come problemi mondiali >>.
Alfonso Chiesa




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