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Biografia, lavori in corso - a breve anche il 1974 e il 1975

martedì 19 aprile 2016

Pier Paolo Pasolini, La religione del mio tempo - Prefazione di Franco Marcoaldi.

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro




Pier Paolo Pasolini, La religione del mio tempo 
Prefazione di Franco Marcoaldi.
Garzanti Editore
Prima edizione digitale 2014.

  Nel 1961, lo stesso anno di pubblicazione de La religione del mio tempo, Pier Paolo Pasolini compie un viaggio in India assieme ad Alberto Moravia ed Elsa Morante. A un certo punto si trova a riflettere sui “borghesi indiani”, che, sostiene, appaiono privi di speranza, perché chi si è formato «una coscienza culturale moderna» uscendo dall’inferno, sa comunque «che dovrà restare all’inferno». Ecco perché quei borghesi, che pure hanno un altissimo senso civico (come dimostrano i loro numi tutelari, Gandhi e Nehru) e introiettano come pochi altri al mondo la qualità della tolleranza, si richiudono poi nell’ambito familiare: «ma tale angustia, per ora, è indefinitamente più commovente che irritante. E questo è certo: che non è mai volgare. Benché l’India sia un inferno di miseria è meraviglioso viverci, perché essa manca quasi totalmente di volgarità».
  Tenete a mente questa parola, volgarità; una parola centrale nel libro che state per leggere. Perché l’Italia che si sta affacciando sul decennio del suo boom modernizzatore, si presenta agli occhi di Pasolini in assetto diametralmente opposto a quanto ha appena visto in India: sta infatti conoscendo benessere e ricchezza e conseguentemente (nell’ideologia pasoliniana) volgarità. Una volgarità che va intesa come sinonimo di inautentico, contaminato, colonizzato, posticcio; con tutte le conseguenze che ne discendono: fragilità, violenza, ferocia.
  Quanto all’altro termine dell’endiadi, ricchezza, essa non a caso offre il titolo al primo poemetto del libro. Ma la sua valenza è doppia, ambigua. Da un lato segnala una brama furiosa, una passione cieca e devastatrice che sta lentamente permeando l’intero paese. Mentre dall’altro lato, compare nei versi un’idea di ricchezza del tutto differente: la ricchezza del pensiero e della conoscenza, di cui il poeta va (legittimamente) fiero.
  In passato, egli ha conosciuto giorni molto grami. I giorni in cui era costretto a percorrere quotidianamente un lungo e faticoso tragitto dalla borgata di Ponte Mammolo, dove risiedeva, a una scuola altrettanto periferica di Ciampino, dove aveva trovato un primo impiego come insegnante. Ma anche allora si sentiva comunque ricco di pensiero e conoscenza; ricco perché possedeva «biblioteche, gallerie, strumenti d’ogni studio». E tutto questo, neanche a dirlo, fa un’enorme differenza nella vita di ciascuno, come indica il folgorante attacco de «La ricchezza» in cui viene raffigurato un povero diavolo che non sa come godere della bellezza degli affreschi di Piero ad Arezzo: «Fa qualche passo, alzando il mento, / ma come se una mano gli calcasse / in basso il capo. E in quell’ingenuo / e stento gesto, resta fermo, ammesso / tra queste pareti, in questa luce, / di cui egli ha timore, quasi, indegno, / ne avesse turbato la purezza…».
  Pasolini, e non sono certo il primo a osservarlo, dimostra qui di aver assorbito alla perfezione la lezione longhiana, restituendo il cuore segreto di quegli affreschi con una precisione e un vigore dagli echi “ariosteschi”: «Quelle braccia d’indemoniati, quelle scure / schiene, quel caos di verdi soldati / e cavalli violetti, e quella pura / luce che tutto vela / di toni di pulviscolo: ed è bufera, / è strage. Distingue l’umiliato sguardo / briglia da sciarpa, frangia da criniera; / il braccio azzurrino che sgozzando / si alza, da quello che marrone ripara / ripiegato, il cavallo che rincula testardo / dal cavallo che, supino, spara / calci nella torma dei dissanguati».
  È davvero formidabile l’occhio “cinetico” di Pasolini, e la potente puntualità del suo sguardo incentrato sull’arte si raddoppia nell’osservazione del paesaggio: «Dio, cos’è quella coltre silenziosa / che fiammeggia sopra l’orizzonte… / quel nevaio di muffa – rosa / di sangue – qui, da sotto i monti / fino alle cieche increspature del mare… / quella cavalcata di fiamme sepolte / nella nebbia, che fa sembrare il piano / da Vetralla al Circeo, una palude / africana, che esali in un mortale / arancio…».
  Questi versi, che fanno sbalzare sulla pagina lo scenario campestre laziale con la stessa vividezza con cui in precedenza la battaglia di Piero della Francesca si faceva racconto animato, in diretta, potrebbero fuorviare l’attenzione di un lettore che non abbia sufficiente dimestichezza con Pasolini, inducendolo a credere che lo stesso Pasolini sia un poeta solo e soltanto “visivo”: capace perciò stesso di chiamarsi fuori da sé e di trasformarsi in mero occhio che guarda. Un occhio appagato nel registrare lo spettacolo del mondo, colto in ogni suo dettaglio rivelatore.
  Viceversa in lui l’ansia della testimonianza prende decisamente il sopravvento. Con un duplice esito, positivo e negativo assieme. Intanto, assistiamo stupefatti allo straordinario epos di un libro capace di raccontare in versi un’intera società in subbuglio: le trascorse bellezze e le recenti ferite di Roma, i nuovi tipi umani che la abitano, la frenetica caccia al denaro che spazza via in un sol colpo ideologie, sentimenti e religione.
  A tal fine, Pasolini mette in azione tutta la sua incontenibile passione civile, un’insaziabile fame di vita, un irresistibile desiderio di capire e sentire. Usando la frusta, quando lo ritiene necessario – ovvero, molto spesso: gli individui che lo attorniano, per esempio, gli appaiono mossi dalla viltà, quella stessa che «fa l’uomo irreligioso»; che «toglie forza al cuore, / calore al ragionamento, / che lo fa ragionare di bontà / come di un puro comportamento, / di pietà come di una pura norma». Ecco perché nessuno prova una passione autentica, mentre tutti cercano di contenere la propria atavica angoscia, nel possesso. E siccome «ogni possesso è uguale: dall’industria / al campicello, dalla nave al carretto», tutti sono invariabilmente volgari ed empi.
  L’immagine è forte e la connessione paura-viltà-possesso-nichilismo, quanto mai efficace. Meno convincente, semmai, è che il poeta risulti in qualche modo avulso da questo processo degenerativo. Quasi che la sua postura sacrificale lo renda alieno, altro, da quanto lo circonda: «Non c’è più niente / oltre la natura – in cui del resto è effuso / solo il fascino della morte – niente / di questo mondo umano che io ami. / Tutto mi dà dolore».
  Il vero paradosso della poesia pasoliniana, d’altronde, è proprio questo: tanto più il mondo umano viene indagato e sottoposto a giudizio, tanto più l’io straborda, occupando progressivamente ogni recesso della realtà. Illuminata con il suo doloroso ardore. Già, perché quell’io arde, brucia. «Brucia il cuore», che resta impotente nel vedere come alta l’idea di Storia vagheggiata grazie al mito della Resistenza abbia lasciato il campo alla nuova corruzione; una corruzione delle anime e dei corpi («in tutti / c’è come l’aria d’un buttero che dorma / armato di coltello»), che non solo rende vano qualunque richiamo al sogno comune e trascorso di una diversa, più luminosa Politica, ma anche di una diversa, più autentica Religione. Né potrebbe essere altrimenti, visto che è la stessa lingua ormai a finire sotto scacco, come dimostra l’erosione costante del neorealismo, progressivamente offuscato dalla marea montante dei neopuristi.
  Di questo traumatico passaggio Pasolini intende, poeticamente, dare conto. Senza recedere di fronte a nulla. E utilizzando ogni tipo possibile di materiale argomentativo: metafisico, polemico-giornalistico, profetico, lirico, cronachistico, elegiaco, naturalistico, storico-saggistico. Secondo una logica talmente inclusiva dell’ambito poetico da comprendere, di fatto, l’intera espressività letteraria. Nella convinzione, come bene ha scritto Ferdinando Bandini, che la poesia sia «il luogo dell’assoluto, dove ogni asserzione diventa verità e il privato può presentarsi come universale», dal momento che il poeta «offre la sua vita, le sue credenze e le sue passioni, come il certificato della sua poesia».
  Ma di fronte all’assunto apodittico che muove Pasolini, il lettore – via via che si inoltra nella lettura – comincia per contro a chiedersi se non sia proprio quell’indiscusso a fortiori (l’ostensione del corpo mistico del poeta come garanzia di verità) a rivelarsi quale fattore di maggiore problematicità dei suoi versi.
  Innanzitutto perché li priva del timbro ironico, di una possibile presa di distanza da parte di un io onnipervasivo. In secondo luogo, perché procedendo in tal modo viene a decadere qualunque oggettivazione delle categorie pure considerate centrali nel discorso poetico (la storia, la resistenza, la religione, la nuova borghesia), immancabilmente ricondotte a un ipersoggettivismo teatrale e drammatico, a una trascinante mitopoiesi psichica. Infine, perché la mancata selezione e distinzione del materiale magmatico offerto dalla realtà, sempre e comunque utilizzabile per la composizione dei versi, induce a una sorta di eterogenesi dei fini: se tutto può essere inglobato nella poesia, non è più chiaro, infatti, che cosa la distingua dalla prosa. Né è chiaro come mai nel mondo vi sia tanto deficit di poesia, contro cui il poeta – giustamente – combatte.
  Nei confronti di una personalità così forte e prepotente, bisogna stare molto accorti. Perché c’è il rischio di soccombere. Di essere soggiogati dal suo aut aut: prendere o lasciare. Prendere o lasciare quella sua tipica idea guida, puntualmente individuata da Walter Siti, secondo cui «letteratura e vita sembrano stare sullo stesso livello. Il gesto e la riflessione sul gesto (o l’espressione del gesto) si confondono; la letteratura come struttura conoscitiva si sovrappone alla letteratura come atto vitale di colui che scrive».
  È proprio da questo oltranzismo che bisogna difendersi. Bisogna cioè separare e distinguere l’intenzione del gesto dalla sua effettiva presa sulla pagina. Solo così si potranno valutare le luci e le ombre del testo; gli elementi di fascinazione e di irritazione che procura; il tratto caduco e quello più autenticamente “classico” della poesia pasoliniana, cercando di capire come e perché essi convivano nella medesima macchina verbale.
  Come si muove nel mondo Pasolini? Sospinto da «nudo amore, senza futuro». È lui a rammentarci che giunse «ai giorni della Resistenza / senza saperne nulla se non lo stile:/fu stile tutta luce, memorabile coscienza / di sole». Ebbene, non sarà proprio questo approccio romanticamente disperato, questo mancato riconoscimento della dimensione porosa e prosastica della storia, a suggerire poi il lamento per quegli adolescenti di un tempo che «sono adulti, ora: hanno vissuto / quel loro sgomentante dopoguerra / di corruzione assorbita dalla luce, / e sono intorno a me, poveri uomini / a cui ogni martirio è stato inutile»? Se così fosse, sarebbe da interpretare in modo ben diverso il giudizio verso i «servi del tempo, in questi giorni / in cui si desta il doloroso stupore / di sapere che tutta quella luce, / per cui vivemmo, fu soltanto un sogno / ingiustificato, inoggettivo, fonte / ora di solitarie, vergognose lacrime».
  E quanto vale per la storia, non vale fors’anche per la religione? Aiutiamoci, di nuovo, con le sue parole: «la mia religione era un profumo», «io davo a Cristo / tutta la mia ingenuità e il mio sangue». È vero, poco dopo un Pasolini già in qualche modo “luterano” ci ammonisce: «Guai a chi non sa che è borghese / questa fede cristiana, nel segno // di ogni privilegio, di ogni resa, / di ogni servitù; che il peccato / altro non è che reato di lesa // certezza quotidiana, odiato / per paura e aridità; che la Chiesa / è lo spietato cuore dello Stato».
  Sulle prime, questo tipico tono da invettiva, da dura critica sociale, accende il nostro animo. Perché sentiamo tornare potente la parola dell’uomo che sa dare scandalo. Che si immola per noi tutti, tenendo alto il vessillo della verità.
  Eppure, qualcosa non torna. Proprio il trascorrere del tempo (dalla data della pubblicazione sono trascorsi ormai quasi cinquant’anni), invita infatti a una lettura più calma, ponderata. E alla luce di questa seconda lettura si avverte un certo stridore. Come se questa parola non avesse centrato il bersaglio.
  Quanto più sincero e toccante è invece il Pasolini che riconosce la natura tutta estetica, stilistica, del suo accostarsi e poi far proprio il mito della Resistenza: una questione di luce, afferma, così come fu «un profumo» a fargli scegliere, ancor prima, la strada della religione.
  Questo riconoscimento, va da sé, è lacerante, doloroso. Indica una debolezza e impedisce i facili proclami: «Rinuncio a ogni atto… So soltanto / che in questa rosa resto a respirare, / in un solo misero istante, / l’odore della mia vita: l’odore di mia madre…».
  È nel tragitto à rebours, dunque, che va cercata la possibile risposta. Va cercata nell’origine, in un immemore passato che trionfa su un’età adulta la quale procura confusione, desolazione, rabbia. E chi altri, se non la madre, può offrire «una luce di bene», che redime? Chi se non quella donna mite che non reclama e non pretende nulla, facendo naturalmente sua la massima virtus ipsa premium est?
  Memore di quella lezione materna, mai a sufficienza metabolizzata, il poeta può ora scrivere una delle poesie più significative della raccolta, «Il glicine», che rifiorisce, come un “calco funereo”, segno della «religiosa caducità» della vita. Vederlo rinascere ogni stagione, procura «una gioia dolorosa», un sentimento – in chi l’osserva – di congenita sconfitta. «Ma è ridicolo», osserva il poeta, «straziarmi qui su questa pallida ombra / sia pure stracarica di spasimi, / questa leggera onda / lilla che trapunge il muraglione rosso / con l’impudica ingenuità, l’afasica / festa degli eventi selvaggi!».
  Che senso ha sentirsi sconfitti alla vista di un misero glicine? Dimenticare, ridicolizzare una «lunga passione di verità e ragione»? Eppure «tra il corpo e la storia, c’è questa / musicalità che stona, / stupenda, in cui ciò ch’è finito / e ciò che comincia è uguale, e resta / tale nei secoli: dato dell’esistenza».
  Poche altre poesie come «Il glicine» raccolgono e portano a implosione l’impressionante grumo esistenziale e ideologico pasoliniano: io e storia, ragione e non ragione, corpo e passione, estasi e rabbia, cronaca e metafisica, religione e rivoluzione. Finché il poeta sembra arrendersi al disperato tentativo di tenere tutto assieme e tutto controllare: ma proprio esplicitando la sua impotenza, scopre il senso più profondo della poesia. E lo offre, intatto, al lettore di cinquant’anni dopo.
  Franco Marcoaldi
Garzanti Editore
Prima edizione digitale 2014.


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Pasolini, Attacco al Potere - MOTIVAZIONI - Sviluppo e Progresso

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro






PROCESSO ALLA DC
MOTIVAZIONI
Sviluppo e Progresso

Indegnità, disprezzo per i cittadini, manipolazione del denaro pubblico, intrallazzo con i petrolieri, con gli industriali, con i banchieri, connivenza con la mafia, alto tradimento in favore di una nazione straniera, collaborazione con la Cia, uso illecito di enti come il Sid, responsabilità nelle stragi di Milano, Brescia e Bologna (almeno in quanto colpevole incapacità di punirne gli esecutori), distruzione paesaggistica e urbanistica dell’Italia, responsabilità della degradazione antropologica degli italiani (responsabilità, questa, aggravata dalla sua totale inconsapevolezza), responsabilità della condizione, come suol dirsi, paurosa, delle scuole, degli ospedali e di ogni opera pubblica primaria, responsabilità dell’abbandono «selvaggio» delle campagne, responsabilità dell‘esplosione «selvaggia» della cultura di massa e dei mass media, responsabilità della stupidità delittuosa della televisione, responsabilità del decadimento della Chiesa, e infine, oltre a tutto il resto, magari, distribuzione borbonica di cariche pubbliche ad adulatori. (Pier Paolo Pasolini - Lettere luterane)

Ecco le ragioni dello sfacelo dell’Italia secondo Pasolini, scritte sulle colonne del "Corriere della Sera" nell’estate del ’75, puntualmente e ossessivamente ripetute, sì da ritenersi un vero e proprio atto d’accusa contro la classe politica di allora, nella fattispecie la Democrazia Cristiana, che si stava preparando ad un altro vuoto di potere, consapevole che l’attuale, frutto del binomio Chiesa DC, si era totalmente esaurito, soppiantato da quello Economico, diverso, perverso ma pur sempre vuoto e dalle infinite configurazioni possibili.
Il suo Processo, non soltanto metaforico, ispirato a quello kafkiano, coinvolgeva i maggiori notabili della DC da Andreotti a Fanfani, Zaccagnini Gava...morti viventi, colpevoli di quel vuoto che avvalendosi del boom economico scoppiato dentro e fuori i confini, sull’onda di spinte transnazionali, andavano imponendo un nuovo regime, quello del Potere consumistico, aprendo il varco a quel processo di corruzione delle coscienze con l’imposizione di modelli e stili estranei alla nostra cultura. Non sapeva allora Pasolini che il Processo da lui ideato e vagheggiato si sarebbe realizzato veramente da lì a poco, tra terrorismo e stragi ma non sapeva neppure che forse gli italiani non erano così preoccupati e né consapevoli di quello che realmente era avvenuto prima e avveniva ora, presi dal godimento a "piene mani" di quello che ritenevano il "vero miracolo", quella cultura massmediologica che attraverso le televisioni commerciali si sarebbe consolidata proprio grazie al Processo, imponendo un altro tipo di dittatura consumistica ancora più strisciante, subdola, imbonitrice targata Berlusconi, che avrebbe sedotto l’Italia per oltre vent’anni.
A quella dichiarazione d’intenti fece seguire il 14 settembre una lettera alla "Stampa" rispondendo a quel e poi? provocatorio con una chiarificazione particolareggiata dei capi d’accusa che la roboante anafora I cittadini italiani vogliono consapevolmente sapere li contiene tutti, a partire dall’uso e lo sperpero fatto con i soldi dei cittadini ai disastri edilizi, urbanistici, paesaggistici, ecologici, dalla divisione sempre più netta tra nord e sud all’opera di diseducazione perpetrata attraverso la televisione e la scuola...
Insiste sulla responsabilità di chi si è assunto l’onere di traghettare l’Italia verso il benessere conducendola alla distruttività per alimentare la propria cupidigia e sete di potere e questa responsabilità l’individua principalmente nella classe dirigente al comando, la DC che non ha saputo e voluto individuare la nuova cultura della produzione emergente ma conclude che se tutto è fermo e immobile come in un "cimitero" c’è una ragione ancora più inquietante, la paura dell’altro Potere, quello indiscusso della Magistratura e del suo colore politico.
I vari intellettuali dell’epoca, soprattutto quelli di sinistra stentarono a capire la sua posizione in merito a fascismo e antifascismo tanto da essere sfiorati più volte dal dubbio che lo scrittore in realtà fosse vicino alla destra. Emblematico l’episodio di "Villa Giulia" da cui scaturì una poesia che non piacque alla sinistra disorientata dalla difesa di Pasolini in favore dei poliziotti invece che degli studenti, in netta contraddizione con quello che fu il suo credo di sempre.
Gli scritti diretti a Calvino, Petruccioli, Zanetti, Branca che aveva invitato ad intervenire su quanto andava dicendo rimasero inascoltati ma in una lettera a Calvino non nascose il rammarico per il suo "silenzio" o il dire senza spiegare, cosa che per lui era inammissibile dato il bisogno di "gettare il suo corpo nella lotta"

Perciò io vorrei soltanto vivere
pur essendo poeta
perché la vita si esprime anche solo con se' stessa.
Vorrei esprimermi con gli esempi.
Gettare il mio corpo nella lotta.
Ma se le azioni della vita sono espressive,
anche l'espressione è azione.

La sua visione sulla matrice delinquenziale di stampo borghese o popolare, senza distinzioni e uguale a Milano, come a Roma e in qualsiasi altra città del suolo italico lo allontanavano dalle deduzioni opposte di Calvino, interessato alla criminalità di stampo borghese, spunto fornitogli dal delitto del Circeo, come fosse un fenomeno raro da analizzare slegato dalla radice del male che Pasolini individuava nel genocidio del passato, nella nuova cultura della produzione che in mano alle categorie privilegiate borghesi diventava un modello da spalmare e imporre con la forza della superiorità economica, una colonizzazione a tutti gli effetti.
Si sentiva solo Pasolini, disperatamente solo quando doveva replicare non soltanto ai suoi nemici e detrattori ma a quelli che riteneva suoi simili, che spesso cercarono di metterlo in difficoltà per le sue apparenti contraddizioni ma le sue erano le contraddizioni dell’uomo libero, persino disarmante nel suo essere fuori da ogni recinto. La morte del fratello partigiano per mano dei suoi stessi compagni avrebbe dovuto allontanarlo dal PC invece lo rinsaldò nella fede comunista ma aveva una vera e propria idiosincrasia per tutto ciò che riguardava l’ordine precostituito, il potere fintamente democratico e tollerante di una DC ipocrita e servile. A differenza dei suoi amici intellettuali, Bocca, Moravia, Calvino per i quali il fascismo si era trasformato nei tanti volti del terrorismo nero, Pasolini seguiva una sua personalissima pista ed era sempre ed unicamente quella della DC perché secondo lui il vero fascismo risiedeva nel Palazzo e vestiva i panni di una deflagrante strisciante "modernizzazione" una vera e propria dittatura di pensiero che spazzò via l’anima del popolo per trasformarlo in una massa omologata, dando il via a quella che lui definì mutazione antropologica.
Pasolini era consapevole del fatto che lo sgomento e l’orrore che provava nei confronti del presente era estremo, eccessivo, si sentiva condannato all’incomprensione, ed era anche consapevole che la realtà che lui vedeva e interpretava era diversa da quella di qualsiasi sociologo avveduto. Nessuno si era accorto che le "lucciole erano scomparse" una potente metafora per affermare l’immane tragedia che aveva trasformato gli esseri umani in macchine che sbattevano impazzite l’una contro l’altra. Non era quindi nostalgia del "passato" come gli veniva imputato da più parti ma visione di una cultura possibile, non da recuperare. Lo sfrenato edonismo che stava caratterizzando e livellando la società, l’aveva in realtà imbarbarita e impoverita instaurando la morte del desiderio.

" [...] Altre mode, altri idoli,
la massa, non il popolo, la massa
decisa a farsi corrompere
al mondo ora si affaccia,
e lo trasforma, a ogni schermo, a ogni video
si abbevera, orda pura che irrompe
con pura avidità, informe
desiderio di partecipare alla festa.
E s'assesta là dove il Nuovo Capitale vuole.
Muta il il senso delle parole:
chi finora ha parlato, con speranza, resta
indietro, invecchiato.
Non serve, per ringiovanire, questo
offeso angosciarsi, questo disperato
arrendersi! Chi non parla è dimenticato" [...]

Da "Il Glicine" - La religione del mio tempo - 1961


Ma Perchè il Processo? 
Qual era secondo Pasolini la principale colpa della DC?


[...]che senso ha pretendere o sperare qualcosa da parte dei democristiani? O addirittura chiedere loro qualcosa?
Non si può non solo governare, ma nemmeno amministrare senza dei principi. E il partito democristiano non ha mai avuto dei principi. Li ha identificati, e brutalmente, con quelli morali e religiosi della Chiesa in grazia della quale deteneva il potere. Una massa ignorante (e lo dico col più grande amore per questa massa) e una oligarchia di volgari demagoghi dalla fame insaziabile, non possono costituire un partito con un’anima. Ciò l’abbiamo sempre saputo, e l’abbiamo anche sempre detto: ma non l’abbiamo saputo e detto fino in fondo: per una ragione molto semplice: perché la Chiesa cattolica era una realtà, e la maggioranza degli italiani erano cattolici. […]
Dalle sue parole si evince che le responsabilità sono più morali che penali perché il Processo renderebbe chiaro folgorante, definitivo che governare e amministrare bene non significa più governare e amministrare bene in relazione al vecchio potere, bensì in relazione al nuovo potere.
Per esempio: i beni superflui in quantità enorme, ecco qualcosa di assolutamente nuovo rispetto a tutta la storia italiana, fatta di puro pane e miseria. Aver governato male significa dunque non aver saputo far sì che i beni superflui fossero un fatto (come oggettivamente dovrebbe essere) positivo: ma che, al contrario, fossero un fatto corruttore, di selvaggia distruzione di valori, di deterioramento antropologico, ecologico, civile.
Altro esempio: la democratizzazione derivante dal consumo estremamente esteso dei beni (compresi, perché no?, i beni superflui), ecco un’altra grande novità. Ebbene, l’aver governato male significa non aver fatto sì che tale democratizzazione fosse reale, viva: ma che, al contrario, fosse un orribile appiattimento o un decentramento puramente enfatico (gestito in genere da illusi progressisti.
Nasce tutto da un grande equivoco, l’aver confuso, o meglio voluto confondere deliberatamente il termine progresso con sviluppo, cercando di fonderli insieme per dare ad entrambi la stessa legittimità e valore pur essendo due fenomeni diversi che solo apparentemente coincidono e pur essendo usati indifferentemente, quali fossero sinonimi, appartengono a scelte politiche diametralmente opposte, da lui contestualizzate con acume e ragionamenti ineccepibili in "Scritti corsari" in cui sviscera tutte le contraddizioni, le differenze, gli effetti e le conseguenze di uno sviluppo selvaggio a scapito del progresso che il neocapitalismo ha ridotto a mera nozione ideale svuotandolo di significato.
Un fenomeno allarmante mai come oggi evidente osservando l’enorme massa globalizzata che servendosi di strumenti e mezzi altamente tecnologizzati va ad incrementare lo sviluppo senza che vi sia alcuna progressione culturale, sociale ed economica.

Autore:
Loretta Fusco

Fonti:
Scritti Corsari P. Pasolini
Lettere Luterane P.P.Pasolini


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