"Le pagine corsare "
dedicate a Pier Paolo Pasolini
Eretico e Corsaro
Pier Paolo Pasolini, La religione del mio tempo
Prefazione di Franco Marcoaldi.
Garzanti Editore
Prima edizione digitale 2014.
Nel 1961, lo stesso anno di pubblicazione de La religione del mio tempo, Pier Paolo Pasolini compie un viaggio in India assieme ad Alberto Moravia ed Elsa Morante. A un certo punto si trova a riflettere sui “borghesi indiani”, che, sostiene, appaiono privi di speranza, perché chi si è formato «una coscienza culturale moderna» uscendo dall’inferno, sa comunque «che dovrà restare all’inferno». Ecco perché quei borghesi, che pure hanno un altissimo senso civico (come dimostrano i loro numi tutelari, Gandhi e Nehru) e introiettano come pochi altri al mondo la qualità della tolleranza, si richiudono poi nell’ambito familiare: «ma tale angustia, per ora, è indefinitamente più commovente che irritante. E questo è certo: che non è mai volgare. Benché l’India sia un inferno di miseria è meraviglioso viverci, perché essa manca quasi totalmente di volgarità».
Tenete a mente questa parola, volgarità; una parola centrale nel libro che state per leggere. Perché l’Italia che si sta affacciando sul decennio del suo boom modernizzatore, si presenta agli occhi di Pasolini in assetto diametralmente opposto a quanto ha appena visto in India: sta infatti conoscendo benessere e ricchezza e conseguentemente (nell’ideologia pasoliniana) volgarità. Una volgarità che va intesa come sinonimo di inautentico, contaminato, colonizzato, posticcio; con tutte le conseguenze che ne discendono: fragilità, violenza, ferocia.
Quanto all’altro termine dell’endiadi, ricchezza, essa non a caso offre il titolo al primo poemetto del libro. Ma la sua valenza è doppia, ambigua. Da un lato segnala una brama furiosa, una passione cieca e devastatrice che sta lentamente permeando l’intero paese. Mentre dall’altro lato, compare nei versi un’idea di ricchezza del tutto differente: la ricchezza del pensiero e della conoscenza, di cui il poeta va (legittimamente) fiero.
In passato, egli ha conosciuto giorni molto grami. I giorni in cui era costretto a percorrere quotidianamente un lungo e faticoso tragitto dalla borgata di Ponte Mammolo, dove risiedeva, a una scuola altrettanto periferica di Ciampino, dove aveva trovato un primo impiego come insegnante. Ma anche allora si sentiva comunque ricco di pensiero e conoscenza; ricco perché possedeva «biblioteche, gallerie, strumenti d’ogni studio». E tutto questo, neanche a dirlo, fa un’enorme differenza nella vita di ciascuno, come indica il folgorante attacco de «La ricchezza» in cui viene raffigurato un povero diavolo che non sa come godere della bellezza degli affreschi di Piero ad Arezzo: «Fa qualche passo, alzando il mento, / ma come se una mano gli calcasse / in basso il capo. E in quell’ingenuo / e stento gesto, resta fermo, ammesso / tra queste pareti, in questa luce, / di cui egli ha timore, quasi, indegno, / ne avesse turbato la purezza…».
Pasolini, e non sono certo il primo a osservarlo, dimostra qui di aver assorbito alla perfezione la lezione longhiana, restituendo il cuore segreto di quegli affreschi con una precisione e un vigore dagli echi “ariosteschi”: «Quelle braccia d’indemoniati, quelle scure / schiene, quel caos di verdi soldati / e cavalli violetti, e quella pura / luce che tutto vela / di toni di pulviscolo: ed è bufera, / è strage. Distingue l’umiliato sguardo / briglia da sciarpa, frangia da criniera; / il braccio azzurrino che sgozzando / si alza, da quello che marrone ripara / ripiegato, il cavallo che rincula testardo / dal cavallo che, supino, spara / calci nella torma dei dissanguati».
È davvero formidabile l’occhio “cinetico” di Pasolini, e la potente puntualità del suo sguardo incentrato sull’arte si raddoppia nell’osservazione del paesaggio: «Dio, cos’è quella coltre silenziosa / che fiammeggia sopra l’orizzonte… / quel nevaio di muffa – rosa / di sangue – qui, da sotto i monti / fino alle cieche increspature del mare… / quella cavalcata di fiamme sepolte / nella nebbia, che fa sembrare il piano / da Vetralla al Circeo, una palude / africana, che esali in un mortale / arancio…».
Questi versi, che fanno sbalzare sulla pagina lo scenario campestre laziale con la stessa vividezza con cui in precedenza la battaglia di Piero della Francesca si faceva racconto animato, in diretta, potrebbero fuorviare l’attenzione di un lettore che non abbia sufficiente dimestichezza con Pasolini, inducendolo a credere che lo stesso Pasolini sia un poeta solo e soltanto “visivo”: capace perciò stesso di chiamarsi fuori da sé e di trasformarsi in mero occhio che guarda. Un occhio appagato nel registrare lo spettacolo del mondo, colto in ogni suo dettaglio rivelatore.
Viceversa in lui l’ansia della testimonianza prende decisamente il sopravvento. Con un duplice esito, positivo e negativo assieme. Intanto, assistiamo stupefatti allo straordinario epos di un libro capace di raccontare in versi un’intera società in subbuglio: le trascorse bellezze e le recenti ferite di Roma, i nuovi tipi umani che la abitano, la frenetica caccia al denaro che spazza via in un sol colpo ideologie, sentimenti e religione.
A tal fine, Pasolini mette in azione tutta la sua incontenibile passione civile, un’insaziabile fame di vita, un irresistibile desiderio di capire e sentire. Usando la frusta, quando lo ritiene necessario – ovvero, molto spesso: gli individui che lo attorniano, per esempio, gli appaiono mossi dalla viltà, quella stessa che «fa l’uomo irreligioso»; che «toglie forza al cuore, / calore al ragionamento, / che lo fa ragionare di bontà / come di un puro comportamento, / di pietà come di una pura norma». Ecco perché nessuno prova una passione autentica, mentre tutti cercano di contenere la propria atavica angoscia, nel possesso. E siccome «ogni possesso è uguale: dall’industria / al campicello, dalla nave al carretto», tutti sono invariabilmente volgari ed empi.
L’immagine è forte e la connessione paura-viltà-possesso-nichilismo, quanto mai efficace. Meno convincente, semmai, è che il poeta risulti in qualche modo avulso da questo processo degenerativo. Quasi che la sua postura sacrificale lo renda alieno, altro, da quanto lo circonda: «Non c’è più niente / oltre la natura – in cui del resto è effuso / solo il fascino della morte – niente / di questo mondo umano che io ami. / Tutto mi dà dolore».
Il vero paradosso della poesia pasoliniana, d’altronde, è proprio questo: tanto più il mondo umano viene indagato e sottoposto a giudizio, tanto più l’io straborda, occupando progressivamente ogni recesso della realtà. Illuminata con il suo doloroso ardore. Già, perché quell’io arde, brucia. «Brucia il cuore», che resta impotente nel vedere come alta l’idea di Storia vagheggiata grazie al mito della Resistenza abbia lasciato il campo alla nuova corruzione; una corruzione delle anime e dei corpi («in tutti / c’è come l’aria d’un buttero che dorma / armato di coltello»), che non solo rende vano qualunque richiamo al sogno comune e trascorso di una diversa, più luminosa Politica, ma anche di una diversa, più autentica Religione. Né potrebbe essere altrimenti, visto che è la stessa lingua ormai a finire sotto scacco, come dimostra l’erosione costante del neorealismo, progressivamente offuscato dalla marea montante dei neopuristi.
Di questo traumatico passaggio Pasolini intende, poeticamente, dare conto. Senza recedere di fronte a nulla. E utilizzando ogni tipo possibile di materiale argomentativo: metafisico, polemico-giornalistico, profetico, lirico, cronachistico, elegiaco, naturalistico, storico-saggistico. Secondo una logica talmente inclusiva dell’ambito poetico da comprendere, di fatto, l’intera espressività letteraria. Nella convinzione, come bene ha scritto Ferdinando Bandini, che la poesia sia «il luogo dell’assoluto, dove ogni asserzione diventa verità e il privato può presentarsi come universale», dal momento che il poeta «offre la sua vita, le sue credenze e le sue passioni, come il certificato della sua poesia».
Ma di fronte all’assunto apodittico che muove Pasolini, il lettore – via via che si inoltra nella lettura – comincia per contro a chiedersi se non sia proprio quell’indiscusso a fortiori (l’ostensione del corpo mistico del poeta come garanzia di verità) a rivelarsi quale fattore di maggiore problematicità dei suoi versi.
Innanzitutto perché li priva del timbro ironico, di una possibile presa di distanza da parte di un io onnipervasivo. In secondo luogo, perché procedendo in tal modo viene a decadere qualunque oggettivazione delle categorie pure considerate centrali nel discorso poetico (la storia, la resistenza, la religione, la nuova borghesia), immancabilmente ricondotte a un ipersoggettivismo teatrale e drammatico, a una trascinante mitopoiesi psichica. Infine, perché la mancata selezione e distinzione del materiale magmatico offerto dalla realtà, sempre e comunque utilizzabile per la composizione dei versi, induce a una sorta di eterogenesi dei fini: se tutto può essere inglobato nella poesia, non è più chiaro, infatti, che cosa la distingua dalla prosa. Né è chiaro come mai nel mondo vi sia tanto deficit di poesia, contro cui il poeta – giustamente – combatte.
Nei confronti di una personalità così forte e prepotente, bisogna stare molto accorti. Perché c’è il rischio di soccombere. Di essere soggiogati dal suo aut aut: prendere o lasciare. Prendere o lasciare quella sua tipica idea guida, puntualmente individuata da Walter Siti, secondo cui «letteratura e vita sembrano stare sullo stesso livello. Il gesto e la riflessione sul gesto (o l’espressione del gesto) si confondono; la letteratura come struttura conoscitiva si sovrappone alla letteratura come atto vitale di colui che scrive».
È proprio da questo oltranzismo che bisogna difendersi. Bisogna cioè separare e distinguere l’intenzione del gesto dalla sua effettiva presa sulla pagina. Solo così si potranno valutare le luci e le ombre del testo; gli elementi di fascinazione e di irritazione che procura; il tratto caduco e quello più autenticamente “classico” della poesia pasoliniana, cercando di capire come e perché essi convivano nella medesima macchina verbale.
Come si muove nel mondo Pasolini? Sospinto da «nudo amore, senza futuro». È lui a rammentarci che giunse «ai giorni della Resistenza / senza saperne nulla se non lo stile:/fu stile tutta luce, memorabile coscienza / di sole». Ebbene, non sarà proprio questo approccio romanticamente disperato, questo mancato riconoscimento della dimensione porosa e prosastica della storia, a suggerire poi il lamento per quegli adolescenti di un tempo che «sono adulti, ora: hanno vissuto / quel loro sgomentante dopoguerra / di corruzione assorbita dalla luce, / e sono intorno a me, poveri uomini / a cui ogni martirio è stato inutile»? Se così fosse, sarebbe da interpretare in modo ben diverso il giudizio verso i «servi del tempo, in questi giorni / in cui si desta il doloroso stupore / di sapere che tutta quella luce, / per cui vivemmo, fu soltanto un sogno / ingiustificato, inoggettivo, fonte / ora di solitarie, vergognose lacrime».
E quanto vale per la storia, non vale fors’anche per la religione? Aiutiamoci, di nuovo, con le sue parole: «la mia religione era un profumo», «io davo a Cristo / tutta la mia ingenuità e il mio sangue». È vero, poco dopo un Pasolini già in qualche modo “luterano” ci ammonisce: «Guai a chi non sa che è borghese / questa fede cristiana, nel segno // di ogni privilegio, di ogni resa, / di ogni servitù; che il peccato / altro non è che reato di lesa // certezza quotidiana, odiato / per paura e aridità; che la Chiesa / è lo spietato cuore dello Stato».
Sulle prime, questo tipico tono da invettiva, da dura critica sociale, accende il nostro animo. Perché sentiamo tornare potente la parola dell’uomo che sa dare scandalo. Che si immola per noi tutti, tenendo alto il vessillo della verità.
Eppure, qualcosa non torna. Proprio il trascorrere del tempo (dalla data della pubblicazione sono trascorsi ormai quasi cinquant’anni), invita infatti a una lettura più calma, ponderata. E alla luce di questa seconda lettura si avverte un certo stridore. Come se questa parola non avesse centrato il bersaglio.
Quanto più sincero e toccante è invece il Pasolini che riconosce la natura tutta estetica, stilistica, del suo accostarsi e poi far proprio il mito della Resistenza: una questione di luce, afferma, così come fu «un profumo» a fargli scegliere, ancor prima, la strada della religione.
Questo riconoscimento, va da sé, è lacerante, doloroso. Indica una debolezza e impedisce i facili proclami: «Rinuncio a ogni atto… So soltanto / che in questa rosa resto a respirare, / in un solo misero istante, / l’odore della mia vita: l’odore di mia madre…».
È nel tragitto à rebours, dunque, che va cercata la possibile risposta. Va cercata nell’origine, in un immemore passato che trionfa su un’età adulta la quale procura confusione, desolazione, rabbia. E chi altri, se non la madre, può offrire «una luce di bene», che redime? Chi se non quella donna mite che non reclama e non pretende nulla, facendo naturalmente sua la massima virtus ipsa premium est?
Memore di quella lezione materna, mai a sufficienza metabolizzata, il poeta può ora scrivere una delle poesie più significative della raccolta, «Il glicine», che rifiorisce, come un “calco funereo”, segno della «religiosa caducità» della vita. Vederlo rinascere ogni stagione, procura «una gioia dolorosa», un sentimento – in chi l’osserva – di congenita sconfitta. «Ma è ridicolo», osserva il poeta, «straziarmi qui su questa pallida ombra / sia pure stracarica di spasimi, / questa leggera onda / lilla che trapunge il muraglione rosso / con l’impudica ingenuità, l’afasica / festa degli eventi selvaggi!».
Che senso ha sentirsi sconfitti alla vista di un misero glicine? Dimenticare, ridicolizzare una «lunga passione di verità e ragione»? Eppure «tra il corpo e la storia, c’è questa / musicalità che stona, / stupenda, in cui ciò ch’è finito / e ciò che comincia è uguale, e resta / tale nei secoli: dato dell’esistenza».
Poche altre poesie come «Il glicine» raccolgono e portano a implosione l’impressionante grumo esistenziale e ideologico pasoliniano: io e storia, ragione e non ragione, corpo e passione, estasi e rabbia, cronaca e metafisica, religione e rivoluzione. Finché il poeta sembra arrendersi al disperato tentativo di tenere tutto assieme e tutto controllare: ma proprio esplicitando la sua impotenza, scopre il senso più profondo della poesia. E lo offre, intatto, al lettore di cinquant’anni dopo.
Franco Marcoaldi