"Le pagine corsare "
dedicate a Pier Paolo Pasolini
Eretico e Corsaro
Il corpo di Cristo tra presenza e assenza - Pasolini e Gibson: un confronto possibile?
Di Guido Nicolosi
Che non sia il tuo corpo la prima
sepoltura del tuo scheletro
[Jean Giraudoux]*
1. Il Cristo di Mel Gibson: tra cristianesimo classico e tarda modernità
La recente uscita, nelle sale cinematografiche italiane, del film di Mel Gibson La passione di Cristo ha contribuito a riaprire il dibattito sull’opportunità di una rappresentazione cinematografica iperbolica e violenta della corporeità. In effetti, questo tipo di rappresentazione, quando finalizzata all’espressione del cosiddetto “senso del sacro”, è considerata da molti contraddittoria rispetto ad un’interpretazione diffusa e assai consolatoria della sacralità intesa generalmente come “luogo” immateriale e pacificato della purezza. Nel film di Gibson, la cruenta iper-rappresentazione del sangue e della violenza ha spinto diversi commentatori a criticare un certo compiacimento voyeuristico del regista mostrato nell’indugiare in maniera parossistica nella figura di un Cristo lacerato nelle carni, sofferente e straziante. Per la stessa ragione, il film è stato criticato, non senza un certo snobismo etnocentrico, in quanto frutto di una visione rozza e incivile (australiana?) e hollywoodiana (strumentalmente spettacolare) di Cristo. Un Cristo che avrebbe la fisionomia gladiatoria, è stato detto, di una sorta di “Braveheart” in salsa mistica, creata ad arte per una bieca speculazione commerciale. Aggiungo soltanto che, in tal senso, si è omesso di riferire alcunché sull’afflato fondamentalista che il cattolico integralista Gibson ha profuso nella realizzazione del film; tanto da essersi attirato negli USA, in modo non del tutto peregrino, l’accusa di essere viziato da una evidente pregiudiziale antisemita. D’altra parte, gli stessi detrattori non hanno, a mio avviso, seriamente preso in considerazione il fatto che buona parte dell’iconografia cristiana tradizionale, spesso di natura pedagogica e moralistica, è fondata su una cruenta e sanguinolenta raffigurazione del corpo di un Cristo che si immola per salvare l’umanità. Sangue, lacrime, chiodi, spine, pus, pustole, ferite, ecc. sono, indubitabilmente, una parte importante dell’armamentario metaforico e metonimico che la retorica cristiana classica ha utilizzato per ribadire la centralità del sacrificio nell’ortodossia. L’ascesi, la sofferenza e, dunque, il differimento del piacere (la conquista del Paradiso) sono i grandi topics con cui bisogna inevitabilmente confrontarsi per poter comprendere appieno il senso ultimo del cristianesimo così come si è realizzato in occidente. Dunque, in tal senso, l’opera di Gibson mi sembra in linea, fatte salve le opportune differenziazioni legate al medium e all’epoca, con questa tradizione classica.
Ciò su cui, però, vorrei maggiormente soffermarmi è il rimando costante che, nel commentare o analizzare il lavoro di Gibson, giornalisti, critici, e media hanno effettuato all’opera di Pier Paolo Pasolini (solo poche volte per marcarne la differenza). È senza dubbio vero che esistono delle “co-occorrenze” che possono spingere la mente del cinefilo a cercare delle possibili relazioni e contiguità. Per esempio, l’utilizzo forte della corporeità nella filmografia pasoliniana; oppure, il fatto che la tensione, allo stesso tempo mistica e laica, di Pasolini verso l’Assoluto lo portò alla realizzazione, nello stesso set naturale (Matera), di un film sulla figura del Cristo (Il vangelo secondo Matteo). Ma, a parte queste correlazioni, tra le due produzioni artistiche corre un abisso profondo. Naturalmente, tale abisso è, in buona parte, ascrivibile al diverso spessore culturale, poetico e politico dei due registi. La lettura di Gibson “denuncia” una reazionaria (certamente bigotta) interpretazione del calvario di Cristo. Al contrario, il Cristo di Pasolini è una figura poetica, sacra e rivoluzionaria allo stesso tempo. Non è, credo, casuale che l’Italia sia uno dei pochi paesi al mondo in cui la proiezione del film di Gibson non subisce (giustamente, d’altronde), nonostante la crudezza delle immagini, il divieto ai minori; laddove il Cristo pasoliniano subì le “scomuniche” e la persecuzione delle alte gerarchie cattoliche (recentemente anche il Cristo di Ciprì e Maresco ha dovuto subire un forte ostracismo di stampo moralistico e clericale). I due autori, evidentemente, hanno di-mostrato un approccio radicalmente diverso. Questa differenza trova la sua principale espressione proprio nel diverso modo in cui essi hanno messo in scena la corporeità. Nel caso di Pasolini, inoltre, il corpo di Cristo non è presente solo nel “Vangelo”, ma è evidentemente “diffuso” e, dunque, presente in tutti i corpi dei personaggi della sua produzione (non solo filmica); ivi compreso il corpo estremo e collettivo di “Salò”.
In realtà, mi sembra di poter dire che il Cristo di Gibson s’inserisce perfettamente nell’alveo di quelle forme (sociali ed espressive), tipicamente legate alla tarda modernità, secondo le quali il corpo della nostra esperienza è sempre più una presenza forte che si risolve, paradossalmente, in una sua assenza. È questo, mi sembra, un dato da cui partire e che caratterizza la nostra epoca dell’utopia [2] della comunicazione totale. Con questo espediente linguistico e concettuale, un vero e proprio ossimoro, ci si prefigge di superare il dilemma creato dal gioco metaforico di una parte della letteratura sociologica contemporanea. Un gioco tutto incentrato sulla contrapposizione ideale tra teorie che prefigurano la rivalutazione del corpo e teorie che profetizzano il suo annullamento. La presenza-assenza (considero Chris Shilling [1993] l’autrice che per prima, ma con finalità diverse, ha utilizzato questa espressione), infatti, intende spiegare che non è a rischio la presenza materiale, fisica del corpo dei singoli soggetti. Anzi, all’opposto, la nostra è un’epoca in cui la “voglia” di corpo e la volontà di agire tecnicamente su di esso è molto forte (è l’epoca degli ingegneri del sé: sport, farmacologia, chirurgia estetica, ecc.). Ciò, invece, di cui si parla è: l’incapacità di pensare o anche usare inconsapevolmente il proprio corpo in modo diverso dai seguenti cliché (solo analiticamente separati, ma in realtà interrelati):
a) mero oggetto-macchina;
b) supporto temporaneo[2] a disposizione dell’individuo per realizzare una sorta di bricolage del sé (tatuaggi, piercing, body-art, body-building, ecc.);
c) oggetto-spettacolare, vero e proprio feticcio (immagine pura, piana e “pubblicitaria”);
d) strumento biologico di sussistenza di un soggetto cartesiano che vive solo per il lato “spirituale” del proprio sé e quindi trascorre la propria vita guardando il mondo senza viverlo;
In tal senso, mi sento di poter affermare che il soggetto della tarda-modernità assume, con sempre maggiore forza, la posizione e la condizione del voyeur (anche questo, forse, spiega il successo dei reality show). Il voyeur, infatti, è un soggetto che, pur essendo fisicamente presente, si percepisce come assente e non soffre di tale condizione, anzi, vi trova la principale fonte di soddisfazione libìdica. Ebbene, a mio avviso, il corpo del Cristo di Gibson è anch’esso tanto presente, quanto assente. E ciò nella misura in cui esso è tanto spettacolare, quanto privo di qualsiasi carica eversiva; tanto eclatante, quanto conservativo; tanto appariscente, quanto scontato.
2. Pier Paolo Pasolini poeta multimediale
Pier Paolo Pasolini, è noto, ha intrattenuto con i media un rapporto che, pur nella contraddittorietà, è stato assai fecondo e dirompente. Ho già avuto modo, in tal senso, di definire Pasolini un vero e proprio poeta multimediale. Ho inteso evidenziare, con questa formula, la capacità, ma anche la volontà di Pasolini di affrontare una pluralità di questioni di natura molto diversa utilizzando una pluralità di media[3], senza mai tradire la sua istintiva, profonda e costante matrice poetica. Intendo dire, cioè, che la poesia è stata la sua più grande risorsa e ciò non nel senso dato dal fatto, quasi banale, che Pasolini ha scritto delle bellissime poesie, ma in un senso molto più profondo, fondamentalmente “metafisico” [4]. La definisco la sua più grande risorsa perché è stato il suo esser poeta a spingerlo oltre gli “angusti” limiti delle discipline che ha di volta in volta tematizzato; ad affrontare con una lucidità che oserei definire profetica i grandi temi politici, sociologici, antropologici della società e della cultura contemporanea. Le sue analisi, proprio perché poetiche, gli hanno permesso di vedere “verità” nascoste da ingombranti orpelli superficiali. Proprio perché poetiche, gli hanno permesso di scoprire le tendenze “in fieri”, appena accennate, non quantificabili, ma che un poeta può permettersi di additare. È qui che si annida anche quello che da più parti è stato indicato come il limite della sua opera: l’affrontare questioni sociologiche, antropologiche, semiotiche, con un occhio poetico, privo di quella rigorosità metodologica che ogni scienza empirica deve necessariamente fare propria. Pasolini, in quanto poeta, ha potuto osare alzarsi sopra le teste degli uomini e delle donne del tempo, toccando il cielo, giocando con l’inferno. Da quelle altezze egli ha potuto vedere cose che nessun altro era in grado di vedere, ma proprio per questo egli ha perso la possibilità di essere preciso, rigoroso. Una rigorosità che, sicuramente, egli stesso non ricercava e che nessuno può chiedere ad un grande poeta, anche quando questi si trasforma in sociologo, antropologo, semiologo.
La multimedialità fa di Pasolini un autore che ha saputo e voluto fare la sua arte con una pluralità di arti e della sua espressione una pluralità espressiva: poesia, cinema, letteratura, pittura, tutti campi meravigliosamente esplorati, sia separatamente, sia in un raffinatissimo melting-pot. È in questa dimensione che il cinema è diventato il mezzo privilegiato per la sua espressione e Pasolini è diventato, a mio avviso, un simbolo dell’arte cinematografica. Se, infatti, Pasolini ha scelto le arti e non l’arte per potersi esprimere, anche il cinema è un’arte che si caratterizza proprio per essere meravigliosa e misteriosa miscela di impulsi artistici differenti. Inevitabile, seppur tardo, l’incontro tra Pasolini e il cinema proprio perché attraverso il cinema egli è stato in grado di riassumere tutta la sua esperienza artistica in una feconda sintesi comunicativa. Con il cinema Pasolini dipingeva, suonava, scriveva prosa e lirica. Le affinità elettive tra Pasolini ed il cinema sono state, dunque, una necessaria conseguenza per un artista che non ha voluto privilegiare un unico campo espressivo, ma che ha fatto della pluralità comunicativa la sua principale condizione[5].
3. Il corpo di Pasolini e la complessità della sua poetica
Mi capita spesso di ascoltare, nella riflessione politico-esistenziale diffusa, la seguente domanda: “Esiste o potrebbe esistere un personaggio come Pasolini, oggi?”. Ovvero, parafrasando il titolo di un programma radiofonico di Oliviero Be’a su Pasolini: Esistono tracce di Pier Paolo Pasolini nella società contemporanea?. La risposta ad una simile domanda deve superare una difficoltà insormontabile: l’immagine, la rappresentazione attuale della figura di Pasolini (quella che appartiene alla mia generazione, perlomeno) è, ne sono sempre più convinto, assolutamente distorta; e lo è nel senso specifico di parziale. Una parzialità che può, forse, essere spiegata facendo riferimento ad una “strana” particolarità che ha determinato la parabola ascendente del successo di Pasolini come autore e come “icona”. Lo scrittore friulano, infatti, è stato un autore particolarmente odiato e contrastato in vita e diffusamente amato dopo la morte. Sono in molti a riconoscere questo fatto, anche dal punto di vista della “presenza commerciale” delle sue opere. Oggi, fra l’altro, ed è stata questa una piacevole “scoperta”[6], possiamo parlare di un vero e proprio culto di Pasolini anche su Internet.
L’accanita persecuzione che Pasolini dovette subire durante la sua vita è nota ed è inutile qui ripercorrerla. La cosa che mi preme sottolineare è che tale persecuzione (non vedo altri termini che possano esprimere l’atteggiamento della società italiana di quegli anni nei suoi confronti) fu realizzata con metodica pedanteria da tutte le varie anime politico-ideologiche che animavano la vita sociale italiana di quell’epoca. Anche la sinistra, che rappresenta senza dubbio l’alveo naturale dove è necessario collocare la figura di Pasolini, ebbe con lui un rapporto quantomeno conflittuale. Sappiamo, infatti, che la sinistra istituzionale (i comunisti) lo espulse dal PCI e che la dialettica con la sinistra extraparlamentare fu, in taluni frangenti, molto aspra[7]. Dopo la sua morte, invece, il clima attorno a Pasolini cominciò lentamente a mutare. Iniziò un progressivo recupero di un Pasolini profeta; un lento, ma inesorabile, viatico verso la santificazione del Poeta. Oggi, anche una parte della destra ha recuperato Pasolini, per non parlare del mondo cattolico che (non tutto, certo, ma in buona parte) in vita lo aveva duramente contrastato politicamente, ideologicamente, artisticamente e in via giudiziaria. È necessario, dunque, ricercare un elemento che, presente in vita e assente “in morte”, ha determinato le alterne sorti dell’odio e dell’amore (quasi viscerale, un vero e proprio culto profano) che di volta in volta hanno investito la figura, l’opera, la politica pasoliniane. In Pasolini, cioè, molto più che in altri autori, c’è un prima e un dopo. A mio avviso, ciò è spiegabile solo se consideriamo Pasolini una figura la cui complessità è legata ad una contraddittorietà sostanzialmente scandalosa. Anzi, Pasolini ha avuto nella scandalosa contraddittorietà poetica che lo ha contraddistinto proprio la maggiore forza eversiva a sua disposizione. Sarebbe lecito probabilmente parlare di una lucida coerenza contraddittoria (mi si perdoni l’ossimoro)[8]. Probabilmente, ad esempio, molti di coloro che oggi, dagli scranni della sinistra “illuminata” cantano le lodi di Pasolini, non sarebbero disposti a sposare le posizioni “conservatrici” di Pasolini (sull’aborto, lo stupro, il concetto di sviluppo e quello di povertà, la critica al razionalismo[9], ecc.). Ebbene, questa contraddittorietà e “ambivalenza” hanno fatto di Pasolini, durante la sua vita, un personaggio scomodo perché globale. Intendo dire, molto semplicemente, che Pasolini andava preso in toto. Non si poteva decidere di prenderne un “pezzo” e farne una chiave di lettura. Pasolini era lì, in tutta la spigolosità che un personaggio globale implica. Dopo la morte, al contrario, la dissezione pasolinana (uso questo termine, come vedremo, in maniera non casuale) è stata resa possibile. La morte di Pasolini, come spartiacque dirimente, ha provocato una deflagrazione e conseguentemente una frammentazione della complessità della sua figura. Dopo la morte di Pasolini possiamo tutti (comunisti, fascisti, cattolici, ecc.) prendere pezzi della sua storia, delle sue idee e farne paradigmi di lettura complessiva. Lo abbiamo dissezionato e ora ci apprestiamo a fagocitarlo. Mi sono chiesto quale fosse questo elemento presente in vita e assente dopo la morte.
Qual è l’elemento che univa e teneva insieme le varie parti della scandalosa complessità pasoliniana e che la morte ha fatto venir meno, provocandone lo scollamento e la relativa “detonazione”? La mia personale risposta a tale domanda è: il corpo. Parlo del suo corpo, innanzi tutto, ma anche del corpo come categoria concettuale centrale nel suo pensiero e nel suo agire. Naturalmente, non esiste una scissione tra le due cose; al contrario, siamo di fronte ad un’innegabile continuità. D’altronde, non credo debba stupirci tale considerazione. Il corpo è, anche se può sembrare contro-intuitivo, un’entità polisemica e ambivalente [Galimberti, 1989; Le Breton, 1990 e 1999; Mauss, 1950] e Pasolini ha saputo interpretare magistralmente tali caratteri divenendo, di fatto, l’ultimo grande cantore della corporeità. Anzi, artista ed intellettuale del sottoproletariato, egli è stato il cantore del valore esistenziale del rapporto col reale. Un reale che ha assunto il volto scavato, netto, spigoloso, espressivo della marginalità e della vitalità “popolare”. Un reale che ha assunto le sembianze sensuali, a volte lascive, del corpo; con i suoi “odori endocrini”, le ormonali secrezioni, che richiamano il fascino e la profonda qualità sessuale della natura. Non solo, il reale ha assunto anche le forme dei luoghi; i luoghi tipici dell’esistenza “naturale” di un pullulare di vita carico di spontaneità. Questo è il reale pasoliniano che (emblematicamente espresso nella sua semiologia) abbiamo sentito negli “odori” e nei “sapori” delle sue più significative sequenze cinematografiche.
In conclusione, credo che tutto ciò spieghi perché è decisamente fuorviante un paragone tra il cinema di Gibson e quello di Pasolini. Non è sufficiente, infatti, citare la forza della corporeità-per-immagini per legittimare paralleli tanto arditi quanto errati. Al contrario, quando si parla del corpo bisogna sempre verificare, di volta in volta, di che corpo e con quale corpo si “parla”[10]. Ma la mia non vuole essere una difesa conservativa, “nostalgica” e statica di un’esperienza artistica irraggiungibile. Ciò significherebbe immergere nella formalina un corpus culturale che si contraddistingue proprio per la sua storica potenza innovativa. Mi piace, in tal senso, ricordare che un esperimento cinematografico recente ricorda, per molti versi, la corporeità-per-immagini di Pasolini. È quello realizzato da P. Chéreau con il film “Son Frère” (2002). Riconosco decisamente una forte differenza tra gli universi poetici e politici dei due autori. Tuttavia, mi sembra di scorgere delle innegabili analogie. Anche Chéreau, infatti, in questo film, ha saputo trasformarsi in un vero e proprio “antropologo della carne”. E ha realizzato un affresco terribile e magnifico allo stesso tempo in cui ha dimostrato di saper delineare, con precisa forza e sapiente perizia, una mai banale e poetica anatomia del dolore. Anche in questo caso, in fondo, ci troviamo di fronte agli stessi tasselli espressivi, iconografici e simbolici di sempre: il sangue, la carne, il pus, il sudore. Ma qui, le lenzuola che raccolgono la sofferente fisicità di un Cristo assolutamente mondano, rinviano, metaforicamente, ad una Sacra Sindone del tutto materiale che, come la tela del Mantegna (espressamente citato da Pasolini in Mamma Roma) e la stessa pellicola di pochi altri cineasti (Bresson, ieri; i Dardenne, forse, oggi), ci risvegliano da un torpore culturale, raffigurandoci un corpo insolito, inatteso e dimenticato; un corpo tanto assente nell’immaginario, quanto presente nella realtà
Riferimenti Bibliografici
Ansart, P.
2002 Les utopies de la communication, in “Cahiers internationaux de sociologie, Vol. CXII [17-43]
Breton, P.
1995 L’Utopie de la communication. Le mythe du “village planetarie”, Paris, La Découverte
Cela, C. J.
1963 Once cuentos de futbol; trad. it.: Undici racconti sul calcio, Firenze, Passigli Editori, 2000
Eco, U.
1973 Il segno, Milano, ISEDI
Galimberti, U.
1989 Il corpo, Feltrinelli, Milano, 1983
Greimas, A. & Courtés, J.
1986 Semiotique. Dictionnaire raisonné de la théorie du langage, Hachette, Paris
Le Breton, D.
1990 Anthropologie du corps et modernité, Puf, Paris
1999 Adieu au corps, Editions Métailié, Paris
Mauss, M.
1950 Sociologie et anthropologie, PUF, Paris; trad. it.: Teoria generale della magia e altri saggi, Einaudi, Torino, 1965
Metz, C.
1968 Essais sur la signification au cinema, Ed. Klincksieck; tr.it. Semiologia del cinema, Milano, Garzanti, 1972 (I edizione: strumenti studio 1989)
Pasolini, P. P.
1968 Il PCI ai giovani!!!, in “Nuovi Argomenti”, aprile-giugno
Shilling, C.
1993 The body and social theory, Sage, London
Uhl, M.
2002 Intimité panoptique. Internet ou la communication absente, in “Cahiers internationaux de sociologie, Vol. CXII [151-168]
Note
* Citazione tratta da: [ Cela, 1963]
[1] Sul rapporto tra le “promesse di una comunicazione generalizzata al livello planetario, le immagini di una comunità indefinita di dialoghi pacificati” diffuse ampiamente nel discorso sulla comunicazione e il concetto di utopia così come si è caratterizzato dall’avvento delle grandi utopie sociali (a partire dalla Repubblica di Platone e le analisi di Fourier) in poi, vedi: Les utopies de la communication [Ansart, 2002] o L’Utopie de la communication. Le mythe du “village planetarie” [Breton, 1995]
[2] “Le corps est devenu puor nombre de contemporaines une représentations provisoire, un gadget, un lieu idéal de mise en scène pour “effets spéciaux” [Le Breton, 1999]
[3] Dal punto di vista semiotico, possiamo considerare i testi multimediali come testi sincretici. Essi, infatti, rinviano a sistemi semiotici eterogenei (Greimas e Courtés, 1986). Affinché si possa parlare di multimedialità in senso stretto sono necessarie, però, alcune condizioni: a) una strategia comunicativa coerente ed unitaria; b) una plusvalenza di significato; c) fruizione multisensoriale; d) combinazione nuova di media differenti.
[4] Non è casuale che Umberto Eco ha definito metafisica pansemiotica la semiologia pasoliniana [Eco, 1973]. Parimenti non possiamo dimenticare le parole pronunciate da Moravia proprio sulla sacralità del poeta in occasione dei funerali di Pasolini
[5] E’ stato lo stesso Metz, d’altronde, che ha tentato di definire la “specificità cinematografica” su due livelli: discorso filmico e discorso in immagini [Metz, 1968]. Il primo dei due livelli si caratterizza per la sua qualità compositiva. Il cinema, su questo livello, si specifica nel suo comporre linguaggi tra di loro differenti, ognuno dei quali mantiene le proprie “leggi”. Conglobando espressività anteriori, esso le proietta amalgamate in un linguaggio di linguaggi.
[7] Basti pensare alla poesia “Il PCI ai giovani!!!” [Pasolini, 1968] e ai noti fatti legati a quella poesia
[8] Uso questa formula per dire che Pasolini aveva capito, a mio avviso, che per essere coerenti con se stessi (morali e non moralisti, come amava affermare) bisogna avere spesso il coraggio di sfidare la complessità e l’ambiguità del mondo
[9] Un razionalismo inteso come vena vitale che ha alimentato tutto il pensiero occidentale, compreso quello marxista e rivoluzionario. Pasolini, cioè, ha inteso affrontare una questione a lui assai cara, che riprenderà spesso nei suoi saggi e nei suoi film: la crisi sociale di un modello razionalista che ha fondato ogni ideologia di potere e d’opposizione
[10] Pensiamo, ad esempio, al diverso ruolo del corpo (quello delle donne in particolare) nelle società tradizionali e in quelle modernizzate. Nelle prime, esso è terreno di scontro simbolico tra spinte innovative e reazioni fondamentaliste. Da una parte la liberazione dei costumi come rivendicazione “semiotica” della modernità e dall’altra la difesa ad oltranza dell’identità culturale. Nelle seconde, al contrario, esso è, spesso, luogo privilegiato per l’attuazione della strategia dell’”innovazione conservativa” tipica della mercificazione consumistica.
Fonte:
http://www.fucinemute.it/2005/02/il-corpo-di-cristo-tra-presenza-e-assenza/
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Curatore, Bruno Esposito
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