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Biografia, lavori in corso - a breve anche il 1974 e il 1975

mercoledì 30 ottobre 2024

Pasolini, intervista rilasciata a Gideon Bachmann e Donata Gallo sul set di Salò - Da Filmcritica, n. 256, agosto 1975

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro



 Intervista rilasciata a Gideon Bachmann e Donata Gallo

Da Filmcritica, n. 256, agosto 1975





Ci parlavi di un esigenza diversa, in questo film Salò e le 120 giornate della città di Sodoma per quel che riguarda la recitazione di tutti gli attori, puoi spiegarci in cosa consiste?

Sì, negli altri film, agli attori professionistici richiedevo il non professionismo e agli attori non professionisti, quelli presi dalla strada, suggerivo la battuta che poi loro dicevano a loro modo, anche nel loro dialetto se volevano, poi io avrei scelto in fase di montaggio i momenti più felici, ispirati, riusciti, lasciando magari anche degli ascolti che non c’entravano direttamente, ma che rappresentavano quel momento di verità che avevo colto. Qui invece no, in questo film le battute devono essere dette in modo esatto dalla prima parola all’ultima, perché questo non è un film di raccolta di materiali, è un film già montato mentre lo giro, voglio perciò che sia perfetto, esatto come un cristallo. Per cui questa volta, agli attori professionisti chiedo il massimo professionismo e pretendo il professionismo dagli attori non professionisti.

Pier Paolo Pasolini - Lettera luterana a Italo Calvino - Il Mondo, 30 Ottobre 1975

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro

Pier Paolo Pasolini a Italo Calvino

Il Mondo, 30 Ottobre 1975

Tu dici: «I responsabili della carneficina del Circeo sono in molti e si comportano come se quello che hanno fatto fosse perfettamente naturale, come se avessero dietro di loro un ambiente e una mentalità che li comprende e li ammira».
Ma perché questo?
Tu dici: «Nella Roma di oggi quello che sgomenta è che questi esercizi mostruosi avvengono nel clima della permissività assoluta, senza più l’ombra di una sfida alle costruzioni repressive».

Pier Paolo Pasolini "La vigilia di Accattone". Il 21 ottobre, 1961

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro



 Pier Paolo Pasolini  
"La vigilia di Accattone"
Il 21 ottobre, 1961

       Mi alzo, mi metto al lavoro – per ingannare il dolore di Accattone, e no, non sto affatto bene.

       Lo stomaco è come una bolla che lancia bolle, su, contro la cassa cranica, come contro un coperchio chiuso: non potendo esplodere, comprimono il cervello, e mi danno una specie di capogiro secco, da malato di cuore. È l’effetto della cucina cinese... E così, adesso, chino sui fogli della Storia interiore, penso quasi con ostilità al padrone del ristorante, cinese, appunto, e a tutti quei suoi piatti e piattini.

       Era un uomo piuttosto grande per essere cinese: molto gentile, e veramente timido. Un capello – dico un solo capello – o al massimo due o tre, se non mi si vuol prendere alla lettera – gli si staccava dalla calotta nera, un po’ larga alle tempie, da professore, e gli pendeva inerte e assurdo sulla fronte. Nella sua estrema cortesia, egli non faceva altro che lottare contro quel suo capello, cercando di rinserirlo nella calotta, senza mai riuscirci.

       Ad agitarlo così era Fellini: io non certo – cinese com’ero, quasi quanto lui.

       Fellini ordinava i cibi con acribia di mago: la cena – in quel locale da Dolce vita – era una vera e propria regia. E Fellini usava la sua tecnica etnica: pascoliana. Io l’avrei abbracciato, con quei suoi occhioni calamarati, con quelle sue guancione avvilite.

       Eravamo lì per perdonarci a vicenda la questione di Accattone. Anzi, ci eravamo già perdonati, e ci restava da consolidare e verificare il perdono. Era una situazione molto difficile: e solo la zuppetta di pinne di pescecane, il pollo con le mandorle, l’insalata di soia e bambù, il piatto di arancini e zenzero, e il delizioso tè di gelsomino, potevano in quel momento agire da riparo, da transfert. Ci siamo buttati su quella cena, e sulle strane facce dei commensali, come naufraghi su un salvagente.

       È molto più facile litigare che sperimentare di comune accordo la persistenza del vecchio affetto.

       Lui – mi aveva subito detto – aveva dovuto rispondere almeno a cinquanta persone che si accanivano: «Lo vedi, il tuo Pasolini...». Io non a cinquanta, ma almeno a una dozzina che mi deversavano all’orecchio: «Lo vedi, chi è Fellini...». Quanto a me rispondevo, quasi con ira, che qualsiasi cosa facesse Fellini, sia pure coscientemente, contro di me, non avrei potuto arrabbiarmi con lui. E anche lui aveva dovuto difendersi, in modo analogo, e forse più drammaticamente di me, perché il giro dei miei amici è più ristretto e, vorrei dire, anche più scelto: certo per il diverso mestiere che io faccio.

       Ma quanta amarezza, quanto disordine, quanta passività, di fronte alla lenta alienazione che ci porta per una via insensibilmente ma inevitabilmente diversa da quella sperata... Diversa, dico, rispetto alle speranze morali dell’adolescenza. Uno fra i più grossi dispiaceri – di quelli consolabili, da non potersene capacitare – della mia adolescenza, è stato passare, avidamente, dalla lettura dei Tre moschettieri a quella di Vent’anni dopo: vedere l’amicizia tra i moschettieri – quella pura, quella ideale, quella precostituita fantasticamente... – così alterata... dagli anni. Athos, Porthos, Aramis, D’Artagnan, dopo vent’anni, ancora amici, ma divisi da qualcosa che – allora, da ragazzo – mi pareva orrendo: gli interessi dell’inserimento sociale, la diversità delle opinioni: divisi fino al tradimento, un tradimento sottile, giocato con la vecchia amicizia. Qualcosa, insomma, che un giovane non può concepire. Una mescolanza inammissibile, che allora (ma anche oggi!) mi dava un dolore istituzionale... Sono passati vent’anni...