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domenica 9 febbraio 2014

Pier Paolo Pasolini, MAMMA TI DEVO PARLARE - 09-02-2014 - La Repubblica - WALTER SITI

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro



MAMMA TI DEVO PARLARE
09-02-2014 - La Repubblica - WALTER SITI


… Il protagonista entra in un cinema, da solo, probabilmente per quell’antica pratica che nell’ambiente omosessuale si chiama “battere”….


Pier Paolo Pasolini
Supplica a mia madre
da Poesia in forma di rosa



E' difficile dire con parole di figlio ciò a cui nel cuore ben poco assomiglio.

Tu sei la sola al mondo che sa, del mio cuore, ciò che è stato sempre, prima d'ogni altro amore. Per questo devo dirti ciò ch'è orrendo conoscere: è dentro la tua grazia che nasce la mia angoscia.


Sei insostituibile. Per questo è dannata alla solitudine la vita che mi hai data.
E non voglio essere solo. Ho un'infinita fame d'amore, dell'amore di corpi senza anima.
Perché l'anima è in te, sei tu, ma tu sei mia madre e il tuo amore è la mia schiavitù: ho passato l'infanzia schiavo di questo senso alto, irrimediabile, di un impegno immenso.
Era l'unico modo per sentire la vita, l'unica tinta, l'unica forma: ora è finita.
Sopravviviamo: ed è la confusione di una vita rinata fuori dalla ragione.
Ti supplico, ah, ti supplico: non voler morire.
Sono qui, solo, con te, in un futuro aprile… 1962


Nel 1962 Pasolini era in crisi metrica; per un poeta è grave, è come perdere i punti cardinali o le chiavi per aprire la porta. Questa è una delle ultime poesie scritte in versi regolari: poi cederà al magma di una metrica sempre più informale, nel tentativo di catturare un cambiamento storico in cui i vecchi parametri ideologici non funzionano più. Qui la misura c’è ancora perché la poesia sembra escludere la storia e ridursi a un rapporto senza tempo né spazio, un rapporto quasi sacro: quello con sua madre. Pasolini all’epoca considerava la propria omosessualità come estranea al suo temperamento, un peso gravoso che gli era stato messo sulle spalle ma che non c’entrava niente con lui – insomma, una condanna («ciò a cui nel cuore ben poco assomiglio»). La teoria freudiana gli veniva incontro, permettendogli di interpretare l’omosessualità come il risultato del troppo amore per una donna (la madre, appunto: «È dentro la tua grazia che nasce la mia angoscia»). L’eccessivo amore per la madre sarebbe il dato primario e la ricerca dei maschi sarebbe la formazione reattiva; anzi, quello per la madre sarebbe il solo amore intero, vissuto con l’anima, mentre il sesso coi maschi sarebbe un puro sfogo fisico, in fondo umiliante. «La confusione / di una vita rinata fuori dalla ragione»: cioè il maledetto istinto vitale che spinge a sopravvivere comunque, anche quando non si è convinti di quello che si fa e non ci sarebbero ragioni profonde per continuare a vivere.
In una prima stesura il testo riporta in calce la data precisa di composizione, 25 aprile; in quello stesso 25 aprile Pasolini scrisse un’altra poesia dove parla di una sua tentazione di suicidio proprio quella notte, anzi di fare un film sul suo suicidio. Il protagonista entra in un cinema, da solo, probabilmente per quell’antica pratica che nell’ambiente omosessuale si chiama “battere”. Ma poi non fa niente, esce, si perde nel brulichio della vita altrui, dei ragazzi «del Mille, o del futuro più lontano». Un piccolo colpo di pistola, fine. Nella
Supplicarovescia la tentazione di morte, è lui che chiede alla madre di «non voler morire ». In molti suoi testi, fin da quand’era giovane, la presenza della madre e la vita libera si oppongono: lui è come un ladro che va a prendersi i suoi piaceri fuori mentre la madre lo aspetta sotto la lampada accesa. Santa e carceriera, rifugio della falsa coscienza quando il mondo intorno si fa troppo complicato – anche qui, nel nostro testo, la disarmante semplicità è direttamente proporzionale allo smarrimento. Nel 1962 Pasolini è sotto attacco: al Circeo è stato coinvolto in un processo assurdo, nei mercati rionali romani mettono il cartello “pasolini” sui finocchi; in una poesia che è ancora dell’aprile 1962 l’elegia si trasforma in grido d’odio per «tutti i normali, di cui è questa vita». Si sente vittima di una “predestinazione” ma anche colpevole: parla di “degradante diversità” e affabula di un’impossibile rivolta di tutti i diversi (negri, ebrei, diseredati).
Disperazione esagitata, teatrale. Il doppio settenario a rima baciata, che qui Pasolini impiega con le solite collaudate licenze, è d’origine teatrale; pochi mesi prima l’aveva usato per tradurre ilMiles gloriosus di Plauto, ispirandosi a Molière. In Recit,il componimento indirizzato nelleCeneri di Gramsci all’amico poeta Attilio Bertolucci, i doppi settenari baciati alludono a Racine. Nell’unico altro testo scritto in questo metro (per il figlio di Bertolucci, Bernardo) sorprendentemente ritroviamo il 25 aprile. Quello famoso stavolta, quello della Liberazione: c’è festa intorno, fazzoletti rossi e stracci tricolori – ma a questa festa non può partecipare il fratello Guido, partigiano ucciso da altri partigiani. E Pier Paolo non può gridare il proprio dolore perché la madre non sa ancora niente… Nella Supplica c’è una con-traddizione: prima si lamenta della solitudine poi ambisce a essere “solo” con la madre – solo senza il fratello, senza il padre: finalmente solo, lui e lei in un aprile futuro che è anche passato, in un’infanzia sognata di entrambi (la madre-bambina tante volte evocata nei versi).
Il teatro è stato, per Pasolini, il genere della resa dei conti familiari: dal giovanile La poesia o la gioiafino al 1966, anno di Sofocle al cinema e di quel dramma rovente che èAffabulazione. Là il complesso edipico è ribaltato e omosessualizzato, è il padre che desidera il figlio; verso la fine della vita Pasolini riconoscerà che nella primissima infanzia ha subito il fascino fisico del padre, che forse quello è stato il desiderio primario e che l’amore per la madre era la formazione difensiva. La teoria freudiana va a carte quarantotto. Ma questo groviglio intellettuale non tocca la purezza della Supplica: un coming out straziante dove le parole si vogliono didattiche nella loro terribilità, facili perché la madre le possa capire (estremo sadismo nella dolcezza). Il figlio le dice «la mia infelicità dipende da te», ma glielo dice con rime da fidanzato (cuore/ amore, tu/schiavitù), con un ritmo piano che la ipnotizza. È una poesia da recitare, un pezzo per attore e voce (memorabili le interpretazioni di Laura Betti e Sandro Lombardi). La poesia può tagliar fuori la verità, escluderla dalla visuale per lasciar fiorire l’emozione di un gesto psicologicamente violento – «mamma, parliamo».


Fonte:
http://www.cinemagay.it/news-rs.asp?BeginFrom=&idrassegna=32600




“Cara Maria ti scrivo”


Dall'archivuio di Repubblica, un articolo di Paolo Mauri che esplora il legame tra il poeta, scrittore e regista e la Callas



Quando Maria Callas incontrò Pier Paolo Pasolini per girare Medea era una diva secondo alcuni ormai sul viale del tramonto, ma ancora in primissimo piano come personaggio da rotocalco. L'armatore greco Onassis, con cui aveva vissuto per nove anni, l'aveva lasciata per sposare la vedova Kennedy con uno sciame di pettegolezzi praticamente infinito. "Nove anni di sacrifici inutili", aveva commentato lei. L'incontro con Pasolini era stato propiziato da Franco Rossellini che con Marina Cicogna avrebbe prodotto il film: la Callas poteva essere un'ottima Medea e naturalmente un formidabile aiuto per un successo internazionale. Pasolini non era mai stato un frequentatore di teatri d' opera. Aveva visto un Trovatore a Bologna, quando aveva diciotto anni e non si era entusiasmato. Molti anni dopo, un Rigoletto visto a Caracalla con Ninetto Davoli gli era piaciuto, ma questo non cambiava niente. Nico Naldini dice che confondeva Cherubini con Boccherini. Gli piaceva la musica classica che ascoltava in casa sua o da Elsa Morante che aveva una discoteca molto ben scelta, ma molto meno l'opera.

Comunque della Callas voleva tutto meno la cantante o la diva: gli era piaciuto il viso, che rimandava a una realtà contadina primigenia, un viso addolcito dai trascorsi borghesi, ma molto intenso e vero. Pasolini disse a un certo punto che la Callas aveva la stessa verità di un Franco Citti preso dalla strada, come se dalla strada e non dal palcoscenico venisse anche lei. L'avrebbe ripresa con dei lunghi primi piani, mentre lei, che aveva avuto come regista anche Visconti, era abituata a stare in scena con il pubblico a una certa distanza. Le avrebbe spiegato la differenza tra il cinema e il teatro nella lettera ritrovata ed esposta in questa mostra in casa Testori a Novate, una lettera scritta dopo una giornata di lavoro insieme sul set, quando aveva notato in lei il turbamento per non essere stata pienamente padrona di sé e del suo corpo. "Questo stringimento al cuore lo proverai spesso, durante la nostra opera: e lo sentirò anch' io, con te. È terribile essere adoperati, ma anche adoperare". Il cinema, le spiega ancora nelle righe successive, è fatto così: una frantumazione della realtà che poi viene ricomposta "nella sua verità sintetica assoluta". Medea fu un film faticoso: le riprese in Cappadocia, che figurava come l'antica Colchide, poi a Grado dove il Centauro ammaestra il giovane Giasone e infine a Pisa nella Piazza dei Miracoli dove, ad onta di ogni plausibilità cronologica, Pasolini aveva posto la Ragione in omaggio a Galileo: la razionale Corinto che si opponeva a Medea.

La Callas aveva avuto dalla produzione una cameriera, Bruna, oltre alla sua assistente Nadia Stancioff. Non lasciava mai i suoi due cagnolini.

Fonte:

@Eretico e Corsaro - Le Pagine Corsare

Curatore, Bruno Esposito

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