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Biografia, lavori in corso - a breve anche il 1974 e il 1975

lunedì 21 dicembre 2020

P.P.Pasolini - UN’AUTOBIOGRAFIA, FORSE…

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro




UN’AUTOBIOGRAFIA, FORSE…

Sono nel corridoio della Scuola, c’è un frastuono assordante, un freddo umido e tetro. Le maestre non ci lasciano uscire perché nevica; escono solo coloro che sono attesi dai parenti. Ecco arriva mio zio, prende per una mano me, per l’altra Franca, e così avventuriamo per il piazzale coperto di neve. Intendiamoci: in me non c’era nessuna inconsapevolezza, la mia vita interiore si concatenava con la freddezza e la passione di ora; c’erano in me, l’ironia lo scetticismo, ecc. . Eppure la traversata di quella
piazza enorme e bianchissima, soffocata dal vento, equivale per me alla traversata della Baia di Hudson 
(cfr. E. Salgari, “Un’avventura al Polo”).
Secondo esempio: siamo nella cucina, presi da un’allegria natalizia fuori la neve è altissima. A un certo punto mia zia, mia madre e non so quali altre donne prendono una decisione che letteralmente mi travolge: vanno a fare alle pallate di neve. Nei loro volti c’è un riso una luce… dio mio, che finalmente mi si riveli il loro secondo aspetto (l’aspetto notturno?). esse vanno a giocare prese da quel misero entusiasmo che ora conosco bene; io resto nella cucina, eroicamente solo, colto dall’angoscia dell’esclusione. Ancora un passo indietro e giungo alle domeniche di mia madre fanciulla: l’immagine che conservo non è molto diversa, ma radicalmente mutata all’interno, imbevuta com’è di una luminosità più corporea, scialba e virile. I morti vivono in essa emozioni la cui rusticità paesana, tra antiquata ed epica, ha quella sicurezza scanzonata, quell’allegria brutale e quella severità esemplare che i giovani, non senza allegria, salgono
ammassare come una luce freschissima nella gioventù o aurora dei loro vecchi. Ad ogni modo questa serie di domeniche dietro a me, nella mia vita e oltre, è venuta a costituire una materia nelle cui fibre preziose si impastano i pesanti azzurri del cielo, i colori dei vestiti, le voci indecisi degli adolescenti, le botteghe invase dalla luce.

Rivedo una fotografia del ’29, in cui con un vestito a righe marrone e bianche, compaio sul balcone della Canonica, insieme a una trentina di fanciullini, miei compagni di classe. È straordinario, ancora non mi riesce di non commuovermi davanti al mio aspetto fiero, al mio ciuffo impudente, alla tenerezza di bronzo della mia carnagione; ancora non mi riesce di non pensare a quel Pier Paolo, come una specie di Telemaco o di Astianatte, ma già rotto alle avventure più seducenti. Eppure so assai bene cos’era quel ragazzino: era mitologicamente, qualcosa come un incrocio fra Catune e un piccolo Belachù.

Mia madre da giovane era bellissima. Piccola, fragile, aveva il collo bianco bianco e i capelli castani. Nei primi anni della mia vita ho di lei un ricordo quasi invisibile. Poi salta fuori improvvisamente verso i tre anni e da allora tutta la mia vita è stata impernia su di lei.

Mio padre era ufficiale di fanteria. Nei primi anni per me lui è stato più importante di mia madre. Era una presenza rassicurante, forte. Un vero padre affettuoso e protettivo. Poi improvvisamente, quando avevo circa tre anni, è scoppiato il conflitto. Da allora c’è sempre stata una tensione antagonista, drammatica, tragica tra me e lui.

Mio fratello è nato a Belluno quando avevo tre anni. Ricordo mia madre incinta e io che chiedevo: “Mamma, come nascono i bambini?” E lei, mitemente, dolcemente mi ha risposto:”Nascono dalla pancia della mamma”. Una cosa a cui allora però non ho voluto credere, naturalmente.

Quando mia madre stava per partorire ho cominciato a soffrire di bruciore agli occhi. Mio padre mi immobilizzava sul tavolo della cucina, mi apriva l’occhio con le dita e mi versava dentro il collirio. È da quel momento “simbolico” che ho cominciato a non amare più mio padre.

Con mio fratello litigavo, ma eravamo molto amici. Lui mi ammirava perché a scuola avevo la media dell’otto. Perché ero più grande, più forte. Andavamo a fare a sassate con gli altri ragazzi. Una volta a Idria (quarta elementare ) abbiamo avuto l’idea di farci costruire dei scudi di metallo dal fabbro del reggimento. Quello scudo è stato una delle più grandi gioie della mia vita. Quando i ragazzi della banda nemica hanno cominciato a tirare sassi, noi ci siamo lanciati in avanti, protetti dagli scudi, come un esercito di troiani all’assalto. Tutti sono rimasti travolti dall’ammirazione. Quell’anno il dispiacere più grosso è stato il maestro, il maestro Cravatta. Aveva una grande antipatia per me e io non capivo perché. Forse ero diventato un po’ troppo Pierino.

Alla quinta elementare è successo un fatto inaudito. Sono stato bocciato in italiano scritto. Hanno accusato il mio tema di essere troppo poetico.

Leggevo i libri di avventure. Mi ricordo la storia di un cow-boy che si chiamava Morning Star, stella del mattino. Un giovanotto dritto, coi calzoni di pelle e il fazzoletto rosso al collo. E poi Salgari, tutto Salgari.

Fu a Belluno, avevo poco più di tre anni. Dei ragazzi che giocavano nei giardini pubblici di fronte a casa mia, più di ogni altra cosa mi colpirono le gambe soprattutto nella parte convessa interna al ginocchio, dove piegandosi correndo si tendono i nervi con un gesto elegante e violento. Vedevo in quei nervi scattanti un simbolo della vita che dovevo ancora raggiungere: mi rappresentavo l’essere grande in quel gesto di giovinetto corrente. Ora so che era un sentimento acutamente sessuale. Se lo riprovo sento con esattezza dentro le viscere l’intenerimento, l’accoratezza e la violenza del desiderio. Era il senso dell’irraggiungibile, del carnale – un senso per cui non è stato ancora inventato un nome -. Io lo inventai allora e fu “teta veleta”. Già nel vedere quelle gambe piegate nella furia del gioco mi dissi che provavo “teta veleta”, qualcosa come un solletico, una seduzione, un’umiliazione.

La mia infanzia finisce a tredici anni. Come per tutti: tredici anni è la vecchiaia dell’infanzia, momento perciò di grande saggezza. 

Era un momento felice della mia vita. Ero stato il più bravo a scuola. Cominciava l’estate del ’34. finiva un periodo della mia vita, concludevo un esperienza ed ero pronto a cominciarne un’altra.

Quei giorni che hanno preceduto l’estate del ’34 sono stati tra i giorni più belli e gloriosi della mia vita.

Ho venticinque anni… il mio aspetto continua ad essere quello di un adolescente… se la mia eterna adolescenza è una malattia, è invero una malattia assai lieta. Il lato odioso di essa è il suo rovescio, cioè la mia contemporanea vecchiaia. In altri termini l’avidità con cui, in qualità di giovinetto, divoro le ore dedicate alla mia esistenza così che portandomi dietro tutto il mio tenero e lucente bagaglio di gioventù sono entrato in uno stato di precoce esperienza e quindi di indifferenza. Un giorno mi dicevo che tutti gli uomini hanno davanti a sé un’uguale quantità di vita, e che quindi, poiché io ne divoro con maggiore avidità di una parte degli altri, stava nella logica dei fatti che io dovessi morire assai giovane.

Questa punizione si è forse avverata, solo non nel corpo della cronologia, ma nel suo sistema: la presente indifferenza dovuta a quella operazione che distrugge se stessa e la vita; l’esperienza mi dà un specie di morte: e io, in effetti sono assai giovane. Siamo nel 1947: era questo l’anno in cui la natura, avrebbe perso per me il suo valore. Adesso sono seduto sul greto del Tagliamento per l’ennesima volta; ecco le vene di sabbia lungo le interminabili prospettive di ghiaia, che risalendo, contro un orizzonte tinto di un azzurro torbido, vanno a lambire il cielo. Ecco qui intorno a me, la proda con la sua erba stecchita; la sua polvere, i suoi pioppi…
Tutto questo non è sufficientemente misterioso per sedurmi ancora.





Curatore, Bruno Esposito

Collaborano alla creazione di queste pagine corsare:

Carlo Picca
Mario Pozzi
Alessandro Barbato
Maria Vittoria Chiarelli
Giovanna Caterina Salice
Simona Zecchi


Pasolini, appunti dopo Accattone

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro




CINEMA E LETTERATURA:
APPUNTI DOPO «ACCATTONE»


Mi sembra che la differenza tra l’espressione cinematografia e l’espressione letteraria si trovi nel fatto che la prima manca quasi del tutto di una figura, la metafora, di cui invece la seconda consiste quasi esclusivamente.
Ho adoperato, di seguito, due «quasi». Questo significa o incertezza da parte mia, o oggettiva incertezza nella materia. Infatti le distinzioni sono sempre un po’ sciocche, si sa. Si perderebbe chiaramente del tempo se ci si mettesse ad analizzare la differenza tra l’operazione letteraria e l’operazione pittorica, per esempio. Ma, evidentemente, il cinema suscita ancora, in questo senso, un interesse un po’ patologico. È difficile resistere alla tentazione di definirlo, magari per esclusione: soprattutto per me, che ho scritto per tanti anni, ed ora mi trovo alla conclusione di una prima esperienza espressiva cinematografica.
L’operazione letteraria consiste - dal punto di vista tecnico, si badi bene - in una applicazione sia pure liberissima, sia pure folle, sia pure inconscia di figure retoriche. Credo sia impossibile reperire dei prodotti letterari, anche minimi, anche ridotti a uno specimen elementare, fondati sulla pura applicazione della grammatica e della sintassi. Del resto anche la lingua parlata non è mai solo grammaticale e sintattica: c'è sempre almeno un’ombra di espressività, che è l’aspetto «naturale» dello stile.
Tra le figure retoriche, dal cui amalgama si costituisce lo stile, la metafora è la predominante. Anzi, si può dire che non ci sia frammento di un’opera letteraria che non sia sospeso, lievitato, individuato da una metaforicità almeno albeggiante. Si può dire che la metafora rappresenti la sostanziale unicità delle parole, la possibile riduzione di tutte le infinite parole a una parola sola, arche- tipa: la Parola dell’uomo. Attraverso un trascolorare infinito di metafore si può giungere a stabilire una analogia tra il caldo e il freddo, tra la luce e il buio, tra il buono e il cattivo... Nulla resiste alla potenza unificatri­ce della metafora: ogni cosa attraverso essa è paragonabile con tutte le altre cose.
Per esempio - esempio banale: parlando o scrivendo, cioè usando la parola, si dice «Gennarino pareva una jena» oppure «Gennarino era una jena» oppure ancora «la jena Gennarino», oppure addirittura «la jena», se poco avanti si era detto che Gennarino pareva una jena sì che alla parola «jena» nessun lettore o ascoltatore possa avere il dubbio che non si stia parlando di Gennarino.
Nel cinema di avanguardia si ci tentato di giustapporre a Gennarino una jena, attaccando due inquadrature, una contenente Gennarino che digrigna i denti, e l’altra invece una jena, sempre coi denti scoperti. Non dico che qualcosa di simile non si possa sempre lecitamente fare. Tutta- via è inconcepibile pensare un film che vada avanti di questo passo, per due ore. Mentre un romanzo può tranquillamente continuare ad allineare metafore per duecento pagine: anzi, se non lo facesse, non esisterebbe.
Sono al «quasi». Infatti il cinema, se non può esprimere direttamente la metafora «Gennarino è una jena», tuttavia può crearla, per coazione dell’immagine, nel lettore: può stabilire una specie di diapason che vibra, sia pure molto vagamente e aleatoriamente, all’unisono. Se il regista pensa che Gennarino è una jena, può rappresentare l’immagine di Gennarino in modo tale, con un tale stridori di denti, per cui lo spettatore possa formula­re lui l’altro termine della metafora, «jena», o se non proprio «jena», magari «pantera» o «sciacallo».
In quanto spettacolo, si usa paragonare il cinema al teatro. Ma è pura follia. Le due espressioni non hanno nulla a vedere l'una con l’altra. Semmai è più decente paragonare il cinema alla narrativa. Ma abbiamo visto che la faccenda della metafora rende molto approssimativo anche questo paragone.
Se tuttavia il cinema non può usufruire delle figure stilistiche di cui usufruisce, per millenario diritto, la narrativa, tuttavia non ne è del tutto escluso. Ma strano: le figure stilistiche che il cinema può cousufruire con la letteratura, sono quelle tipiche della letteratura arcaica, religioso-infantile, da una parte, dall’altra quelle in comune, idealmente, con una terza arte: la musica. Mi rife­risco all’anafora e all’iterazione.
Si sa che quando uno scrittore ricorre all'anafora («Egli diceva... egli diceva... egli diceva....») o all’iterazione (le litanie) vuol dire che si trova in uno stato d’animo molto eccitato, e quindi rasente all’irrazionale, a una passio­ne ancestrale o arcaica: anafora e iterazione, in uno scrittore serio, son dunque abbastanza rare. Il cinema invece, di queste figure, può fare man bassa. La ripetizione di un'immagine, a fini soprattutto comici, o il ritorno anaforico di una immagine a iniziare una serie di frasi o di piccole sequenze, sono fatti stilistici che qualunque cinematografaro usa con la massima semplicità e incoscienza.
Il fatto che il cinema possa assomigliare sì alla narrati­va, ma a una narrativa soprattutto musicale, potrebbe dimostrare una certa irrazionale arcaicità c favolosità del cinema rispetto alla letteratura. Credo che possiamo prenderne senz’altro atto.
Ma la faccenda dell’anafora e dell’iterazione mi pone di fronte a un problema che probabilmente è di natura sostanziale, come direbbe un teorico del cinema (segno, anche questo linguaggio, della rozzezza non ancora vinta del cinema come problema estetico). Mentre in letteratura anafora e iterazione sono dei topoi, agglomerati ben precisi di “parole”, nel cinema che cosa sono? Prendiamo un’anafora cinematografica: una scena è osservata ripetutamente da Gennarino, sì che la faccia di Gennarino che guarda viene riprodotta due tre volte, a ogni capoverso, per così dire (in letteratura: Gennarino guardava... Gennarino guardava... Gennarino guardava...). Qual c l’anafora? la faccia di Gennarino, in sé, o la faccia di Gennarino in quanto inquadrata dalla macchina da presa (che può inquadrare quella faccia da jena in P.P.P., in P.P., col 75, col 50, o col 35, dall’alto o dal basso, di faccia o di profilo, con una breve carrellata o fissa)? Evidentemente tutte due le cose insieme: dato che la faccia di Gennarino non è casuale, ma è stata prima scelta dal regista fra le mille (come un sostantivo tra i mille sostantivi), poi illuminata, e infine costretta, con le buone o con le cattive, con coscienza o no da parte sua, a digrignare i denti. Non soltanto, ma a far parte de’anafora, possono intervenire, sia delle voci fuori campo della scena che fa digrignare i denti a Gennarino, sia, infine, il commento musicale. In conclusione, men tre in letteratura le figure stilistiche sono semplici, sono un atto linguistico scritto, in cinema le stesse figure sono complesse: sono prodotto di almeno due atti concomitanti e supplementari, o, in altre parole si svolgono su due piani, tuttavia sovrapposti. Da una parte c’è la faccia di Gennarino con tutte le altre cose da riprendere, dall’altra c’è la macchina che riprende. Su ognuno di questi due piani c’è un accurato lavoro da svolgere, in modo, dapprima, quasi autonomo, quasi indipendente. Mentre scelgo la faccia di Gennarino, la preparo, la mascherò da jena, le cerco un fondo su cui capire, posso prescindere dal fatto che dovrò poi decidere su quello che dovrà fare con la macchina da presa.
Questa scissione tra due operazioni che poi divengo no una sola operazione a lavoro concluso, c solo apparentemente clamorosa e mostruosa (rispetto all’analoga letteraria). Perché: la scelta del tipo, della faccia, dei vestili, dei luoghi, della luce sono elementi, direi, isolati: lessico. Sono sostantivi, aggettivi, avverbi, locuzioni. Mentre la scelta dei movimenti di macchina, d’inquadratura ecc. sono la vera e propria sintassi: la riunione ritmica dei vari elementi lessicali isolati in una frase.
Mentre parlando o scrivendo tale operazione si compie fulmineamente - lessico e sintassi, o metro, presentandosi contemporaneamente, o quasi, alla soglia espressiva - nel cinema c’c una specie di interruzione. Il materiale lessicale viene ammassato brutalmente, frontalmente per poi, in un secondo tempo, venire incanalato nella linea musicale della frase sintattica.
Qui sto confrontando operazioni che avvengono su immagini e parole, come se questi due mezzi espressivi sensoriali fossero la stessa cosa: faccio, cioè, un confronto schematico, geometrico. Quasi che parole o immagini fossero, indifferenziatamente dei «segni» da armonizzare nel gioco d’incastro della sintassi. In effetti una parola, al limite, può essere pura immagine, o un’immagine, al limite può essere logica come una parola. Ma non è questo che importa. L’importante è vedere se il rapporto della parola come «segno» e il significato, è simile al rapporto dell’immagine come «segno» e il significato.
E qui siamo al centro della questione. Dopo aver fatto (stavo per dire «scritto») un film, devo dire che, anche se un po’ più debole e fisso, il valore significativo delle immagini è analogo a quello delle parole. La semanticità, o contenuto, ottiene la stessa potenza di comunicazione nei «cinema» che nei fonemi. Un’immagine può avere la stessa forza allusiva di una parola: perché è frutto di una serie di scelte estetiche analoghe. Fa parte, cioè, di una operazione stilistica.
P.P.Pasolini
(1961)




Curatore, Bruno Esposito

Collaborano alla creazione di queste pagine corsare:

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Mario Pozzi
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Omicidio Pasolini - Lettera di Alberto Moravia, del 16 novembre 1975, al quotidiano Paese Sera

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro



Paese Sera - sabato 16 novembre 1975

Omicidio Pasolini
Lettera di Alberto Moravia, 

del 16 novembre 1975, 
al quotidiano Paese Sera

(Trascrizione dal cartaceo, curata da Bruno Esposito)

Tu mi chiedi di dire quello che so. Ti rispondo che non so nulla all'infuori di quello Che ormai sanno tutti. Ma ho fatto delle riflessioni sull'assassinio di Pasolini e non ho alcuna difficoltà a comunicarle. 
Che dire prima di tutto della trasmissione televisiva che accettava pienamente la versione dell'Ansa la quale a sua volta accettava quella della polizia che accettava completamente quella dell'assassino? 
Che dire se non che la nostra società rozza e incolta non si contenta di essere <<maschile>>, vuole essere anche <<virile>>' e per dimostrare a se stesa di esserlo davvero ha trattato in questa orrenda occasione Pier Paolo Pasolini né più né meno come sono trattati i negri in certi stati del Sud, negli Stati Uniti? 
Cioè, che. una volta di più, il pregiudizio contro l'omosessualità, fatto dl totale ignoranza, di odio del diverso e di senso di colpa ha funzionato con deplorevole automatismo? 
Venendo al delitto e alle indagini sul delitto, ho l'impressione che polizia, carabinieri e magistratura sono cascati o hanno voluto cascare nella trappola della confessione <<spontanea>>. Essi non si sono resi conto che <<senza pentimento>> qualsiasi confessione, come sanno benissimo i sacerdoti, è falsa. 
E' sinceramente, profondamente pentito l'assassino? Ne dubito. Bisognava dunque contestargli tutto fin da principio, mettere in dubbio tutte le sue dichiarazioni. Non è stato fatto, l'accettazione della sua pseudo confessione ha fatto si che le Indagini sono state condotte con lentezza, sbadataggine, distrazione, pigrizia e superficialità << Tanto >> si diceva abbiamo In mano l'assassino e per giunta ha confessato. Che serve indagare, ormai? 
E invece, no! Bisognava far fare << immediatamente >> le perizie (quella dell'anello, quella dell'automobile, quella della benzina, quella delle ferite dell'assassino e dell'assassinato, quella sulla possibilità di un rapporto sessuale, quella del sangue sui bastoni e sulle pietre, quella della camicia, quella del denaro e cosi via e cosi via). 
Ancora, bisognava portare l'assassino sul luogo << subito dopo il delitto >> a caldo, e fargli ricostruire I fatti senza lasciargli il tempo di riprendere fiato, di organizzarsi un alibi psicologica e morale, senza aspettare la luna e altre condizioni favorevoli, tanto una ricostruzione di più non avrebbe fatto alcun danno. Infine. bisognava risalire senza indugio dall'assassino ai suoi amici, solidali compagni, alla sua società, insomma, perché ogni uomo appartiene ad una società o gruppo sociale e nella società o gruppo sociale spesso sta celata la verità.
Di tutto questo non si è fatto nulla. Si direbbe che, essendo il delitto avvenuto la notte prima del giorno dei morti, cioè durante uno dei più lunghi << ponti >> dell'anno, una specie di << ponte >> professionale, psicologico, culturale e morale si sia installato nella mente degli inquirenti. Alla fine, come sempre succede da molto tempo in Italia, dl fronte al modo col quale sono state condotte le indagini, vien fatto di domandarsi non più: << Ma come è morto Pasolini? >> bensi: <<  Ma chi "realmente" sono, nella realtà umana, sociale,  culturale, psicologica  coloro che si occupano della sua morte? >> in altri termini, il delitto viene quasi sopraffatto dalla idea che in queste condizioni << nessun delitto >> potrà mai essere chiarito. 

Paese Sera - sabato 16 novembre 1975



Curatore, Bruno Esposito

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Pier Paolo Pasolini: Er morto puzzerà tutta la settimana - L'Unità, lunedi 28 ottobre 1957

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro




Pier Paolo Pasolini: 
Er morto puzzerà tutta la settimana

L'Unità, lunedi 28 ottobre 1957

(Trascrizione dal cartaceo, curata da Bruno Esposito)



Romanista non sono, e neanche laziale. << So der Bologna >>.
Lascio immaginare l'animo con cui scrivo queste righe. Penso ai tifosi bolognesi, miei correligionari. La cosa è tragica: lo vedo qui, nelle. facce dei laziali. Tutti Maramaldi i romanisti, tutti Ferrucci i laziali. Non si può non avere simpatia per i vinti: i vittoriosi me lo concederanno...
Lo spettacolo il solito. I colori più belli erano quelli di Rama: I'azzurro del cielo di ottobre, e il verde dei pini in frotta sulle pendici classiche.
Perchè  quanto allo sport niente azzurro, niente bianco, niente rosso e niente giallo.
Motto grigio, invece, il grigio delta noia, della paura, dell'incertezza. Bah. Come sempre!
Questi giovanotti che giocano ogni domenica sono bombardati da traumi di ogni genere: razionalistici da parte dei critici, passionali da parte della folla, un misto (tanto per poter tirare avanti) da parte degli allenatori. Comunque domenica per domenica vanno II sul campo a dimostrare che il gioco e comechessia, un concetto.
Un concetto umano, storico, terrestre: esposto quindi a ogni rischio e a ogni negazione e, naturalmente, agli improvvisi empiti « inventivi » (com'è stato oggi per l'ultimo quarto d'ora della Roma). II contrario del tifo, che è invece una astrazione, una costellazione fissa, un dogma. Io, per conto mio, sopporto con gran pena il tifo di tipo, diciamo, napoletana, ( s'intende che tutti gli italiani sono un po' napoletani: bolognesi compresi). Per dirla con Benedetto Croce, il tipo e uno  << pseudo-concetto >>. Fonte. quindi di errori, aberrazioni e angosce.
Avete mai osservato le figure delle rèclames? Non so, per esempio, un tipo che corro a tutta velocità (cosi da avere almeno il fiatone) con le sole gambe, mentre la faccia se ne va per conto suo, illuminata dal sorriso radioso dovuto alla coscienza della bontà di un lucido da scarpe. Il tifoso di tipo, diciamo, napoletano, è un poco cosi: sa, è illuminato, beato lui, da una specie di
grazia. A nulla valgano i ragionamenti, e tanto meno le dimostrazioni e le esperienze di ogni domenica davanti al gioco reale.
Egli ha una porzione di cervello (la principale) staccata dal resto; e capace, sotto quell'illuminazione carismatica, di un solo, lisso, immutabile pensiero. Tutto ciò che e fisso e precostituito genera immobilità: genera cioè la maschera, la << macchietta >>. II che umilia l'uomo. lo ho pena quando vedo tifosi, appunto, in maschera, con ciucciarelli, ecc.
Nulla e più angoscioso della aspirazione << panem et circenses >>: pensate a Lauro...
Per fortuna a Roma, i tifosi di questo tipo non sono molto numerosi: le uniche << maschere >> che si vedono in giro, praticamante, sono dei giovincelli con in testa il cappello di carta giallo - rossa o bianco - azzurra, le camicie fuori dai calzoni, la faccetta malandrina particolarmente accesa, e, qualche volta, una bandiera della << squadra del cuore >>. Poi cantano una cantilena molto infantile: << Li avemo imbottigliati, ooh, oh, ooh, oh. E nun ce vonno sta! >>.
Fatto sta che Roma è veramente una grande città: la identificazione del tifoso con la squadra non sublima sentimenti ristretti, provinciali e municipali. E poi nel romano c'è sempre quella dose di scetticismo e distacco che lo preservano sempre dal ridicolo.
Nella propria squadra egli non esalta glorie cittadine, meriti sportivi e altre cose noiose di questo genere: egli esalta la propria << dritteria >>. E un << dritto >> è un << dritto >>.
Tutto questo per quel che riguarda il tifoso popolare: per quel che. riguarda il tifoso borghese... beh è un altro discorso. Riaffiora la provincia. Sono però commoventi, in questo senso, gli immigrati da poco: il loro amore per la Roma strappa le lacrime. L'amano disperatamente, e gridano poco: ingoiano dolori c macinano gioie in silenzio. E non dimenticano facilmente.
II contrario dei romani, specie giovani, che hanno sempre la parola pronta che definisce subito l'idea e, con questa, la supera. Ciò che più fa soffrire o gioire il romano alla sconfitta o alla vittoria della sua squadra è l'idea dei discorsi che dovrà fare al bar o dal barbiere. Certo! Un << dritto >> può forse perdere? E se vince, può forse non fare dell'ironia - magnanima - sui vinti?
Guardate il << Mozzone >>, per esempio, che avendo visto annunciato sull' << Unità >> questo mio articolo, mi ha subito telefonato, da Torpignattara: << A Pà,  nun tazzardà a di male de la Rorna, eh! >>. Poi l'ho visto, coi suoi umici, er << Patata >> e << Giancarlo >>, sotto l'obelisco di Mussolini: già passione e gioa erano scontate. Egli ha definito e sistemato subito tutto con due parole, non appena
fummo in vista di San Pietro: « Scrivi nell'articolo — ha detto — che er morto ancora puzzava, come semo usciti dallo stadio. E puzzerà tutta la settimana >>.

PIER PAOLO PASOLINI

(Trascrizione dal cartaceo, curata da Bruno Esposito)


Curatore, Bruno Esposito

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Pasolini col Vangelo alla mano muove gli attori senza volto - 1964, Il Giorno.

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro

Biblioteca nazionale centrale - Roma

Pasolini col Vangelo alla mano muove gli attori senza volto
di Luigi Locatelli
26-04-1964
Ritaglio di "Il Giorno"
Biblioteca nazionale centrale - Roma

(Trascrizione curata da Bruno Esposito)

Roma, aprile

 
Biblioteca nazionale centrale - Roma
 
Il "vento proviene" da una enorme ruota a pale, i bagliori di fuoco sono di alcune torce alle spalle delle persone. La luce, si suppone che sarà fredda, drammatica. L’obiettivo è stato schermato con un vetro scuro per l’effetto notturno. I trucchi sono tutti lì, evidenti. Otello Sestili sa di essere un camionista: il suo nome è perfino scritto a penna su un foglietto appuntato al colletto della maglia con uno spillone di sicurezza. Quel giallo e azzurro che si intravedono tra gli ulivi, sono la gonna e la camicetta della moglie. Sestili la vede mentre porta a sgambettare la bambina. Settimio Di Porto conosce benissimo la sua identità: è alto, massiccio, semplice e rude come la gente del popolo, senza complessi, senza momenti di cedimento. Commercia in ferramenta, il suo furgone è parcheggiato dieci metri più in là, sulla Tiburtina Valeria, dopo la curva del ventottesimo chilometro. Alcuni minuti fa, stava raccontando con spavaldo compiacimento che gli basta serrare le mascella e fissare in faccia la moglie per farla scoppiare in lacrime.

   L’atmosfera è quella, un po’ goliardica, che si ritrova tra tutte le troupes cinematografiche. Allegria e serietà, scapigliatura e lavoro sodo. Quando il. regista, lo scrittore Pier Paolo Pasolini dà i tradizionali ordini per girare la scena, « motore », « azione », qualche cosa di diverso succede. Il bravo Tonino Delli Colli, l'operatore di « Accattone ». comincia a muovere la piccola Arriflex.

   Il silenzio si fa più impegnato. L'attenzione di tutti è più avvertita del solito. Tocca girare al protagonista, « vai Enrique, vai », ordina con calma Pasolini. Enrique Irazoqui è seduto su un tronco di ulivo. La faccia pallida, magra, avvolta in un grezzo mantello di lana marrone, il corpo fasciato da una semplice tunica avena. Legge le parole che deve pronunciare davanti alla macchina da presa su una lavagnetta sorretta dall’aiuto regista.
« Voi sentirete parlare di guerre e rumori di guerre; badate di non turbarvi; bisogna che questo avvenga ma non sarà la fine. Si solleverà infatti nazione contro nazione e regno contro regno, e vi saranno pestilenze e carestie e terremoti in vari luoghi; ma tutto Questo non sarà che il principio dei dolori »… 
   La drammatica predizione che Gerusalemme sarà distrutta: la fine del mondo. Le parole del Vangelo di San Matteo, che Pasolini sta traducendo in film.


Biblioteca nazionale centrale - Roma
   La lavorazione è cominciata da qualche giorno, senza il consueto can-can pubblicitario che accompagna il primo giro di manovella… Anzi, produttore e regista preferiscono portare avanti il loro lavoro in silenzio, con tutta tranquillità. Si tratta di un lavoro quanto mai impegnativo, difficile, inconsueto perché il film non sarà una riedizione della vita di Gesù Cristo, né un racconto interpolato delle vicende bibliche. Non c'è soggetto, non c'è sceneggiatura, non c'è dialogo costruito a tavolino sia pure sulla falsariga dei Vanigeli, ma la traduzione in immagini del testo genuino scritto da Matteo, il pubblicano di Cafarnao  diventato apostolo. La strada più difficile, dunque, è stata scelta da Pasolini per questo film.

   Un'idea che lascia perplessi, quella di trasportare sullo schermo il primo dei quattro Vangeli, soprattutto conoscendo la diffusa preferenza per argomenti commerciali di molti nostri cinematografari- Ma Pasolini non è di questo parere…
« La storia di uno che nasce povero » dice, che ha una vita ricca e complessa come è raccontato nel Vangelo, e consegna agli uomini il messaggio del cristianesimo, « ha tanti elementi favolosi anche per il grosso pubblico ».
   Il progetto di realizzare il «Vangelo secondo Matteo» Pasolini l’ha studiato e maturato per un paio d'anni. Nell'ottobre… '62 si trovava ad Assisi. Era stato invitato dalla « Pro Civitate Christiana » ad‘un dibattito sul suo « Accattone ». Finito il convegno, lo scrittore-regista voleva tornarsene a casa, ma le strade erano ingorgate di traffico. Code di automobili lunghe chilometri e, per le vie di Assisi, migliaia di persone arrivate per la visita di Giovanni XXIII. Non c’era altro da fare che aspettare che fosse partito il treno del Papa, prima di prendere la via del ritorno.
« In camera mia, sul tavolo c’era un Vangelo. L'avevamo messo lì per farlo leggere agli ospiti, e ci sono riusciti perché io lo presi e cominciai a sfogliarlo ». 
   Un libro stimolante dice Pasolini: leggeva e si convinceva che quel racconto era un ottimo soggetto cinematografico. Per un po', ha tenuto l'idea perse,  poi una volta ne ha parlato ad Alfredo Bini, che era stato il produttore dei suoi film.
« Eravamo in Africa, con Bini, per i sopralluoghi di "Padre selvaggio", e Bini è stato subito entusiasta ».
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   In questi due anni, Pasolini non ha scritto nessuna sceneggiatura, ma si è preoccupato di studiare, immaginare le scene, i movimenti della macchina da presa, il volto degli attori perchè non ha aggiunto ne tolto nulla al racconto di San Matteo,  limitandosi a filtrarlo con la sua fantasia  poetica. Ha discusso, però, a lungo l'idea con gli amici della "Pro Civitate Christiana" che l'hanno incoraggiato concedendogli fiducia e libertà.
« Non ho nessuna intenzione dl proporre interpretazioni teologiche. Sarà un'vangelo assolutamente canonico » 
dice. Con padre Favero particolarmente ha avuto lunghe discussioni, numerosi  scambi di lettere per evitare qualsiasi imprecisione, anche di dettagli storici e di costume, nelle ambientazioni, nell’impostazione delle scene, dei personaggi. Anche adesso che sta girando, le lettere tra lui e il religioso continuano. Un viaggio compiuto successivamente in Terra Santa con padre Andrea Carrano, « un veneto simpaticissimo », ha convinto il regista che non era il caso di andare a girare nei luoghi originari. Il paesaggio descritto dai Vangeli non esiste più, perciò il film verrà girato in Italia. Le prime scene, che si svolgono sul monte degli ulivi e nell’orto” di Getsemani sono state girate in un uliveto ai piedi di Tivoli, su Monte Cavo il discorso della montagna. Altre scene in Calabria, a Crotone, Matera, tra Barletta e Taranto, dove la campagna del meridione è più somigliante alla Palestina.

   Tutti gli attori sono nuovi al cinematografo. La loro ricerca è stata particolarmente difficile perché Pasolini non voleva nessun viso che il pubblico potesse ricordare o identificare con altri
personaggi. Irazoqui è entrato nel film casualmente.
« In un primo tempo pensavo a qualche poeta, per il personaggio di Cristo. Ne avevo interpellati diversi,. avevo anche fatto dei tentativi con alcuni scrittori, uno russo, uno americano, uno spagnolo. Alia fine mi ero quasi deciso per un attore tedesco che andava benissimo ». 
   Enrique Irazoqui un giorno gli ha telefonato a casa. Voleva conoscerlo, aveva letto l’unico suo libro tradotto in Spagna « Ragazzi di vita » e gli altri nell'edizione originale. Voleva discutere con lui di problemi culturali… Appena lo vide, con quel viso che ricorda i Cristi dipinti dal Greco, Pasolini gli ha proposto di lavorare nel film. Per la ricerca degli altri personaggi, lo scritture-regista è stato aiutato dalla scrittrice Elsa Morante. Un giovane nipote della scrittrice apparirà nel film come San Giovanni. Il critico musicale e fotografo Ferruccio Nuzzo è san Matteo, lo scrittore Enzo Siciliano, Alfonso Gatto, lo studente Giorgio Agamben sono altri Apostoli: è il gruppo intellettuale del cast, che passa le lunghe attese tra una scena e l’altra leggendo libri sui vampiri e sullo zen.

   Con il camionista del portico d’Ottavia e il commerciante in ferramenta, ci sono nelle vesti di Apostoli e discepoli, contadini e pastori calabresi e lucani, facce dure, rozze, quasi primitive, come dovevano esserlo probabilmente i pescatori del mare di Galilea, gli artigiani e i contadini di Nazareth e della Palestina che per primi seguirono Gesù. Cristo.

La difficoltà tremenda, da angoscia - dice Pasolini - è nel creare la figura del Cristo ». Una difficoltà che si avverte, concretamente, quando è il momento di girare, e sul set produce una atmosfera diversa da quella delle altre realizzazioni cinematografiche, sia pure impegnative: trasforma il vento della grande ruota a pale e le fiamme delle torce in segni premonitori dell’apocalisse, muta il camionista nel traditore Giuda, il commerciante di ferramenta nell’Apostolo Pietro, lo studente catalano di scienze economiche e commerciali nella figura del Cristo. prossimo ai suoi momenti più dolorosi.

Luigi Locatelli


(Trascrizione curata da B. Esposito)

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Curatore, Bruno Esposito

Collaborano alla creazione di queste pagine corsare:

Carlo Picca
Mario Pozzi
Alessandro Barbato
Maria Vittoria Chiarelli
Giovanna Caterina Salice
Simona Zecchi