"Le pagine corsare "
dedicate a Pier Paolo Pasolini
Eretico e Corsaro
"Porcile": l’omologazione divorante
di Alessandro Barbato, 2005 (3/5)
Il tema principale della pellicola è quello dell’omologazione, affrontata attraverso la metafora del cannibalismo e del divoramento. Il film è composto da due episodi che attraverso il montaggio alternato riproducono in sostanza la stessa vicenda. Il regista, con due lapidi che vengono inquadrate prima dei titoli di testa, indirizza lo spettatore sul significato dell’opera che è il seguente: la società contemporanea divora i suoi figli (il rimando è a Kronos che divorando i suoi figli impediva di fatto la nascita del cosmo), non solo quelli disobbedienti, ma anche quelli che non sono né obbedienti né disobbedienti.
I due episodi nella sceneggiatura, pubblicata postuma, sono nettamente separati (essi furono concepiti dall’autore in momenti diversi): il primo, pensato per un film ad episodi da girare con Luis Buñuel, è totalmente privo di parole se non per una frase che il protagonista ripete per quattro volte prima del supplizio a cui è destinato. La vicenda è ambientata nel deserto lavico dell’Etna ed in un non meglio precisato Cinquecento. Qui, quello che Pasolini definì «un intellettuale nietzscheano che aspira alla santità»10, vive in completa solitudine, rifiutando la società del suo tempo e nutrendosi di tutto ciò che incontra sulla sua strada.
Quando il nostro protagonista, stremato dalla fame, si imbatte in un soldato che si era attardato marciando con la sua truppa, dopo un attimo di esitazione lo affronta in duello e lo uccide. Subito dopo gli taglia la testa (con una meticolosa gestualità che rimanda a quel piano rituale che sarà poi rappresentato, con maggior dovizia di particolari, in Medea) e la getta nel cratere del vulcano prima di cuocere e mangiare le carni della preda. In breve tempo esso viene raggiunto da una vera e propria comunità di ribelli che si aggira per il deserto uccidendo e divorando gli appartenenti a quel mondo da cui essi hanno preso le distanze.
La loro esperienza ha però vita breve: un viandante, riuscito a fuggire alla morte, denuncia i ‘criminali’ alle autorità religiose del paese vicino; queste ultime, catturati i componenti della banda, dopo un processo su cui le campane della chiesa oppongono una censura sonora, li condannano ad essere legati nel deserto da cui erano stati sottratti, lasciandoli così alle fauci dei cani selvatici. Ad uno ad uno i compagni del protagonista si pentono dei loro gesti abbracciando il crocefisso: azione che il protagonista si rifiuta di compiere, ripetendo anzi l’unica frase che risuona in tutto il brano, una frase di netto rifiuto dell’autorità: «Ho ucciso mio padre, ho mangiato carne umana e tremo di gioia». Egli è così condannato ad essere divorato da quella società che aveva cercato di divorare, unico testimone della sua atroce fine è il contadino Marchionne che osserva silenzioso la scena mentre tutti gli abitanti del villaggio si allontanano.
L’altro episodio, quello da cui è tratto il titolo del film, era stato inizialmente ideato e scritto come una tragedia in versi. Le vicende di questa parte si alternano a quelle del deserto dell’Etna con una tecnica che il regista utilizzerà anche in seguito. Siamo nella Germania post-nazista del 1967, dove in una villa «italianizzante e neoclassica» Julian, il giovane figlio dell’industriale di cultura umanista Klotz, antico esponente della ricca borghesia di Godesberg, nei pressi di Colonia, si trastulla nella nullafacenza portando avanti, senza alcun reale interesse, una relazione con Ida, ragazza di estrazione simile alla sua ma schierata su posizioni ingenuamente rivoluzionarie. Al silenzio dell’altro brano si oppongono i dialoghi, densi di allitterazioni ed espressioni onomatopeiche, che riproducono il vuoto ciarlare della borghesia. Un’opposizione che pero è solo formale, in quanto tra i due episodi esiste una continuità di significato che consiste nella aberrante devianza che Julian segretamente coltiva.
Egli in perfetta solitudine, sottraendosi costantemente sia alle lusinghe del padre, che a quelle della fidanzata Ida, si reca quotidianamente nel vicino porcile, dove mette in pratica il suo folle sentimento verso quegli animali che rappresentano il mondo fagocitante da cui lui – come il protagonista dell’episodio raccontato in precedenza – si autoesclude a causa della sua radicale diversità. La metafora dei maiali è mutuata dalle vignette satiriche che riproducevano spesso i borghesi come immensi maiali capaci di divorare ogni cosa, oltre che dalle pièces di Brecht, ed è singolare che il regista riconosca come gli animali siano in fondo la parte più ‘innocente’ del film: essi sono una forza della natura, così come una forza della natura è il vorace concorrente di Mister Klotz, il signor Herdhitze.
Parallelamente alla storia di Julian, si svolge la vicenda di suo padre, ossessionato dalla rivalità di un concorrente venuto su dal nulla: Herdhitze appunto. Il suo desiderio di annientare il nemico lo porta ad ingaggiare un investigatore privato che scopre che il suo temuto avversario è in realtà un vecchio criminale nazista che, sottopostosi ad una costosissima plastica facciale in Italia (il regista allude alla continuità tra istituzioni repubblicane e fascismo), è riuscito a sfruttare la sua cultura ‘tecnica’, oltre che l’oro sottratto agli ebrei, per costruire un impero che minaccia seriamente quello di Klotz. Il disegno del padre di Julian di portare alla luce il tetro passato del rivale è però impedito dall’iniziativa di Herdhitze che, a sua volta, ha ingaggiato un investigatore che lo ha informato dell’abitudine di Julian di accoppiarsi con i maiali. In breve i due decidono di passare dallo scontro alla fusione, cementando la vecchia cultura umanista, di cui Klozt è depositario, con quella tutta tecnologica di Herdhitze: iniziativa che unisce definitivamente il passato nazista con il nuovo potere che avanza.
Nel frattempo Julian, per nulla rattristato da quello che gli capita attorno, viene abbandonato da Ida, così come i compagni avevano abbandonato, abiurando di fronte alla croce, il ‘santo del deserto’. Con un lungo monologo, in cui il regista mette molto di sé, Julian confessa la sua diversità ad Ida, tacendo in realtà sui contenuti della stessa e lasciandola andare per la sua strada. Durante i festeggiamenti per la fusione egli si avvia come al solito verso il porcile dove questa volta però è sbranato e divorato dai maiali. Ad assistere alla scena ancora una volta il contadino Marchionne, vero trait d’union fra i due episodi: egli, accompagnato da un corteo di contadini, si reca a riferire l’accaduto all’uomo forte della neonata società, il signor Herdhitze, il quale, sinceratosi che non sia rimasto nulla del povero Julian, conclude la vicenda ed il film con un «Ssst! Non dite niente a nessuno!».
È proprio il silenzio a cui sono condannati a determinare la sconfitta dei due personaggi del film: la loro totale disarmonia con ciò che li circonda si traduce in un gesto di rifiuto totale e di dissolvimento nell’alterità che preclude loro ogni possibilità di azione sociale e di costruzione di un mondo alternativo. La via mistica che Pasolini oppone al materialismo moderno è una provocazione indubbiamente forte, tanto da aver spesso indotto i numerosi critici del regista a tacciare la sua opera di irrazionalismo e di misticismo reazionario: ma, tutto sommato, si può affermare che essa è artisticamente funzionale alla dimostrazione della sopravvivenza di un elemento irriducibile alla limitata ragione borghese.
L’apocalisse descritta da Pasolini (che a proposito di Porcile parlò di «anarchismo apocalittico») coinvolge non solo la civiltà agraria, che è stata soppiantata da quella industriale sopravvivendo solo in «sacche storiche» ridotte al silenzio come il contadino Marchionne, ma anche la civiltà borghese-industriale. In proposito, è interessante ricordare come il regista avesse girato una scena, poi tagliata, in cui a Julian, poco prima di essere divorato, appariva Spinoza: questi avrebbe spiegato al ragazzo che gli era di fronte colui che con la sua opera aveva iniziato quel processo che, nel corso dei secoli, avrebbe portato alla progressiva sostituzione dell’idea di Dio con quella di Ragione, legittimando così il mondo borghese di Klotz. L’uomo aveva tutto il diritto di dimostrare la non esistenza della Divinità, ma non per questo doveva poi sostituirla con un’altra ancora più totalitaria: ancora una volta dunque sotto accusa è l’eccessivo razionalismo della cultura moderna.
Per Pasolini il ruolo della ragione è quello di istituire e guidare un percorso in cui le diverse componenti che costituiscono l’individuo arrivino ad armonizzarsi tra loro; e, analogamente, nella modernità è possibile percepire la possibilità di far finalmente coesistere le differenze che arricchiscono il genere umano, neutralizzando il rullo compressore che le riduce al silenzio. Appare dunque chiaro come il suo messaggio si articoli su diverse scale interpretative: antropologia religiosa, psicoanalisi ed impegno politico si intersecano fino a formare un discorso complesso ed unitario che richiederà all’autore un miglior approfondimento di temi e problemi al centro delle discipline a cui non a caso inizia ora ad accostarsi con maggior frequenza. Su questi argomenti egli continuerà ad insistere a lungo, tanto che essi diverranno il nucleo concettuale dominante della sua attività giornalistica, quella che sfocerà, negli anni Settanta, nella celebre «stagione corsara» con scritti appassionati ed infuocati che possono essere considerati come una sorta di contrappunto in prosa al suo «cinema di poesia». Cinema a cui ora però, rapidamente, bisogna tornare con l’analisi di due opere che, come si noterà, risultano talmente legate tra loro da renderne quasi impossibile uno studio disgiunto.
Fonte: Biblink Editori
Pubblicato anche in:
Collaborano alla creazione di queste pagine corsare:
Mario Pozzi
Maria Vittoria Chiarelli
Giovanna Caterina Salice
Simona Zecchi