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Biografia, lavori in corso - a breve anche il 1974 e il 1975

lunedì 8 febbraio 2021

Pasolini - L'usignolo della Chiesa Cattolica

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro


  


L'usignolo della chiesa cattolica - 1958


L'usignolo della Chiesa Cattolica 
(1943, 10 poesie)


Il pianto della rosa 
(1946, 16 poesie) 
(suddiviso a sua volta in 2 parti)


Lingua 
(1947, 5 poesie)


Paolo e Baruch 
(1948-49, 4 poesie)


L'Italia 
(1949, poemetto in 6 capitoli)


Tragiques 
(1949, 4 poesie)


La scoperta di Marx I-IX 
(1948-49, poemetto)




Con il titolo L'usignolo della Chiesa Cattolica Pasolini raccolse e pubblicò nel 1958, presso l'editore Longanesi, un gruppo di poesie, in lingua italiana, datate 1943-1949. 

L'usignolo della Chiesa Cattolica

Sotto il titolo L'usignolo della Chiesa Cattolica Pasolini raccolse e pubblico' nel 1958, presso l'editore Longanesi, un gruppo di poesie, in lingua italiana, datate 1943-1949. Il nucleo centrale della raccolta e' rappresentato dal magma di contraddizioni che si sviscera nell'anima di Pasolini.
L'origine delle liriche della raccolta, quindi, va ricercato nella scoperta, da parte del poeta, del dissidio individuale e interiore che lo travaglia, un dissidio non ancora interrotto dalla delusione cocente di una societa' che manifesta la sua falsita', il suo vuoto e la sua mancanza di coscienza. Questo dissidio, nella pagina lirica, si cela nella parola pura, dolcemente poetica: in una parola che cerca un estremo termine di paragone e una straziato parallelo nelle forme e nelle manifestazioni del mondo naturale. Le tensioni dell'anima si snodano cosi' in un effluvio di contemplati odori che portano il poeta a un'immedesimazione, non solo d'immagini, ma concreta, con i protagonisti del mondo agreste friulano.
La figura dell'usignolo che appare nel titolo e' chiaramente emblematica ed e' anche la chiave di lettura dell'intero libro. Il piccolo uccello infatti e', per Pasolini, il vivente simbolo dei campi, della rugiada e delle colme sere friulane, ed e' anche, al contempo, l'alter ego dello scrittore, la sua immagine immedesimata. Di fatto, nell'ottavo dialogo della poesia L'usignolo, la giovinetta gli si rivolge dicendogli: "Povero uccelletto, dall'albero, tu fai cantare il cielo. Ma che pena udirti fischiettare come un fanciullino!". Queste poche righe racchiudono in se' il senso che regge l'intera raccolta: la contraddizione esistente tra il volgere lo sguardo questuante all'infinito, nel gesto di "far cantare il cielo" e il ricadere entro il limite di un "fischiettare" tutto umano, quasi rabbrividito dentro "una pena" incolmabile.
Nella raccolta, il dissidio che si crea nell'uomo tra la tensione celeste e la condizione umana e' raffigurato da Pasolini in una serie di dialoghi che cantano lo splendore della terra e della natura, quasi che questi elementi, nella potenza di verita', avessero il privilegio della parola. Cosi' il poeta concede la voce e l'atto del "parlante" anche alle albe e ai cardellini, alle sere e alle primule: essi, solo essi, sono i veri compagni della solitudine dell'uomo.
Ma Pasolini in questi versi ricerca anche se stesso attraverso una tensione mitica che lo faccia pervenire alla cognizione della trascendenza. Si spiega cosi' l'altro tema dominante di L'usignolo della Chiesa Cattolica, ovvero l'inesausta preghiera dell'uomo Pasolini "all'immoto Dio". Il poeta, infatti, si rivolge a Dio chiedendogli di manifestarsi e offrendogli il dolore che gli viene dal continuo dissidio tra "carne e cielo" che lo travaglia, insomma, anela alla protezione del Padre, affinche' si plachino in lui il senso del peccato e il rovello per la castita' che ha violato con i suoi desideri sessuali: chiede che "L'Occhio di Dio" ritorni su di lui, nonostante "l'amore sacrilego" che lo pervade.
La figura del Cristo negli istinti ultimi della Passione diviene termine di confronto di questo nuovo centro tematico. Nel Cristo crocefisso Pasolini ricerca la parte buona di se', il suo esasperato bisogno di essere figlio di fronte all'occhio vigile del Padre. Si rivolge, infatti, a Cristo dicendo:
 
Cristo alla pace
del Tuo supplizio
nuda rugiada
era il Tuo sangue.
Sereno poeta,
fratello ferito,
Tu ci vedevi
coi nostri corpi
splendidi in nidi
di eternita'!
Poi siamo morti.
E a che ci avrebbero
brillato i pugni
e i neri chiodi,
se il Tuo perdono
non ci guardava
da un giorno eterno
di compassione?[*]

Per il poeta la morte ha origine nella lotta coi sensi e col sesso, ma l'infinito amore divino, tramite il perdono, riporta l'uomo nella sfera dell'"immoto Dio". Secondo Pasolini, anzi, sarebbe vana la passione di Crito se il Divino non dedicasse agli uomini e ai loro errori "un giorno eterno di compasssione".
La raccolta si compone di sette parti. La prima, datata 1943, porta il titolo L'usignolo della Chiesa Cattolica e raccoglie composizioni poetiche di intensa religiosita' in cui vengono liricamente rivissute le immagini di vita di Cristo e le preghiere della tradizione cattolica: Pasolini ricostruisce l'evento della Passione, il dialogo dell'Annunciazione tra l'Angelo e Maria e le Litanie della Madonna.
Particolarmente intese risultano le otto parti del poemetto L'usignolo, in cui si alternano struttura dialogica e prosa poetica. In prosa poetica, appunto, e' redatta l'ottava parte del poemetto, dove per la prima volta l'autore accenna a uno dei temi fondamentali del suo pensiero, non solo poetico, ma anche saggistico: la religione cattolica. Il poeta individua una netta separazione tra la figura di Cristo e la Chiesa come istituzione: la Chiesa dovrebbe essere esempio, memoria e mimesi di Cristo, ma in essa "di Cristo e' rimasto solo il respiro", perche' "la Chiesa ferita si e' aperta le piaghe con le Sue mani e un lago di sangue le e' caduto ai piedi. Ed essa prima di morire ha fatto in quel lago uno specchio, e un lampo ha illuminato la Sua immagine dentro il sangue".
La seconda parte della raccolta che, datata 1946, porta il titolo Il pianto della rosa, sviluppa tematiche interiori e vede al centro dell'evocazione lirica il dissidio del poeta. La scoperta del sesso e la coscienza del peccato divengono l'occasione per evocare il sorgere di un senso di malinconia nel felice mondo friulano. I ragazzi corrono "umili e violenti" e il poeta che assiste alle loro corse si sente intriso della loro felicita', ma e' escluso dalla loro naturalita'. Un desiderio impazzito lo divora: quello di bruciare l'innocente verginita'. Scrive, infatti:

"Ma l'odiata purezza / e i peccati sognati / erano il fresco sguardo / dei miei occhi bruciati". Dio si allontana, e' un puro vuoto "che non da' vita".

A Dio, pero', Pasolini ritorna sempre con nostalgia: e se dapprima afferma di non conoscerlo e di non amarlo, poi lo evoca pregandolo di invaderlo col fiato che rigenera alla vita:

"O immoto Dio che odio / fa che emani ancora / vita dalla mia vita / non m'importa piu' il modo".

In Lingua, che costituisce la terza parte del libro e porta la data del 1947, si acutizza, in maniera drammatica l'aut-aut che il poeta pone a Dio, tanto che Pasolini chiama gli angeli a far da intermediari alla sua inesausta preghiera:

 "Andate angeli, e dite al Signore / che al fulmine della sua redenzione / nascondo, ahime', il bersaglio del mio cuore".

La quarta parte, Paolo e Baruch, datate 1948-49 e formata da quattro liriche, si presenta come il nucleo piu' maturo della raccolta. Nella lirica Memorie il poeta ripercorre, attraverso la felicita' del ricordo, la sua infanzia solare e si sofferma sul perduto gioco degli amori di cui ora e' preda:

"Mi innamoro dei corpi / che hanno la mia carne / di figlio - col grembo / che brucia di pudore - / i corpi misteriosi / d'una bellezza pura / vergine e onesta....".

Lettera ai Contini, poi, e' una particolarissima esegesi degli scritti di San Paolo, che divengono anch'essi parte integrante del testo poetico: sono passi brevi, scelti dal poeta, e racchiusi in parentesi tonde, e a ogni passo corrisponde un'interpretazione personale, quasi una confessione straziata, concepita come una risposta alle sollecitazioni poste alla parola di San Paolo. Sullo stesso schema si fonda la lirica Baruch che, con Lettera ai Contini e con la seguente Crocifissione, forma un trittico di riflessione morale tesa al disvelamento della parola divina. Le domande che in essa il poeta si pone, sconvolgono nella loro naturalezza. "Perche' Cristo fu ESPOSTO IN CROCE?". In che cosa consiste la dedizione dell'uomo al Crocefisso? Che senso ha? E la risposta non e' semplice ne' univoca:

 Bisogna esporsi (questo insegna
il povero Cristo inchiodato?),
la chiarezza del cuore e' degna
di ogni scherno, di ogni peccato
di ogni piu' nuda passione...
(questo vuol dire il Crocefisso?
sacrificare ogni giorno il dono
rinunciare ogni giorno al perdono
sporgersi ingenui sull'abisso).[*]

La quinta parte della raccolta, L'Italia, scritta nel 1949, e' un poemetto che segue il primo apparire di una struttura che fara' capo a Le ceneri di Gramsci. In esso Pasolini non giunge ancora alle grandi tematiche civili, ma gia' si premura di costruire una sorta di "sogno" in cui la penisola giace immersa. La fonte del raggio inebriante che benedice L'Italia, da Trieste all'Appennino, da Bellagio alle rive del Po, e' Casarsa. Il paesaggio italiano diviene cosi' oggetto di adorazione e la parola si fa strumento di una ebbrezza che trova il culmine del suo mistico e sensuale fervore quando il poeta giunge al centro del luogo sacro, il luogo che genera l'idea stessa della bellezza. Quel luogo e' Casarsa e il Pasolini assiste "al miracolo del paese notturno / che la prima luna del creato inargenta".
La sesta parte e' composta dalle poesie di Tragiques, redatte tra il 1948 e il 1949 e percorse dall'influsso della poesia di Rimbaud. La muta supplica del "timido ribelle" in cui il poeta si riconosce diviene grido soffocato e disperato: appunto, "tragico". "Dio, mutami!", implora Pasolini e poi inveisce, s'accanisce contro il muro che lo separa da Dio, tanto d'arrivare a supplicare:

"E allora, o Genitore, uccidimi....".

Un altro poemetto, datato 1949 e intitolato La scoperta di Marx, chiude il volume. In esso Pasolini ripercorre, colmo di maturita' meditativa, il rapporto col mondo in cui si sente "figlio cieco e innamorato". Ogni dissidio del poeta sembra stemperarsi entro una naturale accettazione. La folgore dei sensi non e' piu' una colpa da subire. Rivolgendosi alla madre, infatti, afferma:

"M'hai espresso / nel mistero del sesso / a un logico Creato".

In tutta la raccolta il mondo evocato da Pasolini e' ancora quello friulano. Cio' che muta, rispetto alle poesie contemporanee di La meglio gioventu', redatte in dialetto, e' l'atteggiamento del poeta di fronte alla materia espressiva. Il mondo friulano ora rivive in forza di moti interiori del poeta e risulta sviluppato in funzione di una vicenda esistenziale. In La meglio gioventu' il mondo contadino e agreste rappresentava il centro ideale sopra il quale intessere lo sviluppo della parola, e attraverso quel mondo la poesia assumeva la funzione di una esaltazione epica delle gesta dell'uomo. In L'usignolo della Chiesa Cattolica protagonista della raccolta e' lo stesso poeta coi suoi turbamenti esistenziali, mentre il mondo contadino si staglia sullo sfondo. Il confronto tra le due raccolte poetiche mette in rilievo il passaggio da un "esterno contemplativo" in cui il paesaggio geografico e umano sfolgora in tutta la sua bellezza e naturalezza ad un "interno meditativo" che L'usignolo della Chiesa Cattolica assume come parte celebrante e parlante di se'.
Ora pasolini scruta la propria solitudine all'interno di un mondo che e' memoria del grembo materno e sua raffigurazione, non solo concettuale. Di quel mondo il poeta inscena l'istanza cattolica che piu' stride con la cognizione della propria diversita', ma che, comunque, accetta. Il sentimento religioso, in L'usignolo della Chiesa Cattolica, si scontra insomma con la felicita' panica degli istinti amorosi: sacro e profano cercano di conciliare la pace dell'essere, al fine di condurlo a una sorta di verita', non solo umana ma anche trascendente.
La meglio gioventu' e' il libro della purezza e della felicita' completa e totale; L'usignolo della Chiesa Cattolica e' un libro d'ombre, corroso dal dolore e dalla cognizione del peccato: una patina di malinconia offusca la solare felicita' del poeta, fino a farlo precipitare in una zona buia, entro la quale al vita rivela tutta la sua tragicita'.

Fulvio Panzeri, Guida alla lettura di Pasolini - Mondadori 1988
[*] Pier Paolo Pasolini, L'usignolo della Chiesa Cattolica, Longanesi 1958





Curatore, Bruno Esposito

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La religone del mio tempo - P.P.Pasolini - Il desiderio di ricchezza del sottoproletariato romano

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro


Vorrei aggiungere però una cosa. Nulla muore mai in una vita. Tutto sopravvive. Noi, insieme, viviamo e sopravviviamo. Così anche ogni cultura è sempre intessuta di sopravvivenze. Nel caso che stiamo ora esaminando, ciò che sopravvive sono quei famosi duemila anni di imitatio Christi quell'irrazionalismo religioso. Non hanno più senso, appartengono a un altro mondo, negato, rifiutato, superato: eppure sopravvivono. Sono elementi storicamente morti ma umanamente vivi che ci compongono. Mi sembra che sia ingenuo, superficiale, fazioso negarne o ignorarne l'esistenza. Io, per me, sono anticlericale (non ho mica paura a dirlo!), ma so che in me ci sono duemila anni di cristianesimo: io coi miei avi ho costruito le chiese romaniche, e poi le chiese gotiche, e poi le chiese barocche: esse sono mio patrimonio, nel contenuto e nello stile. Sarei folle se negassi tale forza potente che è in me: se lasciassi ai preti il monopolio del Bene.

Vie nuove n. 47 a. XVI, 30 novembre 1961


Il desiderio di ricchezza del sottoproletariato romano

Li osservo, questi uomini, educati
ad altra vita che la mia: frutti
d'una storia tanto diversa, e ritrovati,
quasi fratelli, qui, nell'ultima forma
storica di Roma. Li osservo: in tutti
c'è come l'aria d'un buttero che dorma
armato di coltello: nei loro succhi
vitali, è disteso un tenebrore intenso,
la papale itterizia del Belli,
non porpora, ma spento peperino,
bilioso cotto. La biancheria, sotto,
fine e sporca; nell'occhio, l'ironia
che trapela il suo umido, rosso,
indecente bruciore. La sera li espone
quasi in romitori, in riserve
fatte di vicoli, muretti, androni
e finestrelle perse nel silenzio.
È certo la prima delle loro passioni
il desiderio di ricchezza: sordido
come le loro membra non lavate,
nascosto, e insieme scoperto,
privo di ogni pudore: come senza pudore
è il rapace che svolazza pregustando
chiotto il boccone, o il lupo, o il ragno;
essi bramano i soldi come zingari,
mercenari, puttane: si lagnano
se non ce n'hanno, usano lusinghe
abbiette per ottenerli, si gloriano
plautinamente se ne hanno le saccocce
piene.
Se lavorano - lavoro di mafiosi
macellari,
ferini lucidatori, invertiti commessi,
tranvieri incarogniti, tisici ambulanti,
manovali buoni come cani - avviene
che abbiano ugualmente un'aria di ladri:
troppa avita furberia in quelle vene...


Sono usciti dal ventre delle loro madri
a ritrovarsi in marciapiedi o in prati
preistorici, e iscritti in un'anagrafe
che da ogni storia li vuole ignorati...
Il loro desiderio di ricchezza
è, così, banditesco, aristocratico.
Simile al mio. Ognuno pensa a sé,
a vincere l'angosciosa scommessa,
a dirsi: "È fatta," con un ghigno di re...
La nostra speranza è ugualmente
ossessa:
estetizzante, in me, in essi anarchica.
Al raffinato e al sottoproletariato spetta
la stessa ordinazione gerarchica
dei sentimenti: entrambi fuori dalla
storia,
in un mondo che non ha altri varchi
che verso il sesso e il cuore,
altra profondità che nei sensi.
In cui la gioia è gioia, il dolore dolore.

*****
«Prima gli uomini e le donne delle borgate non sentivano nessun complesso d’inferiorità per il fatto di non appartenere alla classe cosiddetta privilegiata. Sentivano l’ingiustizia della povertà, ma non avevano invidia del ricco, dell’agiato. Lo consideravano, anzi, quasi un essere inferiore, incapace d’aderire alla loro filosofia. Oggi, invece, sentono questo complesso d’inferiorità. Se osserva i giovani popolani vedrà che non cercano più di imporsi per quello che essi sono, ma cercano invece di mimetizzarsi nel modello dello studente, addirittura si mettono gli occhiali, anche se non ne hanno bisogno, per avere un’aria da “classe superiore”».

(1973, intervista rilasciata per il Messaggero a Luigi Sommaruga)


Presso Biblioteca Nazionale Centrale - Roma.


La religione del mio tempo 

di Pier Paolo Pasolini 



...È passato il tempo delle speranze!

[…] No, la storia

che sarà non è come quella che è stata...

La religione del mio tempo è una raccolta poetica di Pier Paolo Pasolini che prende il titolo da un sonetto di Gioachino Belli (La riliggione der nostro tempo), uscita presso la Garzanti di Milano nel 1961 con una dedica all'amica Elsa Morante.


Presso Biblioteca Nazionale Centrale - Roma.



Scritte tra il 1955 e il luglio del 1960 e pubblicate per la prima volta nel 1961( Garzandi ), le poesie di La religione del mio tempo raccontano in versi, anche in modo duro, le contraddizioni di una  società che muta inconsapevolmente. In questi versi, Pasolini con grande capacità di analisi, sintetizza ideologicamente tutta la sua passione civile: 
"I fascisti rimproverano per esempio a una mia poesia (epigramma intitolato Alla mia nazione) di essere offensiva alla patria, fino a sfiorare il reato di vilipendio. Salvo poi a perdonarmi - nei casi migliori - perché sono un poeta, cioè un matto. Come Pound: che é stato fascista, traditore della patria, ma lo si perdona in nome della poesia-pazzia... Ecco cosa succede a fare discriminazione tra ideologia e poesia: leggendo quel mio epigramma solo ideologicamente i fascisti ne desumono il solo significato letterale, logico, che si configura come un insulto alla patria. Ma poi, rileggendolo esteticamente, ne desumono un significato puramente irrazionale, cioè insignificante. In realtà il momento logico e il momento poetico, in quel mio epigramma coesistono, intimamente e indissolubilmente fusi. La lettera dice, sì: la mia patria è indegna di stima e merita di sprofondare nel suo mare: ma il vero significato è che, a essere indegna di stima, a meritare di sprofondare nel mare, è la borghesia reazionaria della mia patria, cioè la mia patria intesa come sede di una classe dominante benpensante, ipocrita e disumana. [...] Per esempio, un epigramma intitolato Alla bandiera rossa. In esso delineo una tragica situazione di regresso nel sud (come si sa, coincidente con il progresso economico, almeno apparente, del nord) e concludo augurandomi che la bandiera rossa ridiventi un povero straccio sventolato dal più povero dei contadini meridionali. Forse per questo Salinari mi chiama, senza mezzi termini, senza appello, 'populista'".
(Vie nuove del 9 novembre 1961



Autore/i:  Pier Paolo Pasolini
Tipologia:  Raccolta di poesie
Editore:  Garzanti
Origine:  Milano
Anno:  1961 (20 maggio)



I. LA RICCHEZZA (1955-59)

1. GLI AFFRESCHI DI PIERO A AREZZO – VIAGGIO NEL BRUSIO VITALE – IL VENTRE CAMPESTRE DELL’ITALIA – NOSTALGIA DELLA VITA
2. TRE OSSESSIONI: TESTIMONIARE, AMARE, GUADAGNARE – RICORDI DI MISERIA – LA RICCHEZZA DEL SAPERE – IL PRIVILEGIO DEL PENSARE
3. RIAPPARIZIONE POETICA DI ROMA
4. SERATA ROMANA – VERSO LE TERME DI CARACALLA – SESSO, CONSOLAZIONE DELLA MISERIA – IL MIO DESIDERIO DI RICCHEZZA – TRIONFO DELLA NOTTE
5. CONTINUAZIONE DELLA SERATA A SAN MICHELE – IL DESIDERIO DI RICCHEZZA DEL SOTTOPROLETARIATO ROMANO – PROIEZIONE AL “NUOVO” DI “ROMA CITTA’APERTA”
6. UN’EDUCAZIONE SENTIMENTALE  - LA RESISTENZA E LA SUA LUCE – LACRIME
A UN RAGAZZO (1956-57)
LA RELIGIONE DEL MIO TEMPO (1957-59) – APPENDICE ALLA “RELIGIONE”: UNA LUCE (1959)

II. UMILIATO E OFFESO  Epigrammi (1958)
  
AI CRITICI CATTOLICI / A GEROLA / AD ALCUNI RADICALI / AL PRINCIPE / A ME / A J.D./ A UN FIGLIO NON NATO / A BARBERI SQUAROTTI / A CADORESI / AI REDATTORI DI “OFFICINA” / ALLA FRANCIA / A UN PAPA

NUOVI EPIGRAMMI (1958-59)

A KRUSCIOV / ALLA BANDIERA ROSSA / AI LETTERATI CONTEMPORANEI / A BERTOLUCCI / A COSTANZO / A TITTA ROSA / A LUZI / A CHIAROMONTE / ALLE CAMPANE DI ORVIETO / ANCORA A GEROLA / A G.L. RONDI / AL PRINCIPE BARBERINI / AI NOBILI DEL CIRCOLO DELLA CACCIA / A BOMPIANI / ALLA MIA NAZIONE / A UNO SPIRITO

IN MORTE DEL REALISMO (1960)

III. POESIE INCIVILI  (aprile 1960)

LA REAZIONE STILISTICA
AL SOLE
FRAMMENTO ALLA MORTE
LA RABBIA
IL GLICINE


B.Esposito




Curatore, Bruno Esposito

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Le ceneri di Gramsci, di Pier Paolo Pasolini.

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro



Le ceneri di Gramsci,

di Pier Paolo Pasolini.



  « Mi chiederai tu, morto disadorno,

d'abbandonare questa disperata
passione di essere nel mondo? »


Le ceneri di Gramsci è un libro di poesie nel quale Pasolini raccoglie in un unico volume 11 poemetti che lo stesso poeta aveva scritto e pubblicato in varie riviste tra il 1951 e il 1956 revisionati e pubblicati nel 1957 nelle edizioni Garzanti.

La poesia originariamente uscì sulla rivista “Nuovi Argomenti” del novembre-febbraio del ‘55’, ma la composizione risale al 1954. La poesia è divisa in sei parti.
Il poeta si trova davanti alla tomba di Antonio Gramsci, presso il cimitero degli inglesi a Roma, e dialoga con le sue spoglie, descrivendo un maggio autunnale, che sembra rappresentare “il grigiore del mondo, la fine del decennio in cui ci appare | tra le macerie finito il profondo | e ingenuo sforzo di rifare la vita”
Gli undici poemetti delle "Ceneri di Gramsci" vennero raccolti in volume per la prima volta nel 1957, in un momento particolarmente delicato per la cultura di sinistra, a un anno di distanza dalla condanna di Stalin al XX Congresso del Partito Comunista Sovietico e dalla drammatica invasione dell'Ungheria. Ebbero un successo di vendite insolito per un libro di poesia e provocarono accese discussioni tra i critici. Con la prefazione di Giuseppe Leonelli:

«la divaricazione tra io e mondo, tra l’intellettuale borghese raffinato e il popolo, si risolve e si sublima sul piano estetico. Tra l’immagine della "vita proletaria" elaborata nella mente, rappresentata dalla figura di Gramsci, e l’altra depositata nelle "buie viscere", si crea una differenza di potenziale che produce un incessante passaggio di energia poetica».

Il volume:

1) L’Appennino; 
2) Il canto popolare; 
3) Picasso; 
4) Comizio; 
5) L’umile Italia; 
6) Quadri friulani; 
7) Le ceneri di Gramsci; 
8) Recit; 
9) Il pianto della scavatrice; 
10) Una polemica in versi; 
11) La Terra di lavoro.




Le ceneri di Gramsci


Non è di maggio questa impura aria
che il buio giardino straniero
fa ancora più buio, o l'abbaglia
 
con cieche schiarite... questo cielo
di bave sopra gli attici giallini
che in semicerchi immensi fanno velo
 
alle curve del Tevere, ai turchini
monti del Lazio... Spande una mortale
pace, disamorata come i nostri destini,
 
tra le vecchie muraglie l'autunnale
maggio. In esso c'è il grigiore del mondo,
la fine del decennio in cui ci appare
 
tra le macerie finito il profondo
e ingenuo sforzo di rifare la vita;
il silenzio, fradicio e infecondo...
 
Tu giovane, in quel maggio in cui l'errore
era ancora vita, in quel maggio italiano
che alla vita aggiungeva almeno ardore,
 
quanto meno sventato e impuramente
sano
dei nostri padri - non padre, ma umile
fratello - già con la tua magra mano
 
delineavi l'ideale che illumina
 
(ma non per noi: tu morto, e noi
morti ugualmente, con te, nell'umido
 
giardino) questo silenzio. Non puoi,
lo vedi?, che riposare in questo sito
estraneo, ancora confinato. Noia
 
patrizia ti è intorno. E, sbiadito,
solo ti giunge qualche colpo d'incudine
dalle officine di Testaccio, sopito
 
nel vespro: tra misere tettoie, nudi
mucchi di latta, ferrivecchi, dove
cantando vizioso un garzone già chiude
 
la sua giornata, mentre intorno spiove.
II
 
Tra i due mondi, la tregua, in cui non
siamo.
Scelte, dedizioni... altro suono non hanno
ormai che questo del giardino gramo
 
e nobile, in cui caparbio l'inganno
che attutiva la vita resta nella morte.
Nei cerchi dei sarcofaghi non fanno
 
che mostrare la superstite sorte
di gente laica le laiche iscrizioni
in queste grigie pietre, corte
 
e imponenti. Ancora di passioni
sfrenate senza scandalo son arse
le ossa dei miliardari di nazioni
 
più grandi; ronzano, quasi mai
scomparse,
le ironie dei principi, dei pederasti,
i cui corpi sono nell'urne sparse
 
inceneriti e non ancora casti.
Qui il silenzio della morte è fede
di un civile silenzio di uomini rimasti
 
uomini, di un tedio che nel tedio
del Parco, discreto muta: e la città
che, indifferente, lo confina in mezzo
 
a tuguri e a chiese, empia nella pietà,
vi perde il suo splendore. La sua terra
grassa di ortiche e di legumi dà
 
questi magri cipressi, questa nera
umidità che chiazza i muri intorno
a smotti ghirigori di bosso, che la sera
 
rasserenando spegne in disadorni
sentori d'alga... quest'erbetta stenta
e inodora, dove violetta si sprofonda
 
l'atmosfera, con un brivido di menta,
o fieno marcio, e quieta vi prelude
con diurna malinconia, la spenta
 
trepidazione della notte. Rude
di clima, dolcissimo di storia, è
tra questi muri il suolo in cui trasuda
 
altro suolo; questo umido che
ricorda altro umido; e risuonano
- familiari da latitudini e
 
orizzonti dove inglesi selve coronano
laghi spersi nel cielo, tra praterie
verdi come fosforici biliardi o come
 
smeraldi: "And O ye Fountains..." - le pie
invocazioni...
III
 
Uno straccetto rosso, come quello
arrotolato al collo ai partigiani
e, presso l'urna, sul terreno cereo,
 
diversamente rossi, due gerani.
Lì tu stai, bandito e con dura eleganza
non cattolica, elencato tra estranei
 
morti: Le ceneri di Gramsci... Tra
speranza
e vecchia sfiducia, ti accosto, capitato
per caso in questa magra serra, innanzi
 
alla tua tomba, al tuo spirito restato
quaggiù tra questi liberi. (O è qualcosa
di diverso, forse, di più estasiato
 
e anche di più umile, ebbra simbiosi
d'adolescente di sesso con morte...)
E, da questo paese in cui non ebbe posa
 
la tua tensione, sento quale torto
- qui nella quiete delle tombe - e insieme
quale ragione - nell'inquieta sorte
 
nostra - tu avessi stilando le supreme
pagine nei giorni del tuo assassinio.
Ecco qui ad attestare il seme
 
non ancora disperso dell'antico dominio,
questi morti attaccati a un possesso
che affonda nei secoli il suo abominio
 
e la sua grandezza: e insieme, ossesso,
quel vibrare d'incudini, in sordina,
soffocato e accorante - dal dimesso
 
rione - ad attestarne la fine.
Ed ecco qui me stesso... povero, vestito
dei panni che i poveri adocchiano in
vetrine
 
dal rozzo splendore, e che ha smarrito
la sporcizia delle più sperdute strade,
delle panche dei tram, da cui stranito
 
è il mio giorno: mentre sempre più rade
ho di queste vacanze, nel tormento
del mantenermi in vita; e se mi accade
 
di amare il mondo non è che per violento
e ingenuo amore sensuale
così come, confuso adolescente, un tempo
 
l'odiai, se in esso mi feriva il male
borghese di me borghese: e ora, scisso
- con te - il mondo, oggetto non appare
 
di rancore e quasi di mistico
disprezzo, la parte che ne ha il potere?
Eppure senza il tuo rigore, sussisto
 
perché non scelgo. Vivo nel non volere
del tramontato dopoguerra: amando
il mondo che odio - nella sua miseria
 
sprezzante e perso - per un oscuro
scandalo
della coscienza...
  IV
 
Lo scandalo del contraddirmi,
dell'essere
con te e contro te; con te nel core,
in luce, contro te nelle buie viscere;
 
del mio paterno stato traditore
- nel pensiero, in un'ombra di azione -
mi so ad esso attaccato nel calore
 
degli istinti, dell'estetica passione;
attratto da una vita proletaria
a te anteriore, è per me religione
 
la sua allegria, non la millenaria
sua lotta: la sua natura, non la sua
coscienza: è la forza originaria
 
dell'uomo, che nell'atto s'è perduta,
a darle l'ebbrezza della nostalgia,
una luce poetica: ed altro più
 
io non so dirne, che non sia
giusto ma non sincero, astratto
amore, non accorante simpatia...
 
Come i poveri povero, mi attacco
come loro a umilianti speranze,
come loro per vivere mi batto
 
ogni giorno. Ma nella desolante
mia condizione di diseredato,
io possiedo: ed è il più esaltante
 
dei possessi borghesi, lo stato
più assoluto. Ma come io possiedo la
storia,
essa mi possiede; ne sono illuminato:
 
ma a che serve la luce?
  V
 
Non dico l'individuo, il fenomeno
dell'ardore sensuale e sentimentale...
altri vizi esso ha, altro è il nome
 
e la fatalità del suo peccare...
Ma in esso impastati quali comuni,
prenatali vizi, e quale
 
oggettivo peccato! Non sono immuni
gli interni e esterni atti, che lo fanno
incarnato alla vita, da nessuna
 
delle religioni che nella vita stanno,
ipoteca di morte, istituite
a ingannare la luce, a dar luce
all'inganno.
Destinate a esser seppellite
le sue spoglie al Verano, è cattolica
la sua lotta con esse: gesuitiche
 
le manie con cui dispone il cuore;
e ancor più dentro: ha bibliche astuzie
la sua coscienza... e ironico ardore
 
liberale... e rozza luce, tra i disgusti
di dandy provinciale, di provinciale
salute... Fino alle infime minuzie
 
in cui sfumano, nel fondo animale,
Autorità e Anarchia... Ben protetto
dall'impura virtù e dall'ebbro peccare,
 
difendendo una ingenuità di ossesso,
e con quale coscienza!, vive l'io: io,
vivo, eludendo la vita, con nel petto
 
il senso di una vita che sia oblio
accorante, violento... Ah come
capisco, muto nel fradicio brusio
 
del vento, qui dov'è muta Roma,
tra i cipressi stancamente sconvolti,
presso te, l'anima il cui graffito suona
 
Shelley... Come capisco il vortice
dei sentimenti, il capriccio (greco
nel cuore del patrizio, nordico
 
villeggiante) che lo inghiottì nel cieco
celeste del Tirreno; la carnale
gioia dell'avventura, estetica
 
e puerile: mentre prostrata l'Italia
come dentro il ventre di un'enorme
cicala, spalanca bianchi litorali,
 
sparsi nel Lazio di velate torme
di pini, barocchi, di giallognole
radure di ruchetta, dove dorme
 
col membro gonfio tra gli stracci un
sogno
goethiano, il giovincello ciociaro...
Nella Maremma, scuri, di stupende fogne
 
d'erbasaetta in cui si stampa chiaro
il nocciolo, pei viottoli che il buttero
della sua gioventù ricolma ignaro.
 
Ciecamente fragranti nelle asciutte
curve della Versilia, che sul mare
aggrovigliato, cieco, i tersi stucchi,
 
le tarsie lievi della sua pasquale
campagna interamente umana,
espone, incupita sul Cinquale,
 
dipanata sotto le torride Apuane,
i blu vitrei sul rosa... Di scogli,
frane, sconvolti, come per un panico
 
di fragranza, nella Riviera, molle,
erta, dove il sole lotta con la brezza
a dar suprema soavità agli olii
 
del mare... E intorno ronza di lietezza
lo sterminato strumento a percussione
del sesso e della luce: così avvezza
 
ne è l'Italia che non ne trema, come
morta nella sua vita: gridano caldi
da centinaia di porti il nome
 
del compagno i giovinetti madidi
nel bruno della faccia, tra la gente
rivierasca, presso orti di cardi,
 
in luride spiaggette...
 
Mi chiederai tu, morto disadorno,
d'abbandonare questa disperata
passione di essere nel mondo?
VI
 
Me ne vado, ti lascio nella sera
che, benché triste, così dolce scende
per noi viventi, con la luce cerea
 
che al quartiere in penombra si
rapprende.
E lo sommuove. Lo fa più grande, vuoto,
intorno, e, più lontano, lo riaccende
 
di una vita smaniosa che del roco
rotolio dei tram, dei gridi umani,
dialettali, fa un concerto fioco
 
e assoluto. E senti come in quei lontani
esseri che, in vita, gridano, ridono,
in quei loro veicoli, in quei grami
 
caseggiati dove si consuma l'infido
ed espansivo dono dell'esistenza -
quella vita non è che un brivido;
 
corporea, collettiva presenza;
senti il mancare di ogni religione
vera; non vita, ma sopravvivenza
 
- forse più lieta della vita - come
d'un popolo di animali, nel cui arcano
orgasmo non ci sia altra passione
 
che per l'operare quotidiano:
umile fervore cui dà un senso di festa
l'umile corruzione. Quanto più è vano
 
- in questo vuoto della storia, in questa
ronzante pausa in cui la vita tace -
ogni ideale, meglio è manifesta
 
la stupenda, adusta sensualità
quasi alessandrina, che tutto minia
e impuramente accende, quando qua
 
nel mondo, qualcosa crolla, e si trascina
il mondo, nella penombra, rientrando
in vuote piazze, in scorate officine...
 
Già si accendono i lumi, costellando
Via Zabaglia, Via Franklin, l'intero
Testaccio, disadorno tra il suo grande
 
lurido monte, i lungoteveri, il nero
fondale, oltre il fiume, che Monteverde
ammassa o sfuma invisibile sul cielo.
 
Diademi di lumi che si perdono,
smaglianti, e freddi di tristezza
quasi marina... Manca poco alla cena;
 
brillano i rari autobus del quartiere,
con grappoli d'operai agli sportelli,
e gruppi di militari vanno, senza fretta,
 
verso il monte che cela in mezzo a sterri
fradici e mucchi secchi d'immondizia
nell'ombra, rintanate zoccolette
 
che aspettano irose sopra la sporcizia
afrodisiaca: e, non lontano, tra casette
abusive ai margini del monte, o in mezzo
 
a palazzi, quasi a mondi, dei ragazzi
leggeri come stracci giocano alla brezza
non più fredda, primaverile; ardenti
 
di sventatezza giovanile la romanesca
loro sera di maggio scuri adolescenti
fischiano pei marciapiedi, nella festa
 
vespertina; e scrosciano le
saracinesche
dei garages di schianto, gioiosamente,
se il buio ha resa serena la sera,
 
e in mezzo ai platani di Piazza Testaccio
il vento che cade in tremiti di bufera,
è ben dolce, benché radendo i capellacci
 
e i tufi del Macello, vi si imbeva
di sangue marcio, e per ogni dove
agiti rifiuti e odore di miseria.
 
È un brusio la vita, e questi persi
in essa, la perdono serenamente,
se il cuore ne hanno pieno: a godersi
 
eccoli, miseri, la sera: e potente
in essi, inermi, per essi, il mito
rinasce... Ma io, con il cuore cosciente
 
di chi soltanto nella storia ha vita,
potrò mai più con pura passione operare,
se so che la nostra storia è finita?
 
1954
Gramsci è sepolto in una piccola tomba del Cimitero degli Inglesi, tra Porta San Paolo e Testaccio, non lontano dalla tomba di Shelley. Sul cippo si leggono solo le parole: "Cinera Gramsci" con le date.



La vita e l’opera di Pier Paolo Pasolini, come la vita e l’opera di Percy Bisshe Shelley, furono scomode, senza momenti di remissione. Le loro morti si consumarono l’una nel fragore confuso di una tempesta nel mare e l’altra si compì nell’oscurità senza echi di una povera fredda periferia romana, sfruttata probabilmente da chi ordì l’attacco come trappola. 

Il giovanissimo Percy Bisshe Shelley amava le atmosfere create dalla luce della luna e da quella delle candele, si travestiva per interpretare i personaggi soprannaturali che la sua immaginazione evocava ai suoi occhi e a quelli delle sorelle, era affascinato dall’energia del fuoco che sprigionava con ripetuti esperimenti – anche a rischio di provocare pericolose conflagrazioni. 
Questa inestinguibile pulsione ad investigare il segreto delle cose, a misurarsi con le forze sorgive della vita, oltre la placida e falsa apparenza del quotidiano, caratterizzò tutta la breve vita del poeta, che costantemente impiegò la sua passione non solo per denunciare le catene delle istituzioni della società, ma per far vivere le virtù e i valori in cui la sua visione filosofica credeva con dedizione totale.
Figlio del tempo in cui si compirono le rivoluzioni di America e di Francia, Shelley fu appassionato difensore di ogni forma di libertà, quella politica che si incarna nel completo diritto di parola, anatema per ogni forma di governo, quella civile, religiosa, e quella privata che coltivò predicando e vivendo con mite fermezza il libero amore, scandalo tra i più imperdonabili non solo nel suo tempo. Si battè per l’indipendenza dell’Irlanda, professò il vegetarianismo per amore delle creature del mondo. Shelley non solo criticò ogni forma di abuso e di tirannìa contro l’individuo, ma difese i suoi ideali conducendo un’esistenza letteralmente “sulla strada”, esule volontario dalla terra che lo vide nascere e lo considerò nemico.

Shelley annegò poco prima di compiere il suo trentesimo anno, mentre si recava con la propria imbarcazione, l’Ariel, da Livorno a Lerici, a seguito di una tempesta improvvisa. Ombre e sospetti circondarono da subito la sua morte: furono le forze scatenate della natura a recidere il filo della sua vita o intervenne anche un oscuro complotto? Qualche amico, in particolare Edward John Trelawny, scrisse di inspiegabili rinvenimenti : pare che la barca rivelasse uno strano squarcio sul fianco, come di una speronata; un vecchio marinaio ligure, anni dopo sul letto di morte, forse confessò un attacco piratesco all’Ariel. Cosa può attendersi chi senza posa e a voce alta critica e condanna ingiustizie e prevaricazioni e vive secondo codici comportamentali non usuali?




Curatore, Bruno Esposito

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