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Biografia, lavori in corso - a breve anche il 1974 e il 1975

domenica 22 settembre 2013

Il dolore del dire. Pasolini e la poetica delle stimmate.

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro






Il dolore del dire. Pasolini e la poetica delle stimmate.

Parcours à l’intérieur de la poésie de P. P. Pasolini, qui en relève la centralité des éléments stylistiques en rapport au développement de sa problématique littéraire.

Un’esperienza poetica è frutto di una variazione tattica che attraversa il terreno tormentato in cui i segni lottano. Si produce tramite un posizionamento all’interno di un contesto, quello del significante, di cui parole, immagini e forme sono ingranaggi e motrici. La direzione lungo la quale muove è dettata dal luogo in cui si trova ad operare, dalla collocazione rispetto agli altri elementi linguistici e culturali, e, per stratificazione, al di là della connotazione significante, in relazione a tutte le altre pratiche che costituiscono il reale. La valenza di un testo poetico è funzione della distanza che ne misura i rapporti con gli elementi segnici insieme ai quali condivide un medesimo spazio di produzione sociale. Per “valenza” intendiamo il ruolo che va a svolgere in una determinata, specifica seppur complessa, organizzazione : come v’interviene, assumendo quale funzione, quale rapporti di potere vi esercita, vale a dire come lavora la materia del linguaggio, come risponde ad una domanda, imposta da una congiuntura singolare, precipitando molteplici operazioni di montaggio semantico a carico di una pluralità di aggregati individuali. Sono tali meccanismi di produzione significante a definire le gerarchie, di contenuto e di forma, esistenti nel dominio della parola. Non è dunque la poesia l’andamento musicale ed iconico di un’individualità che si fa soggetto, voce profonda di un’entità agente che rende se stessa il referente delle proprie proiezioni, “patendo” la sua interiorità evenemenziale, lo spessore ontologico di cui è ipostasi e simbolo. Il procedere introverso della poesia, il suo “dire “Io”, anche quando ne estingue la possibilità, è un effetto, la risultanza di una particolare catena di produzione linguistica che elabora significati. Essa mette al lavoro, negli ordinamenti di cui si dota, le disgiunzioni che ne dividono le filiere – come quelle di ogni altra pratica – tra dominanti e dominati. La poesia è una combinazione singolare, scaturisce da un articolato processo di fabbricazione che va ben oltre l’ambito circoscritto dal verso “lirico”. Assemblando segno, ritmo, forma e immagine, vengono prodotti nuclei soggettivanti a base figurale. La poesia è l’insieme di gesti e sguardi con cui un significante–Io, un segno-soggetto arriva a darsi come modulazione senziente. Generato da operazioni che disarticolano frammenti semantici, si offe come una costante, inconclusa costruzione di configurazioni inattuali dell’ipseità, le cui strutture e direzioni, sotto forma di variazioni affettive, sono allestite da concatenazioni di segmenti testuali, iconici, musicali. La poesia pratica i tipi egotici, le escursioni emotivo – personali, di cui è la fabbrica. Come si costruisce un orizzonte di soggettivazione, come trova la sua collocazione, come connette meccanica espressiva e funzioni significanti : in che modo se ne caratterizza la forza di agente storico di fronte al contesto segnico di cui partecipa, alle sue gerarchie ? Questi sono gli snodi intorno ai quali si combinano le componenti del testo poetico. Convergenza di elementi preesistenti, esso è un’operazione che scaturisce dai rapporti di forza che dividono i segni per unirli in formazioni organizzate. Il conflitto scinde i significanti, estraendoli dai contesti di cui facevano parte e spostandoli, assoggettati ad un regime segnico dominante, in altre filiere di produzione. Queste deviazioni sono decise dalla capacità di un aggregato di prevalere, dai rapporti di forza che arriva ad imporre. Sono decisi dalla capacità di un organismo semico di sottometterne altri, alleandosi con le formazioni vincenti in altri ambiti storici. La poesia si forma agendo il più generale agonismo esistente tra i materiali significanti (concetti, immagini, contenuti valoriali, altre figurazioni sensibili non elaborate, ecc.) : affermandosi e vivendo della sua autonomia, o, viceversa, essendo inglobata in corpi espressivi estranei. Il posto della poesia rispetto alle altre pratiche segniche, il connotato preso dalle proiezioni tetiche che ne pongono i movimenti testuali, è il segno della sua costituzione storica, il risultato di un confronto che la costringe sempre sulla terra lacerata tra libertà o sottomissione. Come ogni pratica, il contesto dei segni è caratterizzato da rapporti di potere. La dominanza è la motrice che li aggancia in configurazioni regolate, scisse e pure salde nella morsa che incorpora elementi dominati a significanti prevalenti, mettendoli al lavoro. In ambito capitalistico è il segno “denaro” che decide forme e modalità delle catene di produzione del segno. Le posizioni gerarchiche della formazione da esso governata sono imposte dal processo di produzione semantica di cui è fautore, tenutario e garante. L’identità delle macchine poetiche è definita da questa ingiunzione esterna, vibrazione agonistica effetto delle oscillazioni telluriche con cui il segno – denaro si confronta con elementi a lui avversi, riattivando lo scontro che li assoggetta mentre produce il corpo espressivo che sagoma e controlla. Produrre poesia è un fatto politico, un momento della vicenda politica del segno, sintomo delle giunzioni che ne allestiscono i dispositivi attivati dalla miriade di fronti in cui si affrontano costrutti avversari in conflitto. La poesia, che Deleuze, commettendo uno dei suoi geniali errori, chiamava “grande lamento” è la torsione di uno scacchiere strategico. Lo spasimo che l’attraversa è lo stridio che si alza dalle operazioni chirurgiche con cui il verso, disarticolando e lacerando altri corpi segnici, dà forma alla forma generando la parola sovrumana di un “Io” assoluto, o le fuoriuscite impossibili di un soggetto plurale e senza nome che si libera urlando la sua inconsistenza, franando sulle sue rovine. È la qualità di questa contrazione, la sua collocazione rispetto al problema storico del dominio, che ne definisce capacità e senso : dove si ponga nella catena forzosa che unisce le pratiche espressive e come interagisca con essa. Spostate sul versante del segno dominante, sottoposte a un ordine del senso che le assegna voce e significato, le soggettività patetiche della poesia sono astratte dalla pressione delle forze vincenti e rese l’ingiunzione di una parola segreta ed imperativa. La totalizzazione del significante monetario, segno supremo che trae forza dall’alleanza con il processo di estrazione di valore, che domina i procedimenti del modo di produzione capitalistico generandone gli apparati, cattura il verso risuonando attraverso un Io proiettato al di là della storia, al di là della sua immanenza, per ergersi a voce dell’Essere, eco di una coscienza sapienziale partecipe dell’essenza e melodia promanante dal fondamento originario. L’ermetismo, in particolare quello montaliano, ha rappresentato questa vocalizzazione autistica di un Io perso alla sua autonomia, che disgrega la sua possibilità di dire esaurendosi in gergo pensoso, muta articolazione di una coscienza oltremondana :

“…Entra la luna/ d’amaranto nei chiusi occhi, è una nube/ che gonfia ; e quando il sonno la trasporta/ più in fondo, è ancora sangue oltre la morte” .

Non c’entra, come vuole Luperini , il richiamo ad una condizione concreta che il poeta prenderebbe ad oggetto restituendone le connotazioni per rappresentarne il senso intimo e essenziale. La poesia non è un’operazione teorica compiuta con l’ausilio di figure o espedienti estetici. Una poesia non è mai allegorica, se non quando è sterile, ripiegata su se stessa a risuonare delle sue parti come un accordo senza respiro. Una poesia è un organismo significante, aggancia segni - musicali, iconici, sintattici - per allestire traiettorie affettive singolari sotto forma di “ego”. Nessun rapporto incide una presunta “realtà” esterna, vista come un tutto omogeneo e compatto, su un organismo che ne riproporrebbe per metonimia la totalità assumendo esso stesso una dimensione totalizzante. La poesia è un insieme sempre particolare d’ingranaggi mossi dal conflitto e dalla sua capacità produttiva. Rispetto a questa duplice azione, attivata dal conflitto e conflitto essa stessa, le componenti prendono senso : vale a dire acquistano una funzione, un ruolo e un movimento. Non basta fare riferimento alla logica dialettica di cui sarebbe specchio fedele per fare della poesia un’opera concreta. Piuttosto, in questo modo se ne fa la serva di un “tema” già scritto, una filosofia sotto falso nome che occulta ipocritamente le sue ragioni dietro le lusinghe del gusto. Già lo è, concreta, come concreti sono i segni, materiata da quella consistenza data dall’essere fattore di produzione e oggetto di variazione. L’immanenza del lavoro poetico, la sola che ne può rispettare la vitalità, viene offesa dalle sintesi idealistiche. L’elaborazione esclusivamente intellettuale delle operazioni liriche, interpretandole come epifania di una verità universale che presiede ai corsi storici, schiaccia la pratica del verso su sterili ruminazioni introspettive. La poesia di Montale è la massima espressione, e la più colta, di una poetica che, musicazione di uno scavo metafisico, funziona per riduzione della realtà e spiritualizzazione dell’Io. Poesia quanto mai profetica, espressione esclusiva, universale e conclusa di un’affermazione totalitaria. Metri ed immagini sono “indicatori”, hanno il compito riduttivo di segnalare la distanza siderale assunta dall’Io immergendosi nelle cose per toccarne l’origine, tanto più lontana quanto meno contaminata dall’insignificanza della realtà. Questo modo di agire la poesia nasce ben prima di Montale. Se gli attributi concettuali ne sono stati definiti da Dante, è Petrarca che ne raffina stilemi ed criteri d’espressione. Rende l’endecasillabo uno strumento di purificazione linguistica che, nell’estensione potenzialmente inesausta della canzone, riduce la lingua alla concentrazione dell’essenza. In fondo, le innovazioni metriche montaliane, espedienti per ricomporre le esplosioni metriche e contenutistiche di cui i “Vociani”, ed in particolare Rebora e Jahier, si erano resi protagonisti, non ne sono altro che ulteriori prolungamenti. Una stessa operazione li sottende, l’invocazione iniziatica che ripete rituali linguistici di elevazione continuando a concepire poesia come voce austera di un’ascetica introiezione. Le ritmiche condensate dalla frase ermetica portano l’Io a sovrastare la vita, osservandola dal punto di vista dell’Essere. Figure congruenti con la forza generalizzatrice ed uniformante del significante dominante, la moneta, si addensano saturando i metri con il tono monocorde di una litania ossessionante. L’astrattezza che lo rende equivalente generico, la funzione di misura e attribuzione del valore con cui sancisce l’esistenza delle cose, la capacità imperialistica che gli permette di piegare ogni elemento ai suoi procedimenti, risuonano nella rarefazione metafisica dell’Io e nella sua attività “creatrice”. Essa si caratterizza per il suo carattere sanzionatorio, morale. Nel momento in cui estrinseca la preminenza ontologica dell’Io – coscienza, pone gli ordini della realtà, salva e assolve calando i versi come giudizi inappellabili, continuando l’opera di rinominazione autoritaria con cui rende il mondo metafora di se stessa ed immagine evanescente del suo essere simbolo vivente. Metri e figure “classici”, della cui “modernità” dava notizia Montale verificandone la presenza nelle nuove generazioni di poeti , dalla terza rima al dodecasillabo (per quanto spurio), dal sonetto alla canzone, marcano gli elementi con la forma ed il tono di una misura che si pretende diretta emanazione della Verità in nome della quale l’Io lirico emette le sue sentenze. Conferiscono loro quell’andamento enfatico, quella supponenza torva che ogni espressione che si vuole profetica rivendica come prova della sua dignità. Anche Pasolini pratica poesia impiegando uno strumentario metrico classico. L’uso della terzina incatenata rimane suo tratto caratterizzante :

“Tra i due mondi, la tregua, in cui non siamo./Scelte, dedizioni…altro suono non hanno/ormai che questo del giardino gramo//e nobile, in cui caparbio l’inganno/che attutiva la vita resta nella morte./Nei cerchi dei sarcofaghi non fanno//(…)” .

Il linguaggio “petrarchesco”, alto, sfuggente il tono medio per tendere ad una spirituale raffinatezza, ne rivela la matrice colta, così come lo spessore concettuale dell’elaborazione consapevole ed edotta di materiale bruto. Di questo Pasolini è stato accusato dalla maggior parte dei suoi critici, tra i quali Fortini e Giuliani , per non fare che due nomi : di offrire una poesia che impiegava umili materie per trovare nella suggestione dell’idillio populistico la forza espressiva di cui non era dotata ; versi pretenziosi ma d’ispirazione piatta, palesata dai tic accademici mal occultati dalle appassionate cadenze veristiche. La domanda corretta da porre al progetto poetico di Pasolini, rispetto alla quale è possibile stabilirne o meno la riuscita, è un’altra. Interrogarne la rispondenza all’umanità che si dà la missione di rappresentare intera con l’esserne il canto profondo , significa mancarne completamente l’impianto e i movimenti. Verificata l’artificiosità della mimesis che porta il poeta ad assimilarsi al suo oggetto, fino a divenirne il vocalizzo più che il cantore, si è ancora solamente sorvolata la questione essenziale che muove la fabbrica stilistica pasoliniana. L’interrogazione che, sola, permette di aprirne lo chassis, è :
dove si colloca il verso di Pasolini ?
Quale pratica di produzione assume come propria ?
Quale modello d’ipseità patetica agisce ?
Ossia, quale ne è il portato, figurativo come linguistico, e quale la modulazione ritmica ? Quale rapporto tiene con i segni dominanti, e quale posizione assume rispetto ad essi ?

“Nel tremito d’oro, domenicale/ di Valle Giulia, la nazione è calda/silenziosa : la sua innocenza è pari//alla sua impurezza. Sembra arda/di popolare gioia, ed è noia/irreligiosa che solare si sparge//sui floreali gessi e i gran ventagli/degli scalini. Non è questo/che l’atto in cui si sbriciola un’Italia//istituita, un anonimo ed onesto/atto di civiltà…(…)” .

È un verso che martirizza la forma, il suono e il contenuto. La terzina di endecasillabi ha la cadenza di un cuneo che si pianta su una materia d’immagini alte e miserabili. La prerogativa del giorno santo é degradata a celebrazione di un rito prosaico e volgare. Così la nazione del cui lavoro dovrebbe essere la festa é perduta alla sua dignità, alla identità civile di popolo ormai moderno. Risuonano con precisione gli accenti di sesta e di decima, ma il verso prende una battuta regolare solo in apparenza, perché l’endecasillabo cede e sfugge da tutte le parti, spostando le cesure, variando la misura per corromperne la continuità in una somma sghemba di quinari e settenari, di quaternari e senari. Uniti dal cadere lento del tono giambico, si sbriciolano in enjambements che ne staccano le cadenze bruscamente, infliggendo ai rapporti interni tra sequenze sintattiche la frattura provocata dalla rigidezza grammaticale dell’”a capo” dell’intero gruppo al genitivo (preposizione + nome). Il procedere sistematico e ordinato del verso scorre in superficie, una pellicola sottile che ne ricopre le giunture trascinata dal il carattere piano ed isosillabico degli endecasillabi. Eppure le inflessioni si scompongono, si disaggregano, si ritrovano per linee “coliche” indotte dal costrutto poetico, richiamando risonanze erompenti da scissioni che tagliano le immagini in sviluppi antitetici, trascinandole per periodi prosastici complicati da rientranze, parentesi, specificazioni, richiami. Le frasi poetiche sono trapassate da eccentricità metriche, così come la regalità o il prestigio storico di luoghi ed occasioni, di cui Roma è effigie perfetta e sfondo ideale, sono ferite dalla barbarie della miseria, dal piatto, squallido quotidiano di un popolo inglobato nel corpo che lo consuma, quello del capitale :

“Ecco qui ad attestare il seme//non ancora disperso dell’antico dominio,/questi morti attaccati a un possesso/che affonda nei secoli il suo abominio//e la sua grandezza : e insieme, ossesso,/quel vibrare d’incudini, in sordina,/soffocato e accorante – dal dimesso//rione ad attestarne la fine./ Ed ecco qui me stesso…povero, vestito/dei panni che i poveri adocchiano in vetrine//dal rozzo splendore, e che ha smarrito/la sporcizia delle più sperdute strade,/delle panchine dei tram, da cui stranito/è il mio giorno”.

Piaghe si aprono sulle frasi : ridotte a un grado di zero di complicazione sintattica, si scuotono sofferenti delle tensioni che ne aprono la superficie. Il verso di Pasolini non si ripiega su se stesso seguendo gli effetti stranianti della metalessi, dell’ipallage o dell’iperbato, né sfrutta la musicalità della rima per tracciare rispondenze sonore che aggiungano significato al segno. Pasolini è avverso a ogni sperimentalismo, anche e soprattutto rinnovato, di stampo avanguardistico, di matrice ermetica come espressionista . Solo un pervicace idealismo può sterilizzare il verso forzandolo a fluire nelle involuzioni linguistiche di un Io onnipotente che ne domini i periodi così come il suo intelletto l’essere. Il linguaggio produce l’Io a misura dell’apparecchio stilistico che ne raccoglie i materiali e ne attrezza le figure. La rima pasoliniana è una pressione dolorosa esercitata sul fremere dei nervi del verso. L’ordine che gli viene imposto non è tollerabile, se non al prezzo di una dissonanza radicale e di un altrettanto radicale scatto d’insofferenza. Sempre cruda è la rima di Pasolini, un tocco di sonorità delicata che si afferma fuori contesto, in controtendenza, in contrappunto rispetto alle slabbrature metriche che spingono la materia del verso, come sangue, fuori dei suoi margini. Attenuazione squisita, che proprio per questo assume un’icasticità trasgressiva, un’alterazione contraria e sviante che disorienta la drammaticità dei distici, presentando una luminosità raggelante :

“Eppure senza il tuo rigore, sussisto//perché non scelgo. Vivo nel non volere/ del tramontato dopoguerra : amando/il mondo che odio – nella sua miseria//sprezzante e perso – per un oscuro scandalo della coscienza… ”.

Le sonorità instabili passano come una lama di rumore nell’epidermide del brusio quotidiano. È il suono che guida l’immagine, non il contenuto. L’immagine si raccoglie intorno alle lacerazioni della melodia, a sviluppi metrici che inchiodano figure con il pestare dei timbri. Il realismo “poetico” pasoliniano non si riduce a un calco lasciato dal peso della realtà, anche sotto specie individuale . La lettura tutta morale, estrinseca, dei suoi versi, manifesto di passione civile, assunzione di responsabilità tutta intellettuale, che, dallo scandalo della miseria, si concretizza in domanda di senso , ha condotto a prese di posizione ideologiche più che a indagare le strategie stilistiche. Caso emblematico é l’accusa che muove Fortini, di tradire la pretesa a farsi “storia di popolo” riproducendo i sintomi del culturalismo borghese, quell’idealismo solipsistico che ne tradisce la collocazione sociale e la funzione politica. Ogni flessione tonale è un foro in materie sonore che si rapprendono, come fasci di nervi, intorno alle ferite che li percuotono. La scissione di cui Pasolini produce il canto non si svolge tanto, come vuole Cerami, tra popolo e storia, o tra poeta–intellettuale borghese e popolo . La scissione si apre nel linguaggio stesso che porta la poesia nel momento in cui ne diviene il veicolo. Nel fremere dei toni inflittegli la lingua si scuote nel suo corpo significante. La musica straziata che ne sale si schiude da una parte verso le punte che ne lancinano le trame, dall’altre si addensa in un rumorio che si accumula dietro ed intorno le percussioni del ritmo. La lingua di Pasolini si dona alla realtà che essa stessa produce in quanto dolore vissuto. Essa canta soffrendo, dando la propria voce al suono che sorge dal suo proprio sussistere. Il realismo pasoliniano non si basa sulle alchimie dialettiche in cui un dato é percettivamente introiettato, elaborato in contenuto ideale e restituito sotto forma di concetto. Più evacuazione ideale del reale che rispecchiamento, il sociologismo iconografico si riduce alla fine ad una forma di sfogo lirico. Ripetendone le formule, l’autore si trasfigura in principio spirituale. Pasolini mette in poesia la distanza del suo schema di lavoro da tale prospettiva :

 “Diede, quello stile,/alla lingua un numero infinito di parole,/che di nuovi apporti di realtà riempirono/il vuoto senile dell’Erario : fu questa,/ forse, nel realismo italiano, ambizione ?/Esso esprimeva il dolore del proletariato/piangendo col suo pianto : io direi/ch’è ambizioso, al contrario,/che si smorza e si umilia nel lirismo/della prosa interiore, del socialismo bianco…” . 

Un’unica giacitura fonetica stratifica un’epidermide semantica, livida e dolente, che si distende attraverso le eccitazioni di un nocicettore . L’”io” è un conduttore puntiforme, il fattore melodico – semico che, vedendo, sentendo, parlando, pensando, vivendo, risponde ai fremiti della parola. L’”Io” pasoliniano non è immagine della “coscienza” del poeta, né il segno della sua vicenda esistenziale, né tanto mento metafora storpia della sua capacità raziocinante. È un riflesso spastico dei nervi del linguaggio. La lingua, a ogni ferita, scopre di essere carne segnica, presenza concreta, agente, immediata del tessuto semantico della parola. Le infinite sequenze in cui muore al suo stesso sussistere sono flessioni sensibili della sua presenza sonora, del suo essere a se stessa mondo :

“ Non sanno che è proprio la morte/(loro alibi di cattolici servi)/che disgrega, corrode, torce, distingue :/anche la lingua./La morte non è ordine, superbi/monopolisti della morte,/il suo silenzio è una lingua troppo diversa/perché voi possiate farvene forti :/proprio intorno ad essa vortica//la vita !”.

L’”Io” è polarizzatore semico e scotoma. Circoscrive uno spazio sensibile passando attraverso aggregati materici. Essi non gli appartengono, ma, toccati dalle sue vibrazioni emotive o intellettuali, rivelano la propria consistenza reagendo sulla nuda fisicità della sua voce . Sull”Io”, coscienza deflettente, cui ogni appercezione, in senso kantiano, è negata, s’imprimono le piegature carnose del linguaggio. La poesia si vive, si agisce, si pensa, pure, muovendo il corpo che ne satura l’espressione. La poesia non è canto della vita, in Pasolini, né è voce pudica o orfica per la vita. La poesia è la vivente fisiologia del suo corpo segnico : l’”Io” ne costituisce il terminale propriocettivo. L’”Io” è il contro – canto, diffrazione germinata da impulsioni disarticolate, che dipana il turbinìo sensoriale di cui la poesia trema. Come un reticolo di venature s’insinua in tutti le stratificazioni del metro : dalla superficie cutanea, in cui prende forma drammatica , teatrale o raziocinante, ai livelli più profondi del derma, in cui si disperde in una profonda tramatura di pulsazioni affettive, disarmonie emozionali stillate dalla linfa musicale che echeggia attraverso le cavità della parola. È qui che la metrica delle cose si prolunga senza soluzione di continuità con la ritmica della coscienza :

“Sì, nella luce che disossa/con la sua felicità primaverile/le giornate di questa mia Canossa.//Eccomi nel chiarore di un vecchio aprile,/a confessarmi, inginocchiato,/fino in fondo, fino a morire.//Ci pensi questa luce a darmi fiato,/a reggere il filo con la sua biondezza/fragrante, su un mondo, come la morte, rinato.//Poi…ah, nel sole è la mia lietezza…/quei corpi, coi calzoni dell’estate,/un po’ lisi nel grembo per la distratta carezza//di rozze mani impolverate…Le sudate/comitive di maschi adolescenti,/sui margini di prati, sotto facciate//di case, nei crepuscoli cocenti…/l’orgasmo della città festiva,/la pace delle campagne rifiorenti…” . 

La linea dello sguardo si spezza nel contrappunto di accenti tonici che s’inseguono elidendosi a vicenda. L’endecasillabo sposta le sue chiusure su posizioni inedite facendo cozzare i toni in un susseguirsi di coloriture vitali ma estenuanti. L’”Io” che si dice morire sfibrato dal calore che pulsa dalla vita stilla i suoi rivoli disperso in sonorità tracimanti, in cui la rima è più la chiave ritmica che raccoglie e rilancia le disarmonie provocate da assonanze imperfette che una rotonda chiusa isotonica. Se Pasolini conserva l’ispirazione delle innovazioni pascoliane , ossia l’introduzione di una plurivocità di gradienti melodici, di frasi e figure ritmiche discontinue , ne piega l’uso in un senso molto più vicino alle proliferazioni barocche di Campana che non ai sottili giochi tonali del Pascoli. Si può ammettere un debito di natura tecnica, ma l’impianto della metrica di Pasolini risponde a tutt’altre condizioni generative. Mai idillio sonoro, accompagnamento delicato che segue come un découpage decorativo i contorni di un’immagine squisita , il ritmo pasoliniano è un produttore di stanze asimmetriche i cui piedi, spesso dilacerando l’endecasillabo in misure spezzate, si inarcano nell’accento per far cozzare armonie diffratte. Il verso si solidifica precipitando l’urto dei toni, lo strappo dell’enjambement, nella compattezza di percetti materici. Palazzi, case, si accavallano su strade riarse o umide su cui corpi senzienti si ammassano, piagati da emozioni che ne solcano la pelle come tagli, parlando una lingua ibrida che cola come il liquor di questo corpo poetico vivente :

“ Il sole, il sole. Come già in fondo a Marzo,/nei meandri d’Aprile. Corri, mia macchina azzurra,/dove vuoi, per le strade segnate da un altro sole,/il Monteverde dei poveri, tra sfondi straripanti/di case a strati, riarse – un pino sull’asfalto - /file di bar e macellerie con sola cliente la luce - /e un altro versante del quartiere, con la luce di striscio - /una strada in salita – il Sanatorio, coi giardini neri - /la Portuense…/Al Trullo il sole, come dieci anni fa./« Fermete, a Pa’, dà du’ carci co’ nnoi ! »/Giorgio, Giannetto, Carlo, il Moro,/e gli altri, i pigri venticinquenni,/già un po’ stempiati, con qualche annetto di galera ;/i fratelli minori di primo pelo, chi/come un lieto pagliaccio dentro i panni del padre,/chi elegante nella sua miseria, gli occhietti/come due foglioline umide colpite dal sole./La partitella, nel cuore della borgata,/tra i lotti che oltre al sole, e a qualche figura di lavoro,/ non hanno nulla da offrire alla nuova primavera” . 

I dettagli fisici in chiave umorale o affettiva, le sensazioni che solcano la scena lasciando striature dolorose, i ritratti puerili e insieme invitanti, i contatti delicati e gli avvitamenti pensosi, il pugno della politica che spazza gli anditi consunti di una quotidianità lacera, patologia della vita incorporata agli organi del capitale , sono concrezioni, coagulo dei fiotti irregolari erompenti da una lingua che si offre come corpo. Importante lavoro di ricerca sarebbe ripercorrere la genealogia del mondo fremente pasoliniano, seguire le traiettorie dei tracciati sonori solidificarsi in figura per trasfigurarsi sulla scorta delle corruzioni del verso : il cammino doloroso che conduce dalle terzine alte e snervanti delle Ceneri, in cui l’impossibile armonia delle loro dissonanze si serra sull’evanescenza di un popolo che manca, alle avversioni riflessive e imploranti in cui si ripiegano le lasse della Religione :

“E non ci voleva nulla, ahi, a deformare/questa sua forma, già incerta ai loro sguardi/di anime sicure, ironiche, ignare,// - come bambini sotto gli occhi dei padri/bonari verso le loro antiche/crudeltà, le loro stupide rabbie…//E fu facile trovare i complici del mito :/questi “più realisti del re”, questi strazianti/confinati di Ina – Casa e borgate, col corpo nutrito//di povere minestre, da grassi umilianti, la camicia con un filo di sporcizia/sul collo, i figli urlanti//in fondo a caseggiati neri come ospizi,/le deboli nuche gialle di brillantina,/o tormentate da precoci calvizie,/la loro nazionale assassina….” ;

fino ai tumulti dolci e sgraziati di Bestemmia , e alla violenza tutta politica, ai pugni menati dai versi dismetrici di Trasumanar :

“Anime belle del cazzo, per cos’altro moriranno/i due fratelli Kennedy, se non/ per un’istituzione ? E per che cos’altro, se non per un’istituzione,/moriranno tanti piccoli, sublimi Vietcong ?” .

Il corpo della lingua si compone membro a membro sul dolore del verso. La poesia di Pasolini è il dono che fa si di sé la parola consacrandosi alla sua presenza vivente. La parola non è Verbo divino incarnato nella contingenza del finito, è l’attualità sacra di un’originaria, aurorale germinazione di vita. La poesia è la carne del Verbo, vita che dà la vita perché grembo creatore del segno vivente, e il Verbo è il sacrificio della parola vivificatrice sulla croce del verso. Il cattolicesimo “luterano” di Pasolini, se visto dal punto di vista della poesia, è l’atto di fede rinnovato verso un principio creatore che il cammino interno alla parola riconosce come sostanza e origine del dire, ma è anche il culto consacrato e ripetuto della transustanziazione immanente del segno, trasfigurazione che non assimila le sostanze ma ne reitera la natura, come una divina litania che rilasci ab eterno la sua semenza significante. L’aura mitica, più o meno sottolineata da tutti i commentatori, il carattere estraniato e spirituale delle figure che ne animano i versi, l’incedere ieratico delle metriche pasoliniane non sono solo espedienti estetici di una poesia che vuole sacralizzare il proprio essere profano. Sono le risonanze che promanano dall’invocazione che la parola offre a se stessa per aver fatto offerta del suo corpo. Essa si dona alla vita rendendo grazie a tutti i nomi che ne costituiscono la materia. È il nome di tutti i nomi, il geroglifico primo che custodisce il codice da cui trovano composizione infiniti organismi segnici. La parola poetica, manifestazione più pura perché più compromessa con la concupiscenza peccaminosa di questo Verbo carnale, è il Cristo, il segno divino che, buona novella donatrice di vita – Vangelo - , nasce all’esistenza di cui è fondamento e substrato. Come dice Paolo : “Umiliò se stesso facendosi obbediente sino alla morte e alla morte in croce. Per questo Dio l’ha esaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome ; perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra ; e ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre“ . Questo corpo sacro incede innocente. Fa libagione dei segni che ne santificano la venuta. Essi ne riecheggiano la giovinezza perenne, essendo il suo natale la festa di ogni momento, e l’immemore vecchiezza, l’aurea di morte che sale dall’interno della parola stravolgendola. Il duplice volto che ogni piede pasoliano assume, la dicotomia che ne scinde i significati in una lenta, interminabile processione di sineciosi – espediente stilistico che ne rende la lettura un esercizio di umiltà penitenziale – è l’inno disperato che sale da versi. Mentre si protendono verso l’eterno, cadono vittime della condanna che destina il sensibile alla morte, cui loro stessi, essendone la materia, sono vittime e responsabili. L’”Io”, melodia sintomatica che contrae e distende le sistoli di un mondo benedetto e dannato, é l’arcangelo che annuncia la vita tra le moltitudini del segno, forza morale araldo della potenza creatrice del verbo – movenza che mostra in modo evidente il debito contratto da Pasolini con Dante - . L’Io, cifra concreta dell’esistenza del Verbo, è la ferita che marca i segni con il battesimo del dolore. Sulla croce del mondo creato dalla divina volontà della parola, fraseggi pietosi esalano materni e mortiferi, concentrando il significante in imago personali che inchiodano gli arti febbrili, e pure emaciati, del significato. Essi condannano la creazione al supplizio dell’offerta. L’Io pianta le mani e i piedi della parola viva sul corpo del segno, facendone il martirio che da cui, solo, può scaturire una produzione di senso. Una ferita è il dire, il Verbo una piaga da cui una volta e sempre scorre il sangue che dona la lingua al mondo, sostenendo all’esistenza la parola :

“E io qui, con questa scheggia/immateriale in cuore, quest’involuta/coscienza di me, che si ridesta a un attimo/della stagione che muta./Insufficienza ormonica in cui vaneggiano i sensi ? Indebolimento dei battiti/ del cuore, o eccesso dei vitali atti/dell’intelligenza ? Ah, certo qualcosa/che va in rovina.(…)//Da questo inesprimibile attrito/nasce la prima larva della Passione :/tra il corpo e la storia, c’è questa/musicalità che stona,/stupenda, in cui ciò che é finito/e ciò che comincia è uguale, e resta/tale nei secoli : dato dell’esistenza./Il confine tra la storia e l’io/si fende torto come ebbro abisso/oltre cui talvolta, scisso,/alla deriva, è il glorioso brusio/dell’esistenza sensuale/piena di noi : dinanzi a questa fisica/miseria non può che ritornare/ogni storico atto irrazionale…” 

Il sacrificio, il dono di sé che la poesia, musica essenziale che sottende ogni produzione segnica, fa senza riscattarsi, ma anzi perdendosi nella caduta delle sue involuzioni concupiscenti, è il grido di dolore che la violenza del farsi “Io” strappa al mondo incidendo i nervi di una lingua altrimenti muta. Il significare, gesto disarmonico e pure bello – nel senso di Leopardi - che feconda il soggetto, è l’apertura inesausta e incessante di uno scotoma, foro oscuro e pure scarlatto da cui, scorrendo la parola, il non – dire e il dire entrano l’uno nell’altro riconoscendosi della stessa sostanza : quella carne che, orfana che agisce senza potersi fare viva, si dona morendo la possibilità di farsi storia. Compattandosi sui dissidi del segno, la poesia segna il limite del possibile, le scissioni che martirizzano la parola mentre partorisce, producendo i conflitti che la perdono, il corpo che la salva.

Fonte: http://cecille.recherche.univ-lille3.fr/l-equipe/annuaires/annuaire-doctorants/publications-de-aldo-pardi/article/il-dolore-del-dire-pasolini-e-la


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Curatore, Bruno Esposito

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«Scegliendo per sempre la vita, la gioventù». Pasolini, Elsa Morante e il ’68

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro




«Scegliendo per sempre la vita, la gioventù». Pasolini, Elsa Morante e il ’68

La Libellula, n.1, anno 1 , Dicembre 2009
di Maria Rizzarelli

Pur essendo scrittori molto diversi, pur avendo compiuto scelte stilistiche e formali fino a quel momento spesso antitetiche, Pier Paolo Pasolini ed Elsa Morante si ritrovano (come molti altri intellettuali della loro generazione) a metà degli anni Sessanta a riflettere sul senso della propria attività letteraria e a rivedere la propria funzione all’interno della società italiana, trasformata profondamente dal boom economico. Se Pasolini negli anni Cinquanta aveva già fatto i conti con la figura dell’intellettuale gramsciano, cantando nelle sue poesie civili ed «incivili» le contraddizioni delle prospettive da lui delineate; la Morante soltanto adesso sembra in grado di abbandonare le affabulanti voci della stanza di Elisa, e il solare limbo dell’isola di Arturo, per correre dietro ai suoi nuovi ragazzini per le strade del mondo. Solo adesso, dopo una profonda crisi che è al tempo stesso personale e storica, che affonda le radici e trova i motivi più profondi nelle tragiche vicende della sua biografia visceralmente intrecciate alle ragioni della trasformazione culturale della società italiana, si trova costretta a reinventare la propria immagine(1) e scoprire la propria appartenenza «alla specie degli scrittori», a quella tipologia antropologica che con convinzione definisce in antitesi alla categoria del letterato:

Lo scrittore (che vuol dire prima di tutto, fra l’altro, poeta), è il contrario del letterato.
Anzi, una delle possibili definizioni giuste di scrittore, per me sarebbe addirittura la seguente: un uomo a cui sta a cuore tutto quanto accade, fuorché la letteratura.(2)

È in virtù di questa indiscutibile discendenza dalla «specie degli scrittori», che unisce Pasolini e la Morante oltre le ragioni della loro amicizia e oltre il legame dato dalla varie collaborazioni,(3) che risulta particolarmente interessante sondare analogie e differenze delle loro reazioni alla cartina di tornasole del Sessantotto. Entrambi, infatti, avendo intensamente «a cuore tutto quanto accade», registrano nel corpo dei propri testi, nelle viscere delle proprie parole, l’inesorabile mutamento dell’Italia di quegli anni. Per dirla con la Morante (giacché le formule pasoliniane risultano spesso troppo usurate dall’abuso e dal fraintendimento mediatico), l’era atomica è segnata dall’incombere dei «mostri delle culture piccolo-borghesi […] (i cui prodotti supremi sono, da un lato, le organizzazioni di sterminio, e dall’altro i trattenimenti televisivi»,) (4) a cui l’arte non può che opporsi e dichiarare guerra. Tutti e due gli scrittori, ascoltando i profondi mutamenti epocali determinati dal trionfo di quella cultura, hanno fissato il proprio sguardo su quei mostri, pronti a «smascherare gli imbrogli», a opporsi alla «occulta tentazione di disintegrarsi» che manifesta l’umanità, a combattere e uccidere «il drago» dell’irrealtà, portando «testimonianza» alla realtà.(5)
Di fronte alla rivoluzione antropologica destinata a trasformare totalmente i connotati sociali e culturali del nostro paese, Pasolini e la Morante si sentono quindi chiamati a mutare il loro ruolo di scrittori. E parallela a questa metamorfosi, forse apparentemente meno importante, se ne verifica un’altra che riguarda le immagini, le figure e gli archetipi che popolano le loro pagine. In altre parole è proprio attraverso il confronto con la contestazione studentesca che è possibile osservare la parabola degradante che porta dalla Meglio alla Nuova gioventù: il percorso doloroso che nelle pagine e nei fotogrammi pasoliniani subiranno i riccetti e i tommasini sopravvissuti appena un attimo prima del martirio negli innocenti figli di Salò, e parallela la metamorfosi dei ragazzini salvatori del mondo della Morante, discendenti inconsapevoli dell’allegria di Arturo, trasformati nei pischelli umiliati e offesi dalla Storia fino alla quête impossibile dell’infelice Manuel.



1. Un manifesto politico

Questo fitto discorso critico,
che finisce nel pragma (il riso di Ninetto) invulnerabile
(io non credo alla sua moralità, la temo),
in un fantasma in carne e ossa che passa sulla terra …
Pier Paolo Pasolini


Nel Mondo salvato dai ragazzini (iniziato dalla Morante nel ‘64 e pubblicato nel maggio del ‘68) l’Addio al ragazzetto celeste, all’angelo caduto, apre la via a una nuova generazione di fanciulli, che come lui hanno gli occhi «del colore di un mare stellato» (6) e uno sguardo pieno di «allegria». Nel requiem per Bill Morrow la scrittrice confessa di correre dietro l’apparizione di «ogni ragazzo che passa», (7) ma l’immagine dei ragazzi di «quaggiù», le loro risate, i loro tuffi coraggiosi nel Tevere, le loro sbronze e la loro musica assordante, non servono a trovare un «valico» che le permetta di comunicare col barbaro divino fuggito via nel suo «nido irraggiungibile».(8) E se «l’urlo del ragazzo che precipita» 9 si sente ancora risuonare nei versi della Sera domenicale, se ancora nell’allucinata riscrittura dell’Edipo della Serata a Colono la maschera morantiana grida il dolore per la propria sopravvivenza («meglio per me sarebbe non essere nato, piuttosto che vivere»), (10) cessando alla fine «di chiamare amanti morti, madri morte» (11) nella Smania dello scandalo la scrittrice dà il benvenuto alla nascita del nuovo «ragazzo Adamo». (12)  Dalla scoperta di questa novella primogenitura discende tutta la stirpe degli F.P., i «Felici Pochi» a cui è intonato l’inno della terza parte del Mondo.

Nel «ritmo provocatoriamente festoso delle Canzoni popolari»,(13) la Morante tenta di tracciare un identikit dei ragazzini salvatori del mondo, cui è affidato il compito di combattere i mostri dell’irrealtà. Ma per la verità si tratta di un profilo dai tratti alquanto lievi («perché i Felici pochi sono indescrivibili»), (14) seppur inconfondibili: la povertà, la gioventù, la bellezza, l’allegria. Gli F.P. soffrono «d’una grave allergia» all’autorità e agli «alti gradi della burocrazia». (15) Ancor più difficile sembra identificare il loro habitat naturale, perché essi «sono   accidenti fatali dei Moti Perpetui» e quindi possono trovarsiovunque;


ma assai più spesso tornano
in certi orienti (barbari) e oscure zone (depresse)
dove non s’ha il vizio d’assassinare i profeti
né di sterminare
i poeti.(16)


Nel tentativo di delineare i connotati dei fanciulli ideali, la Morante propone una genealogia piuttosto eclettica che mette insieme Spinoza e Gramsci, Giovanna D’Arco e Rimbaud, Platone e Mozart, Rembrandt e Simon Weil, Giovanni Bellini e Giordano Bruno. Tentando l’impossibile sintesi dei suoi amati artisti, in un affresco in cui le note stridenti dei loro diversi messaggi disegnano un «arabesco indecifrabile» che «è dato per la gioia del suo movimento, non per la soluzione del teorema», la scrittrice rivolgendosi agli F.P., avverte che

Alla fine le vostre differenze non importano perché ogni passo di gioia, che ha la gioia come sua partenza e direzione, si destina
sempre all’unico luogo della requie dov’è la liberazione dai desideri, e prima di tutto dal desiderio assurdo di una soluzione
del teorema.(17)

E seguitando ad intonare la musica dell’‘allegria di naufragi’ degli F.P., a passi di gioia continua a percorrere i rami dell’albero genealogico, che giungono fino alle soglie della «nuova Storia Romana», che alla vigilia delle grandi battaglie del Sessantotto ha già i suoi martiri:

La voce uccisa del ragazzetto Rossi Paolo studente universitario (F.P. predestinato)che uscì per affrontare col suo corpo fresco e disarmato l’osceno mostro adulto nato dalla copula del Fuehrer col Duce (campioni ideali dei bravi capifamiglia I.M.)
e là cadde morto nell’aprile dell’anno 1966 - a voi, romani I.M.! sentitela, adesso, quella voce tragica di primo canto, benedetta lei, quanto è allegra! virilmente, spavaldamente, fanciullescamente allegra! ALLEGRA […].(18)

È l’allegria che quasi tautologicamente distingue e oppone i Felici Pochi agli0 Infelici Molti. È in virtù di quest’unica arma che la Morante invoca la sua «eterna rivoluzione fantastica»(19) e chiama a raccolta i «fautori dell’allegro disordine» per combattere la tristezza dei «padri I.M. d’ogni paese»,(20) per «capovolgere allegramente la solita storia millenaria» e per «sfondare alfine per sempre le porte della stanza magica dove quei tristi padri della tristezza da centinaia e migliaia d’anni si rinchiudono a manovrare».(21)
Per quanto questo invito alla «allegra disobbedienza degli F.P.»(22) possa apparire inequivocabilmente compromesso con lo spirito del tempo, per quanto la Morante interpreti fedelmente l’anima anarcoide di rivolta contro il potere degli adulti, Il mondo salvato dai ragazzini non può essere considerato il manifesto del Sessantotto. Un manifesto però lo è certamente - come ha acutamente avvertito Pasolini -, ma si tratta del «manifesto politico […] di quella nuova sinistra che in Italia pare non potere esistere, crescere, riaffiorando subito nel vecchio qualunquismo, e nel complementare moralismo».(23) Il poeta delle ceneri legge il libro dell’amica con la solita lucidità e coglie con chiarezza lo stigma dello scandalo che segna la scelta di condire la scrittura del manifesto politico «con la grazia della favola, con umorismo, con gioia»;(24) ma nella sua lettura è già implicato il giudizio critico espresso nei mesi precedenti nei confronti del movimento studentesco.

2. La soluzione del teorema

Tu lo sapevi che le fanciullezze sulla terra
sono un passaggio di barbari divini
col marchio carcerario della fine già
segnata.
Elsa Morante

Dopo la favola del corvo («un personaggio di Elsa Morante»(25) lo definisce lo scrittore) mangiato da un padre e un figlio in viaggio per le città del mondo, dopo l’umorismo e la gioia che avevano animato l’ultimo sguardo in macchina rivolto da Pasolini sui ruderi del suo mito sottoproletario, l’obiettivo si sposta a indagare l’universo orrendo dell’irredimibile borghesia. Non prima però di aver trascorso anche lui la sua serata a Tebe con l’Edipo re, toccando la prima tappa del viaggio nel mito classico della barbarie, che lo condurrà attraverso le note jazz degli Appunti per un Orestiade africana alle tragiche vicende della madre selvaggia Medea. Ma intanto, mentre cerca nuove utopie nei paesaggi barbarici del continente nero, il suo sguardo si sofferma a osservare, quasi per un esperimento, il territorio ‘così lontano, così vicino’ dell’alta borghesia italiana. Nella primavera del ‘68, infatti, pochi mesi prima l’uscita del Mondo salvato dai ragazzini, lo scrittore corsaro pubblica un nuovo libro e gira il film omonimo. In altre parole, al di là dei brutti versi del PCI ai giovani!!, composti a caldo dopo il 1 marzo di Valle Giulia (versi divenuti oggi quasi uno slogan delle contraddizioni del movimento studentesco), il Sessantotto di Pasolini è quello del doppio Teorema (libro e film), dell’Orgia delle tragedie borghesi (rappresentata appunto a Torino nel novembre di quell’anno),(26) degli interventi nella rubrica «Il caos» da lui diretta sul settimanale Tempo.
Nel Teorema pasoliniano, che vuol dimostrare la dirompente irruzione del sacro(27) nell’universo domestico piccolo-borghese e le sue conseguenze nefaste, i caratteri degli F.P. morantiani si ritrovano riflessi e divisi nella fisionomia di due personaggi. Se l’ospite, infatti, nella scandalosa bellezza, nel «colore azzurro dei suoi occhi»,(28) nel misterioso status sociale, ricorda i ragazzini salvatori del mondo, i tratti dell’allegria, del riso e dei «ricci fitti e assurdi»(29) sono raffigurati dalla fisicità dell’angiolino. La leggerezza del sorriso di Ninetto, con i suoi capelli neri e riccioluti, si offre come la perfetta incarnazione dell’iconografia dei ragazzi di vita che dai romanzi sono giunti fino alle storie di vita violenta dei primi film pasoliniani. Nel transito dall’apologo di Uccellacci e uccellini alla parabola di Teorema, l’allegro riso di Ninetto conserva, seppur ridimensionata, la carica eversiva della fisica sacralità del mondo proletario; nelle apparizioni fugaci egli si porta dietro «la sua gaiezza che proviene da altri mondi, da altre popolazioni»,(30) forse dall’eden friulano celebrato nella Meglio gioventù, o dall’inferno delle borgate romane e di tutte le periferie del mondo. Messaggero dell’avvento dell’ospite, l’angelico postino condivide con la serva Emilia «grazia e buffoneria degli “spossessati del mondo”»,(31) e compare per l’ultima volta nella seconda annunciazione, «come suonando su un flauto invisibile e gaudioso il Flauto magico»(32) (le note affabulanti composte da uno dei più illustri F.P.) per avvertire della partenza del giovane ‘straniero’.
La presenza del novello Dioniso(33) sconvolge la normale esistenza di tutti i membri della famiglia, la sua visita ha un effetto dirompente anche in virtù della sua diversità, che si esprime sin dall’ingresso sulla scena dell’impossibile tragedia attraverso la sua fisicità: «la sua diversità consiste, in fondo nella sua bellezza».(34) La fisionomia dell’ospite, che si «direbbe uno straniero» perché «privo di mediocrità, di riconoscibilità e di volgarità»,(35) si fa portatrice della carica eversiva della sua presenza. Il suo «corpo, intatto, misura di un altro mondo (quello dell’innocenza salvatrice)»,(36) si fa veicolo del suo messaggio scandaloso; si direbbe anzi che il suo corpo è il suo messaggio, che si esprime in primo luogo nella diversità rispetto ai connotati dei corpi che abitano ‘questo mondo’. La sua salute, segno di una «giovinezza il cui futuro sembra senza fine», si oppone non solo alla malattia del padre, ma anche alla senilità consapevole e nascosta nella smorfia delle labbra di Odetta, che sigillano l’umorismo senza il quale «non potrebbe vivere»,(37) come pure agli «zigomi, alti e come vagamente consunti e mortuari con un certo ardore di malata»(38) di Lucia. «Il loro corpo racconta tutta la loro povera storia di borghesi»,(39) e difatti il ritratto di Pietro, che pare avere iscritti sul proprio viso i segni del suo destino, offre i lineamenti archetipici delle sua classe:

un ragazzo debole, con la fronte violacea, con gli occhi già invigliacchiti dall’ipocrisia, con il ciuffo ancora un po’ rimbaldo, ma già spento da un futuro di borghese destinato a
non lottare.(40)

L’incontro di Pietro con l’ospite è descritto inizialmente come opposizione fra la «miseria degradante del proprio corpo nudo» e la «potenza rivelatrice del corpo nudo del compagno».(41) Il figlio contempla nel giovane che dorme nel letto accanto al suo i segni della salute e della virilità; alla vitalità del viso dell’ospite si contrappone il suo pallore. «Ma quel pallore ha in lui qualcosa di ereditario - o meglio, d’impersonale.
Qualcos’altro - l’umanità, il mondo, la sua classe sociale - è pallido in lui».(42) Questo spiega perché il contatto diverso e sempre uguale che ognuno dei membri della famiglia ha con il giovane dionisiaco conduce tutti per strade diverse, ma comunque a scelte autolesioniste e autodistruttive. La contestazione pasoliniana all’istituto familiare, emblema della borghesia, sceglie dunque una via anti-intellettualistica e si incarna nell’ospite, nella sua pervasiva «sensualità, ricondotta a uno stadio elementare, primitivo di manifestazione».43)
Del resto, il tradimento di Dio a cui giungono con modalità differenti, nei corollari del Teorema, Odetta, Pietro, Lucia e Paolo, è il segno della «sete di morte»(44) di un’intera classe, che delega «a deputati alla propria distruzione, i suoi figli degeneri, appunto: i quali (chi stronzamente conservando un’inutile dignità borghese di letterato indipendente, o addirittura reazionario e servile, chi invece, andando proprio fino in fondo, e perdendosi) obbediscono a quell’oscuro mandato».(45) La perdizione di Pietro infatti si porta dietro l’amara denuncia pasoliniana dell’ipocrita e velleitaria protesta giovanile, la furia iconoclasta del suo gesto estremo («davanti al suo quadro, si alza dritto, si sbottona i calzoni, e vi piscia sopra»)(46) non è che un esempio particolare della vocazione autodistruttiva di tutta la nuova gioventù. Il frammento in versi che segue il corollario del figlio contiene il ritratto dei giovani sessantottini e lascia emergere con evidenza la volontà demistificante dei loro discorsi e delle loro azioni da parte dello scrittore.

Sia che vengano, sudando,
da appartamenti con tristi
coperte bruciate dal ferro da stiro, o armadi
costati poche migliaia di lire al padre amato di nascosto
– sia, invece, che vengano da case circondate
di domestici e fornitori – tutti i letterati giovani
sono sudaticci, hanno un pallore di anziani,
se non di vecchi, le loro grazie sono già scrostate;
hanno un’irresistibile vocazione ai pasti pesanti
e agli indumenti di lana, tendono a malattie
puzzolenti – dei denti o degli intestini –
cacano male: sono insomma dei piccoli borghesi,
come i fratelli magistrati e gli zii commercianti.
[…]
Giovinetti cascanti in scialli Sioux, finti giovani di Torino
Già stempiati con loden blu, distruttori di grammatiche,
convittori castristi che saltano i pasti a Monza,
nuovi qualunquisti in pelliccia, che amano i Concerti
Brandeburghesi come se avessero scoperto una formula
Antiborghese, che gli fa lanciare intorno occhiate furenti,
democratici dolcemente burberi, persuasi che solo
la vera democrazia distrugga la falsa; anarchici
biondini, che confondono in perfetta buona fede
la dinamite col loro buono sperma (andando,
con grandi chitarre, per strade
false come quinte, in branchi rognosi), Pierini
universitari che vanno a occupare l’Aula Magna
chiedendo il Potere anziché rinunciarvi una volta per sempre;
guerriglieri al fianco
che hanno deciso che i Negri sono come i Bianchi
(ma forse non anche i Bianchi come i Negri): tutti costoro
non preparano altro che l’avvento
di un nuovo Dio Sterminatore.(47)

Anche in questo caso la malattia e la senilità dei corpi si offrono come metafora della decadenza morale, l’impietoso ritratto che calca la mano sui connotati fisici, la cui tristezza smaschera l’appartenenza alla categoria degli I.M. morantiani, suona come una condanna irrevocabile del movimento studentesco, reo di aver coperto con un finto look anticonformista la propria finta giovinezza, colpevole di aver ammantato di ipocriti slogan libertari la propria conquista del Potere, responsabili dunque di una rivoluzione mancata perché vissuta solo come «guerra civile», come obbedienza cieca al Dio Sterminatore della propria razza.

3. La falsa rivoluzione

Tuttavia io credo che il potere degli studenti
- così come si è istituito malgrado loro -
rientri nella problematica del potere tout court.
Pier Paolo Pasolini

Confesso che dato l’uso che ne è stato
fatto nella storia fino a tutt’oggi, mi ripugna
ormai di ripetere la parola rivoluzione (e fin di
pronunciarla). Però questa parola, per quanto
stuprata e tradita, in se stessa mantiene il suo
significato primo e autentico: di grande azione
popolare al fine di istaurare una società più
degna.
Elsa Morante

Se il giudizio spietato espresso nei confronti dei giovani sessantottini in Teorema non è che una variante en poéte delle critiche contenute nell’«ode per gli scontri di Valle Giulia»,48 per comprendere la complessità e le implicazioni della nota tesi pasoliniana ormai troppo abusata, per cogliere i paradossi e le provocazioni di quei «brutti versi», occorre indagare le pagine già ‘corsare’ firmate dallo scrittore a partire dall’agosto del ’68 su Tempo.(49) Tuttavia dalla lettura del Caos della rubrica non si perviene a uno scioglimento delle contraddizioni messe in atto dalla raffinata ars retorica del PCI ai giovani!!, semmai da essa possono risultare chiarificate le ragioni di tali antinomie e può essere reso più evidente il complesso di questioni da esse implicate. La contraddizione e l’indipendenza, rivendicata con «con rabbia, dolore e umiliazione» nelle lotte solitarie ingaggiate sulle pagine del Tempo, vengono presentate infatti sin dal primo intervento come un antidoto all’«AUTORITÀ paterna» di cui Pasolini si vede investito nei confronti delle giovani generazioni. Ma il rifiuto e la messa in discussione di tale autorità (poiché «l’autorità, infatti, è sempre terrore») costituiscono una delle linee programmatiche di questa esperienza giornalistica: il titolo della rubrica è appunto «“Il caos”, il cui sottotitolo potrebbe essere: “Contro il terrore”».(50) E difatti lo scrittore non esita a ribadire le aspre critiche già espresse e ad accusare di «terrorismo» il movimento studentesco, proponendo nei suoi confronti il riuso della categoria del «fascismo di sinistra». Ma in queste pagine Pasolini, senza il timore di contraddirsi («lo so bene quante contraddizioni richieda l’essere coerenti»),(51) sembra sfumare ed anzi, in alcune occasioni, pare mutare il proprio giudizio nei confronti dei giovani del Sessantotto, accentuando «elementi di giustificazione o di comprensione o di simpatia prima soltanto accennati»(52). In realtà le continue oscillazioni dimostrano una costante attenzione a «tutto ciò che accade» nel movimento studentesco e una ostinata voglia di capire una generazione che, al di là di ogni contraddizione, ricorda nella sua protesta lo spirito della rivoluzione resistenziale. Così Pasolini, scrivendo a Giovanni Leone il 21 settembre 1968 a proposito della contestazione scoppiata in occasione del Festival del Cinema di Venezia, si lascia sfuggire un’affermazione che sembra quasi rinnegare le posizioni assunte nei giorni di Valle Giulia: «La Resistenza e il Movimento Studentesco sono le uniche esperienze democratiche-rivoluzionarie del popolo italiano».(53) E qualche settimana dopo, nella replica al Presidente, parla addirittura di «un’altra Italia» che sta nascendo come negli stati Uniti e nella Germania Occidentale dalla lotta per «una democrazia reale e decentrata»,(54) fino ad arrivare alle pagine del diario compilate alla fine di novembre durante un breve soggiorno a Torino in cui «le grida degli studenti» ascoltate da lontano suonano «dolorosamente misteriose; come venissero da un altro
mondo; da un altro tempo».(55) Le urla che contestano la condanna a morte di Panagulis portano addirittura l’eco di «grida di antichi fascisti: o di dimenticati partigiani», e possono essere accolte come segni di speranza:

L’opinione pubblica – covo del terrorismo, sede deputata della regressione - è sconvolta nei suoi termini logici (pazzeschi) dalla presenza degli studenti che gridano. Dentro l’opinione pubblica c’è dunque ormai una altra opinione pubblica, che lacera e manda in pezzi la prima, esplodendovi dentro. Anche questa seconda opinione pubblica, è vero, ha in sé i germi di un nuovo terrorismo: ma essa sta nascendo, ne è ancora esente: si presenta
come speranza, opponendosi alla rassegnazione e al bieco memento mori dell’ufficialità.
Il futuro reale forse la contaminerà: ma il futuro ideale, verso cui si proietta, la rende stupenda (mi capisce chi è stato giovane ai tempi della Resistenza).(56)

Tuttavia per quanto «stupenda» possa apparire questa protesta giovanile, che incrina la monolitica e terroristica opinione pubblica, il «suo futuro reale» la porterà al contagio col virus omologante dell’«universo orrendo» a cui appartiene. Sei mesi dopo questo intervento, trovandosi per le vie di Roma di fronte alla goliardica sfilata degli studenti protetti e scortati dalla polizia, a Pasolini sembrerà di vedere le profetiche parole del PCI ai giovani!! inverate da una performance che ha capovolto la situazione di Valle Giulia per ironia della sorte, o per un preciso calcolo strategico. Tornando a parlare del movimento, dopo un periodo di silenzio, ribadirà con amarezza e scoramento il giudizio lì contenuto:

Questi cappelli goliardici, una massa enorme che, come mi ha detto Elsa Morante, che li ha visti dalla sua terrazza, la mattina avevano riempito come un’orribile marea piazza del
Popolo (sempre protetti dai poliziotti bonaccioni). Mi sarebbe facile dire, verso la fine dell’anno accademico 1969, in cui non è più successo niente: «Ecco, fatte le giuste eccezioni, le poche migliaia di studenti di “Trento e Torino, di Pisa e Firenze”, cui
parlavo nella mia poesia, la nuova generazione di studenti e la nuova generazione di borghesi con cui dovrò vedermela, e contro cui dovrò continuare a lottare, come coi loro padri». Lo dico con un’atroce amarezza in cuore, con uno scoraggiamento che mi fa venir davvero voglia di non lottare più, di ritirarmi dalla mischia, di non aver più niente da fare con questa briga, di starmene solo.(57)

Forse da quella terrazza, certamente dalla medesima posizione solitaria, Elsa Morante ha scritto la sua ‘lettera’ agli studenti del movimento studentesco. Nelle poche pagine di un Piccolo manifesto dei Comunisti (senza classe né partito), un testo postumo scritto a ridosso del sessantotto,(58) esprime le ragioni del suo dissenso, parodiando con provocatoria semplicità il tono oracolare del ‘Grande manifesto’.
L’accento è secco e lapidario sin dal primo articolo («1. Un mostro percorre il mondo: la falsa rivoluzione»)(59) e, nella scandalosa ingenuità delle tesi sostenute, riprende spogliate dei toni festosi della gioia e dell’umorismo le idee espresse già nella Canzone degli F.P. e degli I.M.. Scorrendo i tredici articoli del Piccolo Manifesto, i Felici pochi e gli Infelici Molti si rivelano dunque come le maschere delle qualità fondamentali della «specie umana» che si fronteggiano da sempre nella sua storia millenaria: «la libertà
dello spirito» e «il Potere». La prima delle due forze, pur essendo un diritto e un dovere per tutti gli uomini, è limitata nella sua piena attuazione dall’esistenza dell’altra.

7. Ne deriva l’assoluta necessità della rivoluzione, che deve liberare tutti gli uomini dal Potere affinché il loro spirito sia libero. […]
8. Per una legge inevitabile (e sempre confermata dai fatti) è impossibile arrivare alla libertà dello spirito attraverso il suo contrario […]
9. Una rivoluzione che ribadisce il Potere è una falsa rivoluzione[…].(60)

Senza mai nominare gli studenti si intuisce che la «falsa rivoluzione» riguarda proprio loro e il motivo della condanna trova ancora una volta la Morante e Pasolini schierati sullo stesso fronte, in virtù di una demonizzazione del potere e della figura dell’autorità che assume certamente nelle pagine dei due scrittori sfumature molto diverse, ma che pare condurre entrambi sulla strada di una testimonianza dolorosa e solitaria in nome della «libertà dello spirito». Il tredicesimo articolo, attraverso un breve exemplum, suona come un inno alla vocazione corsara che seguiranno tutti e due gli scrittori negli anni seguenti:

13. Supponiamo adesso un individuo solo, davanti a un fabbricato in preda a un incendio.
Attraverso una finestra aperta […] l’individuo scorge un bambino solo, che sta per essere investito dalle fiamme. L’uomo penetra nel vano e a proprio rischio salva il bambino. E sarebbe evidentemente un pazzo criminale, uno che lo accusasse di aver commesso un atto antisociale e ingiusto, perché, nell’impossibilità di salvare gli altri abitanti del fabbricato, non ha lasciato bruciare vivo anche quest’unico bambino.
L’uomo che […] afferma la libertà dello spirito contro il Potere, e dunque contro le false rivoluzioni, compie la Lunga Marcia, anche se rimane chiuso tutto la vita dentro un carcere. Questo ha fatto Gramsci. In mancanza di compagni o di seguaci, di ascoltatori o di spettatori, lo spirito libero è tenuto alla sua lunga marcia lo stesso, anche solo di fronte a se stesso e dunque a Dio. Niente va perduto (v. il granello di senape e il pizzico di lievito); e in conseguenza, chiunque schiavizza, sotto qualsiasi pretesto il proprio spirito, si fa agente con questo, del disonore dell’uomo.(61)

La marcia solitaria, e più o meno lunga, che Pasolini e la Morante hanno condotto negli anni Settanta può forse essere vista come il tentativo di ciascuno di loro di gridare a fuoco - un fuoco che stava riducendo in cenere tutto un mondo che andava salvato proprio come quel bambino rinchiuso nel caseggiato in fiamme. Senza volere compromettersi con alcuna forma di potere (inteso come «disonore dell’uomo»), essi hanno espresso chiaramente la «volontà di non essere padre»(62) né madre di un movimento che poteva forse presentarsi ai loro occhi come un «fantasma in carne ed ossa» delle proprie figure mitologiche. La «nascita del nuovo tipo di buffone»(63) annunciata da Pasolini nelle pagine di Trasumanar e organizzar, come l’apologia del Pazzariello dedicata dalla Morante all’ultima parte del Mondo salvato dai ragazzini, suonano allora come un’amara constatazione della scelta solitaria compiuta da entrambi in nome del proprio compito di inesausti ‘propagandisti della realtà’.(64)

5. Ai riccetti, ai pazzarielli, agli F.P., ai gennarielli

Il poeta vero sente (anche se non lo sa)
che molti dei suoi lettori devono ancora
nascere.
Elsa Morante


Cari studenti medi, non ho voluto essere padre,
ma non mi rifiuto, lo confesso, di essere nonno.
Pier Paolo. Pasolini

Malgrado l’amara e disincantata constatazione della caduta dei propri miti di gioventù, sia la Morante che Pasolini non rinunciano a cercare interlocutori nelle nuove generazioni e ciascuno di loro proverà a individuare nuovi destinatari a cui indirizzare le proprie ‘lettere’.
Elsa Morante tenterà la via del suo ‘vangelo per gli idioti’ con la scommessa della Storia, appena prima del fallimento dell’utopia che detterà il ritratto dei giovani ‘traditori della rivoluzione’ che appaiono sullo sfondo delle pagine di Aracoeli. Ma con l’amara Lettera alle brigate rosse (datata significativamente 20 marzo  1978), pur condannando inequivocabilmente «il totale disprezzo della persona umana»(65) che costituisce il principio fondante delle azioni terroristiche, non disdegnerà di rivolgere le proprie parole (di biasimo) ai giovani brigatisti.
Pasolini continuerà a dedicare ai giovani infelici, anche a quelli fascisti, il suo Saluto e augurio e a inventarsi la maschera fittizia di un nuovo riccetto napoletano, un Gennariello a cui indirizzare i precetti della propria «pedagogia dello scandalo».(66) Proprio l’ultimo componimento della Nuova gioventù, un «discorso che sembra un  testamento»,(67) si chiude con un lascito davvero ‘pesante’ a un novello «Fedro» da cui il vecchio Socrate si congeda con queste parole definitive:

Hic desinit cantus. Prendi tu, sulle spalle, questo fardello. Io non posso: nessuno ne
capirebbe lo scandalo.
[…] Prendi tu questo peso, ragazzo che mi odii: portalo tu. Risplende nel cuore. E io
camminerò leggero, andando avanti, scegliendo per sempre
la vita, la gioventù.(68)

«Scegliendo per sempre la vita, la gioventù», Pasolini e la Morante hanno deciso di abbandonare i loro manoscritti in una bottiglia e di indirizzare i loro scritti ad un pubblico di giovani che dovevano «ancora nascere». E sembra che negli ultimi anni nel nostro paese si stia facendo avanti una nuova generazione di scrittori interessati a «tutto ciò che accade, fuorché alla letteratura» e dunque pronti a raccogliere il testimone pasoliniano e morantiano. Ci piace fare almeno due nomi che di recente hanno tentato la strada del dialogo con alcune fra le più celebri pagine corsare. Il primo è Roberto Saviano ovvero quel nuovo gennariello, che nella sua Gomorra, sceglie di proseguire il «Processo al Palazzo» e di aggiungere ai nomi le prove per denunciare l’impero del crimine; il secondo è Ascanio Celestini, quel «nuovo tipo di buffone», nato dalla nuova Roma borgatara, che sui palcoscenici e sulle piazze d’Italia, sulle pagine e sugli schermi della tv sembra proseguire con il disincantato umorismo dell’ultima stagione pasoliniana la denuncia dei guasti della società dei consumi. È con le sue parole, che ricordano un Sessantotto rivissuto attraverso «le memorie di altri», che si intende mettere una pietra sopra i versi del PCI ai giovani!!, riscritti dalla voce di uno di quei giovani di cui l’autore forse si sarebbe potuto considerare nonno: 

Però quel vecchio problema che sollevava Pasolini nel Pci ai giovani è tornato attuale.
Guerra civile o rivoluzione? Perché quegli arabi che esplodono nei mercati sono figli di poveri. Vengono da periferie, contadine o urbane che siano. E gli zingari diventati barboni e i cinesi che lavorano sedici ore? E i romeni? Perfino quelli che tra loro
diventano papponi e assassini hanno una madre incallita come un facchino. Ci somigliano. O almeno somigliano a mio padre e al padre di mio padre. Somigliano ai neri sommersi o salvati dall’acqua di New Orleans. Dunque nel tempo in cui sono scomparsi
gli Stati nazionali ed esiste una sola grande nazione dove si può soltanto essere americani, qual è la scelta migliore? Guerra civile o Rivoluzione?(69)

La Libellula, n.1, anno 1 , Dicembre 2009
di Maria Rizzarelli

1 Cfr. C. Garboli, Il gioco segreto. Nove immagini di Elsa Morante, 1995, p. 15.
2 E. Morante, Pro o contro la bomba atomica (1965), in Pro o contro la bomba atomica e altri saggi,
1987, p. 97.
3 Le collaborazioni della scrittrice con Pasolini, è bene ricordarlo, si mantengono costanti lungo le tappe
fondamentali della sperimentazione registica (da Accattone al Vangelo fino a Medea). Per la reciproca
influenza esercitata dai due scrittori sulle proprie opere si rimanda a M. Fusillo, “Credo nelle chiacchiere dei barbari”. Il tema della barbarie in Elsa Morante e Pier Paolo Pasolini, 1994, pp. 97-129 e W. Siti,
Elsa Morante nell’opera di Pier Paolo Pasolini, 1994, pp. 131-135.
4 E. Morante, Sull’erotismo in letteratura (1961), in Pro o contro la bomba atomica e altri scritti, cit., p.
91.
5 Per le citazioni del lessico dell’impegno morantiano cfr. ancora il saggio Pro o contro la bomba
atomica, cit., pp. 97-117. A tal proposito cfr. anche F. La Porta, Il drago dell'irrealtà contro il sogno di
una cosa. (Pier Paolo Pasolini ed Elsa Morante), 2004, pp. 73-78.
6 E. Morante, Il mondo salvato dai ragazzini e altri poemi, 1968, p. 15.
7 ivi, p. 5.
8 ivi, p. 6.
9 ivi, pp. 28-29.
10 ivi, p. 80.
11 ivi, p. 28.
12 ivi, p. 113.
13 G. Rosa, Cattedrali di carta. Elsa Morante romanziere, 2006, p. 196.
14 E. Morante, Il mondo salvato dai ragazzini, cit., p. 120.
15 Ibidem.
16 Ibidem.
17 ivi, p. 123.
18 ivi, p. 131.
19 ivi, p. 129.
20 ivi, p. 134.
21 ivi, p. 136.
22 G. Rosa, Cattedrali di carta. Elsa Morante romanziere, cit., p. 197.
23 P.P. Pasolini, Il mondo salvato dai ragazzini (27 agosto1968), in Il caos, 1979, p. 52.
24 Ibidem. A tal proposito cfr. anche la recensione in versi pubblicata in due puntate su «Paragone»
nell’ottobre 1968 e nell’aprile 1969, poi inclusa in Trasumanar e organizzar, 1971, pp. 35-54.
25 Id., Le fasi del corvo, in appendice a Uccellacci e uccellini, 1966, p. 828.
26 La declinazione estremamente complessa della relazione genitori-figli sperimentata in Teorema sarà
ripresa e analizzata nelle tragedie (e nelle opere successive), dove peraltro gli echi della contestazione
studentesca si allargano fino a comprendere vari esempi del panorama internazionale: si pensi alla
Germania di Porcile, alla Spagna di Calderon, e alla Cecoslovacchia di Jan Palach in Bestia da Stile.
27 Per la tematica del sacro nell’opera di Pasolini si rimanda a S. Rimini, La ferita e l’assenza.
Performance del sacrificio nella drammaturgia di Pasolini, 2006.
28 P.P. Pasolini, Teorema, 1968, p. 905.
29 ivi, p. 904.
30 ivi, p. 938.
31 Ibidem.
32 ivi, p. 966. Si ricorderà che su suggerimento della Morante due arie del Flauto magico erano state scelte
per la colonna sonora di Uccellacci e uccellini.
33 Per una interpretazione di Teorema in chiave dionisiaca si rimanda a M. Fusillo, Il Dio ibrido. Dioniso
e le “Baccanti” nel Novecento, 2006, pp. 212-226.
34 ivi, p. 906.
35 ivi, p. 905.
36 ivi, p. 944.
37 ivi, p. 899.
38 ivi, p. 901.
39 M.A. Bazzocchi, I burattini filosofi. Pasolini dalla letteratura al cinema, 2007, p. 112.
40 P.P. Pasolini, Teorema, cit., p. 896.
41 ivi, p. 912.
42 ivi, p. 918.
43 M.A. Bazzocchi, I burattini filosofi, cit., p.115.
44 P.P. Pasolini, Teorema, cit., p. 969.
45 ivi, p. 1014.
46 ivi, p. 1011.
47 ivi, p. 1012.
48 Id., Note (importanti) a Il PCI ai giovani!!, 1968, p. 2957.
P.P. Pasolini, Il perché di questa rubrica (6 agosto 1968), pp. 36-37.
51 Id., Risposta al Presidente Leone (5 ottobre) 1968, in Il caos, cit., p. 72.
52 G.C. Ferretti, Introduzione, cit., p. 16.
53 P.P. Pasolini, Lettera al Presidente del Consiglio (21 settembre 1968), in Il caos, cit., p. 59.
54 Id., Risposta al Presidente Leone, cit., p. 70.
55 Id., Diario per un condannato a morte (7 dicembre 1968), in Il caos, cit., p. 94.
56 ivi, pp. 94-95.
57 Id., I cappelli goliardici (17 maggio 1969), in Il caos, cit., p. 173.
58 Per la datazione cfr. la Nota di Goffredo Fofi a E. Morante, Piccolo Manifesto dei Comunisti (senza
classe né partito), 2004, p. 25.
59 E. Morante, Piccolo Manifesto dei Comunisti (senza classe né partito), cit., p. 7.
60 ivi, pp. 9-11.
61 ivi, pp. 12-14.
62 P.P. Pasolini, La volontà di non essere padre (9 novembre 1968), in Il caos, cit., p. 74.
63 Id., La nascita di un nuovo tipo di buffone, in Trasumanar e organizzar, cit., p. 59.
64 Cfr., E. Morante, Il beato propagandista del paradiso (1970), in Pro o contro la bomba atomica e altri
scritti, cit., pp. 121-138.
65 E. Morante, Lettera alle Brigate Rosse, 2004, p. 19.
66 E. Golino, Pasolini. Il sogno di una cosa. Pedagogia, Eros, Letteratura dal mito del popolo alla società
di massa, 1992, p. 195.
67 P.P. Pasolini, Saluto e augurio, in La nuova gioventù, 1975, p. 514.
68 ivi, p. 518
69 A. Celestini, Il Sessantotto finito da quarant’anni, 2008, p. 55.

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giovedì 19 settembre 2013

Ripenso a Pasolini e mi viene in mente l’Ecclesiaste

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro


Ripenso a Pasolini e mi viene in mente l’Ecclesiaste

di Vincenzo Cerami



L’incontro che noi artisti abbiamo avuto con Benedetto XVI, il 21 novembre, ci ha portato a riflettere sul senso del nostro lavoro da una prospettiva particolare. Il Papa in qualche modo ha chiesto ai presenti di rivisitare il rapporto tra arte e teologia, tra il racconto della vita e la spiritualità della voce narrante.
In tempi per fortuna tramontati il mio maestro, nonché mio insegnante alle scuole medie, Pier Paolo Pasolini, diceva che il “contrario” della religione non è il comunismo (che, benché abbia preso dalla tradizione borghese lo spirito laico e positivista, è in fondo molto religioso) ma il capitalismo (spietato, crudele, cinico, puramente materialistico, causa di sfruttamento dell’uomo sull’uomo, culla del culto del potere, covo orrendo del razzismo). 
La religione dei popoli è un moto naturale e sincero di una società innocente, indissolubilmente legata ai misteri del creato. È stata la borghesia a gettare una luce strumentale sulla spontanea vocazione cristiana alla pietas. Il laicismo è la religione del liberismo. L’umanesimo cristiano riguarda, appunto, l’uomo, nella sua nudità creaturale, così ben evocata da Qohélet già prima di Gesù.
Sono passati molti anni da quando Pasolini, negli anni Cinquanta, diceva a noi, giovanissimi studenti in pieno boom economico, che non dovevamo affatto vergognarci delle nostre umili, spesso meridionali origini. Ci diceva che la vera qualità della vita non aveva nulla a che fare con il benessere e le vanità.
Oggi, a ricordare le sue parole, mi viene in mente, appunto l’Ecclesiaste. Nel Sessantatré i giovani gridavano “vogliamo tutto”, nel Sessantotto tutti dovevano avere il diritto di comprare tutto: questo il senso reale di quella “rivolta” piccolo-borghese nel cuore del neocapitalismo. E oggi vige il mito della longevità: vince chi arriva prima a cent’anni.
Quasi mezzo secolo fa è morta la morte. Spauracchi delle dolci, struggenti parrocchie italiane erano Nembo Kid e le cambiali. Il mondo è mutato di colpo: civiltà e progresso hanno finito per non andare più d’accordo, tanto da far parlare il mio professore di “mutazione antropologica”. Un diluvio ha riversato nelle cantine ettolitri di fango e ha scollato dalle bottiglie le etichette di tutti i vini, ordinari e preziosi, che galleggiano sul pantano. Le bottiglie sono lì, nude, uguali, infreddolite, senza più marchio di qualità.
E oggi, nella profonda crisi economica che attraversiamo, una volta che abbiamo rinunciato a uno zodiaco di riferimento etico e spirituale, non stiamo correndo il rischio di diventare più poveri, bensì miserabili. Senza la coscienza d’essere non solo materia ma spirito è già l’inferno.
Non ricordo epoca più corrompibile dell’attuale, dove perfino i corpi, con la loro sacralità, sono messi sul mercato, senza alcuno scrupolo. Non c’è libertà in una democrazia nella quale il cittadino non è più padrone dei propri gesti, agisce all’interno di una cultura subdolamente coattiva.
Da mezzo secolo l’arte racconta tutto questo, nelle sue mille forme, nei suoi linguaggi evocativi e indiziari, nella sua instancabile vocazione a dirci in quale mondo viviamo. Ce lo racconta e basta. Sta a noi tirare qualche conclusione, e magari renderci conto di ciò che non va nello spazio in cui viviamo. L’artista, che non è né un filosofo né un sacerdote, non ha strade da indicarci, egli mette al servizio della verità il suo bruto e istintivo talento di creatore di forme. La sua religiosità si esplicita soprattutto nell’inseguire un’idea di perfezione che gli serve da punto di riferimento nel momento in cui raffigura una visione del mondo. È un’idea astratta, ontologica, che sta in piedi per fede.
Se chiedo a un artista com’è per lui l’isola felice in cui vivono gli archetipi perfetti dell’umanità, egli resta muto. Invero, per sapere dove andare bisogna prima capire dove siamo. Ma non possiamo avere conoscenza di noi stessi se non ci rapportiamo a un’identità assoluta che ci dia un orientamento. L’arte lavora all’interno di questo sillogismo, tenta eternamente e vanamente di sciogliere un nodo. Ma non è importante farlo, per l’artista tutto è artifizio, è pre-testo per comunicare attraverso le emozioni un’idea. E non può esistere alcuna emozione senza uno spirito che la crei e un altro che la accolga.
“L’arte è la strada più breve tra uomo e uomo”, scriveva Malraux, ma a condizione che nelle sue azioni l’uomo sia costantemente orientato dal sentimento della perfezione, che, sappiamo, non appartiene a questo mondo.

L’Osservatore Romano

Fonte:
http://sottoosservazione.wordpress.com/2009/12/18/ripenso-a-pasolini-e-mi-viene-in-mente-lecclesiaste/#more-9289


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