1.2 ROMA, GRAMSCI E I NUOVI TEATRI (1950-1965)
Pasolini arriva a Roma, insieme alla madre Susanna, nel 1950, dove, per cominciare una nuova vita, chiedono ospitalità allo zio Gino. I primi mesi sono i più difficili, Pier Paolo ha bisogno di un lavoro ma non lo trova facilmente, la madre lavora inizialmente come domestica presso una famiglia, Pier Paolo si mantiene dando qualche lezione privata e facendo il correttore di bozze, ma sarà il giornalismo a cambiare radicalmente la loro situazione economica e sociale. Nonostante le difficoltà economiche, a Roma, Pasolini può finalmente sentirsi libero di vivere i propri desideri sessuali, «l’omosessualità letterariamente trasfigurata di Amado mio pare farsi cruda e vera nella Roma promiscua dei cinema rionali, i grappoli umani attaccati ai mancorrenti degli autobus e dei tram, la chiacchiera ininterrotta dei venditori ambulanti, la vitalità eccessiva dei fratelli minori degli sciuscià».(1)
Sono gli anni dell’egemonia neorealista, in cui Pasolini non si ritrova fino in fondo, poiché non riconosce come legittima la soggezione della letteratura alla politica, ma sono anche gli anni immediatamente successivi alla prima edizione dei Quaderni dal carcere di Antonio Gramsci (1948), editi da Einaudi, a cura di Palmiro Togliatti. Dal momento della sua pubblicazione il testo gramsciano divenne il punto di riferimento per tutta la critica italiana, non solo per quella comunista. L’uscita dei Quaderni sollecitò nuovi interessi storici e letterari, gli editori tradussero nuove edizioni delle opere di Proust, di Freud e di Jung. La letteratura italiana conobbe un momento di rinnovato vigore insperato:
Ai rigidi principi del “realismo socialista”, la critica storicistica e materialistica di Gramsci agiva sotterraneamente da correttivo, persino da alternativa. […] I problemi non erano soltanto politici, o etico-politici: erano anche letterari. Questione carissima a Gramsci era stata quella di una “letteratura nazional-popolare”. […] erano naturalmente questi temi a rendere Pasolini sensibile alla lettura di Gramsci. […] Solo la marginalità, gergale, morale, per lui era una fisica marginalità: una marginalità che travalica i confini stessi della nozione marxista di proletario. Era marginale il friulano romanzo, ma erano altresì marginali, marginalissime le borgate romane, il Riccetto e i suoi prototipi: ed essi divennero esempio unico, nell’immaginazione pasoliniana, del concetto di nazional-popolare. (2)
Roma è il terreno giusto per Pasolini per cominciare ad interpretare
gramscianamente la cultura, assumendosi in prima persona responsabilità sociali e politiche per poi trasferirle nella letteratura e nella poesia.
Il 1950 coincide con un momento di crisi del teatro italiano, soprattutto dal punto di vista economico, con la registrazione di una forte diminuzione nelle vendite dei biglietti, ma anche con un periodo segnato da una svolta e da una spiccata vivacità, in particolare nel panorama romano e milanese. Si affermano attori e registi come Vittorio Gasmann, Eduardo De Filippo, Luchino Visconti e Giorgio Strehler ma il palcoscenico continua a rimanere un mondo ben lontano dalla realtà antropologica e linguistica italiana. Il Pasolini che ha assorbito e fatto propria la lezione gramsciana, lo scrittore di Ragazzi di vita (1955) non può riconoscersi in questa tendenza.
Il rinnovato interesse di Pier Paolo per il teatro va ricercato nell’incontro con una donna che segnerà la sua vita intellettuale, personale e artistica per sempre: Laura Betti, detta “la giaguara”. Arrivata nella Capitale da Bologna, Laura ha poco più di vent’anni, è attrice e cantante e si fa notare per la sua eccentrica concezione della recitazione, affermandosi ben presto per la sua diversità. La Betti descrive, in queste righe piene di poesia e di sentimento, il primo incontro con Pasolini:
Ricordo e so di un giorno molto lontano in cui, tra tanta gente di cui non ricordo e non so, entrò nella mia casa un uomo pallido, tirato, chiuso in un dolore misterioso, antico; le labbra sottili sbarrate ad allontanare le parole, il sorriso; le mani pazienti d’artigiano. […] Ricordo e so che quell’uomo che era un uomo, diventò il mio uomo. E il mio uomo nascondeva dietro gli occhiali neri l’ansia della scoperta di una possibile, tremante richiesta di amore non rifiutata, non brutalizzata, non rubata. Imparai perciò a camminare in punta di piedi per non spezzare il silenzio che accompagna il gesto dell’amore, per non farlo fuggire nel buio. Lentamente cominciò ad avere fiducia […] e fu così che diventammo «insieme», soli. Ricordo e so quindi di aver iniziato a vivere una vita finalmente difficile. Una vita con la poesia che penetrava ogni angolo segreto della mia casa, del mio crescere, del mio diventare.(3)
E’ un incontro di anime e di arte. Laura, con il suo carattere istrionico e irrequieto sprona inconsapevolmente Pier Paolo a risperimentarsi come drammaturgo. Insieme a lei Pasolini ritrova uno spiccato interesse per la scena teatrale contemporanea e comincia a frequentare i teatri capitolini. Il rapporto con Laura è talmente stimolante che Pasolini elabora un nuovo testo teatrale dal titolo Un pesciolino, datato 1957, quindi ben dieci anni dopo la stesura de La poesia o la gloria.
Un pesciolino è un atto unico scritto per essere interpretato dalla compagnia dei Satiri che stava per cominciare una nuova stagione teatrale. Il testo, destinato anch’esso a rimanere inedito, si apre su una donna, in età compresa tra i trentacinque e i quarant’anni, sulla riva di un lago o di un fiume, che tenta di pescare e, mentre aspetta che un pesce abbocchi al suo amo, racconta ad un immaginario pesciolino la sua vita, i suoi passati amori falliti, vissuti durante il fascismo e segnati dalla guerra e, attraverso questi ricordi, descrive un universo maschile mai compreso, distante e prepotente. L’attesa che un pesce possa abboccare o che un uomo posso finalmente bussare alla sua porta, in modo da non essere più “zitella” (parola che non riesce neanche a pronunciare per tutto il monologo), è il sentimento predominante del testo. Un’attesa che sembra infinita, in grado di mandarla su tutte le furie, di generare in lei un sentimento di rabbia dovuto alla solitudine. Solo nelle ultime battute del testo, quando finalmente la donna riesce a pescare un pesce molto grosso e in uno stato di liberazione riesce a gridare le parole che non possono essere dette: «Nessuno mi vuole! Sono una zitella… Sono una zitella».(4)
La decisione di optare per una donna come protagonista sembra non essere casuale; è molto probabile infatti che l’autore avesse tracciato questo personaggio ricalcandolo proprio su Laura Betti, tanto più se si considerano i lineamenti caratteriali della protagonista: esuberante, ironica, ossessiva, tormentata dalla mancanza di un amore, sola, vagamente sguaiata. Nonostante la messa in scena di questo testo fosse stata annunciata con una pubblicazione sul numero della rivista «Il Caffè», nel settembre del 1957,(5) lo spettacolo verrà rappresentato e pubblicato solo postumo. Probabilmente Pasolini pensò che nonostante Un pesciolino presentasse una certa completezza formale, un linguaggio originale, spezzato da gergalismi e da una frenetica punteggiatura, non fosse all’altezza dei suoi romani esordi narrativi e poetici, con i clamori e i dibattiti sollevati dalla pubblicazione di Ragazzi di vita e de Le ceneri di Gramsci (raccolta poetica uscita proprio nello stesso 1957 e che finalmente aveva ricevuto il consenso della critica e dei lettori). Un pesciolino testimonia il rinnovato interesse pasoliniano per il teatro e la voglia di confrontarsi con i palcoscenici capitolini. Ma dovrà passare diverso tempo anni perché Pasolini torni a stendere un testo teatrale: cinque anni dopo elabora un balletto cantato, dal titolo Vivo e Coscienza (6) (1963).
Già la data del nuovo componimento ci orienta nella novità delle scelte drammaturgiche pasoliniane: siamo all’inizio degli anni Sessanta e il teatro, anche con il successo e il proliferare delle avanguardie, comincia a delinearsi come uno dei pochi terreni in cui è possibile inscenare quella protesta sociale e politica che agita le piazze d’Italia e comincia ad offrire davvero a Pasolini «una possibilità di contatto diretto con un popolo spaccato dagli eventi politici, stirato fra normalizzazione postfascista e irrequietezza di una vasta area di sinistra desiderosa di portare, magari perfino con la forza, il comunismo al potere».(7)
Sin dalla metà degli anni Cinquanta, il dibattito teatrale italiano si concentra sulla teoria e sui tentativi teatrali di un genio indiscusso: Berthold Brecht. Nel 1953 erano stati messi in scena i testi Un uomo è un uomo con la regia di De Bosio e Madre Coraggio diretto invece da Lucignani, ma l’impatto determinante ci fu con la rappresentazione de L’Opera da tre soldi al Piccolo Teatro di Milano, con la regia di Giorgio Strehler. Da questo momento in poi nasce la passione artistica del regista nei confronti delle opere brechtiane che non smetterà mai di rappresentare. Il 1963 è l’anno dello spettacolare adattamento de La vita di Galileo.
Brecht è al centro del dibattito culturale e intellettuale italiano, ma inizialmente non c’è traccia di uno studio accurato da parte di Pasolini delle teorie e dell’opera del drammaturgo tedesco che ha rivoluzionato il teatro europeo del Novecento. Il primo approccio con Brecht avviene proprio all’inizio degli anni Sessanta. Stefano Casi ha rintracciato il momento esatto del primo vero contatto con l’interpretazione di Laura Betti, nel maggio del 1961, de I sette vizi capitali, all’Eliseo di Roma, diretto da Luigi Squarzina, con le coreografie di Jacques Lecoq. Effettivamente la prima citazione brechtiana di Pasolini è reperibile nelle Ballate della violenza, scritte e pubblicate proprio tra il 1961-62. E’ determinante, ancora una volta, il ruolo della Betti nel lento ma inesorabile avvicinarsi di Pasolini alla drammaturgia. Dopo gli anni casarsesi, dopo il teatro della polis friulana, dopo l’esperienza pedagogica sperimentata con l’Academiuta, possiamo constatare come il nostro autore abbia effettivamente un rapporto contraste con il palcoscenico: non riesce a dimenticarlo, fa parte della sua formazione di umanista e di intellettuale impegnato, ma nello stesso tempo, non si sente ancora pronto a cimentarsi fino in fondo in una scrittura teatrale, nell’elaborazione di un dramma che possa essere riconosciuto all’altezza dei felici risultati ottenuti in ambito poetico, narrativo e anche cinematografico (non dimentichiamo infatti che Accattone, pellicola che sigla l’esordio dietro alla macchina da presa di Pasolini, era uscita nelle sale cinematografiche nel 1961, seguita l’anno successivo da Mamma Roma, interpretata da Anna Magnani: entrambi i film avevano quindi portato all’attenzione di pubblico e critica la vocazione cinematografica dell’intellettuale friulano).
Più avanti analizzeremo il forte impatto e l’influenza che l’opera brechtiana ebbe su una più complessa e matura riflessione drammaturgica pasoliniana, per ora ci interessa evidenziare l’aderenza (seppur non apertamente dichiarata) dell’opera Vivo e Coscienza al modello proposto da Brecht e in modo particolare proprio a I sette vizi capitali interpretati da Laura Betti che gli indicano la via direttrice da seguire per operare un superamento del teatro eschileo e approdare ad un teatro effettivamente ideologico, inteso in senso brechtiano. Il teatro greco è indubbiamente il modello costante a cui Pasolini ha guardato per i suoi esordi drammaturgici e su cui fonderà anche il successivo e più articolato corpus della sei tragedie del 1966 che andremo ad analizzare tra poco,(8) ma soprattutto da questo momento, dalla scoperta di Brecht, c’è e ci sarà sempre il tentativo e il desiderio di attingere anche al teatro contemporaneo.
In Vivo e Coscienza, i protagonisti sono un uomo e una donna i cui nomi danno il titolo all’opera: lui, Vivo, viene descritto come un giovane rozzo, un contadino che falcia l’erba e pota le vigne; lei, Coscienza, è invece ricca e indipendente. La storia è ambienta nel 1660, nell’immediato periodo che segue il Concilio di Trento. La ragazza, incarnazione della Controriforma, è sessualmente attratta dal pastore che lavora la terra e lo osserva «nella sua antica danza di vita, sensualità, lavoro, sole, smemoratezza, fame»,(9) gli si avvicina, compra la sua merce, il prodotto del suo duro lavoro nei campi, ma l’oro con cui paga non riesce a comprare anche il corpo e il sesso di Vivo e «il mancato possesso sessuale in una puritana pretesa di possesso ideologico»(10) genera in lei un forte sentimento di rabbia per cui comincia a rimproverare il giovane additandolo come peccatore e ordinandogli di inginocchiarsi. A Vivo non resta che obbedire, preso da una religiosa soggezione e mentre si china ai suoi piedi, Coscienza, lentamente, si avvicina per baciarlo. A questo punto la scena viene interrotta da una meravigliosa musica che giunge alle orecchie dei due, «una vecchia melodia che riempie cielo e terra».(11) Con l’irrompere della musica fanno ingresso in scena anche gli amici di Vivo, ragazzotti, contadini allegri, vivi, che danzano lasciandosi trasportare dalla melodia e strappano il protagonista dalle labbra di Coscienza e lo portano con loro nella corrente della danza dionisiaca.
Coscienza rimane sola. Il secondo episodio si apre nella Francia del Settecento, negli anni della Rivoluzione, in cui echeggiano i canti rivoluzionari e anche qui ritroviamo Coscienza e Vivo: lei vestita da sancullotta, lui come un semplice artigiano contadino. Appena prima che le loro labbra si possano toccare, Vivo viene trascinato via da una sua giovane coetanea. L’episodio successivo è invece ambientato negli anni del capitalismo fascista, in cui Coscienza incarna la borghesia dominante e Vivo continua a rimanere un contadino ma questa volta trapiantato dalla campagna alla grande città, mentre di sottofondo, come colonna sonora, si ascolta una musica jazz degli anni Trenta. Il bacio non si concretizzerà neanche in questo episodio che si concluderà quando il richiamo della patria e la partenza per la guerra sottrarranno Vivo dalle braccia della ragazza. Nel quarto e ultimo episodio siamo negli anni della Resistenza, con i canti partigiani che si odono di sottofondo. Coscienza è la coscienza democratica della resistenza, Vivo è un partigiano che viene fucilato, ma Coscienza neanche dopo la morte del giovane desiderato, riuscirà a baciarlo: infatti il corpo senza vita del ragazzo verrà trascinato da altri morti «tra cui egli, che fu un anonimo vivo, si perde».(12) Rimasta ancora una volta e, per sempre, sola e sconsolata, Coscienza riesce però a pronunciare parole di speranza con la battuta che chiude il testo: «verrà un giorno in cui Vita sarà Coscienza e la Coscienza Vita».(13)
Articolato in quattro episodi, solo il primo è interamente strutturato con tanto di dialoghi e descrizioni, mentre gli altri tre sono abbozzati e ricalcati sull'impostazione del primo. Il componimento, pubblicato postumo, è destinato dunque a rimanere un abbozzo, un’idea di una vera e propria opera teatrale coreografata (nei vari episodi erano infatti previsti diversi balletti come quello dei soldati, nel terzo, che trascinano Vivo in guerra). In un’intervista al «Corriere Lombardo» del 28 marzo 1963, l’autore risponde così quando gli viene chiesto se è vero che stesse lavorando ad un’opera lirica: «E’ stato solo un progetto, una tentazione. Naturalmente non intendevo scrivere un melodramma sui vecchi schemi e forse per realizzare la mia idea non ho incontrato, come Brecht, il mio Kurt Weill».(14) Nonostante il titolo della presunta opera lirica non venga specificato né nelle domanda del giornalista né nella risposta dell’autore, la data dell’intervista e anche le parole di Pasolini, lasciano pensare che effettivamente si stesse riferendo proprio a Vivo e Coscienza.
Il titolo dell’opera richiama la dicotomia tra vita e coscienza con la personificazione dei due principi nei protagonisti del testo che sembrano non poter convivere, non incontrarsi mai. La tematica dello scontro tra due forze che si contrappongono, la passione e l’ideologia, e la mancata sintesi in un periodo di crisi che sta sconvolgendo l’Italia con l’avanzata inarrestabile di un tragico futuro in cui regnerà l’egemonia capitalista, viene qui raccontato da Pasolini in una forma d’arte mai sperimentata prima dall’autore, in un tentativo artistico in cui il canto e il ballo avrebbero dovuto essere il centro della rappresentazione. In questo sembra chiara l’influenza che la tecnica attoriale di Laura Betti, individuata come interprete perfetto per il personaggio di Coscienza, abbia avuto nelle riflessioni e nella sporadica scrittura teatrale pasoliniana di questi anni, ma ancor di più è necessario fissare il 1963 (e quest’opera in particolare) come il momento della svolta brechtiana di Pasolini, in cui si sente pronto e maturo per stravolgere e a mettere in discussione gli orizzonti letterari finora raggiunti e affrontati. «In questo momento di profonda trasformazione, Pasolini individua in Brecht l’inventore di meccanismi scenico-drammaturgici che destrutturano lo spettacolo proprio attraverso elementi che mettono in gioco il non finito, suggerendo un teatro nel quale l’informe avvicendarsi di appunti scenici, magari scanditi da cartelli, citazioni, canzoni, codici drammaturgici lontanissimi tra loro, si concludano con una non-conclusione».(15)
Dopo il tentativo naufragato di Vivo e Coscienza, Pasolini, che ormai ha assorbito e reinterpretato le teorie brechtiane, decide di ritentare la scrittura di un testo teatrale e l’occasione gli si presenta nel momento in cui Laura Betti gli commissiona la stesura di un’opera per un recital (al quale, oltre a Pasolini, partecipano anche altri scrittori di spicco come Siciliano, Leonetti, Moravia e Parise), dal titolo Potentissima signora. Canzoni e dialoghi scritti per Laura Betti,(16) che garantisca all’attrice la possibilità di dimostrare tutte le sue doti da attrice e cantante. Così Pier Paolo elabora l’atto unico Italie magique (1964), rappresentato per la prima volta al Teatro La Ribalta di Bologna il 5 dicembre 1964. Il testo si apre con un “Antefatto storico” in cui Laura canta in dialetto e uno Speaker annuncia l’imminente avvento del fascismo e lo scoppio della Seconda guerra mondiale. La Betti si identifica con l’Influenza Ideologica Borghese, in grado di trasformare l’innocenza del popolo in stupidità. Sul palco passano due servi di scena che mostrano un enorme cartello con una fotografia raffigurante i cadaveri nei forni crematori e nelle camere a gas. Segue infine una “Citazione brechtiana”, accompagnata da una musica carnevalesca, di felliniana memoria, di sottofondo: Mussolini e Hitler siedono su una mensola, mentre Laura, che ora incarna la Patria, ballando avvolta da una grande stola tricolore, si muove in atteggiamenti materni per poi esibire in rassegna il saluto militare, quello fascista e il passo dell’oca. Esce per un attimo di scena e rientrando porta con sé un povero soldato senza nome e, dopo averlo sbeffeggiato, lo strozza e lo calpesta. Nella scena successiva Laura è la Morte («dovrebbe essere il cadavere di un morto sotto i bombardamenti: è per esempio un’annegata nella cantina allagata in seguito al crollo della casa»),(17) ride sinistramente davanti ai cadaveri di Hitler e di Mussolini che raccoglie e getta dentro la carriola che trasporta. L’ultima scena è invece ambientata in uno scenario neocapitalistico, bello e luminoso, in cui Laura ha accanto a sé una bambola gigante che la raffigura e che pian piano monta e rismonta, fino a che non la ricostruisce interamente, creando quindi un’altra sé stessa. Ora Laura si presenta come l’Avvenire Alienazione. Il tutto è accompagnato da una musica tragica. A questo punto entrano in scena i due servi che, in un dialogo frammentato e veloce, (verrebbe da dire quasi ironico) si prendono gioco di Mao, il dittatore cinese. Al riaccendersi delle luci, Laura è in platea e, dopo un lungo e commovente monologo, torna sul palcoscenico, raccoglie pezzi di giornale e ne legge alcuni stralci. La scena si chiude confusamente con la musica del programma televisivo “Carosello” di sottofondo e i due servi che attraversano il palco con l’ennesimo cartello con su scritto “Conclusione provvisoria”.
Le scelte adottate da Pasolini sono indiscutibilmente legate alla volontà di evidenziare le doti artistiche della Betti, spaziando dalla canzone al balletto, fino ad arrivare al monologo finale che mette in mostra l’intensità drammatica dell’interpretazione dell’attrice. L’idea sembra ricalcare in parte il principio dell’opera precedente, con le continue metamorfosi di Laura che ricordano quelle di Coscienza. Il testo appare comunque frammentato e le diverse fasi di composizione ci confermano come l’opera sia nata “a singhiozzo”; oggi si conservano due stesure dattiloscritte che presentano diverse correzioni a penna dell’autore. Nello spettacolo che esordì a Bologna, fu recitato una sorta di collage delle diverse stesure. Il titolo (che figura solo in una dei due dattiloscritti) è ripreso da un’antologia continiana, che raccoglieva racconti surreali moderni, pubblicata nel 1946.
Italie magique rappresenta il momento in cui Pasolini comincia a sentire l’urgenza di sperimentare il genere teatrale sconvolgendo codici e canoni, qui infatti «le regole vengono stirate e infrante, il dramma comprime al suo interno un caleidoscopio di possibilità che travalicano sistematicamente la forma teatrale, portandola verso altri lidi».(18) Si tratta, insomma di un interessante segno di sfida alla rappresentabilità. Ci sono tracce di tutte quelle riflessioni teoriche e linguistiche che catturano l’attenzione e lo studio di Pasolini in questi anni: il problema del carattere politico e dell’impegno civile della letteratura, il rapporto tra lingua scritta e pronunciata, la preoccupazione per il drammatico futuro capitalistico che avanza inesorabilmente.
Siamo nel 1965, l’idea di elaborare un articolato progetto teatrale è ormai già fissata nella mente dell’autore e la sua esigenza di mettersi veramente alla prova con il teatro, in età matura, dopo aver portato a termine con successo esperimenti in ambito poetico e cinematografico, sembra essere impellente. Prima di arrivare al concepimento del corpus delle sei tragedie, che coinciderà quasi con una seconda nascita, dopo la malattia e la convalescenza, Pasolini riprende in mano il dramma a cui abbiamo accennato prima: Il cappellano, nel tentativo di renderlo renderlo finalmente un testo strutturato in quattro atti, dal titolo Nel ’46!. Lo stesso autore spiega il tema del dramma nell’apparato dei personaggi che anticipa la pubblicazione del testo: «Tema: i primi barlumi di coscienza democratica in una persona repressa dal Cattolicesimo».(19)
Il protagonista è Giovanni, giovane insegnante in una scuola media parificata di una piccola città di provincia che dà lezione ad un adolescente di nome Eligio, fratello di Lina, di cui Giovanni è segretamente innamorato. A rompere gli equilibri della vita del protagonista è (di nuovo) un sogno in cui troviamo il Parroco, che parla della tentazione erotica dei corpi, un seminarista, da cui Giovanni è fortemente attratto e che si rivelerà essere Lina. Giovanni sogna di essere svegliato da Eligio che gli confessa di essere venuto a conoscenza della sua passione per la sorella: a questo punto il protagonista uccide il ragazzo e nasconde il suo cadavere sotto al divano. Ma ecco che entra in scena un altro personaggio: il cardinale Fabrizio Ruffo, eroe della reazione giacobina
napoletana del 1799, che irrompe con una decina di Lanzichenecchi, in cerca di Eligio. Il cardinale scopre il cadavere, ma Giovanni riesce a farlo scomparire magicamente e sulle note della canzone Amado mio, i due iniziano a ballare, coinvolgendo man mano anche i Lanzichenecchi. Con questo episodio si chiude il secondo atto. Il successivo si apre invece in una triste radura, affollata di morti viventi, ognuno dei quali sospinge un lettino da sala operatoria su cui è disteso il proprio cadavere. Mentre Giovanni sta dialogando con un morto, viene interrotto dal Capo della polizia che interroga Giovanni. Il professore inizia una lezione di storia, durante la quale bacia Lina. Finalmente arriva Eligio a destare Giovanni dal suo sogno, ma non appena il ragazzo esce, il professore torna a dormire e continua a sognare. Questa volta troviamo il Dottore e la Madre che siedono al suo capezzale: il Dottore spiega a Giovanni che la malattia che affligge la sua anima è la «sostanza sessuale» e l’unico rimedio «contro questa Peste» è essere vigliacchi.
Nel quarto atto ci troviamo invece nel Caucaso, nell’anno 1000, il Cardinale Ruffo veste i panni di un Giudice Bizantino, aspetta Dio e si prepara per il Giudizio Universale, con tanto di presenza sulla scena di angeli che mormorano un canto in latino e che suonano le trombe. La scena si trasforma in un mosaico bizantino. Ruffo, ricoperto da una grande stola d’oro, minaccia di confessare la natura di Giovanni, due monache consegnano al professore una grande croce per essere poi sepolto vivo. Entra in scena la Madre a cui Giovanni, da dentro la bara, dichiara il motivo della sua colpa: «la mia coscienza tappolica ha avuto un sussulto emocratico, e il mondo della ragione le sta cadendo intorno, in rovina…».(20) La Madre deve salutare il figlio che è pronto a morire e il suo ultimo appello è alla Costituzione.
Le luci si spengono, il palco precipita nell’oscurità; quando si riaccendono le luci, la scena è tornata ad essere quella dei primi tre atti e Giovanni dorme sul sofà, si sveglia, rimane qualche istante stordito, poi si tira su, si fa rapidamente il segno della croce ed esce di scena.
La stesura di questo testo, la costruzione di un intreccio così articolato, rimane per anni chiusa nella mente e nei cassetti di Pasolini. Ogni tanto nel corso del ventennio che intercorre tra il primo abbozzo di Il Cappellano fino ad arrivare alla scrittura di Nel 46!, Pier Paolo aveva ripreso in considerazione la sua idea: nel 1960, sul giornale «Il Giorno», aveva pubblicato una sorta di diario che raccontava il suo processo di riscrittura del Cappellano che diventava Storia interiore, dramma in cui l’autore inizia raccontando i turbamenti e il dolore vissuto nei giorni immediatamente successivi alla morte del fratello, per arrivare a poi a confessare, attraverso il personaggio di un prete che vive angosciosamente il desiderio sessuale, il suo dissidio interiore. Risalgono a questa fase, alcuni importanti modifiche rispetto al progetto iniziale: l’inserimento di una voce fuori campo annuncia l’antefatto del dramma, si insinua l’idea di sostituire al cappellano la figura di un professore come protagonista, variazione che però non si realizza subito.(21) Ma tutto il lavoro e le diverse fasi di riscrittura e revisione non portano a nulla e Storia interiore è destinata a rimanere nel cassetto.(22)
La versione definitiva intitolata Nel 46!, verrà messa in scena il 31 maggio 1965, al teatro dei Satiri, diretta da Sergio Graziani. Le differenze rispetto ai tentativi precedenti sono numerose: cambia la natura e il nome del protagonista, non è più don Paolo ma diventa il professor Giovanni, che però continua a vivere turbamenti e angosce dovuti al desiderio erotico che non riesce ad esternare; diverso è anche il finale che nel testo del 1965 richiama quasi all’opera lirica, in linea con i più recenti esperimenti teatrali pasoliniani di cui abbiamo già parlato.
E’ possibile riconoscere in Nel 46! alcune tematiche care al Pasolini drammaturgo come quella della metamorfosi e del sogno. Per quanto riguarda la prima, tutti i numerosi personaggi che si susseguono nel dramma altro non sono che le metamorfosi della coscienza e del desiderio erotico (nella quale sfera rientra anche la figura materna, caricata di interpretazioni psicoanalitiche) di Giovanni, due forze che sembrano contrapporsi (anche qui ancora una volta torna il rapporto dicotomico tra due elementi senza possibilità di sintesi, come già notato in Vivo e Coscienza).
Il sogno invece, elemento da sempre presente negli studi pasoliniani e che approfondirà ancor di più nelle tragedie del 1966, è sempre un sogno rivelatore, che svela la vera realtà dell’io ma in questo caso non sembra rompere veramente gli equilibri, poiché nell’ultima scena vediamo come Giovanni, destato dal sogno, si alzi di scatto e si faccia velocemente il segno della croce, gesto che lo riporta in qualche modo nei canoni repressivi del Cattolicesimo imperante. E’ la religione infatti ad esprimere la Norma, ma Dio non arriva neanche nel giorno del Giudizio Universale e sarà il Cardinale Ruffo, che incarna la coscienza repressiva, a prendere le sue veci. Nonostante il testo, costellato anche da lunghe battute in latino, non sia di semplice comprensione, si fa sempre più forte la volontà dell’autore di dare voce al suo grido di denuncia attraverso la parola teatrale: il palcoscenico si conferma una volta per tutte il luogo ideale per rappresentare «la denuncia dell’eresia e della diversità in chiave politica/soggettiva, secondo una necessità intrinseca che arriva al suo culmine nel martirio conclusivo del protagonista, perseguitato perché scandalosamente attratto da chi non dovrebbe amare».(23)
E’ difficile collocare con precisione un’opera come Nel 46! perché effettivamente accompagna tutto il percorso che Pasolini compie partendo da Casarsa, dal teatro della polis e dell’io, fino ad arrivare a Roma, alla scoperta dei nuovi teatri, di Brecht, all’incontro con Laura Betti, alla presa di coscienza della sua omosessualità, passando per la morte del padre e dando il via a quel filone lucidamente disperato che porterà al concepimento delle pellicole degli anni Settanta, fino ad arrivare a Salò o le 120 giornate di Sodoma. Nonostante il tentativo di rinnovare il testo ad un linguaggio e ad una struttura più contemporanea, inserendo elementi onirici e visionari, Pasolini riconosce di sottoporre agli spettatori un’opera sì contemporanea ma non sufficientemente riattualizzata perché gli anni passati hanno effettivamente scavato un solco profondo tra quel testo abbozzato e concepito a Casarsa e il pensiero attuale di Pasolini.
Nel programma di sala, sotto una sua foto, Pier Paolo definiva il testo una «spacconata massiccia» e chiedeva «al lettore mal disposto di non approfittare di un fianco scoperto diciannove anni fa».(24)
Note:
1 E. Siciliano, Vita di Pasolini, cit., p. 215.
2 Ivi, p. 223.
3 L. Betti, Introduzione in Id. (a cura di), Pasolini: cronaca giudiziaria, persecuzione, morte, cit., p. V.
4 P.P.Pasolini, Teatro, cit., p. 143.
5 Cfr. Pasolini e il teatro, in «Il Caffè», settembre, 1957 citata in S. Casi, I teatri di Pasolini, cit, p. 65: «P.P. Pasolini ha terminato una commedia –monologo in un atto, Il pesciolino, che ha assegnato alla compagnia dei Satiri. Il giovane scrittore friulano sta inoltre scrivendo un’altra commedia in tre atti, che ha per protagonista un prete innamorato di una ragazza, il cui titolo sarà Storia interiore o Venti secoli di storia».
6 Anche questo testo verrà pubblicato postumo in occasione della messa in scena di Pilade e Calderón, entrambi diretti da Luca Ronconi al Teatro Stabile di Torino (1993).
7 S. Casi, I teatri di Pasolini, cit., p. 91.
8 Per completare il quadro di riferimenti classici e l’influenza che essi hanno avuto anche nei primi anni Sessanta nella parabola artistica Pasoliniani, ricordiamo le traduzione che Pasolini fece di due importanti opere della cultura greca e latina su esplicita richiesta di Vittorio Gassman che voleva metterle in scena con il Teatro Popolare Italiano: l’Orestiade (1959) di Eschilo, e il Miles Gloriosus (1961) di Plauto. La prima fu una traduzione non fedele, né tantomeno filologica, ma fu portata a termine e rappresentata, mentre la seconda, tradotta in Koinè romanesca, non fu poi rappresentata dalla compagnia di Gassman, probabilmente proprio per le difficoltà incontrate dagli attori nel recitare in dialetto. Per vedere lo spettacolo con il testo tradotto da Pasolini, bisognerà aspettare altri due anni, quando La Compagnia dei Quattro lo rappresenterà al teatro “La Pergola” di Firenze, interpretato da Glauco Mari e diretto da Franco Enriquez.
9 P.P. Pasolini, Teatro, cit., p. 148.
10 Ibidem.
11 Ivi, p. 149.
12 Ivi, p. 151.
13 Ibidem
14 Cfr. Ivi, p. 1133.
15 S. Casi, I teatri di Pasolini, cit., p. 112.
16 Potentissima Signora. Canzoni e dialoghi scritti per Laura Betti, Milano, Longanesi, 1995.
17 P.P. Pasolini, Teatro, cit., p. 158.
18 S. Casi, I teatri di Pasolini, cit., P. 114.
19 P.P. Pasolini, Teatro, cit., p.167.
20 Ivi., p. 231.
21 Cfr. W. Siti e S. De Laude (a cura di), Note e notizie sui testi, in P.P. Pasolini, Teatro, cit., p. 1139-1145.
22 Calvino scrive in una lettera a Pasolini, il suo commento (negativo) dopo aver letto Storia interiore: «Caro Pier Paolo, mi è capitato tra le mani il manoscritto di Storia interiore e l’ho letto. Ma cosa ti succede? Ritira immediatamente tutte le copie del manoscritto che sono in giro e fa’ in modo che chi lo ha letto non ne parli. Come mi impegno a fare io. Da amico». In P.P. Pasolini, Lettere 1955-1975, a cura di N. Naldini, vol. II, Torino, Einaudi, 1988, p. 489.
23 S. Casi, I teatri di Pasolini, cit., p. 128.
24 Cfr. P.P. Pasolini, Teatro, cit., p. 1144.
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