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Biografia, lavori in corso - a breve anche il 1974 e il 1975

mercoledì 10 febbraio 2021

Pier Paolo Pasolini, Il Ferrobedo - Ragazzi di vita

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro




Pier Paolo Pasolini
Il Ferrobedo
Tratto da Ragazzi di vita
Pubblicato la prima volta nel 1955 da Garzanti


Ragazzi di vita, di Pier Paolo Pasolini
Sommario

  • I.  - Il Ferrobedo - pag. 1 
  • II.  - Il Riccetto - pag. 25 
  • III.  - Nottata a Villa Borghese - pag. 57 
  • IV.  - Ragazzi di vita - pag. 80 
  • V.  - Le notti calde - pag. 107 
  • VI.  - Il bagno sullíAniene - pag. 150 
  • VII.  - Dentro Roma - pag. 177 
  • VIII.  - La comare secca - pag. 220 
  • Glossario - pag. 246 
  • Appendice - pag. 251
Pasolini in visita a una borgata con Ninetto Davoli intorno al 1968.



I PERSONAGGI DE ‘RAGAZZI DI VITA

IL RICCETTO: è il protagonista che funge da filo conduttore.

AGNOLO: amico d'infanzia del Riccetto. 

MARCELLO: amico d'infanzia di Riccetto. 

ALDUCCIO: è cugino del Riccetto.

IL BEGALONE: è amico del Riccetto e di Alduccio.

IL CACIOTTA: è amico del Riccetto.

AMERIGO: vecchio amico del Caciotta.

IL LENZETTA: amico del protagonista, identico nei tratti fisionomici (riccio, piccolo, con una faccetta gonfia da delinquente).

GENESIO-BORGO ANTICO-MARIUCCIO: sono i "tre moschettieri".

PIATOLETTA: è una specie di nanerottolo deforme e rachitico, porta in capo un inseparabile berretto per coprire il cranio spelacchiato.

SOR ANTONIO: personaggio che conduce il Riccetto ed il Lanzetta a rubare i cavolfiori...

SORA ADELE: madre del Riccetto

NADIA: prostituta che viene condotta ad Ostia dal Riccetto...

NADIA: figlia maggiore del sor Antonio

LUCIANA: figlia del sor Antonio

3a FIGLIA DEL SOR ANTONIO: ragazza del Riccetto

SORA ADRIANA: moglie del sor Antonio.

Immagine tratta dal film, "Sotto il sole di Roma" - 1948


Edizione di riferimento: Einaudi, Torino 1972, 
ed. ampliata con l'aggiunta di due scritti di Pier Paolo Pasolini: 
Il metodo di lavoro e 
I parlanti.

Immagine tratta dal film, "Sotto il sole di Roma" - 1948

Il periodo a cui la vicenda si riferisce è l'inizio degli anni '50.L’opera è ad episodi e si sviluppa in un arco narrativo che mostra l'evoluzione di Riccetto (il protagonista), che da ragazzino sensibile e impulsivo che salva una rondine che sta annegando, diventa un uomo integrato e praticamente intrappolato (privo di passioni),  nel ruolo imposto dalla società.
I dialoghi dei personaggi, che si esprimono nel gergo delle borgate romane, rendono la narrazione molto appassionante e realistica. In fondo al romanzo Pasolini inserisce un piccolo glossario del dialetto romanesco.
Di seguito alcuni stralci tratti dal primo episodio, 
Il Ferrobedo 


E sotto er monumento de Mazzini...
Canzone popolare

Immagine tratta dal film, "Sotto il sole di Roma" - 1948
Era una caldissima giornata di luglio. Il Riccetto che doveva farsi la prima comunione e la cresima, s'era alzato già alle cinque; ma mentre scendeva giù per via Donna Olimpia coi calzoni lunghi grigi e la camicetta bianca, piuttosto che un comunicando o un soldato di Gesù pareva un pischello quando se ne va acchittato pei lungoteveri a rimorchiare. Con una compagnia di maschi uguali a lui, tutti vestiti di bianco, scese giù alla chiesa della Divina Provvidenza, dove alle nove Don Pizzuto gli fece la comunione e alle undici il Vescovo lo cresimò. Il Riccetto però aveva una gran prescia di tagliare: da Monteverde giù alla stazione di Trastevere non si sentiva che un solo continuo rumore di macchine. Si sentivano i clacson e i motori che sprangavano su per le salite e le curve, empiendo la periferia già bruciata dal sole della prima mattina con un rombo assordante. Appena finito il sermoncino del Vescovo, Don Pizzuto e due tre chierici giovani portarono i ragazzi nel cortile del ricreatorio per fare le fotografie: il Vescovo camminava fra loro benedicendo i familiari dei ragazzi che s'inginocchiavano al suo passaggio. Il Riccetto si sentiva rodere, lì in mezzo, e si decise a piantare tutti: uscì per la chiesa vuota, ma sulla porta incontrò il compare che gli disse: «Aòh, addò vai?» «A casa vado,» fece il Riccetto, «tengo fame.» «Vie' a casa mia, no, a fijo de na mignotta,» gli gridò dietro il compare, «che ce sta er pranzo.» Ma il Riccetto non lo filò per niente e corse via sull'asfalto che bolliva al sole. Tutta Roma era un solo rombo: solo lì su in alto, c'era silenzio, ma era carico come una mina. Il Riccetto s'andò a cambiare.
Immagine tratta dal film, "Sotto il sole di Roma" - 1948
Da Monteverde Vecchio ai Granatieri la strada è corta: basta passare il Prato, e tagliare tra le palazzine in costruzione intorno al viale dei Quattro Venti: valanghe d'immondezza, case non ancora finite e già in rovina, grandi sterri fangosi, scarpate piene di zozzeria. Via Abate Ugone era a due passi. La folla giù dalle stradine quiete e asfaltate di Monteverde Vecchio, scendeva tutta in direzione dei Grattacieli: già si vedevano anche i camion, colonne senza fine, miste a camionette, motociclette, autoblinde. Il Riccetto s'imbarcò tra la folla che si buttava verso i magazzini.

Il Ferrobedò lì sotto era come un immenso cortile, una prateria recintata, infossata in una valletta, della grandezza di una piazza o d'un mercato di bestiame: lungo il recinto rettangolare s'aprivano delle porte: da una parte erano collocate delle casette regolari di legno, dall'altra i magazzini. Il Riccetto col branco di gente attraversò il Ferrobedò quant'era lungo, in mezzo alla folla urlante, e giunse davanti a una delle casette. Ma lì c'erano quattro Tedeschi che non lasciavano passare. Accosto la porta c'era un tavolino rovesciato: il Riccetto se l'incollò e corse verso l'uscita. Appena fuori incontrò un giovanotto che gli disse: «Che stai a fa?» «Me lo porto a casa, me lo porto,» rispose il Riccetto. «Vie' con me, a fesso, che s'annamo a prenne la robba più mejo.»

«Mo vengo,» disse il Riccetto. Buttò il tavolino e un altro che passava di lì se lo prese.
Immagine tratta dal film, "Sotto il sole di Roma" - 1948
Col giovanotto rientrò nel Ferrobedò e si spinse nei magazzini: lì presero un sacco di canapetti. Poi il giovane disse: «Vie' qqua a incollà li chiodi.» Così tra i canapetti, i chiodi e altre cose, il Riccetto si fece cinque viaggi di andata e ritorno a Donna Olimpia. Il sole spaccava i sassi, nel pieno del dopopranzo, ma il Ferrobedò continuava a esser pieno di gente che faceva a gara coi camion lanciati giù per Trastevere, Porta Portese, il Mattatoio, San Paolo, a rintronare l'aria infuocata. Al ritorno dal quinto viaggio il Riccetto e il giovanotto videro presso al recinto, tra due casette, un cavallo col carro. S'accostarono per vedere se si poteva tentare il colpaccio. Nel frattempo il Riccetto aveva scoperto in una casetta un deposito di armi e s'era messo un mitra a tracolla e due pistole alla cintola. Così armato fino ai denti montò in groppa al cavallo.

Ma venne un Tedesco e li cacciò via.
Immagine tratta dal film, "Sotto il sole di Roma" - 1948
Mentre che il Riccetto viaggiava coi sacchi di canapetti su e giù da Donna Olimpia ai magazzini, Marcello stava cogli altri maschi nel caseggiato al Buon Pastore. La vasca formicolava di ragazzi che si facevano il bagno schiamazzando. Sui prati sporchi tutt'intorno altri giocavano con una palla.

Agnolo chiese: «Addò sta er Riccetto?»

«È ito a fasse 'a comunione, è ito,» gridò Marcello.

«L'animaccia sua!» disse Agnolo.

«Mo starà a pranzo dar compare suo,» aggiunse Marcello.

Lì su alla vasca del Buon Pastore non si sapeva ancora niente. Il sole batteva in silenzio sulla Madonna del Riposo, Casaletto e, dietro, Primavalle. Quando tornarono dal bagno passarono per il Prato, dove c'era un campo tedesco.
Immagine tratta dal film, "Sotto il sole di Roma" - 1948
Essi si misero a osservare, ma passò di lì una motocicletta con la carrozzella, e il Tedesco sulla carrozzella urlò ai maschi: «Rausch, zona infetta.» Lì presso ci stava l'Ospedale Militare. «E a noi che ce frega?» gridò Marcello: la motocicletta intanto aveva rallentato, il Tedesco saltò giù dalla carrozzella e diede a Marcello una pizza che lo fece rivoltare dall'altra parte. Con la bocca tutta gonfia Marcello si voltò come una serpe e sbroccolando con i compagni giù per la scarpata, gli fece una pernacchia: nel fugge che fecero, ridendo e urlando, arrivarono diretti fino davanti al Casermone. Lì incontrarono degli altri compagni. «E che state a ffà?» dissero questi, tutti sporchi e sciammannati.

«Perché?» chiese Agnolo, «che c'è da fà?» «Annate ar Ferrobedò, si volete vede quarcosa.» Quelli c'andarono di fretta e appena arrivati si diressero subito in mezzo alla caciara verso l'officina meccanica. «Smontamo er motore,» gridò Agnolo. Marcello invece uscì dall'officina meccanica e si trovò solo in mezzo alla baraonda, davanti alla buca del catrame. Stava per caderci dentro, e affogarci come un indiano nelle sabbie mobili, quando fu fermato da uno strillo: «A Marcè, bada, a Marcè!» Era quel fijo de na mignotta del Riccetto con degli altri amici. Così andò in giro con loro. Entrarono in un magazzino e fecero man bassa di barattoli di grasso, di cinghie di torni e di ferraccio. Marcello ne portò a casa mezzo quintale e gettò la merce in un cortiletto, dove la madre non la potesse vedere subito. Era dal mattino che non rincasava: la madre lo menò. «Addò sei ito, disgrazziato», gli gridava crocchiandolo. «So' ito a famme er bagno, so' ito,» diceva Marcello ch'era un po' storcinato, e magro come un grillo, cercando di parare i colpi. Poi venne il fratello più grosso e vide nel cortiletto il deposito. «Fregnone,» gli gridò, «sta a rubbà sta mercanzia, sto fijo de na mignotta.» Così Marcello ridiscese al Ferrobedò col fratello, e questa volta portarono via da un vagone copertoni di automobile. Scendeva già la sera e il sole era più caldo che mai: già il Ferrobedò era più affollato d'una fiera, non ci si poteva più muovere. Ogni tanto qualcuno gridava: «Fuggi, fuggi, ce stanno li Tedeschi», per fare scappare gli altri e rubare tutto da solo.
Immagine tratta dal film, "Sotto il sole di Roma" - 1948
Il giorno dopo il Riccetto e Marcello, che c'avevano preso gusto, scesero insieme alla Caciara, i Mercati Generali, che erano chiusi. Tutt'intorno girava una gran massa di gente e dei Tedeschi, che camminavano avanti e indietro sparando in aria. Ma più che i Tedeschi a impedire l'entrata e a rompere il c... erano gli Apai. La folla però cresceva sempre più, premeva contro i cancelli, baccajava, urlava, diceva i morti. Cominciò l'attacco e anche quei fetenti degli Italiani lasciarono perdere. Le strade intorno ai Mercati erano nere di gente, i Mercati vuoti come un cimitero, sotto un sole che li sgretolava: appena aperti i cancelli, si riempirono in un momento.

Ai Mercati Generali non c'era niente, manco un torso di cavolo. La folla si mise a girare pei magazzini, sotto le tettoie, negli spacci, ché non si voleva rassegnare a restare a mani vuote. Finalmente un gruppo di giovanotti scoprì una cantina che pareva piena: dalle inferriate si vedevano dei mucchi di copertoni e di tubolari, tele incerate, teloni, e, nelle scansie, delle forme di formaggio. La voce si sparse subito: cinque o seicento persone si scagliarono dietro il gruppo dei primi. La porta fu sfondata, e tutti si buttarono dentro, schiacciandosi. Il Riccetto e Marcello erano in mezzo. Vennero ingoiati per il risucchio della folla, quasi senza toccar terra coi piedi, attraverso la porta. Si scendeva giù per una scala a chiocciola: la folla di dietro spingeva, e delle donne urlavano mezze soffocate. La scaletta a chiocciola straboccava di gente. Una ringhiera di ferro, sottile, cedette, si spaccò, e una donna cadde giù urlando e sbatté la testa in fondo contro uno scalino. Quelli rimasti fuori continuavano a spingere. «È morta,» gridò un uomo in fondo alla cantina. «È morta,» si misero a strillare spaventate delle donne; non era possibile né entrare né uscire. Marcello continuava a scendere gli scalini. In fondo fece un salto scavalcando il cadavere, si precipitò dentro la cantina e riempì di copertoni la sporta insieme agli altri giovani che prendevano tutto quello che potevano. Il Riccetto era scomparso, forse era riuscito fuori. La folla si era dispersa. Marcello tornò a scavalcare la donna morta e corse verso casa.
Immagine tratta dal film, "Sotto il sole di Roma" - 1948
Al Ponte Bianco c'era la milizia. Lo fermarono e gli presero la roba. Ma lui non si allontanò da lì e si mise in disparte avvilito con la sporta vuota. Dalla Caciara poco dopo salì al Ponte Bianco pure il Riccetto. «Mbè?» gli fece. «M'ero preso li copertoni e mo me l'hanno fregati,» rispose Marcello con la faccia nera. «Ma che stanno a fà sti cojoni, ma perché nun se fanno li c... sua!» gridò il Riccetto.

Dietro il Ponte Bianco non c'erano case ma tutta una immensa area da costruzione, in fondo alla quale, attorno al solco del viale dei Quattro Venti, profondo come un torrente, si stendeva calcinante Monteverde. Il Riccetto e Marcello si sedettero sotto il sole su un prato lì presso, nero e spelato, a guardare gli Apai che fregavano la gente. Dopo un po' però giunse al Ponte il gruppo dei giovanotti coi sacchi pieni di formaggi. Gli Apai fecero per fermarli, ma quelli li presero di petto, cominciarono a litigare di brutto con certe facce che gli Apai pensarono ch'era meglio lasciar perdere: lasciarono ai giovanotti la roba loro, e restituirono pure a Marcello e agli altri che s'erano accostati di brutto quello che gli avevano fregato. Saltando dalla soddisfazione e facendo i calcoli di quello che c'avrebbero guadagnato il Riccetto e Marcello presero la strada di Donna Olimpia, e pure tutti gli altri si dispersero. Al Ponte Bianco, con gli Apai, restò solo l'odore della zozzeria riscaldata dal sole.

[...]

Il Riccetto se ne stava ignudo, lungo sull’erbaccia, con le mani sotto la nuca guardando in aria.
Immagine tratta dal film, "Sotto il sole di Roma" - 1948
      – Ce sei ito mai a Ostia? – domandò a Marcello tutt’a un botto. – Ammazzete, – rispose Marcello, – che, nun ce lo sai che ce so’ nato? – Ma li mortè, – fece il Riccetto con una smorfia squadrandolo, – mica me l’avevi mai detto sa’! – Embè? – fece l’altro. – Ce sei mai stato co ’a nave in mezzo ar mare? – chiese curioso il Riccetto. – Come no, fece Marcello sornione. – Insin’addove? – riprese il Riccetto. – Ammazzete, Riccè, – disse tutto contento Marcello, quante cose voi sapè! E cchi se ricorda, nun c’avevo manco tre anni, nun c’avevo! – Me sa che in nave ce sei ito quanto me, a balordo! – fece sprezzante il Riccetto – Sto c..., – ribatté pronto l’altro, – c’annavo tutti li ciorni su ’r barcone a vela de mi zzio! – Ma vaffan..., va! – fece il Riccetto schioccando con la bocca. – Ih li zeeeeppi, – fece poi, guardando sull’acqua, – li zeeeeppi! – Sul pelo della corrente passavano un po’ di rottami, una cassetta fracica e un orinale. Il Riccetto e Marcello si fecero sull’orlo del fiume nero d’olio. – Quanto me piacerebbe de famme na gita ’n barca! – disse il Riccetto con aria accorata, guardando la cassetta che se ne andava al suo destino dondolando tra l’immondezza. – Che nun ce lo sai che ar Ciriola ’e danno in affitto ’e bbarche? – disse Marcello. – Sí, e chi ce passa ’a grana, – fece cupo il Riccetto. – A locco, se va a tubbature pure noi, che te frega, – disse Marcello tutto infervorato all’idea; – Agnoletto già ha rimediato er cacciagomme – Aòh, – fece il Riccetto, – io ce sto!
Immagine tratta dal film, "Sotto il sole di Roma" - 1948
      Se ne stettero lí fin tardi, distesi con la testa sui calzoncini intostati dalla polvere e dal sudore: tanto chi glielo faceva fare lo sforzo d’andarsene. Tutt’intorno era pieno di cespugli e di canne secche; ma sotto l’acqua ci stava pure del ghiaino e dei serci. Si divertirono a tirare dei serci sull’acqua e anche quando finalmente si decisero ad andarsene, continuarono, mezzi svestiti, a tirarne in alto, verso l’altra sponda o contro le rondini che sfioravano il pelo del fiume.

      Lanciavano pure intere manciate di ghiaia, gridando e divertendosi: i sassolini cadevano dappertutto intorno sulle fratte. Ma d’un tratto sentirono un grido, come se qualcuno li chiamasse. Si voltarono e nell’aria già un po’ scura, poco lontano, videro un negro, in ginocchioni sull’erba. Il Riccetto e Marcello, che avevano subito capito la situazione, tagliarono, ma appena che furono a una certa distanza, presero un’altra manciata di ghiaia e la gettarono verso quei cespugli.

      Allora con le zinne mezze fuori, incazzata nera, si alzò in piedi la mignotta, e si mise a urlare contro di loro.

      – E statte zitta, – gridò sardonico il Riccetto con le mani a imbuto, – che perdi come le papere, a brutta zozzona! – Ma il negro in quel momento s’alzò come una bestia, e reggendosi con una mano i calzoni e con l’altra un coltello, si mise a corrergli dietro. Il Riccetto e Marcello se la squagliarono gridando aiuto, in mezzo alle fratte, verso l’argine, su per l’erta: arrivati in cima, ebbero la forza di guardarsi per un momento indietro e videro in fondo il negro che agitava il coltello in aria e urlava. Il Riccetto e Marcello scesero ancora giú di corsa, e guardandosi in faccia non la finivano piú di ridere; il Riccetto, addirittura si mise a rotolarsi per terra, sulla polvere; sghignazzando guardava Marcello e gridava: – Ahioddio, che t’ha preso na paralisi, a Marcè?

      Con quel fugge, erano sboccati sul lungotevere proprio in direzione della facciata di San Paolo che ancora brillava debolmente al sole.

[...]
Immagine tratta dal film, "Sotto il sole di Roma" - 1948
Dal Cupolone, dietro Ponte Sisto, all’Isola Tiberina dietro Ponte Garibaldi, l’aria era tesa come la pelle d’un tamburo. In quel silenzio, tra i muraglioni che al calore del sole puzzavano come pisciatoi, il Tevere scorreva giallo come se lo spingessero i rifiuti di cui veniva giú pieno. I primi a arrivare, dopo che verso le due se ne furono andati i sei o sette impiegati ch’erano rimasti sempre fermi sullo zatterone, furono i riccioloni di Piazza Giudia. Poi vennero i trasteverini, giú da Ponte Sisto, in lunghe file, mezzi ignudi, urlando e ridendo, sempre in campana per menare qualcuno. Il Ciriola si empí, fuori, sulla spiaggetta sporca e, dentro, negli spogliatoi, nel bare, nello zatterone. Era un verminaio. Due dozzine di ragazzi stavano radunati intorno al trampolino. Cominciarono i primi caposotti, i pennelli, i caprioli. Il trampolino non era alto che un metro e mezzo, poco piú, e ce la facevano a tuffarsi pure i ragazzini di sei anni. Qualcuno, passando per Ponte Sisto, si fermava a guardare. Pure in cima al muraglione del lungotevere, a cavalcioni sulle spallette su cui spiovevano i platani, qualche ragazzetto senza grana per scendere, stava a guardare. I piú stavano ancora distesi sulla rena o su quel po’ d’erba arruzzonita ch’era rimasta sotto il muraglione.

      – Er primo l’urtimo ! – gridò, a quelli che stavano sbragati intorno, un moretto piccolo e peloso, alzandosi in piedi: ma gli diede retta solo il Nicchiola che partí con la sua schiena curva e storcinata, e si lasciò cadere nell’acqua gialla con le gambe e le braccia larghe sbattendo con le chiappe. Gli altri, facendo schioccare la lingua con aria di disprezzo, dissero al moretto: – E lèvate! –, poi, dopo un po’, ciondolando pieni di fiacca, s’alzarono e come un branco di pecore si spostarono, su verso lo spiazzo di sabbia sotto la cannofiena, davanti al galleggiante, a guardarsi il Monnezza, che coi piedi sulla sabbia rovente, e rosso per lo sforzo sotto le due sfere, stava sollevando il peso da cinquanta chili in mezzo a un reggimento di ragazzini. Al trampolino se ne restarono solo il Riccetto, Marcello, Agnolo e pochi altri, con il cane, ch’era il beniamino di tutti. – Be? – fece Agnolo con aria minacciosa agli altri due. – Li mortacci tua, – disse il Riccetto, – che, c’hai prescia? – Ma li mortacci tua, – disse Agnolo, – e che semo venuti a ffà? – Mo se famo er bagno, – disse il Riccetto, e se ne andò in pizzo al trampolino a guardare l’acqua.
Immagine tratta dal film, "Sotto il sole di Roma" - 1948
      Il cagnoletto gli andò dietro. Il Riccetto si voltò: – Venghi pure tu? – gli disse affettuoso e allegro, – venghi pure tu? – Il cane guardandolo in viso scodinzolò.

      – Te voi fà er caposotto, eh? – disse il Riccetto. Lo prese per il pelo e lo spinse sull’orlo: ma il cane si tirava indietro. – Tenghi paura, – disse il Riccetto, – be, nun te lo faccio fà er caposotto, va! – Il cane continuava a guardarlo tutto trepidante. – Ma che voi da me? – continuò il Riccetto con aria di protezione, chinandosi, – brutto sciammannato d’uno spinone! – Lo accarezzava, gli grattava il collo, gli metteva la mano tra i denti, lo tirava. – A brutto, a brutto! – gli gridava affettuosamente. Il cane però sentendosi tirare aveva un po’ di paura e saltava indietro.

      – None, – gli disse allora il Riccetto, – nun te ce butto a fiume! – Te lo fai sto caposotto, a Riccè? – gli gridò ironico Agnolo. – Famme fà prima na pisciata, – rispose il Riccetto e corse a pisciare contro il muraglione: il cane gli venne dietro e stette a guardarlo con gli occhi lucidi e la coda irrequieta.

      Agnolo allora prese la rincorsa e si tuffò. – Li mortacci tua! – gridò Marcello vedendolo cadere tutto di sguincio con la pancia. – Ammazzeme, – gridò Agnolo risortendo col capo in mezzo al fiume, – che panzata! – Mo je faccio vede io come ce se tuffa! – gridò il Riccetto, e si gettò in acqua. – Come l’ho fatto? – gridò riemergendo a Marcello. – Co ’e gambe larghe, – disse Marcello. – Mo ce riprovo, fece il Riccetto e si arrampicò su per la riva.

[...]

Agnolo allora prese la rincorsa e si tuffò. – Li mortacci tua! – gridò Marcello vedendolo cadere tutto di sguincio con la pancia. – Ammazzeme, – gridò Agnolo risortendo col capo in mezzo al fiume, – che panzata! – Mo je faccio vede io come ce se tuffa! – gridò il Riccetto, e si gettò in acqua. – Come l’ho fatto? – gridò riemergendo a Marcello. – Co ’e gambe larghe, – disse Marcello. – Mo ce riprovo, fece il Riccetto e si arrampicò su per la riva.
Immagine tratta dal film, "Sotto il sole di Roma" - 1948
      In quel momento quelli che stavano a far caciara intorno al Monnezza che sollevava i pesi, si spostarono in massa verso il trampolino: venivano giú con un ghigno sicuro e beffardo, sputando, coi piú piccoletti che zompavano intorno o si rotolavano abbraccicati pel marciapiede. Erano piú di una cinquantina, e invasero il piccolo spiazzo d’erba sporca intorno al trampolino: per primo partí il Monnezza, biondo come la paglia e pieno di cigolini rossi, e fece un carpio con le sette bellezze: gli andarono dietro Remo, lo Spudorato, il Pecetto, il Ciccione, Pallante, ma pure i piú piccoletti, che non ci smagravano per niente, e anzi Ercoletto, del vicolo dei Cinque, era forse il meglio di tutti: si tuffava correndo pel trampolino sulla punta dei piedi e le braccia aperte, leggero, come se ballasse. Il Riccetto e gli altri si ritirarono ammusati a sedere sull’erba bruciata, e guardavano in silenzio. Erano come dei pezzetti di pane in mezzo a un formicaio: e ci sformavano a dover stare a sentire in un canto la caciara. Tutti se ne stavano in piedi, con le cianche sporche di fango, gli slip appiccicati sulla carne e le facce sarcastiche, a guardarsi e a gridare i morti: con la sua faccia cattiva, tonda come un uovo, il Ciccione partí, e scivolando sull’orlo dell’asse, mentre cadeva in acqua, urlò con una risata feroce: – Li mortacci sua! –, e Remo sulla riva, scuotendo il capo, allegro borbottò: – Li mortacci, che fforza che sei! – Pure il Bassotto lí accanto, lungo sul marciapiede, ghignava, quando gli arrivò tra i ricci un malloppetto di fanga. – Li mortacci vostra! – urlò voltandosi furente. Ma non sgamò chi era stato, perché tutti guardavano ridendo verso il fiume. Dopo poco gli schizzò sul capo un altro malloppetto. – A li mortacci, – gridò. Andò a prendere di petto Remo. – Ma che vvòi, – gli fece quello con la faccia offesa, – li mortacci tua, e de tu nonno! – Ma dopo un poco tutta l’aria era attraversata da centinaia di pezzetti di fango tirati a tutta forza: qualcuno, nella melma fino al ginocchio, ne lanciava dal basso all’alto contro il cornicione delle intere manciate, facendo schizzare tutt’intorno una pioggia di fanghiglia: altri stavano seduti indifferenti, un po’ in disparte, e tiravano i malloppi a tradimento, facendoli fischiare come frustate. – All’anima de li mortacci vostra! – urlò Remo, in mezzo alla mischia, premendosi infuriato un occhio con la mano, e corse a gettarsi in acqua per togliersi il fango incastrato tra le palpebre: vedendolo che si tuffava, il Monnezza gli andò dietro gridando lui stavolta: – Er primo l’urtimo, – e si buttò in acqua raggomitolandosi e rotolandosi per aria, e cadendo sul pelo della corrente con un gran botto della schiena, delle ginocchia e dei gomiti. – Ma li mortacci sua! – rise corrugando la fronte lo Spudorato. Partí e ne fece uno uguale. – Pallante! – gridò. – E chi me lo fa ffà, – disse Pallante. – A vigliacco, – gridarono dall’acqua lo Spudorato e il Monnezza.

      – Ma li mortacci loro, – borbottava intanto in disparte il Riccetto – Mbè, che stamo a ffà? – disse Agnolo duro. L’unico dei tre che sapeva remare era Marcello: toccava a lui incominciare la manovra. S’andarono a sedere sul mucchio dei vecchi sandolini scassati. – A Marcè, – fece Agnolo, – noi t’aspettamo, daje –. Marcello s’alzò e andò a girellare intorno al Guaione, che se ne stava mezzo ubbriaco in fondo al galleggiante facendo un lavoro col coltellino. – Quanto costa na barca? – gli chiese a bruciapelo. – Na piotta e mezza, – rispose il Guaione senza alzare gl’occhi. – Ce ’a date, che? – disse Marcello. – Mo quanno torna. È fora. – Ce vole tanto, a Guaiò? – chiese dopo un po’ Marcello. – Ma li mortacci tua, – disse il Guaione alzando gli occhi bianchi da ubbriaco, – che c... ne so io! Quanno torna –. Poi diede un’occhiata al fiume verso Ponte Sisto. – Ecchela, – fece. – Se paga subbito o dopo? – Subbito, mejo. – Vado a prenne li sordi, – gridò Marcello. Ma non aveva calcolato Giggetto. Questo era un buon bagnino coi grandi: ma coi piccoletti, se si fossero tutti affogati c’avrebbe fatto la firma. Marcello stette lí un pezzetto cercando di farsi dar retta, ma quello non lo filò per niente. Se ne tornò su sconcertato al mucchio dei sandolini. – Come c... se fa a prenne li sordi, – disse. – Va dar bagnino, no, a stronzo! – Ce so’ ito, – spiegò Marcello, – ma nun me dà retta nun me dà! – Ma quanto sei stronzo, – scattò incollerito Agnolo. – An vedi questo, – gli rispose vibrante Marcello, stendendo verso di lui la mano aperta, come aveva fatto poco prima Giggetto con loro, – perché nun ce vai te? – Mo fate a cazzotti, – filosofò il Riccetto. – Je lo darebbe sí un cazzotto, a quer stronzo llí! – disse Agnolo. – Ma già te ’o detto, ma perché nun ce provi te, a fijo de na paragula! – Agnolo se ne andò a affrontare Giggetto e subito dopo difatti tornò con la piotta e mezza e una azionale accesa tra le labbra. Andarono a aspettare la barca presso la ringhiera, e appena che la barca approdò e furono scesi gli altri ragazzi, i tre si imbarcarono. Era la prima volta che il Riccetto e Agnolo navigavano.
Immagine tratta dal film, "Sotto il sole di Roma" - 1948
      La barca dapprincipio non si muoveva. Piú Marcello remava e piú quella stava ferma. Poi piano piano cominciò a staccarsi dal galleggiante, andando qua e là come se fosse ubbriaca. – A disgrazziato, – gridava Agnoletto con quanta voce aveva in petto, – che sai remà pure tu? – La barca pareva ammattita e andava a caso un po’ su e un po’ giú, un po’ verso Ponte Sisto, un po’ verso Ponte Garibaldi. Ma la corrente la trascinava a sinistra verso Ponte Garibaldi, anche se per caso la prua si voltava dall’altra parte, e il Guaione, comparendo alla ringhiera del galleggiante, cominciò a gridare qualcosa con le corde del collo che gli scoppiavano – Sto stronzo, – continuava a gridare Agnolo a Marcello, – mo ce vengono a ricoje a Fiumicino! – Nun me rompe er c... – diceva Marcello ammazzandosi sui remi che o sbattevano fuori dall’acqua o ci affondavano dentro fino al manico, – provace te, daje! – Io mica so’ de Ostia! urlò Agnolo. Intanto il Ciriola restava distanziato, traballando alla poppa della barchetta: sotto il verde dei platani il muraglione cominciava a comparire in tutta la sua lunghezza da Ponte Sisto a Ponte Garibaldi, e i ragazzi sparsi lungo la riva, chi all’altalena, chi al trampolino, chi sulla zattera, rimpicciolivano sempre piú e non si potevano piú distinguere le loro voci.

      Il Tevere trascinava la barca verso Ponte Garibaldi come una delle cassette di legno o delle carcasse che filavano sul pelo della corrente; e sotto Ponte Garibaldi si vedeva l’acqua spumeggiare e vorticare tra le secche e gli scogli dell’Isola Tiberina. Il Guaione se n’era accorto, e continuava a strillare con la sua vociaccia arrugginita dallo zatterone: la barchetta ormai era giunta all’altezza del gallinaro dove, dentro il recinto di pali...

[...]

 – Chi t’ha imparato a remà? Ma nun lo vedi che fai ride pure li muri?

      – Chi m’ha imparato a remàaa? – ribatté Agnolo. – Sto c... !

      – Te lo metti ar ... ! – fecero pronti quelli. – Vostro! – strillò Agnolo rosso come un peperoncino.

      – A stronzo! – gridarono i ragazzini. – A fiji de na bocch...! – gridò Agnolo. Intanto continuava a sderenarsi a remare senza che la barca andasse avanti di un centimetro. Sull’altro pilone, a sinistra, c’erano degli altri fiji de na bona donna: stavano distesi tra le scanellature della pietra, come lucertoloni a prendersi il sole mezzi appennicati. Le grida dei ragazzini li risvegliarono. S’alzarono in piedi tutti bianchi di polvere, e si radunarono sull’orlo del pilone verso la barca. – A barcaroliii, – uno gridava, – aspettatece! – Mo che vole quello? – fece insospettito il Riccetto. Un secondo s’arrampicò per gli anelli fino a metà pilone, e con un urlo, fece il caposotto: gli altri si tuffarono da dove si trovavano, e tutti cominciarono a attraversare nuotando a mezzobraccetto il fiume. Dopo pochi minuti erano lí coi capelli sugli occhi, le facce paragule, e le mani strette ai bordi della barca. – Che volete? – fece Marcello. – Vení in barca, fecero quelli, – perché, nun ce vorresti? – Erano tutti piú grossi, e gli altri si dovettero tenere la cica. Salirono, e senza perder tempo uno disse a Agnolo: – Da’ – e gli prese i remi. – Annamo de là der ponte, – aggiunse, guardando fisso Agnolo negli occhi come per dirgli: «Te va bbene?» – Annamo de là der ponte, – disse Agnolo. Subito quello si mise a remare a tutta callara: ma sotto il pilone la corrente era forte, e la barca era carica. Per fare quei pochi metri ci volle piú d’un quarto d’ora.

      Borgo antico dai tetti grigi sotto il cielo opaco io t’invoco...

      cantavano i quattro di vicolo del Bologna, sbragati sulla barca, a voce piú alta che potevano per farsi sentire dai passanti di Ponte Sisto e dei lungoteveri. La barca, troppo piena, andava avanti affondando nell’acqua fino all’orlo.

[...]
Immagine tratta dal film, "Sotto il sole di Roma" - 1948
Che d’è, – disse allora rizzandosi in piedi il Riccetto. Tutti guardarono da quella parte, nello specchio d’acqua quasi ferma, sotto l’ultima arcata. – È na rondine, vaffan..., – disse Marcello. Ce n’erano tante di rondinelle, che volavano rasente i muraglioni, sotto gli archi del ponte, sul fiume aperto, sfiorando l’acqua con il petto. La corrente aveva ritrascinato un poco la barca indietro, e si vide infatti ch’era proprio una rondinella che stava affogando. Sbatteva le ali, zompava. Il Riccetto era in ginocchioni sull’orlo della barca, tutto proteso in avanti. – A stronzo, nun vedi che ce fai rovescià? – gli disse Agnolo. – An vedi, – gridava il Riccetto, – affoga! – Quello dei trasteverini che remava restò coi remi alzati sull’acqua e la corrente spingeva piano la barca indietro verso il punto dove la rondine si stava sbattendo. Però dopo un po’ perdette la pazienza e ricominciò a remare. – Aòh, a moro, – gli gridò il Riccetto puntandogli contro la mano, – chi t’ha detto de remà? – L’altro fece schioccare la lingua con disprezzo e il piú grosso disse: – E che te frega –. Il Riccetto guardò verso la rondine, che si agitava ancora, a scatti, facendo frullare di botto le ali. Poi senza dir niente si buttò in acqua e cominciò a nuotare verso di lei. Gli altri si misero a gridargli dietro e a ridere: ma quello dei remi continuava a remare contro corrente, dalla parte opposta. Il Riccetto s’allontanava, trascinato forte dall’acqua: lo videro che rimpiccioliva, che arrivava a bracciate fin vicino alla rondine, sullo specchio d’acqua stagnante, e che tentava d’acchiapparla. – A Riccettooo, – gridava Marcello con quanto fiato aveva in gola, – perché nun la piji? – Il Riccetto dovette sentirlo, perché si udí appena la sua voce che gridava: – Me púncica! – Li mortacci tua, – gridò ridendo Marcello. Il Riccetto cercava di acchiappare la rondine, che gli scappava sbattendo le ali e tutti due ormai erano trascinati verso il pilone dalla corrente che lí sotto si faceva forte e piena di mulinelli. – A Riccetto, – gridarono i compagni dalla barca, – e lassala perde! – Ma in quel momento il Riccetto s’era deciso ad acchiapparla e nuotava con una mano verso la riva. – Tornamo indietro, daje, – disse Marcello a quello che remava. Girarono. Il Riccetto li aspettava seduto sull’erba sporca della riva, con la rondine tra le mani. – E che l’hai sarvata a ffà, – gli disse Marcello, – era cosí bello vedella che se moriva! – Il Riccetto non gli rispose subito. – È tutta fracica, – disse dopo un po’, – aspettamo che s’asciughi! – Ci volle poco perché s’asciugasse: dopo cinque minuti era là che rivolava tra le compagne, sopra il Tevere, e il Riccetto ormai non la distingueva piú dalle altre...




Curatore, Bruno Esposito

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Pier Paolo Pasolini - DAL VERO

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro


DAL VERO 
Pier Paolo Pasolini

E quella fronte c'ha 'l pel così nero
… … … … ; e quell'altro ch'è biondo…
suo cimitero da questa parte hanno
con Epicuro tutt'i suoi seguaci,
che l'anima col corpo morto fanno.
E l'altro, cui pareva tardar troppo,
gridava: "Lano, si non furo a corte
le gambe tue alle giostre del Toppo!"
Luogo è in Inferno detto Malebolge,
tutto di pietra di color ferigno…
di qua, di là, su per lo sasso tetro
vidi demon cornuti…
…come che suoni la sconcia novella.
I' m'accostai con tutta la persona
Lungo 'l mio duca, e non torceva li occhi
Dalla sembianza lor ch'era non bona.
…e vidivi dentro terribile stipa
di serpenti, e di sì diversa mena
che la memoria il sangue ancor mi scipa.
Più non si vanti Libia con sua rena;
che se chelidri iaculi e faree
produce, e cencri con anfisibena,
né tante pestilenze né sì ree
mostrò già mai con tutta l'Etiopia
né con ciò che di sopra al Mar Rosso èe.
Al fine delle sua parole il ladro
le mani alzò con amendue le fiche…
Con sei occhi piangea, e per tre menti
gocciava 'l pianto e sanguinosa bava…
…mentre che la speranza ha fior del verde.

Collage da Dante 

La gran facciata del penitenziario si staccò e cominciò lentamente a spostarsi indietro. Gialla, nuda, giganteggiava, retrocedendo, tra i muraglioni, gialli, nudi anch'essi, in fondo a cui cominciò ad emergere l'altra ala, come un enorme scatolone. Man mano che quei due edifici, bucherellati da centinaia di finestre restavano indietro, si isolavano sempre più contro il cielo lattiginoso, e contro l'agro lì intorno spelacchiato: senza un albero per quanto potesse spaziare lo sguardo.
A destra comparve e restò subito indietro, ruotando, la garitta vuota e scrostata come una latrina: col gesto di due carabinieri sbragati sulla polvere, il fucile tra le gambe, e sopra sulla breve ascesa, anch'essa ruotante, un quadro ronzante di vita popolare, con ragazzi, stracci, cani: che sparirono tra le case da arabi, a un piano e di calce.
Il Penitenziario continuò a rimpicciolirsi, giallognolo, e dopo che furono passati radendo gli argini impolverati, comparve di faccia, sulla grande pressione dell'Aniene, un vasto digradare di prati formicolanti come cimiteri, di fiori, un cavallo marrone col lunghissimo collo teso su quei fiori, e, in fondo, spalmata su tutto l'orizzonte, quant'era lungo, Roma.
Su quella visione di Roma, o piuttosto dei quartieri tiburtini, da Monte Sacro, Pietralata, giù giù fino a Tor de' Schiavi, il Predestino, Cento Celle, con migliaia di case come scatole di scarpe, e baracche, e torracce, l'autobus si inchiodò.

"A fattorì," disse Claudio il liberante, "che ce 'o fai er bijetto?"
"Come, no," fece il fattorino.
"Vedemo un po' qqua a quanto ce'o metti?"
"Famo venti lire, va'."
"Che te va de scherzà? E quanno 'e rimedio io, venti lire"
"Aòh, ame me 'o venghi addì?"
"A me nun me va de pagà!".
"Fa' un po' come te pare, a morè, dopo so' affari tua, dopo."
"E paga, daje a Clà," fece allora Sergio il compare del liberante.
"E famme contrattà un pochetto, no?", fece Claudio. "Mbè, famo na tredicina de lire, a fattorì?"
"Ammappete, fijo bello, te 'a passi male, si nun me sbajio!" pagaiò il fattorino.
Sergio si stufò: "Auffa, già me so stufato, ssa, a Cla'. Caccia 'ste quaranta lire, 'namo."
"Ahio, quant'è cattivo questo, disse il fattorino. "Che, le hai lassate a casa 'e pistole,a pischè?"
"Stamo aggravati, fattorì," confessò Claudio. "Questo è du'anni che nun lavora, e io sorto adesso de bottega!".

Dato ch'era appena sortito da bottega, Claudio era tutto felice, e si stava godendo la prime dolcezze della vita in libertà, tanto che avrebbe preso di petto alla malandrina pure un sasso, per mettersi a chiacchierare, se non avesse incontrato un fattorino dell'ATAC o qualche altro dritto. Cacciò magnanimo dalla saccoccia le quaranta lire, prese i biglietti, e si spinse con l'aria d'un bocchissiere un po' suonato tra i sedili, seguito pigramente da Sergio, che si guardava stanco intorno con la sua faccia di maomettano.

"Sbragàmise qqua, a Sé," fece Claudio.
"Sbragàmise qqua," fece Sergio.
Dal fondo dell'autobus il fattorino si intromise: "Tutta festa oggi, eh?"
"Come, no," ammise Claudio.
"Quale festa, quale festa, ma si nun pagano manco li ciechi!" disse Sergio con l'occhio perso.
"E lèvate, a Sè," ribattè il compare, "che tu dichi così perché nun ce sei stato llà dentro! Ma mmejio n'anno ssenza na lira e magnà da li frati, stacce, che un ciorno ssolo llà dentro…".
"E' regolare," concluse il filosofo laggiù, col berrettino paragulo sugli occhi, contando gli spiccioli.

Tutt'a un botto Claudio e Sergio zomparono in piedi, e gettandosi sui vetri della cabina del conducente, cominciarono a picchiarvi con le nocche. Il conducente che con la matita sull'orecchio stava consultando alteramente il listino degli orari, e facendo a mente i suoi calcoli, voltò di sguincio la faccia gialla e nera, e fissò con freddezza quei due sciamannati. Ma essi eran troppo di buon umore per capire che tra la gente libera ci fosse qualcuno che non gliene importasse un cavolo della libertà e anzi c'avesse i nervi. Senza badare all'espressione scura del conducente, gli fecero allegramente cenno di partire, di mettere in moto l'autobus, di accendere il motore.
Il conducente, dietro i vetri come un'immagine sacra sotto la campana, li riguardò ancora un poco: poi alzò di scatto l'avambraccio fino a portare la mano con le dita serrate all'altezza della bocca e del naso, e agitandola qui con un gesto secco e insolente d'interrogazione.
Neanche al gran gesto napoletano della dritteria nazionale, i due pivelli s'arresero.
Claudio gridò: 

"Dàje, a conduce', fai finta che metti in moto er motore".
"E dàje, che te possino ammaitte!" insistette Sergio.

E il fattorino, dal fondo dell'auto: 

"See, quello ve manna ormi tutt'è ddue!"

Che succedeva? Tre ragazze, vestite dei più accesi colori che si possano stampare negli abiti in vendita, bell'e fatti, alle bancherelle di Piazza Vittorio, stavano correndo su dalla strada del Penitenziario, tutte affannate per paura di perdere l'autobus, con le facce rosse come cocomeri.
Visto che il conducente non gli dava retta, i due misero testa, spalle e braccia fuori dal finestrino, guardando tutto quel ben di Dio che veniva avanti ballonzolando sotto il sole dolce come l'olio.

"Forza, amorette," si accorò Claudio, "daje che mo l'auto parte!"
E Sergio: "Ammappele, quanto corono, daje che famo la bella!"
Il fattorino, invece si mise a cantare:
Io stongo carcerato emamma more…
Vojo morì pur io prima 'e 'sta sera,
oi carceriere mio, oi carceriere …
"A fattorì," gridò Claudio, "che te va de sfotte?..."
"Io stongo carcerato…" ricominciò il fattorino.
"E ariocace!"

Le tre ragazze salirono, scottanti e sospirose dentro l'autobus, tutte felici d'averlo preso. Si guardavano e ridevano: poi un po' alla volta gli passò l'affanno e il prurito del riso, e andarono a mettersi a sedere sui sedili sgangherati, facendosi aria con le mani.
Claudio e Sergio andarono a mettersi seduti appresso a loro, e cominciarono a darsi ai madrigali; e non si sarebbe potuto dargli torto, se, con in gran poeta di Roma, si sarebbe potuto dir delle pischelle:

Uh, bene mio, che brodo de pollanche.
Je metterebbe addosso un par de branche
Da nun faje restà manco la pelle.

Ma l'autobus fece davvero la bella, si scrollò tutt'a un botto, ebbe un rumore di ferrivecchi molto in contrasto con l'aria ufficiale del suo conducente: e si lasciò, radendo le grandi praterie con frane di papaveri e margherite, giù per la strada di Casale dei Pazzi.
Volarono a destra e a sinistra i pezzi di agro pinguentemente nutriti dall'Aniene, scuri e caldi, ronzanti al sole; volarono le casette costruite a metà e già abitate, volarono le villette e i vecchi casali…

"A Sé," fece Claudio, "dimme un po', come se comporta la Intesse?"
"Che, me lo domandi, a Cla'," rispose Sergio. "Er zolito, che si la vedo me viè voja da dàje na pignata in faccia."
"Mo con chi se la fa?"
"Cor palletta, llà."
"Chi Palletta?"
"Er Fijo de sora Anita, llà, quella che c'ha er banco a Piazza Vittorio…
Quer roscietto, un po' fusto, che te posso ddì…"
"Ah, ho ccapito…Bè, con quer brutto lì s'è messa?"
"Che vòi fa? Ma mo cambia…"
"Che, stacca ancora tutta 'e sere a 'e sei"?
"Come no?"
"Stasera 'a vado a trova…"
"Me fai rabbia, me fai. Ma che c'ha che te sfagiola tanto, me 'o vòi ddì"?
"Aòh, me sfagiola."

Claudio si mise a pensare con una faccia beata all'incontro di quella sera con la Ines, e se non era lei, qualche altra ragazza di San Lorenzo, di quelle che conosceva da pischello, che era uguale. Si sbragò meglio sul sedile, e come se stesse solo, si mise a cantare…

Io stongo carcerato e mamma more…
Vojo morì pur io prima 'e 'sta sera,
oi carceriere mio, oi carceriere.

Teneva la testa ritratta fra le spalle, le corde del collo gli si erano tirate, e le narici gli si aprivano e gli si chiudevano sulla bocca che mostrava la sua intera dentiera di cavallo: e scuoteva leggermente il capo, come per secernere meglio la passione che ci metteva a cantare.
Alla fermata di Ponte mammolo l'autobus si riempì di gente. Poi imboccò la Tiburtina, passò sopra l'Aniena, e puntò dritto verso Roma.
Presso i due malandri s'era venuto a mettere all'impiedi, leggendo superbamente il Corriere dello Sport, un giovanotto pettinato alla Rudi, con le scarpe bianche di quelle bucherellata, un vestito a righe bianche e nere e l'argentina gialla. Claudio lo sbirciò per un pezzo senza farsi capire, guardando le novità che andavano di moda quell'estate. Poi, dopo aver ben bene allumato, si ricosse e diede una gomitata a Sergio, che se ne stava, canticchiando, sul sedile, col fazzoletto annodato alla malandrina, e la faccia negra e lucente, come ce l'avesse dipinto Caravaggio.

"A Sé," fece Cleudio, "me vojo fa una de quelle camicie a buchi che vanno de moda'st'anno, e un paro de scarpine bianche llà…"
"Ammappete, vòi fa proprio l'acchittone, vòi fa, beato tte!"
"Quale beato, quale beato see…Tengo na fame addietrata…"
Si morse le nocche delle dita, facendo "mmh", gettò uno sguardo affamato alle due rose de fuego che gli stavano accanto, e l'occhio guardandole gli si puntò fuori dal finestrino…
"Te ricordi, a Sé?" sia ccorò.
"De che?" "Qquà quanno ch'eramio ragazzini…"
"Mbè?"
"Che ce stava er circo, giù a Pietralata… che noi eramioscappati de casa…"

Si era parato davanti, dalla sinistra, tra Montarozzi e Spianate, il Forte di Pietralata, brulicante davanti dei fez rossi dei bersaglieri, con una tromba in mezzo al cortile che suonava il rancio.
Sergio e Claudio, piccoletti, scappati di casa, se n'erano venuti da quelle parti, come magnanimamente ricoradava Claudio, e se n'erano stati un par di settimane, digiunando o magnando qualche cipolla o qualche persica grattata ai mercatini, oppure un po' di cotiche fregate dalla borsa di qualche commare…Se n'erano iti di casa così, perché gli piaceva di divertirsi…Dai bersaglieri rimediavano da fumare… Poi trovarono da dormire sotto la tenda di un cocomeraio, sopra i cocomeri, il cocomeraio aveva un maiale, dalle parti di Bagni di Tivoli, e visto che facevano buona guardia ai cocomeri, li mandò a sorvegliare il maiale, anzi, il maiale e un coniglio… Che tremarella la notte nella campagna disabitata, dentro la capanna…Dormivano con una mazza sotto al testa… Una mattina la madre del cocomeraio era venuta lì, li aveva mandata Bagni a comprare del pane, e intanto, approfittando che non c'erano s'era pappata il coniglio…Trovarono gli ossicini interrati davanti alla baracca…
A Pietralata, che il cocomeraio li aveva cacciati via a causa del coniglio, avevano lavorato in un circo…coi leoni…litigando coi maschietti concorrenti della borgata… Una sera scappata Rondella, la cavalla maremmana, e via per prati e mucchi di immondezza, lungo le rive dell'Aniene…
L'autobus arrivò in fondo alla Tiburtina, passò sopra il cavalcavia tra fischi di treni, e andò a ormeggiare, nella gran caciara, al capolinea del Portonaccio. Bianchicci, nel biancore del giorno, brillavano i lumini del Verano. L'11 era pronto. Claudio e Sergio zomparono giù dall'auto, tagliarono gridando e ridendo tra la ressa, balzarono sul tram già in corsa, e restarono attaccati al predellino, cioccando sempre più, mentre la vecchia vettura risaliva sferragliando il lungo viale che sotto i muraglioni del cimitero portava a San Lorenzo.
Tutti smandrappati, con l'aria del quartiere che gli scapigliava la chioma, appresi in fondo al grappolo che gli si accalcava al predellino, volavano verso casa. Ammazza, quant'è bella la vita, mica pei micchi, ma per quelli che le soddisfazioni se le sanno pigliare…come loro due… Mentre alzavano moina Claudio pensava a se stesso con la camicia a buchi e le scarpine bianche, all'Ambra Jovinelli o nella rotonda di ostia, con la Intesse o qualche altra ragazza che gli veniva appresso: a completare il quadro della sua bellezza…
Intanto, sotto i muraglioni del Verano, passava nella luce invetrita, qualche coppia, un vecchio, o un garzone in piedi sul sellino spingeva allaccato il suo triciclo su per la salita…E loro due, con al mano a imbuto contro la bocca, li sfottevano…

"A nennaccio, nannaccio, a pampuzzo…"
"Fra du' anni sei bona pure subito!"
"A dondolina…"
"Nun je dà retta, e dopo dì che so stato io…"
"Se seguiti così quando lo piji marito?"
"Che, stai a sputà li pormoni, a pischè?"
"Daje, che mo' arivi…"
"See, quanno affitta quello…"

Intanto ecco venire avanti le prime case brune di San Lorenzo, le prime strade rossicce, ecco profilarsi in fondo e ingrandirsi sempre più, biancheggiando. L'arco di santa Bibiana, e poi il vecchio giardinetto in mezzo al quale sfilavano, gesticolando, le più allegre compagnie della gioventù sanlorenzina, acchittata per la sera, le panchine e le aiuole col verde della vecchie estati.



1953-54

(da Alì dagli occhi azzurri, Milano, Garzanti, 1975)


Fonte:
http://www.sagarana.it/rivista/numero7/narrativa3.html






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Un racconto inedito di Pier Paolo Pasolini - Terracina

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro

Terracina
Un racconto inedito
di Pier Paolo Pasolini
 

Terracina inizialmente doveva rientrare in "Ragazzi di vita". Fu invece pubblicato, con tagli, sul quotidiano di Taranto “La Voce del Popolo” nei numeri 7, 14, 21, 28 tra luglio e  agosto del 1951. Oggi è inserito in Storie della città di Dio a cura di Walter Siti e nel volume Romanzi e racconti (vol. I, pp. 775-797) dei Meridiani Mondadori. 



 
Nella spiaggia c'era più movimento, ma il mare era sempre immobile, morto.
Si vedevano delle vele arancione al largo, e molti mosconi che si incrociavano vicino alla spiaggia. Lucià avrebbe avuto fantasia di prendersi un moscone, e andar al largo: però era solo, e non era buono a remare. Andò sul molo tutto smantellato e ancora pieno di squarci, nuotando nei punti dove gli squarci interrompevano, finchè giunse in pizzo, sulla piccola rotonda. Si distese sulla pietra con la testa che sporgeva dall'orlo sul mare. 

Verde, trasparente e tiepida, l'acqua si gonfiava e si sgonfiava tra le colonne del molo, ora pesante come un blocco di marmo, ora lieve come l'aria. Benché fosse alta già due o tre metri non c'era granello di sabbia che non si potesse distinguere dall'alto della rotonda: ed era una sabbia morbida e pulita , un tappeto meraviglioso per chi potesse vivere sotto acqua. Ogni tanto vi passava un granchio, veloce, o si intravedeva qualche stella. Lucià stava a meditare su quella bellezza: quando arrivò sotto il molo un ragazzino con un moscone.
"A maschio - gridò - me ce porti ?"
"Daje" fece l'altro.
Lucià si gettò a caposotto e andò a toccare con le mani la sabbia; poi risalì alla superficie e si attaccò alle code del moscone.
"Andiamo al largo" disse al maschio.
Il maschio si diede subito da fare, ma aveva i braccini ancora teneri e i remi sbattevano a vuoto sull'acqua senza spuma. " Famme provà" disse allora Luciano. Il ragazzino cambiò di sedile, e Luciano provò a remare. "Mica è difficile" disse. "Mamma non vuole che m'allontani troppo" disse il ragazzino. "E che d'è - fece Luciano - andiamo a cento metri".
Dietro il molo si allungava la spiaggia, un arco che pareva senza fine, da una parte e dall'altra dell'orizzonte, battuto dal sole che lo scolpiva nell'aria coi suoi colori violenti.
Il bruno della rena, le mille tinte delle vernici dei capanni, le striscie smaglianti degli ombrelloni; le macchie bianche degli scafi, gli intonachi dorati delle ville, tutto era ammassato nel sole in una immobilità di sogno: che nemmeno il formicolio, silenzioso, della folla, l'incrociarsi dei mosconi, i voli dell'aereoplano rosso e il flusso della marea riuscivano a incrinare. Ma in quella immobilità dovuta alla lontananza si sentiva straripare la felicità festiva di Ostia.
Il moscone si dondolava come abbandonato sull'acqua: i remi si agitavano nel vuoto, come delle ali spezzate, e Lucià perdeva la pazienza; però si accaniva a voler spingersi il più possibile al largo. Guardava con invidia, lontanissime, nel puro azzurro tra mare e cielo, le vele delle barche dei pescatori pensando che di laggiù non si potesse intravedere che a stento la terra.
Poi, quasi improvvisamente, da dietro il molo, comparve una piccola barca a vela, bianca come una colomba. Filava inclinata e silenziosa, obliquamente, verso l'alto. Lucià smise di remare e stette a guardarla. Essa si avvicinava, come miracolosamente, e venne quasi addirittura a sfiorare col suo scafo di legno candido il moscone. Si allontanò leggera com'era venuta, quasi non fosse che una forma un po' più materiale del vento, e in pochi minuti era già distante, cancellata o rimpicciolita dalla distanza: ma ancora rifulgente nella vernice del mare.

Poco tempo ancora, e sarebbe stata una di quelle vele sperdute nell'intimità del mare, dove l'azzurro era tanto più profondo e incantato. Lucià aveva seguito in silenzio quel volo, e quando la barca fu lontana, si rivolse allegro al suo compagno gridando: "Daje, maschiè, che annamo in mezz'ar mare". E cominciò a darci sotto con più accanimento sui remi. Il ragazzino era preoccupato per la sua mamma. "Non tenghi mica paura, vè, maschiè?" gli diceva Luciano. "Paura de che?" rispondeva il piccoletto offeso.
"Der mare" disse Lucià.
L'altro alzò le spalle, con un'espressione negli occhi incupiti che voleva dire: "E che, scherzamo?" Lucià era eccitato. Cominciava a remare un pò meglio, e i remi riuscivano a far presa sull'acqua che si gonfiava e si sgonfiava sotto il moscone.
Intanto anche il molo si allontanava. La spiaggia era già un ammasso confuso di colori nell'oro del sole. E Luciano era felice di essere così isolato in mezzo all'acqua. Più bello ancora, però, sarebbe stato se si fosse gettato a nuoto, e si fosse trovato del tutto solo, staccato dalla barca , tra le onde silenziose. "Reggi i remi" gridò al ragazzino. E si tuffò dal sedile, nuotando verso il largo.
Tiepido e leggero come la seta, il mare lo alzava e lo abbassava: ora con uno sguardo poteva abbracciarlo fino all'orizzonte più lontano, ora vi si trovava immerso nel centro, come in una piccola vallata tra piatte colline d'acqua senza spuma, con le creste controluce e i fianchi tinti dall'ombra trasparente. Standoci dentro, immersi, si piombava del tutto dentro quell'ombra. Per qualche istante ci si sentiva come in una vasca, fuori dal mondo, in un cerchio di solitudine, in un piccolo deserto pieno di dune verdi e malinconiche. I riflessi della luce erano smorti giù per le schiene larghe e piatte delle onde, fino in fondo alla depressione in ombra. Poi uno spirito dentro l'acqua preso da un orgasmo calmo ma incessante, come il respiro di un addormentato, uno spirito il cui movimento si estendeva in tutti gli angoli del mare, premeva dalla profondità verso la superficie, scompigliando inquietamente il suo ordine. Ci si trovava d'improvviso in cima a un'onda, nel fulgore della luce, ricompariva l'orizzonte con le vele e il sole.

Una distesa sterminata di piccoli monti, si diramava intorno fino a fondersi, lontano, nell'azzurro compatto e leggero. Il mare si ripopolava e riviveva. Lucià nuotava sempre verso il largo, per mettere il maggior spazio possibile tra sè e la barca. Già la vedeva abbastanza lontana, scossa, sotto il legno piatto degli scafi, dal movimento del mare. E più indietro la spiaggia, Ostia, la terra. Tutto gli pareva lontano, la sua vita stessa di Roma, dai più scuri giorni dell'infanzia ai baci della zanoida nella cabina. Tra quel tempo e lui c'era la stessa acqua del mare intento a sorridere o a turbarsi con sè.
Quando fu un pò più stanco, si voltò e vide che il moscone era davvero lontano: se si abbassava tra le onde, anzi, non lo poteva nemmeno più scorgere. Fu preso da un pò di paura: le onde intorno, come campane silenziose, erano rimaste uguali, verdi, ma parevano piene di una scura minaccia. Una minaccia che covava nel fondo, come se lo spirito che da di dentro le agitava avesse d'improvviso mutato umore.
Lucià si sentì lì in mezzo troppo solo e, sperduto; ma si vergognava a chiamare il ragazzo del moscone. Così ritornò indietro lentamente per non stancarsi, ma sentiva nella schiena un brivido di paura, come se qualcuno lo guardasse minaccioso, per cacciarlo via. L'acqua lo stringeva da tutte le parti, era nel regno dell'acqua, e il mare si stendeva intorno paurosamente grande.
Infine raggiunse il moscone, ma non volle salirvi, e si attaccò alla coda. "Vai verso la riva" gridò al maschietto. Socchiuse gli occhi e si lasciò trascinare, immaginandosi di essere in mezzo a un oceano, come un naufrago.
Tonino lo aspettava ammusato sulla spiaggia del Battistini. Aveva fame, e se ne andarono a mangiare al Pescatore, il locale più di lusso di Ostia. Tornarono subito sulla spiaggia, e Lucià si fece un sonnetto sulla rena; poi andarono ancora in giro sul moscone, a fare il bagno al largo; e infine, mentre il sole affondava rosso e tranquillo nel mare, ripresero il taxi e tornarono a Roma. Scesero, per non dare nell'occhio, vicino alla Piramide di San Paolo. 
Dal Circeo, a destra, confuso tra le nuvole, nuvola lui pure, distante, isolato, con le sue cime acute tutte tinte di cenere e azzurro fumo, già nel cerchio della spiaggia che staccandosi da quelle ombre di terra ferma appena distinta dal cielo, si precipitavano in una lunga curva, fino a passare davanti agli occhi, con le file dei capannoni abbandonati, e a spezzarsi a sinistra contro un promontorio monumentale - il mare riempiva lo spazio, piatto, luccicante e vivo.
Ma da dietro il promontorio, che, tutta roccia, sormontato dai ruderi di un tempio, spingeva in avanti, contro la marea, un obelisco granitico alto un centinaio di metri, e largo una sessantina - solitario tra lo sperone e le acque - si slanciavano verso l'alto mare i monti dell'altro braccio del golfo. I monti di Gaeta e di Sperlonga , i monti allineati in catena, ondulati, del meridione, che filtravano l'orizzonte fino in suo cuore: una lontananza mesta, color ruggine, dove il grigio del cielo e del mare si mescolavano in bagliori trasognati.
Così dal Circeo a Sperlonga il mare pareva un immenso lago, e solo un suo lato pareva non avere confini: ma le nuvole lo offuscavano, lo chiudevano. Erano nubi disordinate e pesanti, specie sopra il Circeo, dove nereggiavano minacciose: nel centro si squarciavano, e qua e là affiorava il cielo azzurrino o giallo, e verso sinistra sulla lunga catena dei monti, il sole faceva cadere un ventaglio di raggi, come riflettori puntati su un solo specchio del mare, che quindi luccicava, in quel punto, come una spada nuda. Alle spalle, addossata al monte, con gli stessi colori del monte, grigia e pietrosa si ammassava Terracina. Questo era tutto quello che si poteva vedere stando distesi sui tetti della casa dei parenti di Marcè. Le tegole erano bagnate, perchè certo durante la notte era piovuto: Luciano vi stava disteso sopra con le mani sotto la testa, guardando per aria. Marcello stava quasi per addormirsi. Il tetto era alto, e la villa era posta sopra una gobba del terreno coperta dalle piccole viti come una ragnatela: così da lassù, benchè la posizione non fosse molto comoda, lo sguardo non poteva spaziare liberamente. Era questo che dava soddisfazione a Luciano. Senza che Marcè se ne accorgesse egli accarezzava con lo sguardo la parte più lontana dell'orizzonte, dove il mare era solo mare, puro mare, senza legami con la terra, senza niente vicino. Laggiù il sole, più che in ogni altro punto del cielo tutto coperto, riusciva a filtrare la raggera della sua luce, e a colorare del loro azzurro acqua e aria. Comunque, la pioggia era certa. Sul Circeo le nuvole si erano fatte così compatte e nere che lo avevano inghiottito, e di là si allargavano sulla leggera nuvolaglia cosparsa già per tutto il cielo; un'aria fredda le accompagnava, che pareva sempre sul punto di far roteare le prime gocce gelate di pioggia. Lucià doveva dunque decidersi a distogliere lo sguardo dal mare e a interrompere il piacere che ne provava: ben meritato, del resto, perchè aveva cominciato a desiderare quel momento fin dalla sera prima della loro partenza e immaginandosi un mare proprio così solitario, così selvaggio e così nudo. Già subito dopo i Castelli - l'aria della mattina era fuligginosa, e da lassù non si poteva scorgere il mare - dietro Velletri, quando l'Appia aveva cominciato a discendere verso il basso, puntando contro una muraglia grigia di montagne, Lucià si era alzato due o tre volte dal sellino convinto di vederlo. Infatti dei vapori bianchi stagnavano ai piedi di quelle montagne, oltre una breve pianura, e parevano le acque di un golfo. "Er mare, er mare - gridava Lucià - Ecchelo" "A stronzo - gli rispondeva Marcè - mica è er mare, hai voja". La mattina su Roma e sui Castelli era stupenda . C'erano, è vero, delle nuvolaglie, e proprio verso il Circeo, dietro Latina ma parevano nuvole innocue: in tutto il resto del cielo, era sereno. Eppure la sera prima, anche a Roma, c'era stato un forte temporale: la pioggia aveva colto Lucià e Marcè mentre da Villa Borghese se ne andavano verso la stazione Termini a rimediare un pò di pila per il viaggio: così, rinunciando alla stazione, erano corsi a rifugiarsi all'Esquilino in piazza Vittorio. E del resto erano stati fortunati perchè Marcè era riuscito a guadagnarsi un mezzo sacco e un pacchetto quasi intero di Chesterfield.
Fuori, tuonava e lampeggiava: ma, con la sera, era tornato il sereno. Poichè era la vigilia della festa della Madonna, già a molte finestre erano appesi i lampioni, che rilucevano chiari e iridati specie lungo le strade secondarie: migliaia di lumi che tremolavano nell'aria fresca e trasparente, e le facciate di molte chiese erano un immenso ricamo di lampadine elettriche accese. Uscendo dal cinema, dov'erano rimasti chiusi tutto il pomeriggio Lucià e Marcè erano stati colti da quel soffio d'aria serena, e Lucià, guardando in alto, tutto allegro, aveva gridato: "An vedi quante stelle". 
Andarono a prendere le biciclette da un meccanico in Trastevere. "Aspettami qui" disse Lucià a Marcè in fondo a via della Scala "E non fatte vede". Marcè tremava un poco e gridò a Luciano: "Bada, che quello svaga", ma Luciano alzò le spalle e diede all'amico un'occhiata di compassione. Entrò dal meccanico, dove c'era della confusione come sempre a quell'ora; prese due biciclette di cui una col manubrio di corsa, e diede il suo nome vero al meccanico, che lo annotò sul taccuino.
Per una mezzoretta Lucià e Marcè andarono in giro per Trastevere; poi Lucià riportò dal meccanico una sola bicicletta, pagò, e il meccanico non ricordandosi che le biciclette affittate erano due, prese i soldi e cancellò il nome di Luciano dal libretto.
Marcè aspettava sempre in fondo a via della Scala, dietro un portone. "Com'è ita?" domandò a Lucià. "Non ce lo sai che so' un fenomeno" disse Lucià con aria indefferente "E come no?" brontolò Marcè ridendo. Ora toccava a lui, secondo il piano, benchè egli avesse preferito andare in due in una bicicletta a Terracina; ma Lucià lo costrinse andare dal meccanico, dove tremando come una fronda, prese la bicicletta dando un nome falso. Ma andò bene pure a lui: ora le biciclette erano rimediate, e andarono a dormire in una stalla nei pressi della stazione di Trastevere, sotto viale Marconi. Alle prime luci dell'alba si svegliarono e si lavarono a una fontanella. Tutta la periferia era ancora immersa nel sonno, e contro il cielo, improvvisamente bianco, si disegnava lo scheletro del gasometro tra le ciminiere senza fumo. Saltarono in bicicletta e salirono su per il viale Marconi, deserto e bianco, si imbatterono col padre di Luciano.
Restarono impietriti, senza saper che dire o che fare. Egli li guardò dapprima non meno stupito, poi furioso. Era ancora un pò ubriaco dalla sera prima, col viso in fuoco e gli occhi fuori dall'orbita.
Ad un tratto cominciò a urlare e si gettò su di loro afferrando per i manubri le biciclette. "Addò l'avete rubbate" gridava. Ma Luciano e Marcello erano stati svelti a saltare dalla sella e a scappare giù verso la stalla. Il padre di Lucià, sempre urlando contro di loro, risalì il sentiero, svoltò su per viale Marconi, verso la bottega di frutta di un amico suo.
Vi arrivò davanti e posò le biciclette contro le saracinesche chiuse. Essi lo avevano seguito di lontano a piedi: appena egli fu entrato in casa, Lucià gridò a Marcè: "Non te move" e corse verso la bottega, afferrò le biciclette e le portò, spingendole di corsa, verso dove lo aspettava Marcello. Vi saltarono sopra e scapparono giù, verso il sottopassaggio della stazione. Per la strada non c'era ancora un'anima. Ma il padre di Lucià si era fatto subito sulla porta e li aveva visti mentre saltavano in bicicletta. "Se te pijo t'ammazzo", si era messo a urlare dietro a Luciano; poco dopo infatti era venuto fuori con una bicicletta e si era messo a inseguirli. 
"Ai Battiglioni Emma " gridò Marcè.
Tagliarono giù per il sottopassaggio, per via Volpata, e filarono verso le baracche dei Battiglioni Emma, in mezzo alle quali, tra orti, vicoletti e mucchi di rifiuti fecero perdere le loro tracce. Poi con più calma, andarono verso San Giovanni e presero la strada di Terracina.
Erano già a Terracina e il mare, cominciato a sospirare subito dopo Velletri, quando in fondo al cielo era comparso il Circeo, ancora non si vedeva.
Color fumo e pietra, la città era appiccata al monte, con le sue torri diroccate, solcata da vicoli stretti come visceri, tra i muraglioni senza intonaco. Era Terracina alta: Lucià e Marcè, invece, seguendo l'Appia le arrivarono ai piedi lungo una strada che pareva della periferia di Roma o di Ostia. "Ma dove cazzo sta er mare" gridava Lucià "Subbito ce semo " gli rispondeva Marcè col batticuore. Arrivarono in fondo a quella strada, e a sinistra apparve un grandioso sperone di roccie, sulla cui cima, tra le nubi, si vedevano le rovine di un tempio. Dopo due pedalate arrivarono sulla spiaggetta.
Il mare si stendeva davanti a loro, color terra solcato qua e là da qualche bagliore. Stretto tra il promontorio del tempio, il Pescamontano, e il porto, pareva angusto, chiuso, senza orizzonti.
Lucià e Marcè scesero dalla bicicletta, e gli andarono incontro. Era calmo, profumato, e pieno di un lieve fragore. Da lì il Circeo non si vedeva. Contro luce, sull'acqua color creta, e più lontano verdastra, si vedeva una lancia dondolare sui riflessi piena di figure nere di pescatori. La spiaggetta, con la rena bagnata era tutta ingombra di lance a secco, di falanghe, di pertiche conficcate nella rena bagnata, di ajate rugginose stese ad asciugare al vento.
Appoggiati con la schiena a un muretto che separava la strada dalla spiaggia, sette od otto uomini e ragazzetti, in fila, se ne stavano chini con le gambe larghe intorno a delle ceste lavorando accaniti e in silenzio. Lucià si avvicinò per guardarli; essi non alzarono nemmeno la testa e continuarono il lavoro. Districavano una lunghissima corda rossa, tutta ingarbugliata, arrotolandola nel fondo della cesta: alla corda rossa però erano legati dei lievi fili di nylon con in fondo un amo. Arrotolando la corda lunga, pazientemente, man mano che li trovavano, conficcavano gli ami in un pezzo di sughero attaccato a un bordo della cassetta.
In fondo alla spiaggia, sul frangente, c'era un gruppo di pescatori, tutti allegri, appena scesi dal porto. I più allegri erano dei ragazzi, alcuni coi calzoni arrotolati sulle coscie e scalzi, altri con gli stivaloni di gomma. Una barca era ferma sull'acqua bruna a pochi metri dal frangente, e dei pescatori vi si muovevano intorno. Dalla spiaggia i nuovi arrivati li interpellavano scherzosamente, e ogni tanto ridevano. Poi si misero tutti insieme a tirarla a riva, per un cavo: alcuni ragazzi coi piedi nell'acqua, la spingevano dalla poppa allegramente.
"Mo ar mare ce semo" disse Marcé sbadigliando. Erano tutti e due stanchi morti e la luce del mare li stordiva; Lucià a cavalcioni della bicicletta era rimasto fermo a lungo a osservare il lavoro dei pescatori, intontito, senza che essi alzassero nemmeno la testa. "Questi non ce filano pe' niente" brontolò. Marcé non sapeva la strada per andare a casa dei suoi parenti. Provò a rivolgersi a un uomo che non ne sapeva niente; un altro, tutto allegro, col cesto del pesce sul capo, ne sapeva ancor meno. Marcé allora decise di andare di là del porto, un canaletto d'acqua verde e a quell'ora quasi senza una barca: ricordava che la casa era sul mare, ma di qua del pescamontano, sulla spiaggia. Infatti poco dietro il porto, videro uno stabilimento, e, lungo la riva del mare, le file dei capanni deserti, battuti dal vento.
Il lungomare era egualmente deserto, e le piccole palme e gli oleandri, sulle aiuole, parevano selvatici, lungo quella strada che si spingeva pareva senza fine per il litorale. Ma dopo nemmeno mezzo chilometro, tra le rade villette, quasi alla fine, Marcé riconobbe la casa. Era addossata a un monticello pieno di viti. Il cancello era aperto. Entrarono con le biciclette fino all'uscio ma dentro non c'era un'anima, la villa era vuota come un tamburo allora cominciò a gridare: "A zia Maria", girando per il piccolo marciapiede intorno alla villetta, e battendo con le nocche ai vetri delle finestre. "C'ho na fame che non ce vedo" disse Lucià. "E a me lo venghi a di?" rispose Marcé, di ritorno al suo giro intorno alla casa vuota. Lui lo guardò:"Me fai rabbia me fai" disse. "Toh - rispose Marcé - attacchete a questo". "C'ho na fame che non ce vedo" ripeté Lucià. Scese pure lui dalla bicicletta e andò a ispezionare intorno alla casa. Dopo cinque minuti erano sul tetto.
Così, adesso, non restava che scalzare le tegole e andar dentro. Lo fecero e si calarono nel granaio che era tutto ingombro di patate e di grano: scesero giù per le scale e andarono dritti a cercare la cucina.
Intanto, però, mentre lavoravano sopra il tetto, alcune donne del paese li avevano visti, ed erano corsi dalla zia Maria in cooperativa gridando:"A casa vostra ce stanno li briganti" lei era venuta spaventata con tre o quattro giovanotti, solo, naturalmente, per cucinare ai briganti quattro uova al burro. Non aveva però riconosciuto Marcé, che era divenuto grande in quegli anni: quanto a Lucià il nipote le aveva detto, gridando, perchè era quasi sorda:"Questo è n'amico mio. Suo padre e sua madre sò morti in guerra".
La zia Maria non era cattiva: gli altri parenti però, un'altra zia e i cugini, quando verso mezzogiorno rincasarono, non trattarono con molto entusiasmo i due viaggiatori. A pranzo, nel piccolo salotto rosso, che sapeva di muffa e urina di gatto, lasciavano cadere il discorso quando si trattava della loro sistemazione a Terracina o delle ragioni che li avevano convinti a venirsene da Roma. I cugini, un ragioniere e uno studente, facevano un pò gli ironici e gli indifferenti: e nessuno accennò mai per nulla ad invitarli a restare. 
"A Marcé" disse Luciano quando furono soli, battendosi il naso con un dito. Marcé torse la bocca come per dire:"Che cazzo ne so". "Io tajo" disse Lucià. Marcé gli fece cenno che parlasse piano. "Non ce vojono? - continuò Lucià a voce più bassa, battendo le mani come per concludere un affare - Non ce vojono? Se taja". "Aoh" fece Marcé.
"Non andate a trovare lo zio Zocculitte?" - disse la zia, affaccendando in cucina. "E come no - gridò Marcé, guardando Luciano come se fosse una buona idea - c'annamo pure subbito".
"A quest'ora lo trovate" disse la zia Maria.
Uscirono e presero le biciclette, salutando. "Tornate a trovarci", dissero le zie, dalla soglia, cortesi.
Lucià corrugando la fronte, fece un suono con la lingua contro i denti che significava:"Ma li mortacci vostra". "Je rompemo il cazzo? - riprese per la strada - e chi li fila pe' niente: bon giorno, bon giorno, e te saluto Gesucrì". "E' regolare?" insistette, preso dallo slancio oratorio.
"Arriconsolate così" disse Marcello.
Lo zio Zocculitte abitava a vicolo Rappini sotto il Pescamontano, proprio sulla spiaggetta da dove arrivando avevano visto il mare. Intorno c'erano delle case crollate, poco più in là un bar: dietro un crocefisso di ferro con un mazzetto di crisantemi, si internava il vicolo tra le case di pescatori con le soglie coperte di reti sdrucide. Zio Zocculitte aveva sessant'anni, era solo, Vittorio, il suo garzone, stava per andare in quei giorni sotto le armi. Lucià e Marcé si sistemarono da lui.
Subito il giorno dopo cominciò la loro vita di pescatori; verso le dieci, dopo il lavoro delle coffe lo zio Zocculitte disse che era ora di andare. Vittorio prese la cesta e la coppa, e le appoggiò a terra davanti alla soglia: poi corse da un vicino a farsi prestare una bicicletta. Partirono verso la Mola che era una mezza dozzina di chilometri da Terracina; Vittorio reggeva la coppa lunga e pesante; Lucià e Marcé, in due sulla bicicletta, portavano la cesta. Il cielo era sempre minaccioso: giallo, terroso, bagnato, e soffiava scirocco con delle folate che inumidivano la pelle e i vestiti. La notte era piovuto e tutto era fradicio.
Arrivarono presto sull' Appia, costeggiata dal Fiume della Ligna, due interminabili strisce gialle, che si perdevano verso Velletri, verso Roma, tra alberi ancora verdi, casolari e fratte. Alla Mola scesero dalle biciclette, le appoggiarono una contro l'altra in modo che stessero in piedi, e cominciarono la pesca. Era Marcé che aveva indossato gli stivaloni, sopra dei grossi calzetti di lana, come Vittorio, mentre per quel giorno Lucià doveva soltanto stare a guardare e imparare.
Vittorio scese dentro il Fiume della Ligna, fin che l'acqua, sporca e piena di erbe, gli arrivò alla caviglia. Teneva la stira della coppa per una estremità. All'altra estremità la coppa, dove si attaccava la circhia con la sua rete stretta e profonda, partiva una cordicella, un cui capo Vittorio gli diede da reggere a Marcé, dicendogli di scendere nel fiume, due o tre metri davanti a lui, e camminare tirando la cordicella. Così cominciarono a camminare coi piedi nel pantano lentamente: e la rete scorreva in mezzo al fiume, sotto il pelo dell'acqua.
Lucià seguiva i due pescatori passo passo, come in una processione. Ogni tanto Vittorio guardava in alto, per vedere che facesse il tempo. Si era un pò schiarito: si poteva distinguere il colore del Circeo. Intorno stridevano degli uccelli, e in mezzo al fiume gorgogliava l'acqua smossa dalla rete: erano gli unici rumori. Vittorio e Marcè camminarono in quel modo per una mezzora, e non avevano fatto che cinquecento metri: si vedevano le biciclette in piedi in fondo alla strada. "Voltiamo" disse Vittorio. Prima però tirò a terra la circhia, e la pulì dalle erbe acquatiche che si erano impigliate: Lucià si avvicinò e vide che il fondo della rete era gonfio e si muoveva. "Quanti ce ne saranno?" chiese. "Un otto chili" rispose Vittorio. Poi ricomincirono a camminare verso il punto di partenza: ogni tanto, ancora, mollavano e pulivano l'orlo della rete. Quando furono alle biciclette, risaliro sulla riva, tirando fuori dalla rete i gamberi che dovevano essere quasi sedici chili, e li rovesciarono nello spasello.
Al vicolo Rappini verso mezzogiorno c'era calma: sull'acciottolato fangoso restavano riverse le reti rotonde e le pertiche. Ogni tanto passava qualche donna col cannadiejo di terracotta sul capo, e subito scompariva dentro in casa, sollevando la tenda penzolante davanti alla porta, una vecchia rete smagliata. Sugli scalini stavano a pazziare dei mammocci tutti sporchi coi visetti già ruggini dei pescatori, dentro certe palandrane sdrucide che erano già state dei fratelli maggiori. Qualcuno però, stava ancora a fare le coffe, seduto con le gambe aperte contro il muro scrostato di casa sua. Il solicello di mezzogiorno indorava il vicolo, che sentiva tutto di zuppe di fraulini, con l'olio e la conserva.
La casa dello zio Zocculitte era una sola stanza a pian terreno: in mezzo aveva un letto matrimoniale che lo occupava per quasi tre quarti: le sue immense spalliere erano di ferro nero, tutte piene di volute e ricami. Il poco spazio che restava nella stanza era pieno come una stiva. Tra il battente della porta del piccolo andito, e il muro, erano ammassate pertiche, spungoni, coppini, alti e sottili; e qua e là in tutti gli angoli, vecchi fieri, aci, cime arrotolate. Alla trave centrale del soffitto erano appesi due fili di ferro che reggevano un'asse sopra la quale erano accatastate le coffe. Davanti a una finestrella c'era la stufa, e su la stufa bolliva la zuppa di fraulini. Appena finito di mangiare, ricominciò subito il lavoro. Tutto vicolo Rappini riprese a risuonare, come se fosse un solo cortile. Vecchi e mammocci, non c'era nessuno che non lavorasse, e che lavorando non parlasse e non gridasse coi vicini. Se ne stavano a gambe larghe chini sulle coffe in strada; ma anche chi restava dentro, nella stanza, ai piedi del letto, era come se fosse all'aperto. Vittorio e lo zio Zocculitte avevano preso le coffe fatte alla mattina, e a una a una le aprivano, e lasciando i palametri arrotolati in ordine in fondo alla cesta, staccavano gli ami conficcati nel sughero e vi infilavano un gambero ognuno, posandoli poi sul coperchio aperto della cesta. C'erano centocinquanta ami per ogni coffa: e il lavoro durò fino alle quattro. Allora Vittorio si cambiò e andò a ballare. Lucià e Marcè rimasti liberi e soli, andarono a spasso lungo la Fiumarella dove c'era il porto: era pieno di barche di ogni specie, juzzi, paranze, paranzelle, lancie, lampare, motopescherecci. La lancia di zio Zocculitte, Mariagrazia, era invece sulla spiaggetta in fondo a vicolo Rappini, la prima che Lucià e Marcè avevano visto arrivando.
La sera andarono a dormire presto: sul letto matrimoniale dormivano Lucià, Marcè e lo zio Zocculitte; Vittorio dormiva per terra. Alle una di notte si alzarono per andare alla pesca
Coperto da grandi distese di nuvole cupe ma strappate qua e là in modo che vi si poteva scorgere qualche stella, il cielo era così aperto che il mare, sotto di lui, non si distingueva se non per qualche rara piega di luce. In compenso si sentiva più forte - tanto fragoroso, anzi, che riempiva tutta la notte - lo scroscio della marea.
La spiaggetta era tutta piena di luci. I pescatori che già erano arrivati avevano accese le lanterne sulle poppe delle lance, e dentro il cerchio del loro chiarore si muovevano, chinandosi sulle falanghe, alzandosi, puntando le braccia contro i bordi, per sgradare la barca.
Vittorio accese la lanterna sulla Mariagrazia, che la stagione prima era giunta ormai al suo ventiquattresimo anno, ma era ancora fresca, solida, leggera nella sua elegante zinconatura; dentro lo scafo tutto era in ordine. La sgradarono spingendola sulle falanghe, fin che non venne a dondolare sull'acqua viva.
Lo zio Zocculitte cominciò a remare verso l'alto, in direzione del Circeo: ma non si vedeva a due metri di distanza; il mare e il cielo erano un solo baratro di ombra impenetrabile e fredda. Qua e là sparsi per il golfo si vedevano i punti di luce delle lanterne delle altre barche, ancora radi: in quel momento, dal porto, usciva il convoglio di una lampara, tutto turgido di luce. Ma si lasciò presto indietro la riva, andando a rimpicciolirsi verso le acque lontane del Circeo.
Lo zio Zocculitte remava, Vittorio e gli altri due se ne stavano seduti in fondo alla barca.Tacevano, e si sentiva solo il fruscio del legno dei remi sul ferro degli scalmeri, contro il fragore immenso del mare.
"Si va lontano?" chiese dopo un pò con un filo di voce Luciano a Marcello. "E che ne so'?" fece Marcè: lo zio Zocculitte e Vittorio tacevano. Vittorio prese il posto di zio Zocculitte ai remi. "Andiamo fino alla scogliera" disse zio Zocculitte, seduto sul macellaro. "Sotto il Circeo" aggiunse. Tra lui e Vittorio remarono per quasi due ore. Ormai pareva che la terra fosse lontanissima: c'era solo il mare intorno così aperto che dava quasi un senso di paura. Invece, non erano molto distanti dalla terra: se, a quell'ora, ci fosse stata la luna, Lucià avrebbe visto sopra il suo capo alzarsi come un'enorme muraglia nera, più nera del cielo, il Circeo con le sue rupi e le sue foreste.
Fu così quasi ai piedi del Circeo che la barca si fermò, e Vittorio si chinò a scandagliare l'acqua. "Ci siamo?" disse lo zio. "Ventiquattro - rispose Vittorio - va bene". "Ventiquattro braccia" ripetè Luciano e Marcello.
"Siamo sulla scogliera" disse lo zio Zocculitte. Vittorio prese da sotto la prua il sughero quadrato, dove era infilata una canna alta un mezzo metro con in cima uno straccio nero: legò alla canna la seconda lanterna e l'accese. "Qui sotto - disse zio Zocculitte, mentre Vittorio lavorava - c'è Quadro. "Che è?" disse Lucià
"E' una città sepolta sotto le acque, negli antichi tempi".
"Sta qui sotto la barca?" chiese Lucià. "E come no, con tutte le sue chiese e i suoi palazzi. Era una città grande come Roma" disse lo zio Zocculitte.
Vittorio intanto aveva attaccato sotto il sughero una lunga corda, il calamiente, e all'altra estremità aveva legato il màzzero e un capo del palametro della prima coffa.
Intanto tutto il golfo andava riempendosi di piccole luci: s'erano raddoppiate, perchè ogni lancia aveva gettato il frascone con la lanterna in mare. Anche Vittorio gettò in mare il ffrascone: il sughero galleggiò, ondeggiando come ubriaco con la lanterna sul pelo dell'acqua, mentre il màzzero era scomparso con un tonfo portando, appunto, a ventiquattro braccia di profondità il calamiente e il palametro. Allora zio Zocculitte cominciò a remare pian piano, mentre VIttorio in piedi a poppa, dalla prima cassetta aperta, lasciava scivolare il palametro in mare, reggendolo con le mani: il palametro scorreva giù coi suoi fili di nylon ai cui capi c'erano gli ami con infilati i gamberi. Finita una coffa, Vittorio vi legava all'estremità la seguente. Dieci erano le coffe, in tutto quasi due chilometri di corda, e millecinquecento ami. La barca, guidata dallo zio Zocculitte, non si allontanava però dritta dal frascone, bensì a lente curve, in modo che i palametri in fondo al mare si adagiassero a serpentina; infatti il frascone ballonzolava fulgido e abbandonato a non più di un mezzo chilometro, quando le coffe furono finite. Allora Vittorio legò all'ultima coffa il secondo calamiente e questo al secondo sughero, senza lume, però,e lo gettò in mare.
Intanto la luna cominciò ad albeggiare, fuori dalle nuvole che coprivano i monti di Sperlonga. Il cielo apparve sgombro; e le uniche nuvole erano appunto quelle ammassate laggiù e sbiancate dalla luna.Tutto il mare, tra il Circeo e Sperlonga, era punteggiato da centinaia di lumi. Il fianco del Circeo, colpito debolmente dalla luna, si alzava fino alle stelle, turchino contro il turchino del cielo.
Fu dunque sotto i raggi della luna che Lucià vide salire su dal mare i primi pesci. La barca si era staccata dal secondo frascone, senza luce, e a rapidi colpi di palelle, si era riavvicinata al primo, tutto sfolgorante. Vittorio lo tirò sulla barca e spense la lanterna, poi fece a rovescio il lavoro che aveva fatto prima: cominciò a tirare i palametri sulla barca, raggomitolandoli in disordine dentro gli spaselli. Lucià e Marcè gli si fecero vicini, pieni di ansia. I palametri venivano su dal mare coi loro fini penzoloni e gli ami vuoti. Poi, dopo venti o trenta ami, comparve il primo fraulino, tutto palpitante. Vittorio lo strappò dall'amo, e lo gettò nella cassetta ai suoi piedi. Lucià si chinò a guardarlo, con la sua pancia lucida colpita dalla luna e il suo occhio rosa.
"Adesso viene il palametro con gli ami grossi" disse Vittorio continuando sempre a lavorare con le mani. "Nella prima coffa un solo fraulino" disse Lucià deluso, guardando il fraulino morente dentro la cesta. Vittorio e lo zio tacquero. Intanto il palametro con gli ami grossi emergeva gocciolante e senza preda .Poi d'improvviso apparve un dentice, e dopo poco un altro dentice, grande, pesante, chiaro come l'argento. Poi uno schiantaro, un sarago, e un alto dentice; e un ronco di tre chili. Lo stesso zio Zocculitte lasciò i remi per venire a osservarlo. Vedendo che era silenziosamente contento, Lucià esclamò:"Vi abbiamo portato fortuna".
Intanto i palametri si seguivano uno dopo l'altro, ora vuoti, ora coi pesci a cui la luna faceva luccicare le scaglie. Le grosse mani di Vittorio li staccavano e li gettavano a svincolarsi dentro la cassetta. Variati, palombe, mafroni, cocce, schiamuti, cergne, tracine, fraulini, i piccoli fraulini.
Passarono così quasi due ore; l'ultimo fraulino cadde nella cassetta che già lo illuminava il sole, non più la luna, e il fianco del Circeo si alzava buio contro il cielo e il mare già bianco nella luce del giorno. 

Pier Paolo Pasolini 



Il racconto pasoliniano, inedito, è stato reperito dagli studenti dell'ITS Bianchini di Terracina (Latina), insieme al loro professore, Giovanni Iudicone, presso il Fondo Pasolini di Roma - giugno 1999


Fonte: http://amicidiletture.blogspot.it/search?q=terracina



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