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Biografia, lavori in corso - a breve anche il 1974 e il 1975

domenica 31 gennaio 2021

Pasolini - 1960 STENDALI’ - Video

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro




1960 

STENDALI’



Cortometraggio
Regia di Cecilia Mangini
Sceneggiatura: Cecilia Mangini
Testo e traduzione: Pier Paolo Pasolini
Voce: Lilla Brignone
Fotografia: Giuseppe Dimitri
Musica: Egisto Macchi

TRAMA:
La ritualità delle prefiche, mestieranti del pianto, è ricostruita in questo splendido documentario che ripercorre in appena dieci minuti la tragedia di una morte nella terra salentina. Il dolore del trapasso è sentito individualmente, ma coralmente partecipato dalla comunità che ne sancisce le parole ed i gesti.

Pier Paolo Pasolini traduce dal dialetto grecanico e reinterpreta il canto di morte che accompagna le immagini del rito.

Stendalì (suonano ancora) 
Didascalia in sovrimpressione: 

Qualcuno è morto. Lo annuncia il suono delle campane: le vicine di casa vengono a consolare le madri, le spose o le sorelle e a piangere con loro. E’ la visita funebre. Poi saranno i soli uomini a accompagnare il morto nel cimitero. Intanto le donne, nella casa, continuano il pianto. Il pianto, così regolato e rituale, è una sopravvivenza arcaica in una società che infatti è per molti versi arcaica: la società delle aree depresse, cioè di quasi tutta l’Italia meridionale. In una simile società, oberata da condizioni economiche a volte disumane, la morte sarebbe intollerabile, priva di senso, se il suo dolore disgregatore non fosse contenuto dal rozzo istituto del “pianto”, per cui le informi manifestazioni della disperazione vengono, per così dire, stilizzate. Alcuni canti funebri – questi, per esempio, dei comuni pugliesi di lingue greca – sono tra le più alte forme della poesia popolare. 

Voce off (testo di P.P. Pasolini): 

Piangete, madri che avete figli, piangete con tutto il vostro dolore, che vi venga dalle foglie dell’anima che vi abbandonano prima del tempo. Viene la morte che non ci rispetta, che ci ha tutti quanto segnati. Piangete a lutto, tutti voi piccini, piangete grandi, piangete ragazzi, questo fiore ha perduto ogni forza e aveva appena sedici anni. Io ti aspetterò, io, o mio figliolo, io ti aspetterò fino alle tre, quando io vedrò che tu non vieni, correrò a cercarti nell'orto e nel cortile. Io ti aspetterò, io, o mio figliolo, io ti aspetterò fino alle cinque, quando io vedrò che tu non vieni, correrò a cercarti da tutti i parenti. Io ti aspetterò, io, o mio figliolo, io ti aspetterò fino alle nove, quando io vedrò che tu non vieni, io perderò ogni speranza e se vedrò che tu non vieni e alle dieci non ti fai vedere, alle dieci sarò divenuta terra, terra, terra da seminarvi. Io ti aspetterò, io, o mio figliolo, io ti aspetterò fino all'anno, e quando io vedrò che tu non vieni, annerirò come fuliggine. E tu, cuore arso, piangi, piangi, urla sempre come un bue selvaggio che al mondo hai perduto ogni luce. Me l'avessi detto tu, figlio mio, che tu stavi per partire, ti avrei preparato un canestro con tutta la tua roba. Chi ti preparerà il vestito quando verrà la domenica? Nessuno di tutti che qui stanno. Tu resterai solo. Chi ti laverà la camicia, figlio mio? Te la laverà la lapide e la terra. E chi te la potrà stirare? Te la stirerà la lapide e la terra. Chi ti sveglierà, figlio mio, quando il giorno sarà alto? Là sotto è sempre un sonno, sempre notte buia.




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Pasolini - 1968 APPUNTI PER UN FILM SULL’INDIA - Video

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro



Un occidentale che va in India ha tutto, ma non dà niente. L’India, invece, non ha nulla, in realtà dà tutto.

P.P. Pasolini da Appunti per un film sull’India


Avevo cinque anni e la mia famiglia allora abitava a Conegliano. La sera di una domenica io la mamma e il babbo eravamo appena tornati dal cinematografo. Io aspettavo che fosse pronta la cena e sfogliavo certi foglietti che erano stati dati al cinematografo come réclame. Ricordo ancora una sola illustrazione ma la ricordo con grande precisione che mi turba ancora. Quanto la osservai! Che soggezione e voluttà mi diede! La divoravo con gli occhi e tutti i miei sensi erano eccitati per poterla gustare a fondo. Provavo allora lo stesso spasimo che ora mi stringe il cuore di fronte a un’immagine o a un pensiero che non sono capace di esprimere. La figura rappresentava un uomo riverso tra le zampe di una tigre. Del suo corpo si vedevano solo il capo e il dorso; il resto scompariva (lo immagino ora) sotto la pancia della belva. Ma io credetti invece che il corpo fosse stato ingoiato, proprio come il topo tra le fauci di un gatto… il giovane avventuriero, del resto, pareva ancora vivo, e conscio di essere semilavorato dalla tigre stupenda. Giaceva col capo supino, in una posizione quasi di donna - inerme, nudo. L’animale intanto lo inghiottiva ferocemente. […] Davanti a questa figura […] sentivo un brivido dentro di me, e come un abbandono. […] Intanto cominciavo a desiderare di essere io l’esploratore divorato vivo dalla belva. Da allora spesse volte prima di addormentarmi fantasticavo di essere in mezzo alla foresta e di essere aggredito dalla tigre. Mi lasciavo divorare da essa. E poi naturalmente… escogitavo il modo di riuscire a liberarmi e a ucciderla.

(P.P. Pasolini, “Quaderni rossi” in Id.,
Romanzi e racconti, Milano, Mondadori, 1
998, Vol. I, pp. 135-136 (a cura di
Walter Siti e Silvia de Laude).


"Se vedessi due tigrotti
affamati saresti disposto 
a offrire il tuo corpo 
per sfamarli?"


1968 APPUNTI PER UN FILM SULL’INDIA


Regia di Pier Paolo Pasolini
Produzione: Gianni Barcelloni per la RAI TV
Soggetto, commento, fotografia: Pier Paolo Pasolini
Montaggio: Jenner Menghi

PRIMA PROIEZIONE:
18 agosto 1968: XXIX Mostra di Venezia, sezione “Documentari”.

USCITA NELLE SALE:
Il film non è uscito nei circuiti commerciali.

STORIA:
Film girato dal 20 dicembre 1967 al 10 gennaio 1968 negli esterni dello Stato di Maharashtra (Bombay), Stato di Uttar Pradesh, Stato di Rajahstan, New Delhi. Gli “appunti” si riferivano a un film da farsi “sulla storia di un maragià il quale, secondo una leggenda mitica indiana, offre il proprio corpo alle tigri per sfamarle (questo, idealmente, prima della liberazione dell’India); e, dopo la liberazione dell’India, sempre idealmente, la famiglia di questo maragià scompare perché i suoi membri muoiono di fame ad uno ad uno durante una carestia” (vedi: Nico Naldini, Pasolini, una vita, Einaudi 1989). Il progetto originario era di fare un film sullo sviluppo della coscienza politica in alcune nazioni del Terzo Mondo che, affrancate dal colonialismo, stavano avviando forme di gestione democratica. Per rappresentare poeticamente tutto ciò, il regista prevedeva di utilizzare racconti radicati nella cultura locale, accomunati da un “sentimento violentemente e magari anche velleitariamente, rivoluzionario: così da fare del film stesso un’azione rivoluzionaria”. Pasolini effettuò le riprese cinematografiche per le strade, principalmente nella città di Bombay e nelle sue estreme, poverissime periferie, con la cinepresa in spalla, riprendendo persone di ogni estrazione sociale e presentando loro la propria idea di realizzazione della storia del marajà, con l’intento di verificare la propria concezione poetica del film e di ricercare i personaggi adatti all’interpretazione. Ascoltando e registrando le opinioni, i commenti, i suggerimenti, coglie sui volti vecchi e giovani di coloro che incontra, nei gesti, nei sorrisi da cui traspare una grande quiete interiore, una incredibile ricchezza di espressioni.

BIBLIOGRAFIA:
- Luciano De Giusti (a cura di), Il cinema in forma di poesia, Pordenone, Cinemazero, 1979; pp. 134-135. Soggetto. Col titolo di Storia indiana.





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1972 - 12 DICEMBRE

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro




Perché ho fatto questo film insieme a un gruppo di giovani compagni di Lotta Continua? Il perché c’è sicuramente, ma, per essere sincero io non lo so dire. Ho criticato a suo tempo, con violenza e forse con inopportunità, l’azione politica dei giovani: molte di quelle mie critiche si sono sfortunatamente rivelate giuste, e non ne abiuro. Tuttavia mi sembra che la tensione rivoluzionaria reale sia vissuta oggi dalle minoranze di estrema sinistra. La critica globale e quasi intollerante che queste esprimono contro lo stato italiano e la società capitalistica mi trovano completamente d’accordo nella sostanza, anche se non spesso sulla forma. Perciò, fin che ne sono capace, e ne ho la forza, è ad esse che mi unisco...

P.P. Pasolini, Il cinema in forma di poesia, 
Pordenone, Cinemazero, 1979; p. 97.

1972 DODICI DICEMBRE

Regia di Pier Paolo Pasolini (non accreditato) e Giovanni Bonfanti (aiuto regia: Maurizio Ponzi, Fabio Pellarin, Umberto Angelucci)
Produzione: Giovanni Bonfanti - Lotta Continua
Distribuzione: Circoli Ottobre - Lotta Continua / DAE
Soggetto: Giovanni Bonfanti e Goffredo Fofi
Sceneggiatura: Giovanni Bonfanti
Fotografia: Giuseppe Pinori, SEbastiano Celest Enzo Tosi, Roberto Lombardi, Dimitri Nicolau
Musica: Pino Masi


STORIA:
La regia del film è attribuita interamente a Giovanni Bonfanti. In realtà Pasolini ne diresse personalmente circa la metà. Il film si impernia sulla strage alla Banca Nazionale dell’Agricoltura di Milano, la strage di Piazza Fontana, avvenuta il 12 dicembre 1969.




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sabato 30 gennaio 2021

1963 SOPRALLUOGHI IN PALESTINA

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro




«Piove un fuoco scuro nel mio petto: non è sole e non è luce. Giorni dolci e chiari volano via, io sono di carne, carne di fanciullo. Se piove un fuoco scuro nel mio petto, Cristo mi chiama, ma senza luce ».



1963 


SOPRALLUOGHI IN PALESTINA

(Per il Vangelo secondo Matteo)





Documentario

Produzione: Arco Film
Soggetto: Pier Paolo Pasolini
Commento e montaggio: Pier Paolo Pasolini
Fotografia: Aldo Pennelli
Interventi: Don Andrea Carraro e Pier Paolo Pasolini

PRIMA PROIEZIONE:

15 dicembre 1963: Milano, Cine Club Il Barcone

USCITA NELLE SALE:

Il film non è uscito nei circuiti commerciali. E’ stato proiettato l’11 luglio 1965 nella serata conclusiva del Festival del Cinema di tendenza, promosso dalla rivista FILMCRITICA nell’ambito dell’VIII Festival dei Due Mondi di Spoleto.


STORIA:

Dal 27 giugno all’11 luglio 1963 si recarono in Israele e in Giordania, per visitare i luoghi originari del Vangelo,
Pier Paolo Pasolini, don Andrea Carraro e il dottor Lucio Settimio Caruso della Pro Civitate Christiana, Walter Cantatore dell’Arco Film, la casa produttrice di Alfredo Bini, l’operatore Aldo Pennelli. Lo scopo era duplice: da un lato riconfermare un’ispirazione che in Pasolini era già profonda e angosciosa, ricontrollare da vicino cose e momenti visti solo nella lettura, nella fantasia, nell’arte figurativa, nella musica; dall’altro esaminare la possibilità di girare là il film, del tutto o in parte, di controllare i costumi, la scenografia esistente e quella «possibile», per un 
film ispirato alla  
vita di 
Cristo attraverso il Vangelo. Pasolini ritornò da Israele con sei rulli di documentario sui luoghi visitati, con una grandissima quantità di suggestioni morali nuove, con un’
«impressione estrema di desolazione, di umiltà, di povertà», 
con una nuova spinta fermissima, se ce ne fosse stato ulteriore bisogno, a realizzare il film; ma anche con l’assoluta convinzione che non fosse possibile utilizzare in nulla il paesaggio di Israele e di Giordania, o i visi di
Israele e di Giordania.
 I duemila anni trascorsi dall’età di Cristo hanno profondamente modificato la scenografia naturale, 
«c’è sempre qualcosa di troppo moderno e industriale». 
E Pasolini si trovava così a cercare di identificare continuamente quanto incontrava e che fu , ma che non poteva assolutamente ritornare ad essere, con qualcosa di simile, conservato più genuinamente, più immoto, che potesse quindi rappresentare il passato, i luoghi
e lo scenario del Vangelo. L’Italia meridionale, Matera, Crotone, la Puglia, e altre zone ancora, si fecero strada, sempre più prepotentemente, nella impostazione scenografica e ambientale del film, anche perché avevano la possibilità di offrire, oltre al paesaggio di Terrasanta mutato, anche quello immutato: 
«Il monte delle Beatitudini sembra uno dei luoghi più desolati della Calabria e delle Puglie (...) mi aspettavo luoghi favolosi, ho avuto una lezione di umiltà, la vita, la
morte di Cristo sta tutta dentro in un pugno (...) ci sono montagne molto simili a quelle sullo Jonio, fra Cutra e Crotone, ci sono tipici uliveti pugliesi (...) Bari vecchia può essere il luogo di uno dei miracoli di Cristo (...) ma mi occorrerà una grotta dell’Annunciazione sulla quale non sia in costruzione una chiesa moderna, e dovrò trovare una Betlemme “vera” che sia il surrogato delle Betlemme di oggi (...) forse
l’unico problema sarà la ricostruzione del deserto, con questa luce, questa immensità di orizzonti, queste zolle spelacchiate, che ricordano un po’ l’Etna (...) e la ricostruzione delle rive del Mar Morto, uno dei pochissimi paesaggi che abbia in sé la grandiosità, un tremendo paesaggio lunare». 
In sostanza, il viaggio in Terrasanta aumentò la carica spirituale (spirituale-estetica,  
dice Pasolini),
proprio mentre allontanò materialmente il film dai luoghi delle sue origini. Israele è troppo moderno. La Giordania è patinata di varie incrostazioni architettoniche, che si sono susseguite nel tempo, dovute specialmente ai Crociati e agli Arabi. Le grandi chiese cristiane moderne, che non piacciono a Pasolini, impediscono comunque la rappresentazione genuina della grotta dell’Annunciazione e di quella della Nascita, del Calvario, del Sepolcro.
 In un Paese, come ci ha detto il dottor Caruso, che ha da anni un’
«aria di provvisorietà armistiziale», 
Pasolini è riuscito a osservare le cose in un oggi immediato, andando nello stesso tempo al clima testuale dell’epoca di Gesù Cristo. Osservava infatti Lucio Caruso, nei giorni stessi del viaggio: 
«Davanti alla basilica costantiniana del Santo Sepolcro mi ha colpito un leggero moto di Pasolini, come
di ripulsa. Il motivo – l’ho capito subito e poi lui stesso me lo ha confermato – è nel suo voler ricercare, al di sotto delle stratificazioni architettoniche successive, il volto della Terra santa quale Gesù lo vedeva. Mi sembra sempre più chiaramente che il film vuol farlo nella viva prospettiva del contemporaneo, non in quella svaporata del lontano postero che attinge alla ricostruzione storica o che indulge alle
fantasie popolari»
.
Le visioni dei campi, la semplice operazione della «battitura» del grano sollevando in alto i chicchi e la pula, ad esempio, suggerivano a don Andrea Carraro di riferire a Pasolini l’immagine evangelica dei farisei paragonati appunto al frumento, per uscire indenni da una rigorosa selezione, il grano buono da un lato, la pula dall’altro. E il regista ascoltava con profonda attenzione il riferimento, e quelle che egli chiama le «reazioni
perfette» di don Andrea, con cui si intende «anche perché don Andrea è veneto, parla con accento veneto», e ha avuto un’infanzia simile alla sua, «un’educazione cattolico-veneto-liturgica», e può dare una misura delle reazioni del futuro pubblico cattolico. Non per niente, infatti, nel corso del documentario – che a Pasolini è servito come ricerca, come prova, come testimonianza – don Andrea, rivolto al regista, dichiarava che si sarebbe dovuto assorbire lo spirito della situazione anche geografica della Terra santa, per sentirlo, reinventarlo. D’altronde anche
Pasolini sentiva in sé degli avvertimenti stilistici: 

«Gerusalemme è indubbiamente grandiosa e sublime. Se il film sarà semplice e scandito, in precedenza, all’arrivo a Gerusalemme dovrò mutare registro, per riassorbire l’allegria e la varietà dei luoghi sottoproletari e poveri e la grandiosità di una folla e di una capitale».

 Un altro problema che sarebbe rimasto insoluto, qualora il film si fosse girato in
Israele e Giordania, e che appunto il sopraluogo ha contribuito ad eludere, sarebbe stato probabilmente quello delle comparse, della impossibilità di trovare comparse in Israele, dove il lavoro in prevalenza industriale assorbe pressoché tutta la popolazione; e in Giordania dove 
«le faccie degli arabi sono precristiane: indifferenti, allegre, animalesche, e un po’ funeree, su di esse non è passata, neanche da lontano, la predicazione di Cristo».
Pasolini era sempre colpito, in modo vivissimo, dall’«assoluto, estremo ordine della testa di don Andrea»,
il quale non si sorprendeva di niente, nel nuovo come nel vecchio, nel noto e nell’ignoto, nello straordinario e nel consueto. «Don Andrea», aggiunge Lucio Caruso, 
«con precisione di studioso dava sobrie spiegazioni traducendo in linguaggio
semplice la sua complessa terminologia esegetica. Quasi non riconoscevo più in lui il mio severo professore di Bibbia. Mai una concessione al sentimento, neppure nell’inflessione della voce. Dava soltanto una spiegazione a quei luoghi, faceva udire la loro voce. E dall’espressione dei volti mi accorgevo che a parlare all’intimo di ognuno erano proprio quelle pietre che duemila anni fa furono
bagnate dal sangue dell’Innocente. Via dolorosa: per qui è passato Gesù, l’uomo-Dio, con la croce sulle spalle in mezzo a una umanità allora come oggi indifferente. Ho chiesto a Pasolini»,
aggiunge Caruso, 
«se ancora gli sembrasse attuale la frase del Battista: “In mezzo a voi è qualcuno che voi non conoscete”. Mi ha risposto di sì.»
E Pasolini tendeva continuamente a sottolineare – ricevendo da don Andrea la conferma di un pensiero di san Paolo – che quanto più le cose apparivano, erano piccole e brulle («le solite ristrette misure di tutto il Vangelo»), tanto più erano per lui belle esteticamente.
 «Pasolini», osserva ancora nelle sue impressioni immediate Lucio Caruso, 
«ha una capacità di lavoro impressionante. Sembra non accorgersi del caldo atroce, anzi appare freschissimo, teso nell’attenzione, pronto a cogliere i più minuti particolari e a commentarli. Mi ha fortemente sorpreso in lui un interesse, più che sociologico, psicologico. Di fronte a questa gente misera, in ambienti malsani, lui non pensa agli enormi loro problemi sociali, alla mortificazione di tutta
questa cenciosa comunità presa nel suo insieme, piuttosto sente il dramma del singolo individuo, il suo mondo spirituale, il rapporto individuo-alimentazione, individuo-stracci, ricerca i sintomi esteriori del loro fatalismo orientale, rileva che l’allegria della gente di qui poggia su un sottofondo o di mestizia o di bestialità, mai di serena gioia. Abbiamo visitato l’orto del Getzemani e quindi
abbiamo proseguito per Emmaus, a un’ora d’auto. Il Getzemani è il luogo della paura e dell’angoscia di Gesù, qui sudò sangue, fu tradito da Giuda, abbandonato dagli apostoli. Pasolini ha ammirato gli ulivi, enormi, millenari, con i loro tronchi accartocciati e contorti che sono gli stessi di duemila anni fa. Ha parlato degli ulivi e non d’altro. Sembra un atteggiamento di difesa di fronte alla forte
carica spirituale che questi luoghi sembrano emanare.» 
Per parte sua Pasolini, nel commento al documentario (sempre esposto in forma di piana relazione-lettera a Bini), a un certo punto, giustificando indirettamente l’osservazione di Caruso, nota: 
«Essere qui brutalmente e fisicamente davanti al Giordano mi dà un senso di imbarazzo e di mancanza di
rispetto: sono imbarazzato soprattutto per ragioni estetiche». 
Continua Caruso: 
«Gli ho detto che proprio qui, nell’orto del Getzemani, Gesù “si è fatto peccato”, si caricò cioè di tutti i nostri peccati per poi espiarli sulla croce. Nel suo sguardo mi è sembrato di notare un lampo di commozione». Il documentario
del «sopraluogo» termina sull’ambiente dell’Ascensione, che Pasolini, per parte sua, identifica con «il momento più sublime di tutta la storia della Chiesa, il momento in cui Egli ci lasciò soli a cercarlo».

(Tratto da: Il vangelo secondo Matteo, 
Edipo Re, Medea - Garzanti)  




H. – In origine, Sopralluoghi in Palestina era destinato alla proiezione in pubblico, o era invece concepito come un film di ricerca ad uso personale?

P. – Fu una cosa del tutto casuale, e in realtà io non ebbi alcuna parte nella scelta dei luoghi o nei movimenti di macchina o nel girare e tutto il resto. Quando andammo in Medio Oriente c’era con noi un operatore inviato al nostro seguito dalla casa produttrice. Io non gli suggerii mai niente, anche perché non pensavo affatto di servirmi del materiale
c
he lui girava per farne un film; volevo solo raccogliere un po’ di documentazione che mi aiutasse a impostare Il Vangelo. Quando tornai a Roma, il produttore mi chiese di mettere assieme un po’ del materiale girato e di farci su un commento, in modo da poter mostrare il tutto ad alcuni distributori e capoccia democristiani che avrebbero potuto essere utili ai produttori. Io non controllai neppure il montaggio. Lo feci fare da qualcuno e mi limitai a dargli un’occhiata, ma lasciai tutto quello che c’era, compresi certi brutti tagli fatti da quello che avevo incaricato, e che non
era nemmeno uno specialista. Me lo feci portare in sala di doppiaggio e improvvisai un commento. Insomma, è stata una faccenda così, ripeto, improvvisata.

   
H. – Le conversazioni fra lei e don Andrea devono essere state registrate in quel periodo.
   

 
 P. – Sì, quelle erano vere, ma fu sempre l’operatore a decidere quali registrare e quali no.  
  
   
H. – Dopo la faccenda della Ricotta avrà avuto qualche difficoltà nel ristabilire buone relazioni con i rappresentanti della Chiesa, immagino.  
  

P. – Ero stato in buoni rapporti con don Giovanni Rossi e altri della Pro Civitate Christiana, e con alcune persone della sinistra cattolica, ma questo, diciamo, prima dell’affare della Ricotta. Tutto fu reso più facile, però, grazie all’ascesa al soglio di Papa Giovanni XXIII , che obiettivamente rivoluzionò la situazione. Se Pio XII fosse vissuto altri
tre o quattro anni, non sarei mai stato in grado di fare Il Vangelo.
 
   

  
 H. – Un punto che a me è sembrato un po’ strano, in Sopralluoghi, è quello in cui lei trova alcuni bambini arabi e dice qualcosa come: «Questi non andranno bene per il film, perché si vede che la parola di Cristo non è passata sui loro visi». Non l’ho capito, veramente.
   

   P. – La cosa è piuttosto difficile da spiegare; è una di quelle cose che
vengono dal cuore. Ma storicamente è vero, non può dirmi che non lo è. È una cosa che ho detto così, per ispirazione, anche se nel contempo è banale; è vera nel senso più pratico e brutale della parola, come è vera per noi nell’Italia meridionale: si vede che la parola di Cristo non è passata di là perché la loro moralità non è evangelica, non è fondata sull’amore ma sull’onore. Non c’è pietismo; fondamentalmente non c’è nemmeno pietà, nell’accezione cristiana del termine... cioè in senso lievemente ricattatorio. Se la pietà c’è è perché c’è, non perché dovrebbe esserci e ci si aspetta che ci sia. E questo lo si vede meglio negli arabi che nei nostri meridionali.
 
   
 H. – Quanto tempo ci ha messo a capire che quel materiale era tutto inutilizzabile? Nel film, credo che sia don Andrea Carraro a dirlo per primo, ma si ha la netta impressione che lei se ne fosse già reso conto.
 

  P. – Quando atterrai a Tel Aviv, non distinsi niente, naturalmente. Era notte.
Tutto quello che riuscii a vedere fu un aeroporto e una città. Noleggiai una macchina e mi recai nell’interno. All’inizio, proprio all’inizio, fissai alcune immagini di un mondo antico, prevalentemente arabo. In un primo tempo ho pensato che avrei potuto servirmene, ma subito dopo cominciarono a comparire i kibbutzim, e cantieri di rimboschimento, industrie leggere e così via, e allora mi resi conto che era inutile: lo capii dopo poche ore di auto.

  
 H. – Di recente, dopo la guerra dei Sei Giorni,23 lei ha pubblicato delle poesie che aveva scritto durante il suo soggiorno in Palestina ma che non aveva pubblicato a quell’epoca, insieme con un testo su Israele che era più o meno un attacco all’«Unità». È un po’ difficile dedurne che cosa ha pensato di Israele come società; perciò me lo dica adesso, per favore.
   

   P. – Le poesie pubblicate su «Nuovi Argomenti» sono poesie che non ho incluso nel volume Poesia in forma di
rosa, dove c’è una sezione intitolata «Israele» nella quale si rende l’idea dell’impressione che ha destato in me quella società. È stata un’impressione contraddittoria, nel senso che io la disapprovo radicalmente in quanto si fonda su un’idea sostanzialmente razzista, messianica e religiosa, l’idea di una Terra Promessa basata su ragioni religiose vecchie di tremila anni, cosa completamente folle. Non accetto la premessa, che è nazionalistico-religiosa: è una cosa orribile, anche se in fondo è lo stesso principio su cui si fondano tutti gli stati.

   Però, su questa premessa, è stata costruita una nazione che ispira grande simpatia; ad esempio i kibbutzim, benché siano luoghi tristissimi che fanno venire in mente i campi di concentramento, e la propensione degli ebrei per il masochismo e l’autoesclusione, nello stesso tempo sono qualcosa di nobilissimo, uno degli esperimenti più democratici e socialmente avanzati che abbia mai visto. Inoltre, ho sempre amato gli ebrei perché sono stati degli emarginati, perché sono tuttora oggetto di odio razziale, perché sono stati costretti a restare estranei alla società.
 Ma una volta fondato il loro proprio stato non sono più dei diversi, non sono più una minoranza, non sono degli emarginati; sono la maggioranza, sono i normali. E questo mi ha dato una piccola delusione, non saprei esattamente come spiegarla. Loro, che sono sempre stati i paladini della diversità, del martirio, della lotta dell’altro contro il normale, ora sono diventati la maggioranza, i normali: questa è stata una cosa che ho trovato un po’ difficile da digerire...
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