"Le pagine corsare "
dedicate a Pier Paolo Pasolini
Eretico e Corsaro
che mi ha impedito di realizzare «Il Padre Selvaggio».
Il dolore che ne ho avuto ancora mi brucia dolorosamente.
Dedico la sceneggiatura del Padre Selvaggio
al pubblico ministero del processo
e al giudice che mi ha condannato. Sono
cose, queste, che si possono
perdonare ma non dimenticare.
(P.P. Pasolini, Il padre selvaggio)
Immagine tratta da Alfredo Bini Hotel Pasolini |
(Filmcritica, numero 125, settembre 1962)
Immagine tratta da Alfredo Bini Hotel Pasolini |
Di seguito alcuni brani tratti dal libro di Alfredo Bini "Hotel Pasolini Un’autobiografia Dietro le quinte del cinema italiano":
Immagine tratta da Alfredo Bini Hotel Pasolini |
"Provo rabbia nel ripensare a quel progetto. Avevamo persino fatto un viaggio in Africa con Alberto Moravia e Dacia Maraini per trovare i posti dove girare. Un’esperienza davvero singolare: Moravia si alzava furtivo prima delle cinque per prendere un po’ di marmellata e di frutta prima che fosse divisa in quattro parti. Ce ne accorgemmo e qualcuno lo fotografò. Quante risate! Per il film era tutto pronto: sopralluoghi, attori locali, l’accordo con gli inglesi per fare una sorta di coproduzione in Kenya e contemporaneamente il sostegno di Jomo Kenyatta, da me incontrato personalmente, che nel 1963 sarebbe diventato il primo presidente del Kenya indipendente. Anche in quel caso arrivò la solita lettera delle autorità italiane: non si trattava della sceneggiatura, ma di un problema di nazionalità. Veniva contestato al progetto il fatto che gli attori impiegati fossero tutti di colore, ma era la storia di una tribù di neri ambientata nel cuore dell’Africa. Andai al Ministero, feci un casino, ruppi una scrivania, mi trattennero per qualche ora. Alla fine il film non si fece. E tutto questo in anni di coproduzioni miliardarie fasulle."
Immagine tratta da Alfredo Bini Hotel Pasolini |
Immagine tratta da Alfredo Bini Hotel Pasolini |
"Nel 1996 Enzo Siciliano venne nominato presidente della Rai. Lo conoscevo da quasi quarant’anni, era stato amico di Pasolini e, come ho già scritto, aveva recitato nel Vangelo secondo Matteo, nel ruolo dell’apostolo Simone. Pensai che con il suo avvento potesse terminare l’ostracismo che la Rai mi riservava da trent’anni. Siciliano dopo molte insistenze mi fece prendere un appuntamento con la direzione Cinema-Fiction della Rai. Avanzai le mie proposte, al massimo livello di competenza, articolate e con precisi piani finanziari. I progetti erano diversi. C’era il De bello Gallico di Cesare, una miniserie di sei film da novanta minuti ciascuno che avevo già proposto alla Rai nei primi mesi del 1994. Inoltre, volevo riprendere la sceneggiatura del Padre selvaggio di Pasolini. Passarono mesi ma non ebbi alcun riscontro, e tralascio volutamente il consueto, frustrante elenco delle telefonate, dei fax, delle lettere e dei solleciti senza risposta. Pensavo che la Rai avesse finalmente deciso di riservare attenzione a dei professionisti con esperienze non disprezzabili. Scrissi una lunga lettera a Siciliano, che sicuramente non aveva colpe, per lamentarmi del trattamento. Ne parlai con Liliana Cavani, che mi invitò a non demordere, vista la validità culturale delle mie proposte."
Alfredo Bini
Hotel Pasolini
Un’autobiografia
Dietro le quinte del cinema italiano
A cura di Simone Isola
e Giuseppe Simonelli
Il padre selvaggio
di Pier Paolo Pasolini
Progetto di un film
Il racconto originale di Pier Paolo Pasolini de Il padre selvaggio, il film che il regista avrebbe dovuto girare dopo le fatiche di Mamma Roma (1962) e della Ricotta (1963)
Il padre selvaggio avrebbe dovuto essere il primo film ad affrontare realisticamente e con una precisa impostazione ideologica il dramma e la nascita della nuova Africa
(da Appendice a Il padre selvaggio, in Pasolini per il cinema, vol I, Meridiani Mondadori, MIlano 2001).
Capitolo I°
È bello uccidere il leone
Primi giorni di scuola, in un liceo africano, nella capitale di uno stato africano che ha acquistato da un anno l’indipendenza. Il liceo: quattro baracche a un piano su uno spiazzo di polvere rossa, tra i palmizi.
Nel licéo insegna un professore democratico, appena giunto nel nuovo Stato. Sta per cominciare la sua esperienza drammatica con la scolaresca africana, composta dei figli dei pochi impiegati e dei capi tribù dell’interno; la sua lotta contro il conformismo insegnato ai ragazzi dai precedenti professori colonialisti.
Tra gli scolari, uno, Davidson, è il più ostile di tutti alle novità di metodo e di cultura del nuovo insegnante: ed è il più ostile proprio perchè è il più intelligente e il più sensibile. Sono infatti gli intelligenti ed i sensibili che si appassionano alle cose con un attaccamento che può essere fazioso: anche alle istituzioni del conformismo e alla retorica.
La lotta è soprattutto, quindi, tra l’insegnante e Davidson.
Il nocciolo centrale di questa lotta è il problema della libertà, della democrazia, dei rapporti tra bianchi e negri.
Dai dialoghi diretti, e estremamente sinceri, del professore, viene fuori, esauriente, il quadro politico dello Stato africano appena libero. I rapporti con l’ONU, i rapporti con lo Stato ex colonialista, ecc.
Il metodo del nuovo insegnante, nel far capire le cose, appunto perchè è sincero e democratico, appare sempre «scandaloso» agli scolari, abituati alla supina accettazione, alla meccanicità dell’insegnamento autoritario.
Un giorno, per esempio, il professore dà agli scolari questo tema: «Descrivete la vostra vita vera nella tribù, a casa vostra, nella foresta». Ebbene, saltano fuori degli svolgimenti tutti retorici e mistificatori. E allora il professore fa rifare il tema: egli vuole che i suoi scolari affrontino coraggiosamente la vergogna, la miseria, la superstizione o lo stato tribale, da cui provengono. Cerca di spiegare loro che cosa è la cultura «magica», la ritualità, i tabù, il cannibalismo, ecc.
Dopo la terza o quarta volta, accade una specie di miracolo: Davidson svolge finalmente un tema molto sincero, e, per questo, scritto estremamente bene, quasi come autentica poesia. Egli racconta, con grande vivezza e fantasia di particolari, una tipica situazione tribale: l’obbligo che ha un giovane, per diventare uomo, di uccidere da solo un leone.
Il professore, stupito e felice, loda di fronte a tutti il tema, e commenta, dopo averlo letto, l’inutile crudele abitudine della tribù.
Gli scolari comprendono la critica rivolta dal professore all’arcaicità, ormai superata dalla storia degli stessi africani, della cultura tribale. Tuttavia, alla fine, Davidson non può fare a meno di dire, con la sua voce roca e dolce:
– Però è bello uccidere il leone!
Sì, è difficile staccarsi criticamente dal proprio mondo vitale. È questa vitalità istintiva che è la sede poi, a un livello superiore, della pigrizia intellettuale, e del conformismo.
Soprattutto nello studio della poesia, gli scolari si mostrano pigri e pieni di riserve mentali: non capiscono la poesia «moderna». Sono meccanicamente abituati al classico accademico.
Anche qui il professore deve affrontare lo «scandalo», e legge ai suoi scolari la difficile poesia di un poeta africano. Niger o altri: una poesia che ricorda i modelli europei più raffinati, Eliot o Dylan Thomas...
Gli scolari negri hanno la stessa reazione della maggior parte degli scolari bianchi, non capiscono, si distraggono, quasi ne ridono.
Piano piano il professore la spiega, la commenta con esempi immediati, concreti, che cadono sotto l’esperienza di tutti: rende chiari e lampanti i versi dapprima incomprensibili.
Ma Davidson non vuole capire.
(N.B. - L’aridità di questa prima parte è solo apparente, perchè tutte le discussioni specialmente politiche e culturali, sono illustrate da episodi visivi: documentari per quel riguarda la situazione politica dello Stato, i rapporti con l’ONU, ecc. Il tema scritto da Davidson sulla caccia al leone sarà tutto visto. E infine il commento della poesia difficile, fatto dal professore, sarà tutto vissuto visivamente in episodi e rapidi particolari di cui gli stessi scolari saranno protagonisti).
Capitolo II°
Tinte forti da tavolozza cubista
Gli ultimi giorni dell’anno scolastico sono simili a quelli di tutte le scuole del mondo: giorni di rimpianti e di speranze, di rimorsi e di allegrezza. I risultati sono quelli che sono, i miracoli non accadono mai, anche se molti progressi sono stati fatti, molte conoscenze acquisite, molte resistenze superate.
Ma proprio in questi ultimi giorni di scuola, in cui ci si dovrebbe sentire ottimisti per ciò che pur si è fatto con buona volontà o passione, c’è un’aria di vago, angoscioso, pessimismo.
Il nuovo Stato negro è inquieto, è ben lontano dall’aver raggiunto una reale indipendenza, una reale libertà. I colonialisti sono rimasti, con la faccia dei capitalisti sfruttatori privati e, per proteggere i loro interessi, non si fanno scrupolo di fomentare rancori e divisioni nel paese: e magari lotte civili.
Delle tribù si ribellano, lottano ferocemente contro altre tribù non secessioniste: tanto che l’ONU deve inviare nuovi reparti per mantenere l’ordine nel paese.
In quest’aria di imminente, imprecisa tragedia si chiude il primo anno di scuola democratica.
Ma gli scolari, loro, covano in cuore l’antica gioia della vacanza, eguale in tutto il mondo: sono dei ragazzi...
Davidson partirà per l’interno, a trascorrere le vacanze nel suo villaggio: il giorno prima della partenza, va in giro per le strade della capitale, coi suoi compagni più cari, a divertirsi un po’. Ci sono intorno «i forti colori da tavolozza cubista», nel porto, nei locali variopinti dove ci si diverte, dove si mescolano bianchi, indiani, arabi, negri.
I caffè sono pieni di gente: allegra, vestita coi colori più vivaci, all’americana.
È in uno di questi caffè che Davidson incontra il suo professore: è la prima volta che s’incontrano nella vita privata. Il professore è con dei suoi amici bianchi, suoi compatrioti: sono dei giovanissimi «Caschi blu», biondi, allegri, un po’ ubriachi, pieni di spavalderia e gioventù... Uno, soprattutto, che è un conoscente del professore, della sua stessa città europea...
I giovani negri e i giovani bianchi fanno amicizia, presentati dal professore che del resto è abbastanza giovane anche lui...
Poi il professore se ne va, e i giovani restano insieme. Bevono, si ubriacano ancora di più: si abbracciano e vanno a donne.
Il gran sogno dei ragazzi negri è fare l’amore con una donna bianca: essi sanno a memoria anche i versi di un poeta negro, su questo antico, disperato desiderio...
La vanno a cercare, la donna bianca, per i quartieri allegri del porto... Ma per la strada, qualcosa ferma Davidson. È una ragazzetta negra con delle sue amiche... (È un episodio questo totalmente da inventare sul posto, secondo la psicologia e le abitudini africane). Davidson lascia la compagnia, con qualche scusa... Parla con la ragazza... Sta con lei. Se ne innamora. Dopo le vacanze...
Capitolo III°
La negra luce
Tutto quello che avevamo intuito attraverso la testimonianza dei ragazzi, nei loro temi, nei loro discorsi con il professore, tutto quello che avevamo capito razionalmente dai commenti scientifici del professore, ora lo vediamo davanti ai nostri occhi.
È il mondo preistorico dell’Africa, appena affiorato alla storia.
La vita tribale, i tabù, i riti, l’odio.
Siamo talmente dentro la vita negra che i personaggi potranno parlare nella loro lingua senza bisogno di traduzione, nè parlata, nè scritta; il mondo è totalmente loro e si esprime totalmente nella loro lingua. Ma le azioni, pur nel loro intraducibile mistero, sono assolutamente semplici, e possono, parlare atrocemente da sè.
Davidson è riprecipitato nel suo mondo, nel cuore dell’Africa.
Ora, nei momenti di tranquillità, di normalità, la sua «cultura storica», europea, potrebbe diffondersi nella sua famiglia, nei suoi coetanei del villaggio. Ma questo non è un momento di pace. La tribù fa parte di una regione dello Stato che ha proclamato la propria indipendenza. E si è giunti, nella foresta, a una vera e propria guerra.
E la guerra, col suo terrore, la sua contagiosa sete di uccidere, non può essere che regressiva: in essa tutto ciò che è storico, è civile, pare dissolversi, ridursi a puro meccanismo – oggetti che servono poi a uccidere: armi, jeeps, aeroplani.
Un po’ alla volta, il villaggio di Davidson diventa il centro del più feroce episodio della breve guerra.
Truppe bianche mercenarie, truppe dell’ONU, tribù africane si scontrano, in combattimenti selvaggi e inutili, spaventosi e senza senso; il caos politico coincide con l’antica furia bestiale degli uomini nati nella foresta.
Davidson, lentamente, ma necessariamente, cade nell’abiezione: abiura dalla sua co-scienza forse senza averne coscienza. Un po’ alla volta le ragioni della tribù diventano le sue; perchè sono quelle del padre, dei fratelli, dei consanguinei. Prende le armi, combatte al loro fianco. È un contagio, una peste.
A combattere contro le tribù secessioniste ci sono anche truppe dell’ONU: tra cui i giovani «caschi blu» che Davidson aveva conosciuto nella capitale.
Alternativamente, in scene quasi mute, da racconto assolutamente poetico e docu-mentario, nella foresta più funeraria, magari sotto le piogge – seguiamo la storia dei «caschi blu», da una parte, dei negri e delle truppe mercenarie dall’altra. È un’azione di guerra, una delle tante vanamente feroci, intorno a un aeroporto perduto nell’interno.
I «caschi blu» con le loro nostalgie, il loro mondo di giovani europei, le loro allegrie di soldati e uomini d’ordine; i negri con la loro furia preistorica, i riti, le danze; i campi di concentramento; le fami collettive, le stragi.
Un gruppo di bianchi, tra cui i «caschi blu» amici di Davidson, sono fatti prigionieri. Portati nel villaggio. Ammazzati. Squartati.
Nella ferocia di altre epoche storiche, riaffiora il rito religioso del cannibalismo: una specie di folle vertigine. Due, tre immagini da incubo. Davidson è con gli altri della sua tribù a compiere il rito.
Capitolo IV°
Il sogno di una cosa
Ritorna la pace. Ritorna la scuola. È il primo giorno di scuola del nuovo anno. Gli scolari arrivano, pieni di eccitazione; non è come gli altri anni, quando la scuola era un dovere noioso. Adesso, col nuovo professore, le cose si presentano diversamente.
Così il professore, risiedendosi alla cattedra, ha la stupenda sorpresa di vedere che il suo insegnamento ha dato dei frutti insperati. E un’onda di commozione investe lui e i suoi scolari.
Scende dalla cattedra, fra i banchi, va tra i suoi ragazzi: sono amici che si incontrano, e, come amici, si parlano, si raccontano le loro cose.
Quando il professore si avvicina a Davidson, come al più caro dei suoi amici, Davidson lo guarda e, come un automa, scoppia in una specie di gemito terrorizzato.
Comincia così il «male » di Davidson: per tutti misterioso, perchè ignoto a tutti, e inimmaginabile, il trauma che ha prodotto la nevrosi.
Davidson fa ogni cosa meccanicamente: mangia, dorme, va a scuola: in certo senso riesce anche a studiare. Ma è come se fosse dissociato da sè, altro da sè.
Le nozioni le impara, i temi li scrive, alle domande scolastiche risponde: ma come se qualcosa lo separasse da ogni realtà, tenendolo relegato in un mondo di tenebre e di terrore.
Il professore va alla ricerca del suo Davidson, quello su cui aveva puntato tante speranze: e Davidson se ne rende conto, come si rende conto del suo «male»: capisce le lunghe e minute spiegazioni del suo insegnante sulla nevrosi: e cerca di collaborare con lui, che lo interroga, lo studia, lo aggredisce.
Dove va Davidson dopo la scuola? Cosa fa?
Il professore lo segue: Davidson non va in alcun luogo, gira come un automa. Evita i bianchi, ma come senza alcuna intima passione. Spesso va sul porto, in un certo luogo un po’ deserto.
Un giorno, in questo angolo del porto, mentre Davidson è lì, passa una ragazzetta negra, che si ferma, sorride, gli va incontro. Ma Davidson come impaurito, non le risponde, poi le volta le spalle e va via di corsa.
Va a piangere solo come una bestia ai margini della foresta, intorno allo spiazzo.
Non è tanto malato da dover esser dato per perduto: la sua nevrosi è piuttosto una crisi che lo paralizza, lo tiene in uno stato di assenza, di rifiuto ad essere.
Forse, il miracolo avviene casualmente. Talvolta la nevrosi crea da sè la guarigione...
Può apparire un Dio, un’immagine sacra... Ma anche un fantasma di altro ordine...
Un giorno, in classe, il professore rilegge la poesia del grande poeta africano che l’anno prima, i suoi scolari e soprattutto Davidson non avevano voluto capire. Tutti, ora, la capiscono, e Davidson, ascoltandola, ha finalmente come un moto di vita... Il professore se ne accorge, e legge la poesia con tutta l’anima. Il moto di vita nell’occhio, nel volto di Davidson presto si cancella, ma non del tutto, non del tutto...
Mentre i ragazzi giocano al pallone, nella radura davanti alla scuola, Davidson sta seduto in disparte. Pensa... e, all’orecchio, come dettato da qualcuno, gli risuonano delle parole. Sono versi. Li ascolta, li ripete. Si alza. Va nella camerata, al suo tavolino, a scrivere. Sono versi tremendi, di totale disperazione, di morte: non solo sua, di Davidson, ma dell’intera razza negra.
Davidson, con quel nuovo segno di vita negli occhi, il giorno seguente, si presenta al suo professore, e timidamente, muto, gli fa vedere quello che ha scritto.
Sono versi bellissimi: e il professore glielo dice subito, stupito, felice. Gli dice addirittura che sono tanto belli, che li spedirà ad una rivista europea, perchè li pubblichi; e io abbraccia, pieno di speranza.
Davidson che aveva sempre collaborato col suo professore, nella impotente lotta contro il suo «male», ora, coi professore, si rende conto che qualcosa è accaduto.
Il «male» non è più su lui, come una forza maligna, che lo rende assente e atterrito; non è più un tutto insondabile e invincibile; è incrinato.
Esprimersi significa guarire. Non importa se l’espressione è confusa, e se la speranza in fondo all’espressione è solo il «sogno di una cosa», come dice Marx.
Con questa timida speranza in fondo al cuore, Davidson va a vagare, come ogni giorno solo, lungo il porto. È sempre cupo, angosciato.
Ed ecco, ancora, camminando, la voce: la sua voce interiore che gli dice altri versi, anch’essi disperati: negro, a che ti serve amare? A dar vita ad altri negri infelici come te?
E quando vede, con le compagne, tutta dolcemente allegra, camminare la sua ragazza, immemore, ignara, ecco che altri versi gli vengono in mente. Ma sono già più umani, già affiora in essi, più esplicita, la speranza, il «sogno di una cosa», di un futuro confuso ma felice, al cui pensiero, un leggero sorriso può biancheggiare nel fosco viso del ragazzo negro.
Alfredo Bini:
Dopo la sua morte comprai il libretto con la sceneggiatura del Padre selvaggio, il film che per quella bravata non eravamo più riusciti a realizzare. In fondo, trovai una poesia di dieci pagine, bellissima, in cui Pasolini raccontava questa vicenda. Rimasi sorpreso e commosso. Mi descriveva con «la faccia gialla e rossa, sfumata nella stempiatura, in alto, nel liscio, tondo mento, in basso: col mezzo baffo rosso, crudele, di profilo, come d’un Lanzichenecco di mezza età»; raccontava di quello scontro «dietro un tavolo, di gusto rustico», mentre lo fisso, «occhi azzurri ma classici»
Alfredo Bini
Hotel Pasolini
Un’autobiografia
Dietro le quinte del cinema italiano
A cura di Simone Isola
e Giuseppe Simonelli
E l'Africa?
La faccia gialla e rossa, sfumata
nella stempiatura, in alto, nel liscio,
tondo mento, in basso: col mezzo baffo
rosso, crudele, di profilo, come
d'un Lanzichenecco di mezza età,
sceso da Terre coi tetti a guglia e i fiumi gelati...
Era questa faccia,
che, dietro un tavolo, di gusto rustico,
per grandi burocrati,
mi fissava coi suoi occhi azzurri ma classici,
mentre fuori scoppiavano le bombe atomiche
nel cielo giallognolo di un pomeriggio di vent'anni fa.
Poi cominciò — gonfia
di isterismo, e rossa
come un prepuzio di sangue —
a rimproverarmi, a darmi del pazzo...
E io... innocente, offeso... ascoltavo,
rimescolando nella gola di adolescente vestito
dalla madre,
lacrime e rimostranze: inutilmente! Egli,
uomo pratico, aveva ragione:
avevo speso troppo denaro per raffinatezze inutili,
e, inoltre, avevo toccato suscettibilità di grandi,
innocenti, anche loro, nella loro gloriosa vita privata.
Lo ascoltavo. Non esplodeva, ancora:
anche la sua gola di Lanzichenecco era una gola di ragazzo,
e, anche li, al rimprovero, si mescolavano sorde lacrime.
Il broncio sotto il baffo rosso, giallognolo,
era spia di qualcosa di sacro
che gli succedeva nel petto.
E io: «Non lo sapevo, come potevo
saperlo, è solo un anno che faccio questo lavoro!»
E altre confuse, offese parole che non ricordo.
E, intanto, la sua faccia si sdoppiava:
anzi, prima, per qualche istante,
egli fu un altro, che si affacciò a una soglia,
non lontana dal tavolo, nella luce
di quell'antico pomeriggio di una guerra ingiallita.
Era lui, il vero padrone, e infatti, diceva
all'armigero (per un po', così, tacitato):
«Che importa, qualche spesa in più, ora
che sono fermo con la produzione!»
E io ero un po' sollevato.
Ma quell'altro, li, che per osmosi
era uscito dal costato di Bini, era mio padre.
Il padre non nominato, non ricordato
dal dicembre del cinquantanove, anno in cui mori.
Ora era lì, padrone quasi benevolo:
ma subito rifu il mio coetaneo goriziano
di pelo rosso, le mani in saccoccia,
pesante come un paracadutista dopo il rancio.
Risolta, così, a mio parziale vantaggio
la questione dell'altro film
— sognato poco prima e persistente
con immagini agresti e desertiche nel nuovo sogno —
ci fu un breve silenzio, carico,
in apparenza, di consolazione, in realtà di lucido dolore.
Mi avvicinai a lui, che frattanto
s'era appoggiato a una parete della stanza
alle mie spalle, in raccolto silenzio,
mi avvicinai a lui, e timidamente quasi sul suo viso...
che ormai era solo il viso di mio padre,
con la sua pelle grigia di ubriaco e di morente,
gli sussurrai: «E...L'Africa?
E i flamboyants di Mombasa?
I rami rossi, contro il fogliame verde,
campione stilistico rosso sul fondo verde, rosso e verde
senza di cui la mia anima non poteva più vivere? »
Ah, padre ormai non mio, padre nient'altro che padre,
che vai e vieni nei sogni,
quando vuoi,
come un cinghiale appeso a un uncino, grigio di vino e
morte
presentandoti a dire cose terribili,
a ristabilire vecchie verità,
col gusto di chi le ha sperimentate,
morendo nel vecchio letto matrimoniale da pochi soldi,
vomitando il sangue delle viscere sui lenzuoli,
viaggiandosene per una notte e un giorno
in una cassa da morto verso l'inospitale Friuli
di un soleggiato giorno d'inverno del cinquantanove!
II mondo è la realtà che tu hai sempre paternamente
voluto.
E io, figlio, a sperimentare sistematicamente tutto,
tutto quello che di straziante devono sperimentare i figli,
mi ritrovo qui, prima cavia di un dolore ignoto,
a prefigurare il caso dell'impossibilità
«a esprimersi per ragioni di forza maggiore»;
cosa che mai poeta, severo possessore almeno di un'umile
penna,
ebbe nei secoli a temere.
Martirio, un po' ridicolo come tutti i martirî.
Ma in questa grande normalità paterna dei sogni e della
vita
dopotutto, com'è commovente,
il mio voler morire, nel sogno,
per la delusione d'un rosso e d'un verde perduti!
30 gennaio 1963 e pubblicata nel 1967 su “Cinema e film”.