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Biografia, lavori in corso - a breve anche il 1974 e il 1975

domenica 27 dicembre 2020

Epoca 25 gennaio 1975. Il distacco dagli intellettuali - L'ignoranza vaticana come paradigma dell'ignoranza della borghesia italiana

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro

Epoca, 25 gennaio 1975.


 L'ignoranza vaticana come paradigma dell'ignoranza della borghesia italiana
(Su «Epoca», con il titolo: Il distacco dagli intellettuali)
(Oggi in Scritti Corsari Editore Garzanti, 1975)



La posizione di Donat-Cattin nella dc appare a un profano assai anomala: egli parla della dc come del partito dei «ceti medi» nel momento in cui si saldano e fondono con la classe operaia. Ma la dc non è questo.

La dc esprime (o ha espresso):
a) la piccola borghesia,

b) il mondo contadino (gestito dal Vaticano).

Non si tratta di una dicotomia. Piccola borghesia e mondo contadino religioso erano fino a ieri un mondo unico. La piccola borghesia italiana era ancora sostanzialmente di natura contadina e, dal canto loro, i contadini (come diceva Lenin) sono dei piccoli borghesi, almeno potenzialmente. La morale era unica; e così la retorica.

Malgrado la grande varietà delle «culture» italiane - spesso storicamente lontanissime fra loro - sostanzialmente i «valori» del mondo piccolo borghese e contadino coincidevano. L'ambivalenza di tali «valori» ha prodotto un mondo buono e insieme cattivo. Nei loro contesti culturali concreti, infatti, tali «valori» erano positivi, o, almeno, reali; strappati al loro contesto e fatti divenire con la forza «nazionali», essi si sono presentati come negativi: cioè retorici e repressivi.
Su ciò si è fondato lo Stato poliziesco fascista, e poi, senza soluzione di continuità, lo Stato poliziesco democristiano. Sia l'uno che l'altro, infatti, pur «esprimendosi» dalla piccola borghesia e dal mondo contadino, in realtà servivano i «padroni», ossia il grande capitale. Sono delle banalità, ma è meglio ripeterle. I democristiani si sono sempre fatti passare per antifascisti: ma hanno sempre (alcuni forse inconsciamente) mentito. La loro strapotenza elettorale degli anni cinquanta e l'appoggio del Vaticano, hanno consentito loro di continuare, sotto lo schermo di una democrazia formale e di un antifascismo verbale, la stessa politica del fascismo.


Ma la loro protervia, la loro corruzione, il loro dispotismo provinciale e semi-criminale, d'improvviso, in pochissimi anni, si sono trovati «scoperti», senza più basi reali. Il loro elettorato si è sfaldato, il Vaticano si è svuotato di ogni autorità.
Così un partito, il cui potere storico e, ahimè, concreto, era coinciso col Potere reale, improvvisamente, ha dovuto rendersi conto (se se ne è reso conto) che il suo potere storico e concreto non coincideva più col Potere reale: infatti tale Potere reale (e, questo è il bello, proprio per opera dei democristiani al governo!) da clerico-fascista o sanfedista - com'era stato ininterrottamente dall'unità d'Italia ai primi anni sessanta - era divenuto quello che si definisce eufemisticamente e quasi umoristicamente «consumistico».
Tutti i «valori» reali (popolari e anche borghesi) su cui si erano fondati i precedenti poteri statali, sono così crollati, trascinando nel loro crollo i valori «falsi» di quei poteri. I nuovi valori consumistici prevedono infatti il laicismo (?), la tolleranza (?) e l'edonismo più scatenato, tale da ridicolizzare risparmio, previdenza, rispettabilità, pudore, ritegno e insomma tutti i vecchi «buoni sentimenti».
Tutto ciò è il crollo della politica democristiana - la cui crisi consiste semplicemente nella necessità di gettar a mare in tutta fretta il Vaticano, il vecchio esercito nazionalista eccetera: ma non è certo il crollo della «politica culturale» democristiana. Per la semplice ragione che essa non c'è mai stata.
Infatti, in quanto direttamente padronale, cioè fascista, la Democrazia cristiana ha continuato a elaborare, su chiave più accentuatamente cattolica e ipocritamente democratica, le vecchie retoriche fasciste: accademismo, ufficialità eccetera.
In quanto partito espresso dal mondo contadino, obbediente (almeno formalmente, molto formalmente, come poi si è visto) al Vaticano, la Democrazia cristiana è vissuta nella più spaventosa assenza di cultura, ossia nella più totale, degradante ignoranza.


I codici delle culture particolaristiche contadine, validi (come ho detto) nel loro contesto, divengono ridicoli e «provinciali» se assunti a livello nazionale, e divengono mostruosi se strumentalizzati dalla Chiesa, visto che la loro religiosità non è cattolica (probabilmente neanche nel caso del Veneto povero). Il paradigma culturale, in questo senso, è fornito alla Democrazia cristiana dal Vaticano. E per vedere il miserabile stato in cui versa, basta leggere le sue riviste, i suoi giornali ufficiali, le sue pubblicazioni (forse soprattutto quell'orrendo corpus totalmente pragmatico e insieme formalistico, nel senso peggiore che abbiano mai avuto questi termini, delle sentenze della Sacra Rota). Ancora adesso (che qualcosa si dovrebbe aver capito) l'italiano usato dai preti e dai democristiani retrogradi, è culturalmente di una meschinità addirittura volgare.
Infine, in quanto partito espresso dalla piccola borghesia, la Democrazia cristiana non poteva che nutrire un profondo e immedicabile disprezzo per la cultura: per la piccola borghesia (anche nelle sue aberrazioni «rosse») la cultura è sempre «culturame». Il primato è, moralisticamente, dell'azione. Chi pensa è reo. Gli intellettuali, essendo depositari di alcune verità (sia pur magari contraddittorie) che la piccola borghesia sospetta essere quelle vere, devono venire almeno moralmente eliminati. La retroguardia democristiana (si veda un recente attacco ad alcuni intellettuali da parte di Carlo Casalegno, il vicedirettore della «Stampa») continua ancora questa politica oscurantista che tante demagogiche soddisfazioni le ha dato in passato e che tanto inutile è oggi, in cui la funzione anti-culturale è stata assunta dai mass-media (i quali tuttavia fingono di ammirare e rispettare la cultura). L'epigrafe per questo capitolo della storia borghese l'ha scritta una volta per sempre Goering: «Quando sento parlare di cultura, tiro fuori la rivoltella.»
Forse qualche lettore troverà che dico delle cose banali. Ma chi è scandalizzato è sempre banale. E io, purtroppo, sono scandalizzato. Resta da vedere se, come tutti coloro che si scandalizzano (la banalità del loro linguaggio lo dimostra), ho torto, oppure se ci sono delle ragioni speciali che giustificano il mio scandalo. Ma concludiamo.
Negli anni cinquanta l'egemonia culturale era del pci, che la gestiva in un ambito realmente antifascista e in un sincero, anche se già alquanto retorico, rispetto per il sistema di valori della Resistenza. Poi, l'avvento della nuova forma del Potere reale (cioè un fascismo totalmente altro) ha creato una nuova egemonia culturale borghese, che la Democrazia cristiana ha fatto sua, oggettivamente, senza accorgersene.
Ora, il Partito comunista, nella nuova situazione storica di crisi della Democrazia cristiana, coincidente con la crisi del Potere consumistico, se volesse, potrebbe riprendere in mano la situazione: e riproporre una propria egemonia culturale. L'autorità che gli proveniva negli anni cinquanta dalla Resistenza, gli proviene oggi dall'essere l'unica parte dell'Italia pulita, onesta, coerente, integra, forte (fino al punto da istituire una specie di paese nel paese: e con ciò peraltro - e certo preterintenzionalmente, visto che il paese «rosso» si colloca al Nord, magari con capitale Bologna - contribuendo all'ulteriore emarginamento del sempre più degradato Meridione).
25 gennaio 1975.





Curatore, Bruno Esposito

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Genocidio di Pier Paolo Pasolini

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro


 

Genocidio

di Pier Paolo Pasolini

["Si tratta di un intervento orale alla Festa dell’Unità di Milano (Estate 1974). La stesura scritta è dovuta alla redazione di “Rinascita”. 
Vi si sente la mia “voce” ed è per questo che non escludo dal volume questo scritto ripetitivo e ostinato". - Pubblicato su “Rinascita” il 27 settembre 1974 - Ora in Scritti corsari, Garzanti, Milano 1975]


Vorrete scusare qualche mia imprecisione o incertezza terminologica. La materia - si è premesso - non è letteraria, e disgrazia o fortuna vuole che io sia un letterato, e che perciò non possegga soprattutto linguisticamente i termini per trattarla. E ancora una premessa: ciò che dirò non è frutto di un’esperienza politica nel senso specifico, e per così dire professionale della parola, ma di un’esperienza che direi quasi esistenziale.

Dirò subito, e l’avrete già intuito, che la mia tesi è molto più pessimistica, più acremente e dolorosamente critica di quella di Napolitano. Essa ha come tema conduttore il genocidio: ritengo cioè che la distruzione e sostituzione di valori nella società italiana di oggi porti, anche senza carneficine e fucilazioni di massa, alla soppressione di larghe zone della società stessa. Non è del resto un’affermazione totalmente eretica o eterodossa. C’è già nel Manifesto di Marx un passo che descrive con chiarezza e precisione estreme il genocidio ad opera della borghesia nei riguardi di determinati strati delle classi dominate, soprattutto non operai, ma sottoproletari o certe popolazioni coloniali. Oggi l’Italia sta vivendo in maniera drammatica per la prima volta questo fenomeno: larghi strati, che erano rimasti per così dire fuori della storia - la storia del dominio borghese e della rivoluzione borghese - hanno subito questo genocidio, ossia questa assimilazione al modo e alla qualità di vita della borghesia.

Come avviene questa sostituzione di valori? Io sostengo che oggi essa avviene clandestinamente, attraverso una sorta di persuasione occulta. Mentre ai tempi di Marx era ancora la violenza esplicita, aperta, la conquista coloniale, l’imposizione violenta, oggi i modi sono molto più sottili, abili e complessi, il processo è molto più tecnicamente maturo e profondo. I nuovi valori vengono sostituiti a quelli antichi di soppiatto, forse non occorre nemmeno dichiararlo dato che i grandi discorsi ideologici sono pressoché sconosciuti alle masse (la televisione, per fare un esempio su cui tornerò, non ha certo diffuso il discorso di Cefis agli allievi dell’Accademia di Modena).

Mi spiegherò meglio tornando al mio solito modo di parlare, cioè quello del letterato. In questi giorni sto scrivendo il passo di una mia opera in cui affronto questo tema in. modo appunto immaginoso, metaforico: immagino una specie di discesa agli inferi, dove, il protagonista, per fare esperienza del genocidio di cui parlavo, percorre la strada principale di una borgata di una grande città meridionale, probabilmente Roma, e gli appare una serie di visioni ciascuna delle quali corrisponde a una delle strade trasversali che sboccano su quella centrale. Ognuna di esse è una specie di bolgia, di girone infernale della Divina Commedia: all’imbocco c’è un determinato modello di vita messo lì di soppiatto dal potere, al quale soprattutto i giovani, e più ancora i ragazzi, che vivono nella strada, si adeguano rapidamente. Essi hanno perduto il loro antico modello di vita, quello che realizzavano vivendo e di cui in qualche modo erano contenti e persino fieri anche se implicava tutte le miserie e i lati negativi che c’erano ed erano - sono d’accordo - quelli qui elencati da Napolitano: e adesso cercano di imitare il modello nuovo messo lì dalla classe dominante di nascosto. Naturalmente, io elenco tutta una serie di modelli di comportamento, una quindicina, corrispondenti a dieci gironi e cinque bolgie. Accennerò, per brevità, solo a tre; ma premetto ancora che la mia è una città del centro-sud, e il discorso vale solo relativamente per la gente che vive a Milano, a Torino, a Bologna ecc.

Per esempio, c’è il modello che presiede a un certo edonismo interclassista, il quale impone ai giovani che incoscientemente lo imitano, di adeguarsi nel comportamento, nel vestire, nelle scarpe, nel modo di pettinarsi o di sorridere, nell’agire o nel gestire a ciò che vedono nella pubblicità dei grandi prodotti industriali: pubblicità che si riferisce, quasi razzisticamente, al modo di vita piccolo-borghese. I risultati sono evidentemente penosi, perché un giovane povero di Roma non è ancora in grado di realizzare questi modelli, e ciò crea in lui ansie e frustrazioni che lo portano alle soglie della nevrosi. Oppure, c’è il modello della falsa tolleranza, della permissività. Nelle grandi città e nelle campagne del centro-sud vigeva ancora un certo tipo di morale popolare, piuttosto libero, certo, ma con tabù che erano suoi e non della borghesia, non l’ipocrisia, ad esempio, ma semplicemente una sorta di codice a cui tutto il popolo si atteneva. A un certo punto il potere ha avuto bisogno di un tipo diverso di suddito, che fosse prima di tutto un consumatore, e non era un consumatore perfetto se non gli si concedeva una certa permissività in campo sessuale. Ma anche a questo modello il giovane dell’Italia arretrata cerca di adeguarsi in modo goffo, disperato e sempre nevrotizzante. O infine un terzo modello, quello che io chiamo dell’afasia, della perdita della capacità linguistica. Tutta l’Italia centro-meridionale aveva proprie tradizioni regionali, o cittadine, di una lingua viva, di un dialetto che era rigenerato da continue invenzioni, e all’interno di questo dialetto, di gerghi ricchi - di invenzioni quasi poetiche: a cui contribuivano tutti, giorno per giorno, ogni serata nasceva una battuta nuova, una spiritosaggine, una parola imprevista; c’era una meravigliosa vitalità linguistica. Il modello messo ora lì dalla classe dominante li ha bloccati linguisticamente: a Roma, per esempio, non si è più capaci di inventare, si è caduti in una specie di nevrosi afasica; o si parla una lingua finta, che non conosce difficoltà e resistenze, come se tutto fosse facilmente parlabile - ci si esprime come nei libri stampati - oppure si arriva addirittura alla vera e propria afasia nel senso clinico della parola; si è incapaci di inventare metafore e movimenti linguistici reali, quasi si mugola, o ci si danno spintoni, o si sghignazza senza saper dire altro.

Questo solo per dare un breve riassunto della mia visione infernale, che purtroppo io vivo esistenzialmente. Perché questa tragedia in almeno due terzi d’Italia? Perché questo genocidio dovuto all’acculturazione imposta subdolamente dalle classi dominanti? Ma perché la classe dominante ha scisso nettamente «progresso» e «sviluppo». Ad essa interessa solo lo sviluppo, perché solo da lì trae i suoi profitti. Bisogna farla una buona volta una distinzione drastica tra i due termini: «progresso» e «sviluppo». Si può concepire uno sviluppo senza progresso, cosa mostruosa che è quella che viviamo in circa due terzi d’Italia; ma in fondo si può concepire anche un progresso senza sviluppo, come accadrebbe se in certe zone contadine si applicassero nuovi modi di vita culturale e civile anche senza, o con un minimo di sviluppo materiale. Quello che occorre - ed è qui a mio parere il ruolo del partito comunista e degli intellettuali progressisti - è prendere coscienza di questa dissociazione atroce e renderne coscienti le masse popolari perché appunto essa scompaia, e sviluppo e progresso coincidano.

Qual è invece lo sviluppo che questo potere vuole? Se volete capirlo meglio, leggete quel discorso di Cefis agli allievi di Modena che citavo prima, e vi troverete una nozione di sviluppo come potere multinazionale - o transnazionale come dicono i sociologhi - fondato fra l’altro su un esercito non più nazionale, tecnologicamente avanzatissimo, ma estraneo alla realtà del proprio paese. Tutto questo dà un colpo di spugna al fascismo tradizionale, che si fondava sul nazionalismo o sul clericalismo, vecchi ideali, naturalmente falsi; ma in realtà si sta assestando una forma di fascismo completamente nuova e ancora più pericolosa. Mi spiego meglio. È in corso nel nostro paese, come ho detto, una sostituzione di valori e di modelli, sulla quale hanno avuto grande peso i mezzi di comunicazione di massa e in primo luogo la televisione. Con questo non sostengo affatto che tali mezzi siano in sé negativi: sono anzi d’accordo che potrebbero costituire un grande strumento di progresso culturale; ma finora sono stati, così come li hanno usati, un mezzo di spaventoso regresso, di sviluppo appunto senza progresso, di genocidio culturale per due terzi almeno degli italiani. Visti in questa luce, anche i risultati del 12 maggio contengono un elemento di ambiguità. Secondo me ai «no»
* ha contribuito potentemente anche la televisione, che, ad esempio, in questi vent’anni ha nettamente svalutato ogni contenuto religioso: oh sì, abbiamo visto spesso il Papa benedire, i cardinali inaugurare, abbiamo visto processioni e funerali, ma erano fatti controproducenti ai fini della coscienza religiosa. Di fatto, avveniva invece, almeno a livello inconscio, un profondo processo di laicizzazione, che consegnava le masse del centro-sud al potere dei mass-media e attraverso questi all’ideologia reale del potere: all’edonismo del potere consumistico.

Per questo mi è accaduto di dire - in maniera troppo violenta ed esagitata, forse - che nel «no» vi è una doppia anima: da una parte un progresso reale e cosciente, in cui i comunisti e la sinistra hanno avuto un grande ruolo; dall’altra un progresso falso, per cui l’italiano accetta il divorzio per le esigenze laicizzanti del potere borghese: perché chi accetta il divorzio è un buon consumatore. Ecco perché, per amore di Verità e per senso dolorosamente critico, io posso giungere anche a una previsione di tipo apocalittico, ed è questa: se dovesse prevalere, nella massa dei «no», la parte che vi ha avuto il potere, sarebbe la fine della nostra società. Non accadrà, perché appunto in Italia c’è un forte Partito comunista, c’è una intelligencija abbastanza avanzata e progressista; ma il pericolo c’è. La distruzione di valori in corso non implica una immediata sostituzione di altri valori, col loro bene e il loro male, col necessario miglioramento del tenore di vita e insieme con un reale progresso culturale. C’è, nel mezzo, un momento di imponderabilità, ed è appunto quello che stiamo vivendo; e qui sta il grande, tragico pericolo. Pensate a cosa può significare in queste condizioni una recessione e non potete certo non rabbrividire se vi si affaccia anche per un istante il parallelo - forse arbitrario, forse romanzesco - con la Germania degli anni trenta. Qualche analogia il nostro processo di industrializzazione degli ultimi dieci anni con quello tedesco di allora ce l’ha: fu in tali condizioni che il consumismo aprì la strada; con la recessione del ‘20, al nazismo.

Ecco l’angoscia di un uomo della mia generazione, che ha visto la guerra, i nazisti, le SS, che ne ha subito un trauma mai totalmente vinto. Quando vedo intorno a me i giovani che stanno perdendo gli antichi valori popolari e assorbono i nuovi modelli imposti dal capitalismo, rischiando così una forma di disumanità, una forma di atroce afasia, una brutale assenza di capacità critiche, una faziosa passività, ricordo che queste erano appunto le forme tipiche delle SS: e vedo così stendersi sulle nostre città l’ombra orrenda della croce uncinata. Una visione apocalittica, certamente, la mia. Ma se accanto ad essa e all’angoscia che la produce, non vi fosse in me anche un elemento di ottimismo, il pensiero cioè che esiste la possibilità di lottare contro tutto questo, semplicemente non sarei qui, tra voi, a parlare.



Curatore, Bruno Esposito

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Che paese meraviglioso era l’Italia, di Pier Paolo Pasolini (Recensione a “Un po’ di febbre” di Sandro Penna, 1973)

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dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro




Che paese meraviglioso era l’Italia, di Pier Paolo Pasolini
In "Il Tempo", 10 giugno 1973, poi in Pier Paolo Pasolini,
Scritti corsari, Meridiani, Milano 1999
Recensione a Un po’ di febbre di Sandro Penna, Garzanti 1973.
In Dossier Storia & Storici - maggio 2012, a cura di Antonella Pierangeli
http://www.storiaestorici.it/

Caro Sandro, non è forse giusto ch'io dica a te cose che riguardano te, e che ti dipingono con tanto amore. Io ho un culto di te. E, come tutti i culti, mi dà il rimorso di non essere così forte e fedele da praticarlo degnamente. Ciò lo dico come se ambedue fossimo morti, e la vita non ci toccasse dunque più con la sua miseria, che giorno per giorno, ora per ora, contraddice ciò che tu sei e ciò che io penso tu sia...


   Questo libro è un brano di tempo ritrovato. È qualcosa di materiale. Un delicatissimo materiale fatto di luoghi cittadini con asfalto e erba, intonaci di case povere, interni coi modesti mobili, corpi di ragazzi coi loro casti vestiti, occhi ardenti di purezza e innocente complicità. E com'è sublime il completo, totale disinteresse di Penna per ciò che accadeva al di fuori di questa esistenza tra il popolo. Niente è stato più antifascista di questa esaltazione di Penna nell'Italia sotto il fascismo, vista come un luogo di inenarrabile bellezza e bontà. Penna ha ignorato la stupidità e la ferocia del fascismo: non l'ha considerata esistente. Peggiore insulto non poteva - innocentemente - inventare contro di esso. Che Penna è crudele: non ha pietà per ciò che minimamente non è investito dalla grazia della realtà, figurarsi per ciò che n'è fuori o contro. La sua condanna - non pronunciata - è assoluta, implacabile, senza appello.

   Che paese meraviglioso era l'Italia durante il periodo del fascismo e subito dopo! La vita era come la si era conosciuta da bambini, e per venti trent'anni non è più cambiata: non dico i suoi valori - che sono una parola troppo alta e ideologica per quello che voglio semplicemente dire - ma le apparenze parevano dotate del dono dell'eternità: si poteva appassionatamente credere nella rivolta o nella rivoluzione, che tanto quella meravigliosa cosa che era la forma della vita, non sarebbe cambiata.

   Ci si poteva sentire eroi del mutamento e della novità, perché a dare coraggio e forza era la certezza che le città e gli uomini, nel loro aspetto profondo e bello, non sarebbero mai mutati: sarebbero giustamente migliorate soltanto le loro condizioni economiche e culturali, che non sono niente rispetto alla verità preesistente che regola meravigliosamente immutabile i gesti, gli sguardi, gli atteggiamenti del corpo di un uomo o di un ragazzo. Le città finivano con grandi viali, circondati da case, villette o palazzoni popolari dai «cari terribili colori» nella campagna folta: subito dopo i capolinea dei tram o degli autobus cominciavano le distese di grano, i canali con le file dei pioppi o dei sambuchi, o le inutili meravigliose macchie di gaggie e more. I paesi avevano ancora la loro forma intatta, o sui pianori verdi, o sui cucuzzoli delle antiche colline, o di qua e di là dei piccoli fiumi.

   La gente indossava vestiti rozzi e poveri (non importava che i calzoni fossero rattoppati, bastava che fossero puliti e stirati); i ragazzi erano tenuti in disparte dagli adulti, che provavano davanti a loro quasi un senso di vergogna per la loro svergognata virilità nascente, benché così piena di pudore e di dignità, con quei casti calzoni dalle saccocce profonde; e i ragazzi, obbedendo alla tacita regola che li voleva ignorati, tacevano in disparte, ma nel loro silenzio c'era una intensità e una umile volontà di vita (altro non volevano che prendere il posto dei loro padri, con pazienza), un tale splendore di occhi, una tale purezza in tutto il loro essere, una tale grazia nella loro sensualità, che finivano col costituire un mondo dentro il mondo, per chi sapesse vederlo. È vero che le donne erano ingiustamente tenute in disparte dalla vita, e non solo da giovinette. Ma erano tenute in disparte, ingiustamente, anche loro, come i ragazzi e i poveri. Era la loro grazia e la loro umile volontà di attenersi a un ideale antico e giusto, che le faceva rientrare nel mondo, da protagoniste. Perché cosa aspettavano, quei ragazzi un po' rozzi, ma retti e gentili, se non il momento di amare una donna? La loro attesa era lunga quanto l'adolescenza - malgrado qualche eccezione ch'era una meravigliosa colpa - ma essi sapevano aspettare con virile pazienza: e quando il loro momento veniva, essi erano maturi, e divenivano giovani amanti o sposi con tutta la luminosa forza di una lunga castità, riempita dalle fedeli amicizie coi loro compagni.
   Per quelle città dalla forma intatta e dai confini precisi con la campagna, vagavano in gruppi, a piedi, oppure in tram: non li aspettava niente, ed essi erano disponibili, e resi da questo puri. La naturale sensualità, che restava miracolosamente sana malgrado la repressione, faceva sì che essi fossero semplicemente pronti a ogni avventura, senza perdere neanche un poco della loro rettitudine e della loro innocenza.
   Anche i ladri e i delinquenti avevano una qualità meravigliosa: non erano mai volgari. Erano come presi da una loro ispirazione a violare le leggi, e accettavano il loro destino di banditi, sapendo, con leggerezza o con antico sentimento di colpa, di essere in torto contro una società di cui essi conoscevano direttamente solo il bene, l'onestà dei padri e delle madri: il potere, col suo male, che li avrebbe giustificati, era così codificato e remoto che non aveva reale peso nella loro vita.
   Ora che tutto è laido e pervaso da un mostruoso senso di colpa - e i ragazzi brutti, pallidi, nevrotici, hanno rotto l'isolamento cui li condannava la gelosia dei padri, irrompendo stupidi, presuntuosi e ghignanti nel mondo di cui si sono impadroniti, e costringendo gli adulti al silenzio o all'adulazione - è nato uno scandaloso rimpianto; quello per l'Italia fascista o distrutta dalla guerra. I delinquenti al potere - sia a Roma che nei municipi della grande provincia campestre - non facevano parte della vita: il passato che determinava la vita (e che non era certo il loro idiota passato archeologico) in essi non determinava che la loro fatale figura di criminali destinati a detenere il potere nei paesi antichi e poveri.
   Nel libro Un po' di febbre di Sandro Penna, si rievoca questa Italia. Il trauma è grande. Non si può non essere sconvolti. Leggendo queste pagine prende un'emozione che fa tremare. E fa venire anche una certa voglia di andarsene da questo mondo, con quei ricordi. Infatti non è un cambiamento di epoca, che noi viviamo, ma una tragedia. Quel che ci sconvolge non è la difficoltà di adattarsi a un nuovo tempo, ma un immedicabile dolore simile a quello che dovevano provare le madri vedendo partire i loro figli emigranti e sapendo che non li avrebbero visti mai più. La realtà lancia su noi uno sguardo di vittoria, intollerabile: il verdetto è che ciò che si è amato ci è tolto per sempre. Nel libro di Penna quel mondo appare ancora in tutta la sua stabilità ed eternità, quando era «il» mondo, e nulla avrebbe mai fatto sospettare che sarebbe cambiato. Penna lo viveva avidamente e totalmente. Aveva capito che era stupendo. Niente lo distrae da quella meravigliosa avventura che si ripete ogni giorno: svegliarsi, andare fuori, prendere a caso un tram, camminare a piedi là dove vive il popolo, fitto e chiassoso nelle piazze, disperso e intento ai suoi quotidiani lavori nelle lontane periferie lungo i campi; o col sole che tutto protegge con la sua luce silenziosa, o sotto una sublime impalpabile pioggia primaverile; o all'alitare del primo, esaltante buio di una lenta sera; e infine incontrare - che questa apparizione non manca mai - un ragazzo amato subito per la innocente disposizione del suo cuore, per l'abitudine a una obbedienza e a un rispetto non servili, per una sua libertà dovuta alla sua grazia: per la sua rettitudine.

Traversare un paese ... e lì vedere / cheti fanciulli / ridestarsi a un soffio / 
di musica e danzare. S’allontana / forma o colore: un sogno. Viva resta / 
 la dolce persuasione di una fitta / rete d’amore ad inquietare il mondo. 
(Autografo di Sandro Penna)

   
Sembra che mai Penna potesse esser tradito nelle sue speranze di tali incontri, che davano all'esistenza quotidiana, già per sé esaltante la miracolosa gioia della rivelazione, ossia della ripetizione.
   Nelle pagine di questi suoi brevi racconti, scritti con una abilità narrativa che non ha niente da invidiare al Bassani dell'Odore del fieno o al Parise di Sillabario - e lo dico perché Penna narratore è una novità e una sorpresa - è contenuta tutta la realtà di quella forma di vita, in cui la gioia, promessa e ottenuta, era diventata una forma ossessiva. Tanto che è difficile parlare di Un po' di febbre come di un libro: esso è un brano di tempo ritrovato. È qualcosa di materiale. Un delicatissimo materiale fatto di luoghi cittadini con asfalto e erba, intonaci di case povere, interni coi modesti mobili, corpi di ragazzi coi loro casti vestiti, occhi ardenti di purezza e innocente complicità. E com'è sublime il completo, totale disinteresse di Penna per ciò che accadeva al di fuori di questa esistenza tra il popolo. Niente è stato più antifascista di questa esaltazione di Penna nell'Italia sotto il fascismo, vista come un luogo di inenarrabile bellezza e bontà.
Penna ha ignorato la stupidità e la ferocia del fascismo: non l'ha considerata esistente. Peggiore insulto non poteva - innocentemente - inventare contro di esso. Che Penna è crudele: non ha pietà per ciò che minimamente non è investito dalla grazia della realtà, figurarsi per ciò che n'è fuori o contro. La sua condanna - non pronunciata - è assoluta, implacabile, senza appello.
Nella sua ristrettezza di motivi e di problemi, nel minimo spazio che si consente, questo libro in realtà è colmo di un sentimento immenso, straripante della vita. La gioia vi è così grande da essere dolorosa. Un dolore sconfinato vi è a malapena contenuto come presentimento di perdere quella gioia. Questa illimitatezza sentimentale, fa intravedere in questo poeta, che (forse con Bertolucci) è realmente il più grande poeta italiano vivente - anche quel poeta che egli non è stato: un poeta al di fuori dei limiti che egli si è imposti con commovente e purissimo rigore. Un poeta che può perdere il suo humour delizioso e disperato, lacerare i limiti della forma, espandersi nel cosmo, delirare (vedi pagg. 88, 89, 90). Il lettore mi scusi, se impostato così il discorso, non entro più criticamente nel merito del libro, analizzandolo letterariamente. Esso è fuori dalla letteratura, essendo qualcos'altro, ripeto, che un libro (o un libro unico). Non che io polemizzi contro la letteratura. Anzi la considero una grande invenzione e una grande occupazione dell'uomo. E Penna, a sua volta, è un grande letterato. 

   Ma preferisco lasciare il mio referto sospeso sull'emozione che questo libro mi ha dato col semplice mezzo di una poeticità quasi ovvia (aggettivi preposti ai sostantivi, qualche inversione, esclusione di parole prosaiche, riadottate solo in qualche caso, per improvviso bisogno di realismo o espressionismo): esso lascia il lettore tutto piagato d'un bruciore di lacrime, benché non sia sentimentale mai, in nessun momento.


Fonte:
http://pasolinipuntonet.blogspot.it/2012/07/che-paese-meraviglioso-era-litalia-di.html

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Pasolini al «Corriere della Sera» - sfruttare le polemiche

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Eretico e Corsaro


Corriere della Sera - 10 giugno 1974


Pasolini al «Corriere della Sera» sfruttare le polemiche
di Valerio Valentini

Ho definito quella di Pasolini collaboratore del «Corriere della Sera» come la “poetica dell’urgenza”. Le principali caratteristiche di questa poetica – veemenza, radicalità, tendenza alla reiterazione – emergono soprattutto dal dialogo con gli altri intellettuali. Negli ultimi tre anni della sua vita Pasolini modifica sensibilmente il modo di intendere il suo rapporto con scrittori, giornalisti ed esponenti politici, assumendosi ora tutto il peso della polemica e del dibattito, spesso aspri, che i suoi scritti provocano.
Se è vero che il gusto della provocazione e la voluttà nell’affrontare in maniera stravagante temi delicati sono attributi peculiari di tutta la carriera di Pasolini – viene da dire: della sua indole – è altrettanto vero che, per tutti gli anni ’50 e ‘60, quegli attributi si manifestavano attraverso opere artistiche di cui un’ampia parte di pubblico a stento comprendeva implicazioni e valenze sociali e politiche. Si trattava di incursioni folgoranti e spesso scandalose, ma destinate in molti casi a risultare scarsamente incisive nel dibattito quotidiano, a causa del loro sperimentalismo e della loro estemporaneità. Inoltre, tutte le opere di Pasolini, in quanto espressioni artistiche, erano di fatto protette da quella che Franco Fortini ha definito “immunità dalla confutazione”: nel momento in cui ricevevano critiche o contestazioni, esse si rifugiavano infatti “nell’extraterritorialità lirica”1. Fino agli inizi degli anni ’70 l’artista Pasolini, “se era messo alle strette per i suoi giudizi e gli atteggiamenti pratici e intellettuali tendeva a volgere il discorso in sofisma, in dialettica d’apparato, a invocare l’irresponsabilità del nume poetico”2.
Il Pasolini articolista del «Corriere della Sera», invece, rinuncia a quell’immunità e si getta nello scontro, accoglie con intima soddisfazione le critiche e non si risparmia mai di replicarvi, anche a costo di ripetersi. La poetica dell’urgenza, dunque, si concretizza in un furioso e inesausto slancio invettivo che travolge pressoché tutti gli interlocutori. Uno slancio che, col passare del tempo, impedisce letteralmente allo scrittore di tacere le sue convinzioni, e che concorre, insieme al suo incontrollato egocentrismo, a renderlo odiosamente insopportabile agli occhi di molti intellettuali. Già nel 1971 Franco Fortini polemizza, sulle pagine di «Quaderni piacentini», proprio sul fatto che “molte cose Pasolini sa fare. Non la più importante per lui: che sarebbe di stare un po’ zitto”3. E se quest’accusa è, appunto, del 1971, negli anni successivi l’ansia di partecipazione alla discussione politica e intellettuale si farà ancora più compulsiva in Pasolini, senza che questo venga da lui avvertito come un’anomalia. Tanto che, in una replica a Calvino pubblicata su «Il Mondo» del 30 ottobre 1975, egli sembra rispondere a distanza all’accusa di Fortini di quattro anni prima, ammettendo di non “essere stato in grado” di starsene zitto, ma ribadendo, come “stupendamente” insegna “uno storico cinese”, che “«bisogna aver molto parlato per poter tacere»”4. Semmai, Pasolini arriva a considerare anomala l’indolenza con la quale tanti suoi colleghi decidono di rispondere ad alcune sue provocazioni.
Va notato, ancora una volta, che le lamentele a proposito della sua condizione di isolato sono una costante nella carriera di Pier Paolo Pasolini. Già nel 1969, sulle colonne di «Tempo», egli si lamentava di essere “completamente solo”, arrivando a sostenere: “la mia indipendenza, che è la mia forza, implica la solitudine, che è la mia debolezza”5. È però impressionante l’intensità con cui Pasolini, proprio negli ultimi mesi della sua vita, si sente e si descrive come un intellettuale lasciato ad urlare da solo, a confrontarsi soltanto con la propria eco. È vero che spesso questi lamenti appaiono piuttosto patetici; ed è altrettanto vero che nel presentarsi come un polemista condannato dai colleghi alla solitudine, Pasolini ricorre ad una sorta di “effetto teatrale”, come scrive di nuovo Fortini, un “effetto di monologo tragicomico” che è paradossale se si tiene conto di un profonda contraddizione: “una voce clamante nel deserto non può usare un microfono”6. Tuttavia, è un dato di fatto che molti intellettuali rifiutano il confronto diretto con Pasolini, soprattutto in virtù dell’innegabile prepotenza con la quale lo scrittore tende a stabilire i confini del dibattito. Polemizzare con Pasolini, in quei mesi, significa “scendere su un livello” che finisce inevitabilmente col fare “il suo gioco”; piuttosto, “con Pasolini l’unica è fare come se non esistesse”7. È quanto scrive Italo Calvino in una lettera a Giorgio Manganelli, nel gennaio 1975.
Che sia per pretattica o per rifiuto di abbassarsi al suo livello, è comunque innegabile che a molti degli articoli di Pasolini – soprattutto quelli in cui vengono formulate le accuse alla DC e le analisi sulle masse criminaloidi dei giovani italiani, tra il marzo e l’ottobre del ’75 – quasi nessuno risponda se non in maniera vaga, pretestuosa o fugace. Nessuno, né politico né intellettuale – fatte salve poche eccezioni – accetta di accompagnare Pasolini in quella sua furente, e spesso scomposta, ricerca di idee per una riforma radicale della società, al fine di renderle concrete e attuabili. Di questa scarsità di repliche, Pasolini a volte si fa un vanto, considerandola come una palese mancanza di argomentazioni da opporre alle sue denunce che si risolve in un “silenzio sepolcrale”; altre volte, invece, rinfaccia con astio ai suoi interlocutori questo loro silenzio.
L’immagine dei potenti democristiani ammanettati tra i carabinieri è un’immagine su cui riflettere seriamente.
Ma devo farlo solo io, in mezzo a un bosco di querce? Questa volta non mi va di essere ignorato, snobbato, lasciato solo al mio monologo […]. Farò dunque un appello nominale, sia pur limitato e un po’ fazioso8.
E così arriva a convocare, ad un ipotetico tavolo di discussione, uno per uno, Leo Valiani e Claudio Petruccioli; Giorgio Bocca e Alberto Moravia; Giuseppe Branca e Livio Zanetti, che Pasolini inizialmente confonde con Vittore Branca e Italo Zanetti, salvo poi correggersi, il giorno seguente, con una breve lettera chiarificatrice al «Corriere». (Anche la furia è una caratteristica della poetica dell’urgenza, la furia che fa “tremare le mani”9). Tra questi, solo Valiani risponderà. E a tutti gli altri, con l’aggiunta di Italo Calvino, Pasolini imputerà la colpa di restare colpevolmente in silenzio: un “silenzio che è cattolico”, egli scrive, alludendo ad un loro mutismo all’ombra del potere, proprio nella Lettera luterana a Italo Calvino pubblicata su «Il Mondo» il 30 ottobre. Calvino non avrà modo di replicare al suo interlocutore vivo: risponderà il 4 novembre, nell’Ultima lettera a Pier Paolo Pasolini, sulla prima pagina dal «Corriere della Sera».
Non era vero che io non avessi detto la mia: solo che io la facevo entrare in altri discorsi senza nominarlo mai: lui capiva benissimo che lo facevo per non dare soddisfazione al suo personalismo, ma invece di ripagarmi con la stessa moneta, mi prendeva di petto, come era nel suo temperamento10.
La verità, però, è che Pasolini non sarebbe mai stato capace di “ripagare” i suoi interlocutori reticenti “con la stessa moneta”. Glielo impediva, sicuramente, la sua ansia di dimostrare la superiorità delle proprie convinzioni; ma soprattutto un altro fattore, a cui occorre prestare particolare attenzione. Durante la sua collaborazione al «Corriere», Pasolini sviluppa una capacità per certi versi nuova, o quantomeno la rende estremamente efficace: quella di sfruttare le critiche e gli attacchi degli avversari. È come se nel corso delle varie polemiche che si trascinano, spesso anche per settimane, Pasolini riuscisse via via a formulare meglio il suo ragionamento, a corredarlo di corollari e chiose tutt’altro che accessorie, a stemperarlo nei suoi paradossi, col risultato di ridimensionare spesso alcune sue proposte che in prima istanza risultavano eccessive. Fortini ha parlato, a ragion veduta, di una particolare “resilienza di Pasolini alle critiche”11; io credo che quella di Pasolini possa essere addirittura pensata come una capacità, subdola e geniale, di speculare sulle critiche.
Il processo si ripete più volte: il primo articolo che Pasolini scrive su un tema che ritiene importante è puntualmente quello più scandaloso e radicale, e ottiene di calamitare l’attenzione e le critiche degli altri intellettuali. Quando questi hanno attaccato le sue tesi nelle parti più estreme, allora Pasolini risponde indignato: quasi sempre dice di non essere stato compreso, talvolta denuncia una vera e propria malafede nei suoi interlocutori. Ma questo gli serve per proporre una versione meno provocatoria e più ragionevole delle sue argomentazioni. Il risultato finale è che Pasolini riesce, anche se non sempre in maniera efficace, a garantire un enorme impatto mediatico alle sue proposte, che lui ritiene essere le uniche davvero eretiche nella folla di prudenti e conformistiche affermazioni da parte degli esponenti di un progressismo di facciata.
E non è un caso se ancora oggi di Pasolini in molti ricordano l’accusa al PCI di “aver perso” il referendum sul divorzio o la proposta di “abolire” la scuola dell’obbligo e la televisione. Questo succede perché nella memoria comune resta impressa l’affermazione apparentemente più assurda, la provocazione più corrosiva. Ma in realtà Pasolini, in molti casi, quelle affermazioni e quelle provocazioni ha finito col ricalibrarle in maniera sostanziale.
Per rimanere sugli esempi appena citati, il 10 giugno 1974 Pasolini afferma che “la vittoria del «no» è in realtà una sconfitta non solo di Fanfani e del Vaticano, ma, in certo senso, anche di Berlinguer e del Partito comunista”12. Il 26 luglio, in un articolo pubblicato sul «Corriere della Sera» col titolo Abrogare Pasolini – ma significativamente antologizzato negli Scritti corsari come In che senso parlare di una sconfitta del Pci al referendum – Pasolini risponde alle accuse di Maurizio Ferrara, che ha contestato le sue affermazioni circa l’ipotetica disfatta del PCI.
Ora, anche un bambino avrebbe capito la «relatività» di tale affermazione: e che mentre la parola «sconfitta», riferita alla Dc e al Vaticano, suona nel pieno significato letterale e oggettivo, la stessa parola riferita al Pci, ha un significato infinitamente più sottile e composito13.
Passano poche settimane, e durante un dibattito alla Festa dell’Unità di Milano, quindi una sede più defilata, Pasolini ridimensiona ancora il suo giudizio e ammette che quella al PCI è stata piuttosto una critica volta a spronare militanti e dirigenti a farsi interpreti di un cambiamento profondo e non formale.
Per questo mi è accaduto di dire – in maniera troppo violenta ed esagitata, forse – che nel «no» vi è una doppia anima: da una parte un progresso reale e cosciente, in cui i comunisti e la sinistra hanno avuto un grande ruolo; dall’altra un progresso falso […]. Ecco perché […] io posso giungere anche a una previsione di tipo apocalittico, ed è questa: se dovesse prevalere, nella massa dei «no», la parte che vi ha avuto il potere, sarebbe la fine della nostra società. Non accadrà, perché appunto in Italia c’è un forte Partito comunista […]14.
La stessa procedura si ripropone più di un anno dopo. Sul «Corriere della Sera» del 18 ottobre 1975 Pasolini formula due proposte “per eliminare la criminalità in Italia”: “abolire immediatamente la scuola media d’obbligo” e “abolire immediatamente la televisione”. Non solo: “quanto agli insegnanti e agli impiegati della televisione”, essi “semplicemente possono essere messi sotto cassa integrazione”15. Quattro giorni dopo, sempre sul «Corriere», Moravia critica le proposte di Pasolini, che il 29 ottobre chiarisce, ancora sul quotidiano di via Solferino:
[…] va detto che le mie «due modeste proposte» di abolizione intendevano chiaramente riferirsi a una abolizione provvisoria. […] In altre parole chiamavo in causa il Pci, le migliori forze di sinistra ecc., il cui interesse per una radicale riforma della scuola e della televisione non dovrebbe essere messo in dubbio […]16.
E alla fine conclude: “infatti la mia proposta di «abolizione» – ancora una volta – non è che la metafora di una radicale riforma”17.
Questo modo di intendere la comunicazione giornalistica e di sfruttare le polemiche ha secondo me almeno un precedente molto importante, che riguarda Il Pci ai giovani!!. Anche in quel caso, è evidente come, nella vulgata, Pasolini sia l’intellettuale anticonformista che si schiera al fianco dei poliziotti durante gli scontri di Valle Giulia. Ma, al di là delle numerose letture che da oltre quarant’anni di quella poesia si danno, va detto che pure in quella circostanza, nel suo desiderio di dare ampia risonanza ad una sua personale lettura dei fatti, Pasolini ha voluto provocare lo scandalo, consapevole che le sue parole sarebbero risultate equivoche. Salvo poi intervenire, a più di un anno di distanza, nella rubrica Il caos, per spiegare il vero senso delle sue affermazioni:
Nella mia poesia dicevo, in due versi, di simpatizzare per i poliziotti, figli di poveri, piuttosto che per i signorini della facoltà di architettura di Roma […]: nessuno […] si è accorto che questa non era che una boutade, una piccola furberia oratoria paradossale, per richiamare l’attenzione del lettore, e dirigerla su ciò che veniva dopo, in una dozzina di versi, dove i poliziotti erano visti come oggetti di un odio razziale a rovescia […]. Nessuno […] si è soffermato su questo: e tutti si sono soffermati al primo paradosso introduttivo appartenente ai formulari della più ovvia ars retorica18.
Quella di speculare sulle critiche è già a fine anni ’60, dunque, una qualità del polemista Pasolini, ma è una qualità che sembra scoppiargli tra le mani: il procedimento di progressiva ricalibratura delle tesi, nel caso di Il Pci ai giovani!!, appare decisamente macchinoso, e di fatto lo scrittore si vede costretto ad ammettere la paradossalità delle proprie provocazioni per non rimanere schiacciato tra le contraddizioni che esse implicano. Quando approda al «Corriere della Sera», invece, Pasolini non lascia mai che la sua tendenza a ricercare una continua formulazione in fieri delle sue tesi, nel corso delle polemiche, si manifesti evidente o lo costringa a recedere. Ogni articolo completa e precisa il precedente, fino ad ottenere un risultato imprevedibile: le iniziali provocazioni vengono stemperate negli articoli successivi, ma al contempo, proprio in virtù di quelle attenuazioni, le tesi di Pasolini finiscono col risultare sempre più accettabili, fino a diventare legittime nella loro interezza, e dunque anche nelle parti più radicali.
È questa un’ulteriore e fondamentale componente di quella poetica dell’urgenza che caratterizza la stagione corsara e luterana di Pier Paolo Pasolini. La sua “disperata vitalità”, di fronte al pericolo tremendo e concreto di dover rinunciare per sempre all’oggetto del proprio amore – l’Italia “di prima della scomparsa delle lucciole” – non rifugge neppure da metodi ambigui e sleali: Pasolini si propone ideologo radicale e incorruttibile, ma in realtà pretende che i suoi lettori interpretino moderatamente le sue provocazioni, cogliendo in esse quanto c’è di ragionevole e ammissibile. Cinicamente, Pasolini opera allo stesso modo di un minatore: l’articolo d’esordio intorno a qualsiasi tema da lui affrontato è l’esplosivo che serve a frantumare la parete rocciosa delle convinzioni comunemente e conformisticamente accettate; i successivi lavorano di piccozza e scalpello per estrarre la materia pregiata, la reale proposta sulle cui basi tentare – a Pasolini, nel 1975, quest’illusione non doveva apparire del tutto ingenua – insieme alle parti migliori della classe dirigente e intellettuale italiana, di ricostruire un Paese dalle sue macerie.

1. Fortini, Franco, Attraverso Pasolini, Torino, Einaudi 1993, pp. 153-154.
2. Ivi, p. XII.
3. Ivi, p. 44.
4. Pasolini, Pier Paolo, Lettere luterane, Torino, Einaudi 2003, p. 180.
5. Id., La mia provocatoria indipendenza, in Id., Saggi sulla politica e sulla società, p. 1173.
6. Fortini, Attraverso Pasolini, cit., p. 199.
7. Cfr. Andrea Cortellessa, Misero e impotente Socrate. Sul Pasolini “corsaro e luterano”, «Zibaldoni e altre meraviglie».
8. Pasolini, Lettere luterane, cit., p. 122.
9. Ivi, p. 123.
10. Calvino, Italo, Ultima lettera a Pier Paolo Pasolini, «Corriere della Sera», 4 novembre 1975.
11. Fortini, Attraverso Pasolini, cit., p. 216.
12. Pasolini, Scritti corsari, cit., p 39.
13. Ivi, p. 71.
14. Ivi, p. 230.
15. Id., Lettere luterane, cit., p. 169.
16. Ivi, p. 176.
17. Ivi, p. 177.
18. Id., I cappelli goliardici, in Id., Saggi sulla politica e sulla società, a cura di Walter Siti e Silvia De Laude, Milano, Mondadori 1999 p. 1210.


Fonte:
http://quattrocentoquattro.com/2014/03/14/pasolini-al-corriere-della-sera-4-sfruttare-le-polemiche/


Curatore, Bruno Esposito

Collaborano alla creazione di queste pagine corsare:

Carlo Picca
Mario Pozzi
Alessandro Barbato
Maria Vittoria Chiarelli
Giovanna Caterina Salice
Simona Zecchi

Pasolini al «Corriere della Sera» - “Quello che rimpiango”

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro




Pasolini al «Corriere della Sera»
“Quello che rimpiango”
di Valerio Valentini


Il 23 dicembre 1973, meno di un mese dopo il varo delle politiche di austerità da parte del governo Rumor, «L’Unità» organizza una tavola rotonda alla quale partecipano Giorgio Napolitano, Luciano Lama, Paolo Rossi e Giorgio Ruffolo, per discutere di “sviluppo economico” e “modelli di vita”. Da parte di Ruffolo giungono critiche aspre contro “possibili interpretazioni regressive che si tende ad avallare quando si parla di un nuovo modo di sviluppo”: interpretazioni “mistico-reazionarie, che ad ogni crisi dell’umanità ripropongono lo spauracchio di un’apocalisse”. Sulle stesse posizioni si colloca Rossi, che dapprima condanna tutti quegli “ingredienti della rivolta neoromantica contro la scienza” che stanno “riemergendo nella cultura italiana anche in quest’occasione di crisi”, e poi ribadisce la propria contrarietà a tutta “una serie di prediche sul ritorno alla natura incontaminata, sull’opportunità di un ridimensionamento radicale della tecnologia”1.
Nessuno lo nomina, ma è chiaro che uno dei principali destinatari di quelle critiche è Pier Paolo Pasolini. Il quale, sentendosi evidentemente chiamato in causa, invia a «Paese Sera» cinque poesie2, il cui tema è il rimpianto per la povera, ma dignitosa, condizione dell’Italia rurale, ormai distrutta dagli abomini dello sviluppo. Il 5 gennaio del 1974 il quotidiano pubblica, dopo alcuni indugi e qualche iniziale riluttanza, i cinque componimenti, accompagnati da una lunga nota redazionale anonima – in realtà scritta da Gianni Rodari – che sottolinea la validità artistica di quei testi in quanto, appunto, poesie, ma la sostanziale insostenibilità delle tesi politiche che vi sono contenute3. La stroncatura più radicale a quei testi arriva il 13 gennaio da Valerio Riva, che sulle colonne de «L’Espresso» prima li definisce “fregnacce di un poeta”, e poi liquida l’intera ideologia pasoliniana come una serie di “farneticazioni di un’Arcadia che non è mai esistita sul serio”4.
Sulla stessa rivista, pochi mesi dopo, è Lucio Coletti, nel corso della tavola rotonda organizzata da «L’Espresso» il 23 giugno, È nato un bimbo: c’è un fascista in più5, a muovere accuse analoghe a Pasolini, affermando che quest’ultimo “ha solo nostalgia dell’Italia rustica e paesana”, cioè di “un mito letterario che non serve a niente”. È un rimpianto di una “bella epoque” che non è “mai esistita”6.
Che è poi quello che a Pasolini rinfaccia Italo Calvino, in un’intervista concessa a «Il Messaggero» il 18 giugno 1974, nell’ambito del dibattito sulla vittoria del “no” al referendum e sulla presunta mutazione antropologica degli Italiani.
Non condivido il rimpianto di Pasolini per la sua Italietta contadina […]. Questa critica del presente che si volta indietro non porta a niente […]. Quei valori dell’Italietta contadina e paleocapitalistica comportavano aspetti detestabili per noi che la vivevamo in condizioni in qualche modo privilegiate; figuriamoci cos’erano per milioni di persone che erano contadini davvero e ne portavano tutto il peso. È strano dire queste cose in polemica con Pasolini, che le sa benissimo, ma lui […] ha finito per idealizzare un’immagine della nostra società che, se possiamo rallegrarci di qualche cosa, è di aver contribuito poco o tanto a farla scomparire7.
E la mitizzazione pasoliniana delle masse proletarie dell’Italia rurale è il bersaglio delle critiche anche di Maurizio Ferrara, su «L’Unità» del 12 giugno 1974:
Forse Pasolini, queste masse le amava di più come erano trent’anni fa, quando in una loro intatta purezza (tutta da dimostrare) contavano indubbiamente meno della metà di quanto contano oggi, per inquinate dai «caroselli» che siano?8
Quanto Pasolini scrive sulla mutazione antropologica degli Italiani costituisce, a giudizio di Ferrara, “un anelito che richiama le voglie della migliore intellettualità reazionaria fissata in un rimpianto oscuro per l’età dell’oro perduta”, e nelle sue analisi si riscontra “una carica evidente di estetismo insoddisfatto, di un manicheismo intellettualistico”, che non tiene conto del fatto che “qualsiasi età dell’oro – se mai ne è esistita una – è improponibile. E che, quindi, l’epoca migliore per fare politica non era quella, sognata, dei conti che tornavano sempre ma, piuttosto, quella in cui è dato vivere e nella quale, sfumati gli schemi delle mitologie […] la cosa fondamentale è vivere e lottare con gli occhi aperti”. Cosa, però, che Pasolini non può fare, dal momento che “non si vive ad occhi aperti guardandosi indietro”: ciò costituisce “un gesto allarmante, di totale deprezzamento della dimensione politica, a vantaggio di una sorta di stato di necessità della disperazione esistenziale”. Vaneggiamenti, insomma, quelli di Pasolini, dovuti al “tormento per l’usura della ragione” tipico di chi “assiste, e anche partecipa, allo scontro politico e sociale pretendendone effetti non politici ma estetici” e addirittura “guarda alla lotta politica e di classe con occhio mitologico”9.
Sia le critiche di Ferrara, sia quelle di Calvino, sono più che comprensibili: nel momento in cui la maggioranza del popolo italiano ha dimostrato di credere in ideali laici e non più bigotti, guardare al passato con un senso di vaga nostalgia è un atteggiamento che appare non degno di un intellettuale che si prefigga di contribuire al progresso sociale. Non è un caso che entrambi ricorrano all’immagine di un uomo con la testa rivolta indietro per descrivere il modo in cui lo scrittore corsaro analizza quanto accade intorno a lui10.
La replica di Pier Paolo Pasolini a queste critiche arriva l’8 luglio, nella lettera aperta indirizzata proprio a Italo Calvino. “L’«Italietta» – ribatte innanzitutto Pasolini – è piccolo-borghese, fascista, democristiana; è provinciale e ai margini della storia; la sua cultura è un umanesimo scolastico formale e volgare. Vuoi che rimpianga tutto questo?”. Quello che Pasolini dice di rimpiangere è piuttosto “l’universo contadino”, “pre-nazionale e pre-industriale”, che è “un universo transnazionale” il quale “addirittura non riconosce le nazioni” in quanto “avanzo di una civiltà precedente”. Quanto poi ad un’altra accusa che gli è stata rivolta, secondo la quale la sua nostalgia per l’Italia perduta gli annebbierebbe la lucidità nell’analizzare l’Italia presente, Pasolini chiarisce che quel suo rimpianto non gli impedisce affatto di esercitare la sua critica “sul mondo attuale così com’è”. È, al contrario, proprio perché egli sceglie di vivere “solo stoicamente” nella società attuale, che riesce a riscontrare quella che è la caratteristica discriminante della nuova epoca rispetto a qualunque altra epoca passata: e cioè una “ansiosa volontà di uniformarsi” che non opera più soltanto, come è sempre stato, all’interno dei confini delle classi sociali e nel rispetto dei particolarismi culturali, ma che agisce “secondo un codice interclassista11. L’Italia che Pasolini rimpiange è dunque quella in cui nessuno si sentiva costretto ad abiurare la propria cultura per ottenere di vedersi accettato nell’unica classe sociale che il Potere dei consumi è disposto ad ammettere: la borghesia. L’Italia, cioè, “della gente povera e vera che si batteva per abbattere” il padrone “senza diventare quel padrone”12.
Se, tuttavia, questo suo rimpianto diventa oggetto di pesanti accuse – di revisionismo, di apologia del fascismo, di reazionarismo – lo si deve anche al modo in cui Pasolini descrive l’Italia di cui dichiara di aver nostalgia. Egli non rinuncia, infatti, a proporne immagini vaghe e poetiche, volutamente mitizzate; oppure si rifà ad esperienze e ricordi del tutto personali per arrivare a dimostrare la superiorità di quel mondo ormai perduto. Il tutto, tra l’altro, unito ad una innegabile voluttà nel portare le proprie argomentazioni fino ad esiti estremi per poter provocare lo scandalo di interlocutori e rivali. Come accade il 9 dicembre 1973, sulle colonne del «Corriere della Sera»:
Nessun centralismo fascista è riuscito a fare ciò che ha fatto il centralismo della civiltà dei consumi. Il fascismo proponeva un modello, reazionario e monumentale, che però restava lettera morta. Le varie culture particolari (contadine, sottoproletarie, operaie) continuavano imperturbabili a uniformarsi ai loro antichi modelli: la repressione si limitava ad ottenere la loro adesione a parole. Oggi, al contrario, l’adesione ai modelli imposti dal Centro, è totale e incondizionata […]. Si può dunque affermare che la “tolleranza” della ideologia edonistica voluta dal nuovo potere, è la peggiore delle repressioni della storia umana13.
È evidente come Pasolini, nel condannare la dilagante omologazione non dei costumi esteriori, ma delle coscienze fin nella loro più profonda intimità, arriva a sminuire le atrocità vissute, nel corso del ventennio fascista, dalle masse del popolo italiano, che vengono di nuovo viste sotto una luce eccessivamente idilliaca.
Tutto ciò offre a Edoardo Sanguineti la possibilità di ironizzare, su «Paese Sera» del 27 dicembre, in maniera feroce sulle convinzioni di Pasolini.
Com’era verde, però, la nostra valle! E com’erano carini i sottoproletari di una volta! Io me li ricordo benissimo, pittoreschi e straccioni, che con la selezione naturale venivano su come tante querce. […] Ah, i nostri ragazzi di Vita, che bella Vita violenta che si facevano14.
Il sarcasmo di Sanguineti investe anche l’ipotesi pasolinana secondo cui i giovani proletari, fino a qualche anno prima, “erano fieri del proprio modello popolare di analfabeti in possesso del mistero della realtà”, mentre ora, vergognandosi della propria ignoranza, “hanno cominciato a disprezzare anche la cultura”15.
Brutti tempi, quando i sottoproletari si infilano la cattiva strada che li può portare, un giorno o l’altro, non so, a leggere Vico, a leggere Gramsci. Perduta la splendida «rozzezza» di un tempo, si sono messi anche a fare gli «studenti», i maleducati […].
Insomma, per me, a dirla schietta, mi andava benissimo il Fascismo. Era centralista anche quello, va bene, ma almeno non funzionava, e gli «antichi modelli» prosperavano come non mai […].16
In maniera piuttosto aspra Sanguineti declassa il discorso di Pasolini a semplice “nostalgia del fascismo” e a rimpianto dell’“analfabeta felice”. Egli si insinua nelle crepe che l’estremismo retorico di Pasolini lascia aperte nel suo articolo del «Corriere» rendendolo, in alcuni punti e a prima vista, troppo radicale e sentenzioso per essere condiviso. E allargando quelle crepe, Sanguineti mostra l’apparente fragilità dell’intera ideologia dell’avversario.
Ma da dove nasce questo senso di nostalgia di Pasolini nei confronti dell’Italia arcaica? E soprattutto: perché Pasolini arriva a rimpiangerla, secondo quanto sostengono i suoi avversari, fino al punto di ridimensionarne ingiustizie e storture, esponendosi così a facili critiche?
Premesso che l’amore di cui Pasolini ama le masse proletarie è in gran parte sinceramente istintivo, dunque non razionalmente spiegabile, credo che a determinare questo sentimento di straordinaria vicinanza contribuiscano anche motivi più concreti.
Innanzitutto, Pier Paolo Pasolini, nella disperata tensione a ritagliarsi uno spazio importante nel panorama intellettuale degli anni ‘50, si scopre un analista acuto di quelle masse, in parte per la sua non comune capacità di osservazione, in parte per la sua morbosa curiosità antropologica che lo spinge a frequentare ambienti solitamente rifuggiti da scrittori e registi. Nel corso di pochi anni – quelli che vanno dalla pubblicazione di Ragazzi di vita (1955) alla produzione di Accattone (1961) – Pasolini diventa una sorta di autorità in materia di “analisi del sottoproletariato”. Un’autorità discussa e spesso criticata, ma indubbiamente un’autorità. Non è da escludere, dunque, che il narcisismo che affligge Pasolini lo porti a riversare su quelle classi sociali un amore che è anche il riverbero di un autocompiacimento: si affeziona a certe tipologie umane in virtù del fatto che esse costituiscono il soggetto delle sue opere artistiche, grazie alle quali è divenuto famoso, sia in Italia sia all’estero.
In secondo luogo, come un’intera “micro-sezione” della prima parte delle Lettere luterane17 sta a testimoniare, Pasolini è riconoscente al sottoproletariato rurale per avergli rivelato l’esistenza di “altri mondi”, oltre a quello che lui, nei primi anni della sua vita, riteneva fosse l’unico mondo esistente, “così cosmicamente assoluto”: il mondo piccolo-borghese18. Ed è proprio questa consapevolezza, che Pasolini è convinto d’aver maturato con maggiore precocità e radicalità rispetto ad altri intellettuali, che gli ha permesso di distaccarsi dalla schiera di quelli che lui definisce “i teppisti del conformismo”, ovvero quegli scrittori che “oppongono al vero scandalo della ricerca libera e critica, il falso scandalo di una cultura stabilita”, ponendo, più o meno volontariamente, “l’universo conformista cui essi appartengono per nascita” come l’unico universo esistente19. Non ritengo perciò condivisibile l’affermazione espressa su «L’Unità» del 6 marzo 1995 da Sanguineti, secondo cui “Pasolini è scrittore antiborghese perché in lui c’è una volontà di martirio che lo porta a voler espiare una colpa assoluta e a trasformare in rito negativo la propria colpevolezza di borghese”20. Pasolini, infatti, quel senso di colpa non lo avverte affatto: la sua appartenenza alla borghesia è vissuta in maniera tutto sommato pacifica, poiché il suo orgoglio di intellettuale che sa “rompere le barriere” di classe e sospingersi nel mondo sottoproletario inibisce in lui qualunque istinto al martirio. E difatti Pasolini benedice più volte il suo “amore tradizionale e non ortodosso per il popolo” che gli ha permesso di vivere “fuori dall’inferno cui per nascita, censo e cultura” era “destinato”21.
Quest’amore di Pasolini per l’Italia “prima della scomparsa delle lucciole” non deve però ingannare: quella era la stessa Italia che presentava, anche agli occhi dello scrittore bolognese, delle storture assolutamente tragiche. Tant’è che quando Calvino gli rimprovera di rimpiangere l’Italietta, Pasolini afferma: “per quel che mi riguarda personalmente, questa Italietta è stata un paese di gendarmi che mi ha arrestato, processato, perseguitato, tormentato, linciato per quasi due decenni”22, esprimendo un disagio nei confronti di quella società che è tangibile, e che emerge chiaramente, tra l’altro, dai dialoghi che Pasolini intrattiene nel 1960 con i lettori di «Vie Nuove».
Se dunque, a distanza di qualche anno, quell’Italia risplende nelle memorie dell’articolista del «Corriere della Sera» come una società così idillica, il motivo che fa assumere all’“universo «popolare»” descritto da Pasolini “caratteri più arcaici del vero”23, non può essere un banale rimpianto figlio della nostalgia. Le ragioni sono più complesse.
Di fronte all’avvento del neocapitalismo e di tutte le mutazioni, antropologiche e socio-economiche, che esso comporta, Pasolini si sente inorridito. Forse perché riesce ad arguire con particolare perspicacia le conseguenze peggiori a cui l’affermarsi di quel nuovo Potere condurrà, egli è irremovibile nel condannarne ogni aspetto. Nel far questo non accetta alcun invito alla moderazione, neppure laddove dei distinguo apparirebbero doverosi. Pasolini è consapevole di questo suo estremismo – se confessa a Calvino: “naturalmente queste mia «visione» della nuova realtà culturale italiana è radicale: riguarda il fenomeno come fenomeno globale, non le sue eccezioni, le sue resistenze, le sue sopravvivenze”24 – ma non se ne cura. Il suo rifiuto così totale per la “nuova epoca” deve esprimersi in maniera altrettanto drastica e definitiva. È per questo che Pasolini traccia un’immaginaria linea di demarcazione, ben netta: da un lato sta l’Italia arcaica e rurale, dall’altro l’Italia assoggettata alle logiche del neocapitalismo. E tanto più quella attuale deve apparire mostruosa agli occhi dei lettori, per poter essere compresa in tutto il suo orrore, tanto più quella precedente deve assurgere a modello. La mitizzazione dell’Italia arcaica e contadina è dunque funzionale a rendere più efficace la critica alla società contemporanea. Di fronte a quest’esigenza, Pasolini si sforza di ignorare tutte le deformità del passato: di volta in volta le sottovaluta, le declassa a semplici segni del tempo, le dilava fino a farle scolorire. E spesso arriva anche a nobilitarle e a contrapporle agli obbrobri, quelli sempre estremizzati, del presente; noncurante, anzi forse desideroso, delle eventuali critiche che quelle sue affermazioni così radicali si attirano.
Come quando, recensendo il libro di Sandro Penna, Un po’ di febbre, esordisce con un’affermazione volutamente provocatoria: “Che paese meraviglioso era l’Italia durante il periodo del fascismo e subito dopo! La vita era come la si era conosciuta da bambini, e per venti trent’anni non è più cambiata”. E da lì ha inizio un panegirico, dai tratti bozzettistici e surreali al contempo, sull’aspetto “profondo e bello” delle città e degli uomini di una volta, che non rifiuta neppure di lodare l’emarginazione e la subalternità cui erano relegate le donne e la “qualità meravigliosa” dei ladri di allora, i quali “non erano mai volgari”. Naturalmente, quando si arriva al confronto con la situazione attuale, tutto diventa “laido e pervaso da un mostruoso senso di colpa”25.
L’ambiguità è evidente, ma va contestualizzata all’interno di quella che credo si possa definire la “poetica dell’urgenza” che è del Pasolini corsaro e luterano, e che si manifesta in una prosa dogmatica e sentenziosa, unita ad una foga retorica travolgente. Urgenza che non consiste, tuttavia, nel voler bloccare la storia, portare indietro le lancette del tempo e ripartire da un punto stabilito, come talvolta, leggendo gli Scritti corsari e le Lettere luterane, si è indotti a pensare. Nel Pasolini che scrive sulle colonne del «Corriere della Sera» c’è un’urgenza più autentica che non quella di condannare e distruggere, e cioè quella di spiegare agli Italiani la trasformazione cui essi stanno andando incontro, affinché la vivano, visto che ormai la vivono sulla propria pelle, “consapevolmente” e non, come invece accade, “esistenzialmente”.
Tutto ciò appare più che mai evidente negli articoli in cui Pasolini denuncia la necessità di portare alla sbarra del tribunale i “gerarchi Dc”. Quella che lui ricerca, attraverso l’istituzione di un processo penale ai loro danni, non è soltanto una legittima richiesta di giustizia per gli abominevoli errori commessi dal regime democristiano negli ultimi vent’anni; Pasolini vuole piuttosto rendere consapevoli i cittadini italiani che ormai il vero potere non è più detenuto dal “nulla ideologico mafioso”26 che è la DC, ed è per questo che i suoi dirigenti possono sfilare ammanettati in un’aula di tribunale.
Cosa verrebbe rivelato alla coscienza dei cittadini da tale Processo […]?
Verrebbe rivelato […] qualcosa di essenziale per la loro esistenza, cioè questo: i potenti democristiani che ci hanno governato negli ultimi dieci anni non hanno capito che si era storicamente esaurita la forma del potere che essi avevano servilmente servito nei vent’anni precedenti […] e che la nuova forma di potere non sapeva più (e non sa più) che farsene di loro.
Questa «millenaristica» verità è dunque essenziale per capire […] che è finita l’epoca, appunto millenaria, di un «certo» potere ed è cominciata l’epoca di un certo «altro» potere27.
L’urgenza ultima di Pasolini è, in definitiva, quella di convincere le parti migliori e per certi versi ancora sane dell’Italia – molti suoi colleghi intellettuali, una parte dei “giovani iscritti, ma proprio iscritti, al Pci”, il PCI medesimo, non a caso definito “un paese pulito in un paese sporco”, una parte del mondo cattolico, con cui il rapporto è però molto più problematico – ad opporsi alla deriva capitalistica e a proporre un nuovo modello sociale, che abbia come obiettivo il “progresso” e non lo “sviluppo”, come punti di riferimento valori “umanistici” e non “consumistici”, come dottrine politiche fondanti quelle “marxiste” e non quelle “neocapitaliste”. Chi accusa Pasolini di desiderare una restaurazione, chi riscontra nel suo pensiero una “nostalgia di un passato anche tinto di nero”28, dimentica che mai si potrebbe considerare Pasolini come un reazionario, proprio perché è lui stesso il primo a sapere che non c’è nulla da restaurare: c’è semmai da andare a ricercare, tra le macerie di un passato ormai distrutto dalla storia, quei valori che possono offrirsi come una valida base d’appoggio per costruire una nuova società. Pasolini sapeva, come ha evidenziato Fortini, che la realtà da lui tante volte rimpianta “non era mai esistita”, e che essa piuttosto “era ‘davanti’, da conquistare, non da recuperare”29.

1. Sviluppo economico e modelli di vita, «L’Unità», 23 dicembre 1973.
2. Si tratta di: “Significato del rimpianto”, “Poesia popolare”, “Appunto per una poesia in lappone”, La recessione”, “Appunto per una poesia in terrone”. Ora in Pier Paolo Pasolini, La nuova gioventù, Torino, Einaudi 2002.
3. Viene da chiedersi se non abbia in realtà ragione Alfonso Berardinelli, quando afferma, a proposito della poesia di Pasolini, che è del tutto impossibile valutarla “da un punto di vista puramente formale”, giacché di un autore che dichiara “di volersi liberare dello stile a vantaggio del messaggio e del contenuto” risulterebbe quantomeno inopportuno giudicare i versi a prescindere dalle convinzioni ideologiche che essi esprimono. Cfr. Berardinelli, Alfonso, Tra il libro e la vita, Torino, Bollati Boringhieri 1990, p. 58.
4. Riva, Valerio, Com’era verde la mia borgata, «L’Espresso», 13 gennaio 1974.
5. Cfr. prima parte.
6. È nato un bimbo: c’è un fascista in più, «L’Espresso», 23 giugno 1974.
7. Guarini, Ruggero, Quelli che dicono «no», «Il Messaggero», 18 giugno 1974.
8. Ferrara, Maurizio, I pasticci dell’esteta, «L’Unità», 12 giugno 1974.
9. Ibidem.
10. Pasolini, a sua volta, rivolgerà la stessa accusa ai suoi colleghi, “la bella truppa di intellettuali” tutti simili a “quelle marionette che fanno tanto ridere i bambini perché hanno il corpo voltato da una parte e la testa dalla parte opposta”. Sono parole riferite da Pasolini il 1° novembre 1975 a Furio Colombo, in un’intervista ora in Pasolini, Pier Paolo, Saggi sulla politica e sulla società, a cura di Walter Siti e Silvia De Laude, Milano, Mondadori 1999, p. 1727.
11. Pasolini, Pier Paolo, Scritti Corsari, Milano, Garzanti 2008, pp. 51-55.
12. Dalla stessa intervista a Colombo, in id., Saggi sulla politica e sulla società, cit., p. 1727.
13. Pasolini, Scritti corsari, cit, p. 22.
14. Sanguineti, Edoardo, La bisaccia del mendicante, «Paese Sera», 27 dicembre 1973.
15. Pasolini, Scritti corsari, cit p. 24.
16. Sanguineti, La bisaccia del mendicante, cit.
17. Consistente negli articoli pubblicati su «Il Mondo» tra il 10 aprile e il 1° maggio 1975.
18. Pasolini, Pier Paolo, Lettere luterane, Torino, Einaudi 2003, pp. 35-36.
19. Pasolini, Pier Paolo, Descrizioni di descrizioni, Milano, Garzanti 2006, pp. 263-264.
20. Golino, Enzo, Tra lucciole e Palazzo, Palermo, Sellerio 1995.
21. Pasolini, Liberty in borghese, in Id. Saggi sulla politica e sulla società, cit., p. 1242.
22. Id., Scritti corsari, cit, p. 51.
23. Fortini, Franco, Attraverso Pasolini, Torino, Einaudi 1993.
24. Pasolini, Scritti corsari, cit., p. 54.
25. Ivi, p. 143.
26. Id., Lettere luterane, cit, p. 78.
27. Ivi, pp. 115-116.
28. Casalegno, Carlo, Chi è peggiore?, «Panorama», 7 novembre 1974.
29. Fortini, Attraverso Pasolini, p. 145.


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