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Biografia, lavori in corso - a breve anche il 1974 e il 1975

mercoledì 15 maggio 2013

In viaggio con Pasolini e Levi

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro





In viaggio con Pasolini e Levi


di Maurizio Camerini e Piero Pacione

Partiamo da Matera, destinazione Uganda. Con noi gli Appunti per un'Orestiade africana di Pier Paolo Pasolini, le cui scene furono girate in Uganda e in Tanzania. Tra le tante immagini conserviamo uno sguardo su di un piccolo villaggio nei pressi del lago Tanganika: è il luogo dove avvenne l'incontro tra Stanley e Livingstone. Il viaggiatore deve prestare attenzione ai luoghi che attraversa, e questo è certamente il luogo dove è stata incisa, nel cuore dell'Africa, la grande ferita del colonialismo.
Pasolini parte idealmente con noi da Matera, con la musica del Gloria della Missa Luba congolese, colonna sonora del Vangelo secondo Matteo. C'era già un pezzo di Africa quando Pasolini girava il Vangelo a Matera ed il coro della Missa Luba rappresenta nel film il tema della gioia: Gesù che guarisce il lebbroso.
Il tema del nostro viaggio è la guerra, è la violenza esercitata sui bambini anche con pratiche magiche e rituali in un luogo dove, ricorda Pasolini, “ le antiche divinità primordiali coesistono con il nuovo mondo della ragione”.
I volti dei contadini ugandesi del 1970, sono gli stessi dei contadini lucani inquadrati nel Vangelo nei Sassi di Matera, gli stessi volti ritratti da Carlo Levi: i volti del popolo, come scrive Levi nella prefazione ad Accattone:

“Un sottoproletariato di uomini non ancora entrati nell'esistenza e nella coscienza. La parola espressiva, che è libertà e coscienza, non esiste ancora in questo mondo. Questo mondo di “rumore e furore”… ha un aspetto, una apparenza, un discorso di gesti, di facce, di atteggiamenti…”. Questi volti che raccontano storie, nei cui occhi sono rappresi destini, sono i volti della Lucania che non esiste più. Ma sono anche i volti che abbiamo incontrato durante la lotta del popolo lucano contro le scorie nucleari, i volti dei bambini negli slums di Kampala e di Nairobi. I volti dei poeti, dei griot, dei cantastorie, di quel mondo nascosto alla Storia che continua a raccontare storie.

E così conclude Pasolini nei suoi Appunti:

“la conclusione ultima non c'è, è sospesa, una nuova nazione è nata, i suoi problemi sono infiniti, ma i problemi non si risolvono, si vivono e la vita è lenta; il procedere verso il futuro non ha soluzioni di continuità, il lavoro di un popolo non conosce né retorica né indugi, il suo futuro è nella sua ansia di futuro e la sua ansia è una grande pazienza”.
E poi nella sua Melopea per Levi, scritta per una mostra di quadri di Carlo Levi sulla Lucania:

Il sorriso spento non si estingue
Riposa in se stesso
Aspettando
Che i morti si alzino,
diano un'occhiata al cielo,
ripronuncino le vecchie preghiere,
rifacciano gli antichi sacrifici agli altari”.
E dunque partiamo, con Pasolini e con Levi.
“Sono passati molti anni pieni di guerra, e di quello che si usa chiamare la Storia” *.

Al mattino c'è la solita confusione allegra del mercato africano nei pressi della stazione dei matatu di Kampala. Alle sei del mattino il bus diretto a Gulu è già pieno e continuerà a riempirsi fino all'inverosimile per tutte le due ore di attesa della partenza, lentezza del partire in un tempo costruito a bolle, gassose, rarefatte, liquide. Nel sorriso disteso e bianco, luminoso e carezzevole delle ragazze c'è qualcosa di sospetto, aleggia l'incubo della guerra, e diventa più bruciante così l'ingiustizia. La metà dei passeggeri sono bambini, aria frizzante tra scaglie di sonno. Il verde fatale del paesaggio ugandese accompagna lo sguardo che non sosta dai finestrini aperti al vento caldo e alla polvere. Ad ogni breve fermata si ripete il rincorrersi di venditori di spiedini di carne, di cassava, di mais arrostito. I corpi si sistemano l'uno sull'altro, una bambina dorme col viso poggiato tra l'incavo del mio ginocchio ed il polpaccio, altri due bambini viaggiano abbarbicati sulle mie spalle. La loro mamma allatta al seno la bimba più piccola, e questo si ripete su tutti i sedili. Come faccio a spiegare a me e a queste bambine che la pace si sceglie e si fa in un luogo lontano da qui, in Sudan, e che il loro futuro è in una combinazione mostruosa di troppe variabili?

Arriviamo a Gulu, dove, solo qualche anno fa, nei campi profughi c'è stata la più vasta epidemia del virus Ebola.

“Cristo non è mai arrivato qui… Le stagioni scorrono sulla fatica contadina, oggi come tremila anni prima di Cristo… in questa terra oscura, senza peccato e senza redenzione, dove il male non è morale, ma è un dolore terrestre, che sta per sempre nelle cose, Cristo non è disceso”.

Il viaggio era cominciato il giorno precedente quando abbiamo attraversato la frontiera tra il Kenia e l'Uganda. Si scende dall'autobus, partito otto ore prima dall'affollatissima stazione della Scandinavia Express di Nairobi e si percorre a piedi il ponte che scavalca un pigro ruscello. Sono due-trecento passi all'alba, con le lunghe ombre disegnate su questa striscia di nessuno a poca distanza dal lago Vittoria. Al di là di questo confine naturale e della dogana, con la sua confusa coorte di venditori e di cambiavalute, ad accoglierti c'è una vegetazione lussureggiante, quel verde brillante e caldo di alberi e piantagioni che ci accompagnerà fino a Kampala.
La seconda frontiera non ha dogane, è il confine naturale tracciato dallo scorrere maestoso del Nilo bianco che regala ai viaggiatori lo spettacolo spumeggiante delle sue cascate.

“Quell'altro mondo, serrato nel dolore e negli usi, negato alla Storia e allo Stato… dove il contadino vive, nella miseria e nella lontananza… nella presenza della morte”.

Il fiume separa la terra abitata dagli Acholi del Nord dal resto dell'Uganda. E' questo il confine invisibile di una guerra che dura da venti anni, un confine che in questi giorni potrebbe trasformarsi in una nuova frontiera di pace. Dall'autobus scendono per primi i bambini; ne incontreremo ancora numerosissimi nei campi profughi dei dintorni di Gulu, e sono bambini sorridenti e malati, molti dei quali nati negli stessi campi di accoglienza. Quasi cinquecentomila persone dislocate in circa ottanta campi, in fuga da una guerra devastante e crudele che ha mietuto vittime innocenti, soprattutto bambini. Questi, malnutriti e dalla salute minata da malaria, diarree, casi di meningite, sono i bambini del giorno, conteggiati dalle statistiche delle organizzazioni umanitarie che li sostengono.

“Dall' uscio mi giungeva un suono di voci femminili ed un pianto di bambino. Una diecina di donne, con i bimbi in collo o per mano, aspettavano, pazienti… Volevano mostrarmi i loro figli… Erano tutti pallidi, magri, con dei grandi occhi neri e tristi sui visi cerei, con le pance gonfie e tese come tamburi sulle gambette storte e sottili. La malaria, che qui non risparmia nessuno, si era già insediata nei loro corpi denutriti e rachitici”.

Poi ci sono i bambini della notte, i bambini invisibili che al calare dell'oscurità fuggono dai propri villaggi per rifugiarsi tutti insieme nelle tende allestite nel centro di Gulu. Cercano rifugio e protezione ogni notte, camminando per ore nella notte che li rende invisibili agli assalti dei miliziani dell'Esercito di Resistenza del Signore (LRA). Fino a poco tempo fa si calcolava che fossero quarantamila, in fuga dalle razzie che i guerriglieri continuano a compiere in tutti i villaggi allo scopo di rendere schiavi i bambini e trasformarli in spietati combattenti al proprio servizio. Noi siamo arrivati fin qui per incontrare loro, i bambini-soldato sfuggiti ai loro padroni e signori di morte, fuggiti dalle mani insanguinate che li hanno usati come micidiali automi guerrieri, bambini costretti a violentare ed uccidere. I pochi bambini che riescono a fuggire vengono accolti nel centro di GUSCO (l'organizzazione di Gulu per il sostegno dei bambini, una Ong fondata nel 1994) dove vengono inseriti in un difficilissimo programma di riabilitazione e reinserimento. In questi giorni sono presenti nel centro quindici bambini, di un'età compresa tra i 9 ed i 16 anni, molti dei quali hanno trascorso anche più di un anno nelle mani dei ribelli. La responsabile delle attività di recupero, la signora Christine, ci racconta con sofferenza storie degne di un film dell'orrore e con lo stesso sguardo carico di compassione profonda ci parla dei risultati positivi ottenuti nel reinserimento dei bambini nelle famiglie e nella comunità.

“Questa fraternità passiva, questo patire insieme, questa rassegnata, solidale, secolare pazienza è il profondo sentimento comune dei contadini… in essi è vivo il senso umano di un comune destino, e di una comune accettazione… il senso sacro, arcano e magico di una comunanza. E' un senso… non si esprime in discorsi o parole, ma si porta momenti, in tutti i gesti della vita, in tutti i giorni uguali che si stendono in questi deserti”.

A Nairobi, la strada da “Shalom House”, la struttura di accoglienza e formazione aperta dalla comunità Koinonia di padre Kizito, e il centro di Kivuli, è un sentiero nello slum, in bilico tra i colori e la fogna a cielo aperto.

“Le giornate cominciavano, lentamente ad allungarsi… La primavera non era più molto lontana e io pensavo che si sarebbe dovuto provvedere in tempo, prima che il sole riportasse le zanzare, a fare tutto quello che era possibile per combattere la malaria…”

L'arrivo a Kivuli è segnato dalla gente dello slam che, in fila, con le taniche, raccoglie acqua potabile che scorre libera da Koinonia ovvero dalla comunità.

“…un senso naturale del diritto,… una spontanea intuizione di quello che, per loro dovrebbe essere veramente lo Stato: una volontà comune, che diventa legge.”

Kivuli ospita bambini di strada e profughi. Molti tra i primi bambini accolti nella comunità oggi sono studenti universitari, operatori di strada, attori essi stessi della propria trasformazione. Quello che colpisce è il senso esplicito e profondo di autonomia e autorganizzazione. Nella palestra di fronte all'ingresso un gruppo di ragazzi si esercita in spericolate danze acrobatiche, sulla sinistra un piccolo negozio di artigianato e poi ancora il campo da gioco (come una piccola piazza), l'officina meccanica, l'artigianato del legno ed altro, altro ancora fino al puzzo dei cessi e al suono dei tamburi. Li costruiscono con bidoni di latta, esattamente come noi costruiamo la cupacupa.

“Il cupo-cupo è uno strumento rudimentale, fatto di una pentola o di una scatola di latta, con l'apertura superiore chiusa da una pelle tesa come un tamburo”.

I danzatori acrobatici e i suonatori di tamburo non hanno mai studiato danza o musica, semplicemente si sono costruiti la loro scuola di danza e di musica. Studiano e si allenano come dei matti perché non è facile salire a piramide, a gruppi di due o tre e consentire all'ultimo, in cima, di giocare con il fuoco e con i colori della pace. Esiste in questi ragazzi la consapevolezza di costruire legami tra la tradizione degli antenati, il senso magico dell'esistenza e l'essere nella contemporaneità. Non è forse questa una traccia da seguire? Sete di giustizia e di riscatto che indossa i liberi panni dell'arte popolare?

“Era, quello schema classico, un ricordo di un'arte antica, ridotto al povero residuo dell'arte popolare, o uno spontaneo, originario rinascere, un linguaggio, naturale in queste terre, dove la vita è tutta una tragedia senza teatro?”

* I testi in corsivo sono di Carlo LEVI, Cristo si è fermato a Eboli, Einaudi, Torino 1990.

M.A.P.P. (Matera Africa Peace Point) lavora come gruppo di sostegno alle attività della comunità Koinonia (Nairobi, Kenia) fondata dal missionario comboniano padre Renato Kizito Senana.
Attraverso viaggi di conoscenza e iniziative locali il M.A.P.P. lavora sui temi della in-formazione e della comunicazione nel tentativo di parlare di Africa per imparare dall'Africa.
Nel giugno del 2006 il M.A.P.P., in collaborazione con il gruppo musicale dei TerraGnora (Matera), ha ospitato i “Nafsi Africa”, un gruppo di 16 ragazzi/e che, partendo dallo slum di Kibera (Nairobi) lavorano sulla risoluzione dei conflitti sociali e politici con un messaggio di pace, veicolato attraverso varie forme d'arte: danza, musica, canto, acrobazie. Da quell'incontro è nata l'idea di una possibile “rilettura africana” del racconto che Pasolini, Levi, Scotellaro hanno dato della Lucania. Lo scritto In viaggio con Pasolini e Levi è un primo tentativo di dare vita al progetto “MATER – AFRICA” con i TerraGnora, i Nafsi e l'attore lucano Ulderico Pesce.

Fonte:
http://digilander.libero.it/lepassionidisinistra/n_14/inviaggio.htm


@Eretico e Corsaro - Le Pagine Corsare

Curatore, Bruno Esposito

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Pasolini e la patrimonializzazione dei beni culturali in Medio Oriente

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro




Pasolini e la patrimonializzazione dei beni culturali in Medio Oriente

di Menico Copertino



1. Proliferazione delle differenze culturali e moltiplicazione dei recinti marginali nella “seconda rivoluzione industriale”

In una delle sue Lettere luterane, Pasolini affronta il tema della differenza e dell'atteggiamento della società “maggioritaria” nei confronti dei gruppi marginali.
Nel caso di società intolleranti poste di fronte alle loro “marginalità” interne, la risposta è la reclusione fisica di queste marginalità. Le società “tolleranti”, invece, sono per definizione portate a tollerare le alterità, ma soltanto fino a quando esse non si esprimono su questioni che riguardano l'intero mondo sociale in cui sono inserite; nel momento in cui questo accade, le società tolleranti - non disposte a tollerare che la marginalità si esprima attraverso il proprio punto di vista sulla globalità sociale – stabiliscono a loro volta dei confini di pensiero e di azione in cui incasellare quelle differenze. Nella società che in un'altra Lettera luterana Pasolini definisce nata dalla “seconda rivoluzione industriale”, ossia la rivoluzione consumistica del capitale mondiale, si assiste a una moltiplicazione di simili recinti invisibili, che delimitano terreni di pratica e discorso in cui tenere a bada l'alterità. La risposta multiculturalista alla differenza culturale sembra perpetuare questo modello1.

Uno degli effetti più evidenti della globalizzazione dell'economia e del pensiero è la proliferazione delle differenze culturali. La creazione di barriere identitarie, la definizione di appartenenze, la riscoperta e molto spesso l'invenzione di tradizioni culturali sono fenomeni all'ordine del giorno in quasi ogni luogo del pianeta. Le idee di tradizione2, nostalgia3, bene architettonico e culturale4 circolano a livello globale e funzionano in determinati campi5 dell'esperienza umana; i gruppi e gli individui che vivono, lavorano e agiscono in questi campi sono protagonisti di dinamiche contemporanee quali “il prodursi e il riprodursi di forme reificate della differenza culturale, all'interno dei processi di espansione egemonica di una gerarchia globale di valori (…); la forza dei processi di de-localizzazione della produzione, di circolazione globale di donne, uomini, idee e informazioni e di ri-definizione immaginaria di luoghi e appartenenze (…); il frammentarsi dei discorsi universalisti e delle pratiche disciplinari della modernità (…). Questo quadro (…) costituisce lo sfondo politico-culturale globale sul quale si muovono le diverse forme di oggettivazione culturale di identità e appartenenze”6.
La chiara definizione di oggetti in cui i gruppi umani possano riconoscere incorporate la propria appartenenza identitaria e il proprio sentimento etnico porta all'enfatizzazione di tradizioni architettoniche (le architetture vernacolari), modalità musicali (la world music), specialità gastronomiche (la cucina etnica), “tipicità” nell'organizzazione familiare e sociale (l'organizzazione tribale, il clan), eccetera. La trasformazione di questi campi dell'esperienza umana in cose, oggetti su cui è possibile posare lo sguardo, che è possibile toccare e gustare, la loro oggettivazione7, è possibile solo a patto di eliminare le articolazioni e i conflitti interni ad essi e di reificare (ossia rendere cose) gli stessi attori sociali, uomini e donne che agiscono quotidianamente all'interno di quei campi. Una volta oggettivati, trasformati in cose, attori sociali e peculiarità culturali possono essere sottoposti al passaggio successivo, ossia la loro mercificazione; trasformate in merci e immesse nel mercato delle differenze culturali, le persone e le loro appartenenze sono pronte a contribuire alla perpetuazione delle dinamiche del capitale e del suo mercato globale.
Posta in questi termini, la questione appare un po' generica; c'è bisogno quindi di indagare quali istituzioni o quali gruppi di potere o quali potentati economici traggano beneficio o dirigano tali processi di oggettivazione e mercificazione. Una risposta univoca corre il rischio di creare altre oggettivazioni (il capitale, il mercato) che riescono poco o punto a spiegare la complessità dei fenomeni indagati. Esporrò quindi un caso specifico di un campo, quello della patrimonializzazione dei beni culturali, e di un luogo specifico, la capitale della Siria, Damasco, in cui quelle dinamiche sono all'opera.

2. L'Unesco e la trasformazione di prodotti del lavoro sociale in beni culturali e poi in merci

Il principale attore istituzionale su scala planetaria della patrimonializzazione dei prodotti architettonici, monumentali e territoriali è l'UNESCO.
Edifici, monumenti, siti urbani e rurali sono prodotti del lavoro sociale; la loro oggettivazione e trasformazione in “beni” culturali richiede la cancellazione delle tracce di quel lavoro e delle articolazioni interne, conflittualità, materialità e tempi proprie dei processi di produzione: da prodotti del lavoro sociale, tramite il processo di patrimonializzazione edifici, monumenti e siti sono trasformati in creazioni del genio umano. L'obiettivo cui l'UNESCO contribuisce insieme ad altre organizzazioni internazionali è infatti quello di costruire una ideale comunità umana fondata su “beni (monumenti, gruppi di costruzioni, siti, o tratti naturali, formazioni geologiche o fisiologiche e siti naturali) che siano giudicati espressione di un dichiarato valore universale”8; i beni vengono inseriti nello spazio globale immaginario della World Heritage List (WHL), in cui ogni singolo “bene” è un'icona patrimoniale, idealmente paritetica, delle capacità creative dell'umanità.

La trasformazione di questi beni in merci in genere non suscita particolare scalpore nell'opinione pubblica, salvo nei momenti in cui prende il sopravvento la gestione malavitosa del mercato dei beni culturali, come è successo in occasione del saccheggio del museo di Baghdad ad opera di gruppi di ladri professionisti prima, e della folla inferocita contro il regime di Saddam dopo. Qualche mese dopo i mass media hanno enfatizzato lo scandalo della vendita su scala mondiale degli oggetti archeologici mesopotamici, provenienti da quel museo, soprattutto per mezzo del mercato virtuale di eBay.
Fatti i dovuti distinguo, il principio di mercificazione degli oggetti “culturali” informa anche lo spirito e l'attività della Patrimonio dello Stato S.p.a., istituita ad opera dell'ex ministro Urbani nel 2002. Sul sito web di questa istituzione si legge che “l'Italia ha un patrimonio - reale e finanziario - di straordinarie dimensioni. Attraverso una sua gestione dinamica, non solo la finanza pubblica ma l'intero sistema economico nazionale possono ottenere notevoli guadagni”.
Il “patrimonio reale” dello stato è quindi una risorsa che il gestore (cioè il ministro dell'economia, che nomina e controlla l'amministratore delegato della Patrimonio Spa) può trasformare in denaro. Tra gli obiettivi esposti nella missione della Patrimonio S.p.a., infatti, ci sono “l'individuazione di procedure di alienazione di beni, anche attraverso fondi comuni di investimento immobiliare e operazioni di cartolarizzazione; la valorizzazione, la gestione e l'alienazione-acquisizione del patrimonio di altri soggetti pubblici; l'acquisizione e la cessione di beni di terzi funzionali al raggiungimento dello scopo sociale”.
Ancora, dal sito internet della Patrimonio S.p.a. apprendiamo che “l'attività di valorizzazione e dismissione di Patrimonio S.p.a. si esplica essenzialmente mediante operazioni di collocamento sul mercato di immobili pubblici precedentemente trasferiti alla Società. (…) Il collocamento avviene mediante asta. (…) Gli immobili che restano invenduti all'asta sono messi in vendita tramite procedura a trattativa privata”.
Escludendo simili casi di delinquenza (Iraq) ed estremismo liberista (Italia), la trasformazione di oggetti, spazi, monumenti, edifici in “beni” e la patrimonializzazione di tali beni rispondono a una logica sottilmente diversa dalla pura mercificazione. La designazione di un determinato oggetto per l'inserimento nella WHL dell'UNESCO non dipende – ovviamente - dal valore di scambio di quell'oggetto, ma da altri tipi di valore: l'oggetto in questione deve essere espressione della località dove è stato prodotto e contemporaneamente deve essere espressione delle capacità creative dello spirito umano inteso globalmente.
I “quartieri antichi” di Damasco sono stati inseriti nella WHL nel 1978; nella relazione preparata dagli specialisti dell'UNESCO si parlava della rarità e del valore storico delle antichità damascene. Come è accaduto in altri siti su scala planetaria, il riconoscimento delle caratteristiche e qualità necessarie per entrare a far parte della World Heritage List ha dato luogo a processi di riqualificazione dell'ambiente edificato. Il fenomeno della riqualificazione appare come uno dei campi in cui si intersecano flussi di idee, capitali, tecniche e persone che caratterizzano l'età della globalizzazione economica9.

3. Damasco, il suo centro storico, la riqualificazione urbana, il flusso di investimenti

La concentrazione nella città di Damasco di importanti sedi del settore terziario e dell'apparato burocratico statale, la progressiva liberalizzazione dell'economia e i recenti significativi eventi legati a questo fenomeno – tra i quali il proliferare di banche private e agenzie di credito -, lo sviluppo dell'industria turistica, delle comunicazioni e del settore edile sono tra i fattori che determinano nella capitale della Repubblica Araba Siriana importanti interventi di riqualificazione dell'ambiente edificato nei quartieri centrali. Per certe sue caratteristiche - centralità, rilevanza storica, evoluzione sociale e architettonica, presenza di amenità culturali, evidenza topografica e immaginativa - il centro storico è una delle aree maggiormente interessate al fenomeno della riqualificazione.
Il riconoscimento dell'UNESCO è stato uno degli eventi che hanno stimolato il “ritorno” al centro storico di gruppi dai redditi medio-alti. In un'arena socio-politica fortemente influenzata dalla liberalizzazione economica, avviata in Siria alla fine degli anni Ottanta, il “ritorno” si configurava come un flusso di investimenti in direzione di quest'area urbana.
In generale in Siria, come in altri paesi mediorientali per cause diverse (soprattutto la ricostruzione post-bellica in Libano e Iraq) sono cresciuti enormemente gli investimenti nel settore edile; politiche bancarie ad hoc, come il dimezzamento dei tassi di interesse (8%–4%), hanno indotto molti creditori a investire negli immobili. Tra la seconda metà del 2003 e la prima metà del 2004 i prezzi degli immobili sono cresciuti significativamente; secondo alcuni analisti, l'investimento in questo settore indica l'intenzione degli investitori di evitare settori più rischiosi; tale intenzione è comprensibile se si considera che il settore industriale è in costante declino, in particolare dal 2000, e che il commercio estero è stato fortemente penalizzato dalle sanzioni imposte dall'amministrazione statunitense, che hanno proibito o inibito gran parte dei rapporti commerciali tra i due Paesi (sebbene sia stata bandita dall'amministrazione Bush solo l'esportazione di prodotti statunitensi verso la Siria, e non il movimento opposto).
Il settore commerciale è stato penalizzato molto gravemente anche dai disordini avvenuti in Libano dopo l'assassinio dell'ex premier Rafiq al-Hariri, e dal conseguente rimpatrio di centinaia di famiglie siriane dal paese confinante. Inoltre la guerra in Iraq e la seguente invasione del paese hanno privato la Siria di un altro importante partner commerciale regionale. L'instabilità politica dell'Iraq ha indotto molti investitori irakeni e di altri paesi arabi, soprattutto del Golfo, a spostare i propri capitali nel mercato siriano, investendone una parte cospicua nell'edilizia.
All'interno del settore edile, un ambito particolarmente proficuo è quello della riqualificazione. Gli investimenti nella riqualificazione delle aree antiche e la “domanda” di immobili in queste aree sono aumentati perché il governo siriano, in seguito al riconoscimento dell'UNESCO, ha promosso il settore turistico-culturale, investendo nel restauro di monumenti e facilitando l'apertura di ristoranti e caffé nel centro storico; una nuova legge in materia ha eliminato l'obbligo della partecipazione statale negli investimenti turistici, e di conseguenza diversi gruppi stranieri hanno investito nelle strutture turistiche in Siria.
Molti lavoratori dei servizi alle aziende (servizi informatici, legali, finanziari, mediatici e architettonici) investono negli immobili di quest'area per la possibilità di abitare vicino al luogo di lavoro, in un'area prestigiosa, in cui sviluppare particolari e soddisfacenti habitus10. Il forte sviluppo del settore terziario, dei servizi e dell'amministrazione pubblica (secondo i dati ufficiali esso rappresenta il 49,4% del prodotto interno lordo) fa in modo che gran parte delle attività produttive si concentrino nel centro della città, e così il centro storico occupa una posizione strategica per i lavoratori di questo settore.
Sul piano dell'“offerta”, la grande disponibilità di edifici svuotati nel centro storico dipende da tre fattori principali:

1) il parziale abbandono del sistema della famiglia allargata come unità abitativa; nella scelta dell'abitazione da parte delle coppie sposate, la norma in molte società mediorientali è la “patrilocalità”: i nuovi nuclei familiari abitano nella casa del padre dello sposo. Nel corso degli ultimi decenni questo sistema ha subito un forte declino, soprattutto nelle grandi città: le giovani coppie vanno per lo più ad abitare in appartamenti monofamiliari; coppie anziane si sono così trovate ad abitare in enormi case, sproporzionate rispetto alle proprie esigenze di vita; considerando l'aumento del valore immobiliare degli edifici del centro antico, molti hanno trovato conveniente venderli;

2) movimenti demografici come l'esodo degli Ebrei siriani alla fondazione di Israele e nei decenni successivi, che ha svuotato completamente il quartiere ebraico;

3) movimenti urbani, come l'abbandono (taraka) del centro storico da parte di famiglie ricche e importanti durante il corso del Novecento, quando la modernizzazione della società e dell'economia, ad opera prima – timidamente - dell'impero ottomano e poi dell'amministrazione mandataria francese, fece percepire il centro storico come un'area di marginalità, degrado e miseria.

4. La casa araba, la produzione di luoghi elitari, la mercificazione degli oggetti architettonici, le nuove forma di marginalità

Il prepotente ingresso di investitori privati nel settore della riqualificazione urbana trasforma l'oggetto spaziale (già trasformato in “bene culturale” dall'UNESCO e oggettivato in un'entità chiamata “casa araba”) in una merce utilizzabile per creare un plusvalore.
In assenza di una opposizione democratica organizzata, la possibilità di contrastare questa mercificazione dipende dalla sensibilità dei singoli uffici amministrativi nel tentare di sottrarre determinati edifici al mercato immobiliare; gran parte della gente che abita nella città antica dalla metà del Novecento, dai redditi bassi e dallo scarso potere d'acquisto, non ha la possibilità di contrastare una simile dinamica e trova anzi conveniente vendere le proprietà ai “nuovi arrivati”; la contropartita degli investimenti delle classi medio-alte in questo settore è quindi l'esodo dei precedenti abitanti che non dispongono dei “capitali specifici”11 (in denaro, conoscenze, educazione) necessari per la riqualificazione e la manutenzione delle loro dimore.
Inoltre l'ingresso nei quartieri antichi dei nuovi gruppi con più forte potere d'acquisto fa crescere i costi degli affitti, molto contenuti fino a qualche anno fa: la presenza di una sorta di equo canone faceva sì che un appartamento costituito da alcune stanze nelle grandi “case arabe” costasse poche centinaia di lire siriane (dalle cento alle duecento, ovvero dai due ai quattro euro) al mese. Con l'ascesa al potere di Beshar al-Asad le garanzie offerte dallo stato sociale sono state ridotte, seguendo un progressivo percorso di liberalizzazione economica iniziato sin dagli anni Ottanta, durante la presidenza di Hafez al-Asad, quando furono ridotte le costrizioni al settore privato nella prospettiva di una piena integrazione nel mercato capitalistico mondiale12.
La produzione di un luogo elitario attraverso la logica della mercificazione degli oggetti architettonici ha dunque l'effetto immediato di dar vita a nuove forme di marginalità. Coloro che si trovano deterritorializzati dal processo di mercificazione della città antica, i protagonisti dell'esodo da quest'area, sviluppano forme di disagio legate al fatto di trovarsi privati del loro ambiente familiare e ricollocati in aree nelle quali non possono ricreare i legami di vicinato, di solidarietà e di familiarità allargata che informavano in precedenza la loro esistenza.
Difficilmente si trova traccia di simili contraddizioni ed “effetti collaterali” nei discorsi che oggettivano l'antichità, la tipicità e le forme urbane tradizionali nei luoghi scelti per diventare patrimonio dell'umanità.

5. Pasolini, il degrado di Sana'a, gli interessi della Banca Mondiale

Nel 1970 Pasolini si recò nello Yemen per girare un episodio del Decameron. Inorridito dallo spettacolo del degrado della città antica di Sana'a, all'epoca capitale dello Yemen del nord e attualmente capitale dello Yemen unito, espresse una lirica richiesta di intervento all'UNESCO per la salvaguardia di quel sito.
Pur senza nominarle, Pasolini attribuì la responsabilità del degrado delle città medioevali in Medio Oriente alle forze che, dopo aver colonizzato (o sottoposto a mandato, o a protettorato) quelle aree, una volta sancita l'indipendenza dei paesi post-coloniali, continuavano a tenerli sotto scacco con le nuove forme di dipendenza capitalistica. Dopo che gli eserciti e gli apparati burocratici delle potenze europee avevano abbandonato le colonie, nei nuovi stati indipendenti erano rimasti modelli di sviluppo estranei al contesto storico-sociale, o erano subentrati modelli neocapitalistici o socialisti, che prevedevano, ad esempio, l'adozione delle tecnologie “occidentali” e comportavano uno sviluppo urbano irriguardoso delle vestigia architettoniche del passato. Corsaro, “luterano”, restio a frenare il proprio impeto di fronte a possibili contraddizioni e a sottoporre a un'analisi critica il proprio ruolo in quanto espressione del superiore potere/sapere13 dei paesi ex-colonizzatori rispetto ai paesi ex-colonie14, Pasolini sperò che le “mortali nostalgie per le condizioni di vita anteriori”15 inducessero “chi è al potere” a considerare quelle vestigia “un bene culturale passibile di diventare anche bene economico”: “si tratta di città, turisticamente, di valore enorme”16.
Nel 1986 l'UNESCO ha iscritto la città antica di Sana'a nella WHL17, giustificando la decisione attraverso le osservazioni che la città “offre un (…) esempio (…) dell'organizzazione dello spazio caratteristica dei primi secoli dell'Islam (…): Sana'a è direttamente e tangibilmente associata alla storia della diffusione dell'Islam”; inoltre le sue case “sono un (…) esempio di un unico stanziamento umano tradizionale” (corsivi miei)18.
Si oggettivano così tipicità, storia, tradizione. Il sito, notavano gli specialisti dell'ICOMOS, correva gravi pericoli legati al sovrappopolamento e alla speculazione edilizia. La straordinaria entità delle migrazioni regionali in Medio Oriente19 fa sì che estesi gruppi di migranti spesso preferiscano alle baraccopoli periferiche gli edifici abbandonati nei siti storici centrali. L'affitto di questi edifici diviene un affare per speculatori che alimentano mercati di “lottizzazione pirata” difficilmente controllabili dalle autorità20. Contro queste speculazioni - e, implicitamente, contro questi residenti - si espresse l'ICOMOS nel 1985. Il fatto che oggi il principale ente finanziatore della salvaguardia e riqualificazione del sito sia la Banca Mondiale fa temere che la patrimonializzazione che dovrebbe salvaguardare Sana'a non si discosti qualitativamente dalla speculazione che la minacciava negli anni Ottanta.



Bibliografia
A. APPADURAI, Modernità in polvere, Roma, Meltemi, 2001.
M. BETTINI (a cura di), Lo straniero ovvero l'identità culturale a confronto, Roma-Bari, Laterza, 1992.
W. CUNNINGHAM BISSELL, Engaging colonial nostalgia, in “Cultural Anthropology” 20,2 My 2005, 215-248.
P. BOURDIEU, Per una teoria della pratica, Milano, Cortina, 2003.
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1 Wieviorka 1996 e 2003.
2 Clifford 2002, Fischer 1997, Palumbo 2003.
3 Cunningham Bissell 2005, Bettini 1992, Herzfeld 1991, Luz 2006 n.p.
4 Palumbo 2006, Poulot 2006, Herzfeld 2006 e 1991, Maffi 2006.
5 Per la definizione di “campo” Bourdieu 1992.
6 Palumbo 2006, p. 78.
7 Sull'oggettivazione dell'esperienza umana cfr. Bourdieu 1992; sull'oggettivazione della differenza culturale cfr. Palumbo 2003 e 2006, Herzfeld 1991.
8 Palumbo 2006, p. 344.
9 Hanner  2002, Appadurai 1996, Harvey 1993.
10 Secondo Pierre Bourdieu (2003) gli habitus sono sistemi di disposizioni che generano pratiche, azioni, pensieri, percezioni, discorsi, espressioni e rappresentazioni della gente, che sembrano regolarità culturali; ma le pratiche quotidiane, i discorsi e le rappresentazioni della gente sono improvvisazioni prodotte e regolate dagli habitus; i limiti di un particolare habitus sono fissati dalle condizioni materiali, storico-sociali e di classe che lo producono. Le pratiche generate dall'habitus a loro volta riproducono quelle condizioni oggettive.
11 Bourdieu 1992.
12 Hinnebusch 2001. Negli anni Novanta nuove leggi sugli investimenti hanno consentito l'investimento privato nell'industria, hanno soppresso le tasse di importazione, hanno permesso agli investitori di importare valuta pregiata al di fuori dei canali statali e hanno abbattuto i tassi delle imposte sul reddito. Nel 2004 sono state aperte le prime banche private. Gli effetti positivi che si sperava di ottenere da tali iniziative tardano a manifestarsi: l'industria è rimasta esclusa dai nuovi investimenti, che si sono concentrati esclusivamente nel settore terziario e segnatamente nel turismo; l'edilizia, come abbiamo visto, è diventata uno dei settori preferiti per l'investimento privato.
13 Foucault 1993.
14 Said 2006.
15 Pasolini, dal commento al documentario Le mura di Sana‘a, 1970.
16 Ibidem
17 Nel 1988 il direttore del progetto di salvaguardia della città, Abdulrahman Al-Haddadsi si è espresso in questi termini: “Dobbiamo tutto a Pasolini, che ha messo in moto la solidarietà internazionale sul problema della salvaguardia della nostra città” (www.pasolini.net).
18 ICOMOS (International Council of Monuments and Sites) 1985; si tratta dell'organizzazione internazionale cui l'UNESCO affida materialmente la selezione dei siti da iscrivere alla WHL.
19 Fargues 2006.
20 Davis 2006, p. 41.


Fonte:
http://digilander.libero.it/lepassionidisinistra/n_14/pasolini.htm

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Vestito dei Nomi Segreti di Dio. Pasolini tra Parola e Immagine

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Vestito dei Nomi Segreti di Dio. Pasolini tra Parola e Immagine


di Mimmo De Ceglia

Esiste un'antica credenza ebraica, risalente ad un'epoca precedente quella talmudica, sulla possibilità di vestirsi concretamente col nome di Dio.
Nel Libro degli Abiti si legge come i nomi segreti di Dio fossero scritti su un pezzo di pergamena che in seguito sarebbe stato trasformato in abito. Il mysticon doveva compiere un digiuno di sette giorni e astenersi dal contatto con ogni forma d'impurità; poi, avrebbe dovuto immergersi con l'abito in una vasca d'acqua pura fino ai bordi dell'orlo del vestito recante i Nomi. A quel punto, dice il Libro, sarebbe stato possibile “vedere Dio”. Ma l'abito testuale non era sufficiente: era necessario l'ausilio di una superficie riflettente, in quel caso la vasca d'acqua; l'incontro delle lettere con il loro doppio invertito rendeva possibile la visione della Totalità.
Ancora secondo i rituali giudaici, la non problematicità del segno che ha un rapporto speculare con l'ordine della realtà, con il Logos di cui Dio stesso costituisce la testimonianza e la garanzia di esistenza, si manifesta anche nel rito della circoncisione; secondo le interpretazioni cabaliste medievali si tratterebbe infatti di trasformare il membro maschile nella lettera Yod (Y), la prima lettera del Tetragrammaton.
Tali testimonianze descrivono quanto nella cultura ebraica il segno fosse direttamente connesso alla cosa significata fino al punto di evocarla e addirittura materializzarla.
Sono a tutti familiari le espressioni evangeliche “E in principio fu il Verbo”, presente nel Vangelo di Giovanni, o “Il Verbo si fece carne”, tutte a significare un'idea di massima approssimazione se non di assoluta coincidenza tra il Verbo, la “Parola”, il Logos ordinatore del mondo e la “carne”, la materia, il mondo degli oggetti della Realtà che attraverso i Nomi acquistavano un senso ed una ragione d'essere.
E' a tutti noto il compito che nella Genesi è affidato ad Adamo ed Eva da Dio, ovvero quello di dare il Nome alle cose. E a questa fiducia nella possibilità del segno di dire le cose senza travisare l'idea d'ordine che Dio stesso, secondo tali credenze, aveva infuso in tutti i regni del creato, non sono estranee neanche le tradizioni pagane.
In una antica preghiera riportata da Catone il Censore nel De agri cultura, il fascinus verborum, la sonorità ottenuta grazie a calcolate successioni di allitterazioni e omoteleuti, altro fine non aveva che quello di incatenare la divinità all'ascolto per renderla docile esecutrice delle richieste inoltrate.
Pasolini era ben consapevole della fine del primato del Verbo e della sua capacità rischiaratrice della Realtà; era cosciente dell'“inadeguatezza” della tradizione classica, letteraria e poetica dinanzi ad una modernità malata di pragmatismo e celerità. E la sua grandezza è stata proprio nel non essersi rinchiuso in una fortezza di cartapesta a coltivare ideali ed emblemi di un mondo decaduto, ma nel rispondere alle sfide della modernità negli stessi termini che la modernità poneva, quasi come a voler utilizzare, per opporsi costruttivamente ad essa, le energie e gli sbilanciamenti della stessa.
Da dilettante si è così accostato al Cinema, un'arte per quell'epoca nuovissima che solo trent'anni prima era oggetto di accese dispute riguardanti il suo valore, il suo statuto e le deformazioni dell'idea di canone artistico che, come nuovo mezzo d'espressione, comportava.
Il Cinema riusciva a rappresentare un oggetto inaudito che le altre sei arti si erano trovate dinanzi a seguito dell'esplodere della modernità: il movimento del Reale.
Prima dell'Età Moderna, il Reale aveva un movimento, ma questo era dato quasi da un'imperfezione dovuta alla lontananza della Terra dal Primo Motore Immobile, ovvero da Dio. Dopo Copernico e la Prima Rivoluzione Industriale, il movimento del Reale non è più accettato come negazione dell'“ordine” e dell'“immobilità” di Dio, ma diviene ontologicamente costitutivo di ogni ambito della Realtà. E a tal punto da porre Pasolini stesso nella condizione di proclamare la coincidenza assoluta tra la Realtà e il Cinema, immediata espressione di quell'azione, di quel movimento attraverso cui la Realtà stessa si esprimeva.
Difendendo questa sua convinzione, Pasolini entrò in “singolar tenzone” con Umberto Eco, negli stessi termini strutturalisti che il suo “avversario”, Eco appunto, poneva; senza mai ammettere la parzialità delle sue teorie sul Cinema, Pasolini affondò sempre più il suo tiro, fino a costruire attorno alla settima arte, attorno al Cinema, un universo teorico e poetico che credo non abbia eguali in nessun altro autore.
La Parola si era abbassata ormai al rango del linguaggio delle infrastrutture, della demagogia politica, della retorica accademica, della comunicazione di massa. La Parola giustificava le guerre di aggressione, la supremazia di una razza su di un'altra, le politiche economiche inique, la prassi del potere.
La poesia era ignorata; la letteratura, trasformata e adeguatasi ai nuovi tempi, era diventata altra da se stessa.
Pasolini giunge a fare Cinema, non solo perché intuisce il ruolo e l'importanza che l'Immagine andava assumendo nella nuova società moderna, ma anche perché era un uomo d'azione; e il suo intento era quello di riappropriarsi della Realtà e del movimento che continuamente la trasformava, rendendo ogni parola, ogni segno, ogni significante usato per dirla, definirla o significarla, sempre parziale e inadeguato.
Pasolini, come nell'antica credenza ebraica precedente la tradizione talmudica, volle vestirsi dell'abito recante i Nomi segreti di Dio per riappropriarsi, come nel passato, attraverso i segni posti direttamente sul corpo, dell'essenza stessa di Dio, per vederlo e vivere in lui, di nuovo e ancora una volta, come nel passato, il Sacro.
Voleva fare del significante, “Immagine segnica” della cosa, un significato, l'“Immagine concettuale” della cosa o, addirittura, portando fino agli estremi esiti il suo pensiero, la cosa stessa. E non è un caso che nel corso di una performance di body-art si sia fatto proiettare sul corpo il film Il Vangelo secondo Matteo, quasi a voler riappropriarsi, attraverso la sua stessa carne, del Verbo, della Parola di Dio che aveva smesso ormai di farsi carne, di materializzarsi nella vita degli uomini.
E la questione da sacra, mutò in linguistica, da mistica in logica, da metafisica e ontologica divenne fisica e gnoseologica, da antica, ancestrale e archetipica, si fece moderna, inaudita, atipica.
E non è un caso che in molti punti della seconda parte di Empirismo Eretico egli faccia riferimento, per spiegare le sue teorie semiologiche, a simbologie tradizionalmente cristiane. Parlando del segno, per esempio, fa riferimento alla natura “una e trina” di esso, ovvero al suo essere segno e nello stesso tempo “grafema”, “fonema” e “cinèma”: parola, suono, immagine, componenti inscindibili, misteriosamente unitarie.
Ogni arte, però, privilegia uno di questi aspetti del segno e lo fa proprio. E non solo. Anche all'interno del “Regno della Parola” per eccellenza, anche in letteratura, ci sono ambiti che privilegiano al “grafema” il “fonema”, se non addirittura il “cinèma”.
Nella poesia simbolista, per esempio, e Pasolini fa riferimento ad Ungaretti, il senso è dato, oltre che dalle parole del testo - i grafemi -, anche dalla loro musicalità e sonorità.
Ed è attraverso la ricezione dell'opera che il lettore compie quest'atto creativo di trasformazione dei segni grafici in segni fonetici.
Allo stesso modo, la sceneggiatura si configura come quel luogo, quella “struttura” i cui segni grafici “vogliono essere un'altra struttura”, vogliono essere “cinèma”, Immagine. E non solo. Figlio del suo tempo, per quanto figlio ribelle, Pasolini privilegia a tal punto l'ambito del “cinèma”, da ritrovare in esso l' “Ur-codice”, il codice alla base di tutti i codici, di cui Eco, nel saggio La struttura assente, nega l'esistenza.
Per Pasolini l'ambito del “cinèma”, il “Regno dell'Immagine” per eccellenza, il Cinema, è il dominio della stessa Realtà che come il Cinema, immediatamente, nell'azione, nella vita, si esprime.
Vivendo, dunque, noi ci rappresentiamo, e assistiamo alla rappresentazione altrui. La realtà del mondo umano non è che questa rappresentazione doppia, in cui siamo attori e insieme spettatori.
Il “linguaggio dell'azione umana”, quello mimico e gestuale, prima di quello “scritto-parlato”, è il primo linguaggio degli uomini.
Ed è sempre il lettore, mai passivo ricettore ma, brechtianamente, completatore dell'opera mediante la propria azione nella Realtà, colui al quale è affidato l'arduo compito di portare la sceneggiatura, la “struttura A”, “a tendere” ad essere il film, la “struttura B”, senza mai completare il movimento, senza mai realizzarlo, sempre configurando l'opera come “opera da farsi”.
A Pasolini, infatti, non interessava la nozione di “struttura-langue”, ma il “processo”, il “mentre del movimento”, il “dinamismo della forma” insito nella sceneggiatura, nell'“opera da farsi”: la “struttura-parole”. E questo non per una ragione puramente estetica o letteraria, ma per ragioni profondamente etiche e democratiche connesse alla partecipazione di tutti, autori e spettatori, alla creazione non solo dell'opera, ma della stessa società.
Fonte:
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L’urto dell’immagine, ovvero Appunti per una performance multimediale su Appunti per un Poema sul Terzo Mondo di Pier Paolo Pasolini

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L’urto dell’immagine, 

ovvero Appunti per una performance multimediale su Appunti per un Poema sul Terzo Mondo 

di Pier Paolo Pasolini

di Mimmo de Ceglia

Il progetto L'Urto dell'Immagine ha come tema principale la dialettica tra la parola e l'immagine in Pier Paolo Pasolini.
Abbiamo voluto creare uno spettacolo multimediale che mescolasse musica, parole e immagini riutilizzando in chiave parodistica quegli elementi mass-mediatici che lo stesso Pasolini, seppur criticava, non disdegnava di adoperare al fine di rendere persuasivo il suo messaggio poetico ed umano.
I caratteri innovativi del progetto, a livello formale, sono:
- il ricorso ad elementi tecnologici quali video-proiezioni di spaccati dei film dell'autore e non;
- la re-citazione a più voci dei suoi testi poetici e non;
- il ricorso ai corpi e alla voce la cui pronunzia non è mai disgiunta dal corpo che la produce;
- il canto di liriche dall'indubbia qualità ritmica.
Il Gruppo Teatrale della Casa dei Popoli ha già realizzato diversi spettacoli teatrali e reading, e numerose sono le esperienze individuali dei singoli membri: registiche, attoriali, musicali, laboratoriali.
Abbiamo discusso a lungo, e poi abbiamo attivato un laboratorio teatrale coordinato da Salvatore Marci, occhio esterno e demiurgo.
Necessario e condizione sine qua non, il finanziamento ricevuto attraverso il patrocinio della Regione Puglia.
Importante l'appoggio incondizionato di Onofrio Pappagallo, Presidente dell'Associazione Casa dei Popoli; molte le suggestioni provenienti dall'indiscussa esperienza registica e attoriale di Ninnì Vernola; costruttivi gli interventi di Mimmo de Ceglia, film-maker organizzatore del materiale video, decostruttivi quelli dell'architetto Rino De Pietro; imprescindibili i suggerimenti di ognuno di noi, singoli attori professionisti e non, tutti intenti nel lavoro di completatori dell'opera; necessarie le proposte dei testi di Alberto Altamura, essenziali le presenze dei corpi in scena e delle voci di Pasqua de Candia, Rosangela Zanna, Giulio Bufo, Camilla Petruzzella, Eleonora Adesso, Angela Colonna, Maria Filograsso.
Di particolare importanza si è mostrata la collaborazione con la rivista le passioni di sinistra, da tempo impegnata in un'azione rischiaratrice di temi e problemi globali connessi alle emergenze del mondo attuale, e in continuità con il percorso iniziato insieme alla Casa dei Popoli in occasione della manifestazione Un rosso straccio di speranza, dedicata nel 2005 alla commemorazione del trentennale della morte di Pasolini.
Nel solco del dualismo tra la parola e l'immagine, dualismo mai risolto e capace di creare la giusta differenza di potenziale nel mezzo della quale si realizza la nozione di “processo” e il dinamismo mai concluso dell'“opera da farsi”, abbiamo tentato di realizzare questo spettacolo come lettori, spettatori o, come Pasolini avrebbe detto, “completatori dell'opera”.
Per far questo ci siamo riferiti ad un soggetto mai realizzato dello stesso autore, proposto in sede laboratoriale da Alberto Altamura.
Il soggetto è presente in Appunti per un poema sul Terzo Mondo ed è quello relativo alla Guerra dei Sei Giorni e alla questione arabo-israeliana.
In particolare, tale soggetto ci è parso il più evocativo rispetto al dualismo tra parola e immagine, incarnato sulla scena dai due personaggi, Assi Dayan e Ahmed.
Il primo, israeliano e colto, secondo quanto Pasolini ha scritto, parla, enumera le ragioni ineccepibili del sionismo e del nazionalismo israeliano; l'altro, Ahmed, “non parla, perché è un giovane analfabeta, innocente e inconsapevole”.
Il primo rappresenta il mondo dominante e la preminenza della parola, delle sovrastrutture, della retorica nazionalista, della demagogia politica. Il secondo rappresenta i dominati e la preminenza del corpo e dei suoi bisogni primari, del linguaggio dell'azione e della vita.
Il primo, Assi Dayan, predilige la lingua scritto-parlata; il secondo, Ahmed, quella dell'immediatezza dell'espressione gestuale che è, senza mediazioni concettuali, filosofiche, psicologiche, politiche, direttamente Cinema, Realtà.
Ma, “le ragioni che parlando darà Dayan e le ragioni che in inconsapevole silenzio darà Ahmed, saranno equivalenti. Non ci potrà essere scelta tra le due”.
Ecco ancora il “movimento che non procede”, il dinamismo della realtà di cui Pasolini era cosciente e che si poteva bloccare unicamente mediante la morte, la definizione linguistica insita nel montaggio e che noi, spettatori viviamo “nel mentre”, senza aspettarci un esito, senza dare risposte, rimanendo desti a porre le giuste domande, quelle del nostro autore e quelle nostre, in bilico per non morire, con la “passione delle viscere”, per restare in azione, per essere vivi.

Fonte:
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Un manifesto sbagliato / Una performance sbagliata

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Un manifesto sbagliato / Una performance sbagliata

di Salvatore Marci

La mistificazione è leggerezza.
La sincerità è pesante e volgare:
con essa è la vita che vince.
Deve vincere, invece, la giovinezza, e di effrazioni insolenti e graziose – e pazienti:
perché pazienti sono i giovani, non i vecchi.
Torni il falsetto.
Tutto ciò mi è suggerito dalla grazia degli Eritrei.
Pier Paolo Pasolini

Il 31 maggio 1975, a Bologna, Pier Paolo Pasolini partecipa come attore a una performance di body art dell'artista Fabio Mauri. Una performance consistente nella proiezione di alcune sequenze del Vangelo secondo Matteo sul petto di Pasolini.
“La camicia bianca indossata da Pasolini, seduto su un alto sedile, costituiva il punto più espanso dello schermo umano. Il volume del sonoro, mantenuto troppo alto rispetto alla dimensione ridotta dell'immagine proiettata sul regista, aumentava il disorientamento esercitato dall'azione sia sul pubblico che, soprattutto, sullo stesso Pasolini. Il regista, che nel corso della proiezione aveva assunto un'espressione sofferente, disse di non essere riuscito a seguire il film proprio a causa dello scollamento tra le immagini e la colonna sonora così alta”.1
Accettando il ruolo di attore nell'esperimento di body art di Mauri, Pasolini dà pienamente corpo alla propria poesia, unendo per una strana alchimia la realtà della sua persona, il cinema proiettato e il teatro della messa in scena, che lo porta a essere per la prima volta presenza concreta su un palcoscenico di fronte a un pubblico. Ma, oltre a questo aspetto prevalentemente simbolico ve n'è un altro decisamente più interessante, che riguarda il disagio di Pasolini sulla scena: qui sta inevitabilmente la sua sofferenza, quella di un martire di sé che diventa o-sceno, c'è lo scandalo vivente del corpo politico di Pasolini che si incarna nel proprio corpo fisico.
Questo “oltraggio”, che Carmelo Bene chiamerebbe Scrittura Scenica, si libera del “teatro del già detto” e di conseguenza “già fatto”, ossia del testo a monte, per un più in-sano “teatro del dire e del fare”: - Si è gia pensato a monte e questo va bene, ma ora sulla scena bisogna depensare, giocare e non negare l'intervento e l'arbitrio dell'attore -, come Pasolini afferma nel suo Manifesto per un nuovo teatro quasi otto anni prima della performance di Bologna.
“[L'attore del teatro di Parola] dovrà rendersi trasparente sul pensiero: e sarà tanto più bravo quanto più, sentendolo dire il testo, lo spettatore capirà che egli ha capito2.
Se si nega l'attrito che c'è tra l'attore e il testo – che non può non presentarsi e che neanche il regista può dimenticare – si nega la possibilità del teatro.
Se l'attore diventa il testo non può funzionare, a teatro se noi non sentiamo una resistenza mentre lo facciamo, non riusciamo a comunicare un'energia; e invece il presupposto è che la parola passi direttamente. Non è possibile. Un enunciato pam-pam-pam non crea una comunicazione, ti dice l'indifferenza dell'attore, non c'è niente da fare.3
Mi piacerebbe pensare che Pasolini proprio su quella sedia, avvertendo quella sofferenza di non “seguirsi” più e vivendo l'attrito tra le immagini del vangelo (il testo a monte) e la scrittura scenica dell'immediato svanire del rito teatrale, abbia davvero capito cosa possa vivere un attore nel bel mezzo della sincerità di un'azione scenica: un'azione menzognera, appunto com'è e come non può non essere l'azione scenica.
E' quel “teatro della crisi” che Carmelo Bene predicava in antitesi alla “crisi del teatro”, tanto noiosamente ciancicata dai lavoratori dello spettacolo. Il teatro per esistere va continuamente messo in crisi, il modo stesso di farlo va rimesso in gioco ogni sera. Non si può pensare di realizzare manifesti da maestrino (l'espressione è di Luca Ronconi), per dire quello che nel teatro si deve o non si deve fare. Il vero teatrante non sa mai cos'è il teatro perché è egli stesso teatro e il teatro non sa se stesso.
Il manifesto se diventasse reale sarebbe poliziotto, sarebbe di Stato, incoerentemente anti-rivoluzionario, mentre la natura del teatro, quella di morire e risorgere continuamente, non può non essere rivoluzionaria e tanto meno racchiudersi in commi e codici di borghese attendibilità.
I destinatari del nuovo teatro non saranno i borghesi che formano generalmente il pubblico teatrale: ma saranno invece i gruppi avanzati della borghesia. […] Oggettivamente, essi sono costituiti nella massima parte da quelli che si definiscono dei “progressisti di sinistra” (compresi quei cattolici che tendono a costituire in Italia una Nuova Sinistra): la minoranza di tali gruppi è formata dalle élites sopravviventi del laicismo liberale crociano e dai radicali. Naturalmente, questo elenco è, e vuole essere, schematico e terroristico.4
Di seguito Pasolini promuove i gruppi avanzati della borghesia a far da spettatori per poi riferire alle masse quello che hanno visto: il teatro per interposta persona è già la negazione del teatro, della serie: ti racconto quello che ho visto. Ma come? Facciamo dei volantini con altri commi e codicilli per rendere ancora più schematico e terroristico il pensiero che si vuol comunicare? E il teatro dov'è in tutto questo?”.
Questo non è “schematico e terroristico”, è invece una vera e propria dittatura del testo. Io sposo piuttosto il sano delirio di Antonin Artaud, che afferma con forza di essere contro ogni dittatura del testo e di darsi invece a un teatro infetto, in cui scene, costumi, musichette, magnetofoni e mimica che Pasolini tanto disprezza, hanno la stessa importanza del testo, tanto quanto un barattolo, una cantinella o il parco lampade.
Il teatro si fa con il testo e non è il testo, così come il teatro non si può fare con il teatro stesso perché si annullerebbe; così annullare il teatro per veicolare un testo annullerebbe il testo stesso, lo farebbe diventare una cosa morta senza l'incontro, l'infezione, le impurità che fanno della vita qualcosa di teatrale e, viceversa, del teatro qualcosa di vitale.
E' un teatro, questo, che non ha nulla a che fare con il teatro della chiacchiera e il teatro del gesto o dell'urlo, contro cui Pasolini giustamente si oppone, ma che con l'avvicendamento del suo teatro di parola fa comunque a cazzotti, perché il teatro vero non è mai dogmatico pur usando delle regole, ed è grazie a questo infinito attrito tra libertà e regola che il teatro riesce a essere sempre vitale.
Questa trasgressione perenne dà inevitabilmente luogo a fraintendimenti, a veri e propri travisamenti del senso, alla benedetta polemica sul senso subordinato alla sovranità del significante: la medesima trasgressione con cui lo stesso Pasolini si è inevitabilmente misurato quando ha messo in scena i suoi testi, o si è messo egli stesso in scena, e non perché il testo a monte fosse velleitario, ma perché era superficiale e sbagliata l'idea di messa in scena che lui proponeva.
Il Manifesto per un nuovo teatro, quindi, danneggia notevolmente il teatro di Pasolini perché lo rende esanime. La sua scrittura teatrale, per esempio, richiedeva sempre la voce perché seguiva un tracciato retorico: superficialmente si trattava di effusioni liriche, ma in realtà c'era una costruzione retorica che come qualsiasi retorica presupponeva la vocalità. 
Per vocalità si intende anche la trasgressione a quella specie di piattezza, di uniformità che lui predicava nel manifesto. Chiamare in causa la voce significa chiamare la voce in tutte le sue incidenze, con tanta ambiguità, equivoci, possibilità di fraintendimento. Ed è proprio questa possibilità di fraintendimento, secondo me, che ai suoi testi dà la forza e la vita.”5
Pasolini in quella performance di body art di trent'anni fa abiurò, nel suo abbandonarsi in scena, il manifesto scritto otto anni prima, e in qualche modo si riappropriò della sua voce e della sua immagine contaminandosi con gli elementi della scena, e il corpo, il suo corpo infetto, cominciò a raccontare il suo testo oltre l'esperienza letteraria a monte.
Pasolini è a tutto tondo il miglior autore italiano di teatro dopo Pirandello; è in malafede chi lo giudica velleitario in quanto appartenente alla letteratura, in buona fede chi lo rende vivo sulla scena riportandolo in gioco con l'aiuto della sacra menzogna, senza re-citarlo ma mettendolo e mettendosi in crisi ogni sera, magari usando anche il falsetto per essere veri.

* * *
Questo è un progetto che non ho mai abbandonato del tutto. Anzi, credo proprio di tenerci molto. In quale forma poi lo realizzerò ancora non lo so bene. […] Quel film dovevo girarlo in diversi paesi del Terzo Mondo […] Era quindi una sorta di documentario, di saggio. Non lo potevo concepire che in questa forma. Ma allora a chi lo avrei destinato, se non alle poche élites politicizzate che si interessano ai problemi del Terzo Mondo? Per estendere questo pubblico prevedibile, avrei dovuto fare un film ‘giornalistico'. […] È difficile trattare un argomento del genere in tutta tranquillità, sia sul piano ideologico che politico. Penso che ai marxisti ufficiali certe verità non sarebbero state del tutto gradite. Anche i contestatori a loro volta vi avrebbero trovato materia di controversia6.
(…) in ogni caso non sarà fatto come un vero e proprio film, ma come un ‘film da farsi'7.
L'evento multimediale curato dal nostro collettivo si è definito in forma di appunti man mano che all'interno del laboratorio di ricerca teatrale lavoravamo sul rapporto tra Pasolini e il Terzo Mondo.
Durante il nostro studio si è venuto fatalmente a creare un parallelo tra il modo frequente di lavorare di Pasolini - e mi riferisco a quella particolare tecnica narrativa per appunti arricchita continuamente di correzioni, sovrapposizioni, addizioni e apparenti sottrazioni come organizzazione preliminare per un'impegnativa opera futura - con quella che è la natura del laboratorio di ricerca, tale che l'abbozzo, l'appunto diventano forme concluse nel loro essere non definitive, per poi evidenziare la complessità del racconto che si andrà a mettere in scena. Una modalità dinamica per restituire senso ma soprattutto per lavorare sui significanti, inevitabili e solitari protagonisti sulla scena.
Empiricamente ci si trova a che fare con ripensamenti, incontri, scontri, fallimenti e improvvise intuizioni che man mano che la ricerca va avanti si amalgamano grazie all'alchimia tra i testi scelti, le tecniche teatrali e video, e la scrittura scenica dell'immediato svanire.
Le regole si decidono da sé, nel farsi e nel dire, mai nel già detto o nel già fatto. Il prodotto finale poi assume irrimediabilmente un tratto di unitarietà grazie a questi precetti induttivi messi in gioco.
Il testo a monte di Pier Paolo Pasolini da noi utilizzato come guida per il nostro lavoro è stato Appunti per un poema sul Terzo Mondo, in particolare il paragrafo specifico sui Paesi arabi, un abbozzo di soggetto cinematografico mai realizzato per un film da fare sulla situazione arabo-israeliana, che abbiamo trovato molto interessante.
Tutti siamo stati concordi nell'astenerci da un giudizio politico, ma abbiamo inteso l'importanza di parlarne nel momento in cui in Libano si svolgeva una vera e propria guerra e il governo italiano mandava un proprio contingente in loco. Abbiamo avvertito la necessità, nell'attuale momento storico in cui tutto tace e si fa finta di niente, persino da parte dei no-global e dei pacifisti, di riproporre lo scandalo delle parole di Pasolini, che come tutti i veri intellettuali, da Eschilo in poi, non giudica i popoli ma i governi.

Tutto questo ci ha offerto la possibilità di sostenere la tesi finale di Appunti per un poema sul Terzo Mondo, cioè di “condannare ogni nazionalismo – in qualsiasi sua forma storica – e la guerra – per qualsiasi ragione essa avvenga”.

Pasolini nel suo progetto cinematografico immagina un campo di battaglia nel deserto del Sinai, il giorno dopo la guerra dei Sei Giorni: un campo di battaglia con un esercito di morti, l'esercito arabo. Tra i cadaveri accatastati uno resuscita, Ahmed lo chiama l'autore. Pasolini ipotizza poi un'intervista a questo personaggio che farebbe interpretare ad un attore ebreo, Assi Dayan, il figlio del generale israeliano Moshe Dayan. L'intervista con il soldato arabo si sdoppia in due interviste, una con l'attore ebreo e l'altra con il personaggio arabo. Uno che parla, l'ebreo colto e cosciente, e l'altro che non parla, l'arabo analfabeta e inconsapevole. Uno, l'ebreo, che risponde con parole all'intervista e l'altro, l'arabo, che ribatte alle stesse domande, sul perché del nazionalismo e della guerra soltanto rappresentandosi.

Ognuno espone a suo modo le proprie ragioni ed alla fine il cadavere – resuscitato soltanto per il tempo necessario a dare un'intervista – si ricoprirà delle sue ferite, delle sue atroci ustioni, e si riperderà nell'immedicabile silenzio della morte”.

Due che muoiono in uno. Infatti il giovane colto israeliano e il giovane arabo analfabeta sono la stessa persona. Uno stesso ragazzo morto…
Questo soggetto cinematografico abortito ha costituito il punto d'appoggio, il criterio guida che non abbiamo mai abbandonato, la strada maestra che abbiamo intrapreso con dubbi e certezze allo stesso tempo. Come in ogni ricerca che si rispetti, anche in questa nostra qualcosa si è trovato, qualcos'altro si è perso, mentre il lavoro andava delineandosi sempre più come performance da farsi in maniera uniforme e senza forzature, nella costante considerazione del rigore e della disciplina di scena. E' questa strada che ci ha suggerito, o meglio, che ci ha fatto incontrare tutti i dualismi irrisolti, probabilmente irrisolvibili, dell'opera di Pier Paolo Pasolini. Dicotomie, opposizioni e contrapposizioni che appartengono non solo alla sua opera ma principalmente alla storia dell'uomo.
La dualità di Ahmed e Assi composta in unità ha fatto sì che vedessimo volare sulla nostra testa gli uccellacci e gli uccellini, ma anche ci ha fatto sentire la forza ancestrale delle Erinni e quella della ragione delle Eumenidi, che sono entrate in scena attraverso l'analisi terzomondista dell'Africa fatta dal poeta e della sua Orestiade, e, ancora, il primitivismo-cannibalismo e la democratizzazione formale-occidentalizzazione, il pericolo necessario di essere mangiato da parte di Pasolini e la inevitabile e difficile digestione, la dicotomia tra parola-idea e immagine-corpo…
Dualismi non costruiti sulla distinzione tra bene e male, ma contrapposizioni coesistenti probabilmente in tutti gli uomini e che a seconda della supremazia, in esse, di un polo piuttosto che di un altro, definiscono in un certo modo un'identità, finendo inevitabilmente col limitarla, generando il fatale conflitto.
Conflitto sviluppato dalle banalizzazioni cui Pasolini è andato ineluttabilmente incontro e che ha abiurato con l'onestà che contraddistingueva il suo percorso intellettuale; conflitto con cui noi molto più modestamente ci siamo confrontati.
La nostra ricerca si è arricchita poi di altri suoi testi che abbiamo utilizzato nello spettacolo - primo fra tutti la poesia Profezia -, di alcuni sottotesti che stanno nel nostro agire pur se non sono detti, come il diario in Angola di Vito Copertino, di altri saggi dello stesso Pasolini, e anche di un riferimento all'opera Me-ti - Libro delle svolte, composta da Bertolt Brecht tra il 1934 e il 1937, in stile “cinese”, come “libretto di regole di comportamento8.
Brecht ritorna spesso nell'opera di Pasolini, persino nel Manifesto per un nuovo teatro, con la sua dichiarazione di impegno ad andare oltre Brecht, riconoscendone comunque il valore rivoluzionario rispetto ai tempi in cui operò: un Brecht datato quindi, ma considerato una fonte cui attingere per poi – come intelligentemente sottolinea Stefano Casi nel suo libro I teatri di Pasolini9 – essere superato nella realizzazione di spettacoli a canone sospeso, senza una soluzione netta e definita, perché il teatro è dibattito e non indottrinamento. Ma la tentazione di citare Brecht fu sempre forte e, seppur con pudore, Brecht appariva nell'esperienza del poeta talvolta anche senza essere nominato direttamente.
La nostra rivisitazione delle suggestioni brechtiane ci ha condotto dinanzi al fallimento della città ideale, in cui ancora una volta le contrapposizioni si arenano davanti alla natura in-sensata dell'uomo.

* * *
La nostra performance è sbagliata in quanto in antitesi con le indicazioni di rappresentazioni del Manifesto per un nuovo teatro in primis, e poi perché abbiamo confrontato il nostro quotidiano con Pasolini per la prima volta in maniera violenta, crudele e necessaria per noi stessi e non solo per le sue idee. L'abbiamo sentito più vicino perché l'abbiamo denudato del mito letterario rendendolo più quotidiano, sempre con rispetto, sia chiaro, ma con la presunzione di vedere un po' di noi in lui e un po' della sua poesia in noi.
Abbiamo sbagliato? Ce lo chiediamo ancora adesso, ma devo ammettere che la voglia di rispondere sì con orgoglio è davvero tanta!
Uno sbaglio fiero contraddistinto poi anche dalla presenza dei video, che in una relazione sperimentale con i corpi degli attori sono energicamente diventati corpi essi stessi.
I fotoni dei proiettori, oltre a produrre un'immagine su un telo, hanno “illuminato” gli attori che sulla scena non facevano altro che proiettare la proiezione - scusate il gioco di parole - dalla materia filmica alla materia scenica, da restituire a loro volta. In un gioco di specchi che prendono fuoco tra le immagini virtuali e quelle fisiche, la messa in scena si è nutrita continuamente di un dialogo che non diventava mai del tutto speculare ma che offriva all'ennesimo dualismo da noi scoperto un'opportuna forma di unitarietà. Un perpetuo gioco di specchi che rimanda da una immagine proiettata a un gesto e da un suono a un movimento, ci porta incessantemente su strade ardue e faticose per lo spirito, ma ci immerge nello stato di esitazione e di ineffabile angoscia che è proprio della poesia con la giusta determinazione.

“L'operazione teatrale di produrre oro – scrive Antonin Artaud in Il teatro alchimistico - per l'immensità dei conflitti che provoca, la prodigiosa quantità di forze che eccita e scatena l'una contro l'altra, l'appello a una sorta di saldatura essenziale densa di conseguenze e sovraccarica di spiritualità, evoca alla fine nello spirito una purezza assoluta ed astratta oltre la quale non esiste più nulla, e che si potrebbe considerare una nota unica, una sorta di nota-limite, colta al volo, come parte organica di una vibrazione indescrivibile”.

Lo schermo come scena che insegue il suo doppio, e che dà drammaticamente corpo alla voce di Pasolini combinando infine la realtà dei corpi, il cinema proiettato e il teatro della scrittura scenica, come lui fece in una lontana performance di body art, realizzata trent'anni fa da Fabio Mauri.
Non esiste transizione fra testo, corpo e immagine proiettata; quindi: tutto si fonde quasi passasse attraverso insoliti canali scavati all'interno della nostra ricerca teatrale e spirituale! Quindi tutto è regolato, impersonale e nello stesso tempo libero e individuale.
Un vero e proprio dramma di linguaggi e di nostre collocazioni nello spazio e nel tempo che ci fanno agire mentre riflettiamo o riflettere mentre agiamo, tanto è lo stesso, anche perché abbiamo la disciplina e il rigore delle regole teatrali e del cinema che non ci fanno deragliare nell'improvvisazione, o peggio ancora in happening approssimativi, e c'è infine la scrittura scenica che ci offre ogni volta che calchiamo un palcoscenico il profondo senso della morte.

UOMO
[…] La vita è uno spettacolo, dunque, sempre.
Io rappresento – colpendoti con le mani,
con la cinta dei calzoni, sputandoti addosso […]
E quando io ho detto:
“La voglia di violare e violarci ritornerà”,
ho detto stupide parole. Che cosa meglio, infatti,
può dir questo della mia carne che ricomincia a tremare?
[…]

DONNA
Sì, noi stiamo dando uno spettacolo.

UOMO
Il mio corpo è inequivocabile. […]
[…] quale spettatore non ci avrebbe compresi,
ANCHE SE NON AVESSIMO DETTO UNA SOLA PAROLA?

Pier Paolo Pasolini, Orgia10
Chi sta sulla scena è un condannato a morte poiché alla fine della rappresentazione tutto svanirà e parole, fotoni, immagini, sudore e sangue non vi saranno più.
Si può comprendere la morte?
A voi l'ardua indulgenza, o sentenza, fate voi...
Io ho parlato fin troppo.

Sipario.

1 M. COSSU, scheda Intellettuale 1975-1994, in Fabio Mauri Opere e Azioni 1954-1994, a cura di Carolyn Christov-Bakargiev e Marcella Cossu, Galleria Nazionale d'Arte Moderna e Contemporanea, ed. Giorgio Mondadori, Milano/Carte Segrete, Roma, 1994 (catalogo), p. 164.
2 P. P. PASOLINI, Manifesto per un nuovo teatro, in “Nuovi Argomenti”, n.s., 9, gennaio-marzo 1968, art. 35.

3 L. RONCONI, Introduzione in forma di appunti, in S. CASI, I teatri di Pasolini, Ubulibri, Milano 2005, p. 15.
4 P. P. PASOLINI, Manifesto per un nuovo teatro, cit., artt. 2 e 5
5 L. RONCONI, op. cit., p. 14.
6 P. P. PASOLINI, Il sogno del centauro (interviste rilasciate a Jean Duflot, 1969 e 1975), in P. P. PASOLINI, Saggi sulla politica e sulla società, Mondadori, Milano 1999, p. 1509.
7 P. P. PASOLINI, Intervista rilasciata a Lino Peroni, in “Inquadrature – rassegna di studi cinematografici”, nn. 15-16, autunno 1968, p. 37.
8 Pubblicato per la prima volta nel 1965 dall'editore francofortese Suhrkamp, Me-ti è stato tradotto in italiano da Cesare Cases per Einaudi, nel 1979.
9 Cfr. S. CASI, I teatri di Pasolini, Ubulibri, Milano 2005, part. pp. 105-117.
10 P. P. PASOLINI, Orgia, in P. P. PASOLINI, Per il teatro, Mondadori, Milano 2001, pp. 274-276.



Fonte:
http://digilander.libero.it/lepassionidisinistra/n_14/unmanifesto.htm

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