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Biografia, lavori in corso - a breve anche il 1974 e il 1975

giovedì 9 maggio 2013

«Fotografami qui, sarà uno scandalo». Pasolini tre giorni prima di morire

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro





«Fotografami qui, sarà uno scandalo». Pasolini tre giorni prima di morire


La scrittura, le case, l’intimità: settantotto scatti a Sabaudia e Chia, che il poeta non fece in tempo a vedere

Lorenzo Viganò per “Il Corriere della Sera


Seduto a un grande fratino di fronte alla finestra. Mentre batte sui tasti della Lettera 22. Intento a rileggere e correggere con una Bic i fogli dattiloscritti. Ma anche di fianco alla sua Alfa 2000 sul ponte di una Sabaudia spettrale, con il vento che gli scombina i capelli o mentre cammina tra strade deserte e architetture fasciste. E poi ancora al lavoro, inginocchiato per terra a disegnare, e infine nudo, completamente nudo, in una camera da letto austera, con le pareti di pietra e la coperta a uncinetto, disteso a leggere un libro prima di addormentarsi. Lui, solamente lui, circondato dal silenzio e dalla solitudine. È un Pier Paolo Pasolini intimo e privato quello ritratto dal fotografo Dino Pedriali nell’ottobre del 1975. Spiato con discrezione nei momenti della sua vita quotidiana in situazioni che, nelle intenzioni dello scrittore, avrebbero dovuto rientrare nel progetto Petrolio, il suo ultimo romanzo (incompiuto) uscito postumo, nel 1992. Immagini in bianco e nero che dopo essere state custodite gelosamente per 35 anni, intraviste appena in una mostra allestita a Roma dopo la morte dello scrittore, e in parte stampate per quell’occasione in un libro (ormai introvabile), vengono ora pubblicate integralmente nel volume Pier Paolo Pasolini. Fotografie di Dino Pedriali (Johan & Levi editore, pp. 120, € 38), in uscita il 17 marzo. Settantotto immagini, scattate in un due sessioni di due giorni ciascuna tra la casa di Sabaudia e quella di Chia, nel viterbese, di cui fanno parte per la prima volta tutti quei nudi (anche notturni, scattati tra il 28 e il 29 ottobre) che nessuno aveva mai visto; nessuno, nemmeno lo stesso Pasolini che morì poche ore prima che Pedriali glieli mostrasse. Un libro che non è solo una raccolta di fotografie, dunque, ma una sorta di documento, di racconto, reso ancora più intenso, e tragico, dalla storia che lo accompagna.
Tutto comincia con Man Ray. Dino Pedriali e Pasolini si incontrano perché lo scrittore vuole conoscere il surrealista, che il giovane venticinquenne ha fotografato. Si vedono, entrano in sintonia e Pedriali gli scatta qualche foto a Sabaudia, nella casa che lo scrittore divide con Moravia e Dacia Maraini. E forse è allora che a Pasolini viene un’idea e sceglie il giovane fotografo per realizzarla. «”Chiamami la prossima settimana”, mi dice», ricorderà il Pedriali: «”Andiamo in questo posto che io amo tantissimo e che si chiama Chia. Però ti prego di non parlarne con nessuno”». Come d’accordo, qualche giorno dopo Pedriali lo raggiunge a casa dove lo trova con Ninetto Davoli e la madre, «con la quale Pier Paolo parla in dialetto e che ha un’aria fragile e dolce allo stesso tempo». Pasolini prende la sua Olivetti e partono. «Arrivati a Chia», continua Pedriali, «imbocchiamo un viottolo molto nascosto e giungiamo a un luogo che lascia stupefatti. “Nessuno ama questo posto”, mi dice Pasolini, “fa paura anche a te? Sai, qui è dove riesco a scrivere meglio”. Poi mi parla di un lavoro che vuole fare con me, rischioso, pericoloso fino alla galera e di cui nessuno, né Laura (Betti, ndr), né Moravia devono sapere nulla. “Oggi mi si considera uno che vuol dare solo scandalo, ma io lotto sempre per la verità”, mi dice. “Ora basta, non ne posso più! Non ho più la forza di lottare, voglio mettere a nudo tutto di me; e questa volta sì, sarà un’opera scandalosa! Così mi hanno giudicato e così voglio essere. Fino in fondo!”». Quindi chiede a Pedriali di ritrarlo nudo. «”Sarai tu a decidere come”, dice: “Ti chiedo solo di farlo come se venissi sorpreso o, meglio, come se non mi accorgessi della presenza di un fotografo. Solo in seguito mi comporterò come se intuissi la presenza di qualcuno che mi spia di nascosto”».
È notte fonda, ma Pedriali non riesce a dormire. È emozionato e preoccupato. Il giorno seguente, Pasolini, dopo essere stato ritratto mentre scrive e disegna, gli domanda se si sente pronto per «quelle» foto e gli si presenta davanti nudo. «”Ti fotografo dall’esterno, se sei d’accordo, oltre gli alberi e i vetri”, gli dico», ricorda ancora Pedriali, «”poi, col buio, catturo la luce dell’interno: mi permetterà di entrare più violentemente nella tua intimità”. Resto un quarto d’ora fuori a osservarlo. Ho delle strane sensazioni. Qualcosa di magico sta per accadere: tra le fronde, oltre i vetri, la sua immagine a momenti scompare. Rimango solo con gli alberi e questo mi terrorizza. Poi col buio tutto è diverso. Quando rientro lui si è già rivestito e mi viene incontro. “Separa questi rullini dagli altri”, dice. “E telefonami quando sono pronte, ma mi raccomando: non dire niente a nessuno. Appena vedrò le foto ti spiegherò dettagliatamente il lavoro. Ricordati però che avremo molti nemici, anzi tu ti creerai molti nemici, perché la gente non capisce”. Ci lasciamo così».

Il giorno dopo Dino Pedriali, che abita a Torino, fa sviluppare i rullini; ma l’emozione per quelle foto è così forte da fargli perdere la cognizione del tempo. È il due novembre quando viene svegliato dallo squillo del telefono. «”Ma tu non dovevi essere a Roma, da Pasolini?”, mi chiedono dall’altra parte del filo», ricorda Pedriali. «Sono stordito, mi sveglio di colpo, e vedo che sono ormai le due passate. “Avrei già dovuto essere a Roma!, dico. “Non ti preoccupare, hai tutto il tempo che vuoi, non c’è più fretta”. Non c’è più fretta… “Accendi la radio e lo saprai”».
Nella notte Pier Paolo Pasolini è stato ucciso sul litorale di Ostia. Il suo corpo deturpato e massacrato. Irriconoscibile. Da quel momento, Dino Pedriali, in seguito diventato un affermato fotografo di nudi, custodirà quelle foto contro tutto e contro tutti per preservarne la purezza. Difenderà «il Corpo del Poeta» per restituircelo intatto. Oggi come allora.
Il fotografo di artisti e scrittori
La copertina del libro «Pier Paolo Pasolini. Fotografie di Dino Pedriali». Nato a Roma nel 1950, il fotografo Dino Pedriali ha iniziato a lavorare nel mondo dell’arte con il gallerista torinese Anselmino. Si avvicina alla fotografia grazie a Man Ray, di cui è assistente e dal quale impara i primi segreti. Da quel momento realizzerà numerosi servizi fotografici a esponenti del mondo dell’arte e della cultura, da Giorgio De Chirico ad Alberto Moravia, da Federico Fellini a Andy Warhol. È specializzato in nudo maschile.
Per le foto: © Dino Pedriali by Siae 2011


Fonte:
http://sottoosservazione.wordpress.com/2011/03/18/%c2%abfotografami-qui-sara-uno-scandalo%c2%bb-pasolini-tre-giorni-prima-di-morire/#more-19835

@Eretico e Corsaro - Le Pagine Corsare

Curatore, Bruno Esposito

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L’urto dell’Immagine, l’urto della Parola. Pasolini e l’opera da farsi

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro





L’urto dell’Immagine, l’urto della Parola. Pasolini e l’opera da farsi 

(Sceno-testo de L’urto dell’Immagine, Collettivo Laboratorio Teatrale “dei Popoli”) 

  di Pasqua de Candia


…Come una vecchia carta, un pezzo di giornale trascinato sul lastrico dal vento, / vagavo, ignorato, contro i cantoni di marmo e ottone, gli alberelli severi del Nord, / i vetri di una Banca… Il futuro dell'uomo! Nessuno sapeva più nulla della pietà, / della speranza: sapevano, / in questa accanita città, / solamente il futuro, / come gia seppero la vita. / Ognuno l'aveva in cuore, / passione quotidiana, scontata / novità, luce della nuova storia. / E io senza più capire / cos'aveva potere d'importargli, / di avere per loro significato / di farli ridere, di farli piangere, / ero un vecchio pezzo di giornale, / trascinato dal nuovo vento / tra i loro piedi di Angeli.
Pier Paolo Pasolini, La nuova storia, in Il libro delle croci





Che cos'è Appunti per un poema sul Terzo Mondo?

Durante la lavorazione di Appunti per un film sull'India, Pasolini progettò di allargare il discorso ai temi della religione e della fame e ai problemi del Terzo Mondo, girando episodi che rappresentassero alcune realtà, dai paesi africani e arabi, all'America Latina, ai ghetti neri nordamericani. Parlando di questa ipotesi di film sul Terzo mondo a Jean Duflot, Pasolini precisò che si trattava di una sorta di documentario, di saggio che presentava però varie difficoltà: prima quella di trovare un pubblico vasto cui destinarlo, non volendosi accontentare di poche élite politicizzate interessate ai problemi del Terzo Mondo; l'altra era la difficoltà a trattare un simile argomento tranquillamente, sia sul piano ideologico che politico, consapevole che avrebbe provocato reazioni e critiche sia da parte dei marxisti ufficiali, che non avrebbero gradito certe verità, sia da parte dei contestatori. In ogni caso, il film avrebbe evitato il taglio giornalistico e avrebbe seguito la formula di “un film su un film da farsi”. Il progetto si rivelò irrealizzabile; il film non fu fatto, ma rimasero ampi spezzoni di pellicola, gli Appunti per un poema sul Terzo Mondo e la sceneggiatura de Il padre selvaggio.

Se il film nella sua interezza, come dicevamo, non vedrà mai la luce, Pasolini girò però per la televisione italiana un documentario, Appunti per un'Orestiade africana (1969, b/n, 70').

Fin dal 1963 Pasolini aveva immaginato di girare un film sulle trasformazioni in atto nell'Africa contemporanea, quando, con la scrittura della sceneggiatura de Il padre selvaggio, descriveva la dilacerazione della coscienza di un giovane africano, cresciuto nell'alveo della sua tribù, nella foresta, il quale veniva a contatto, attraverso l'amicizia con il suo insegnante di scuola, con un'idea razionale e “moderna” del mondo. Ma alle soglie degli anni Settanta, l'Africa era già cambiata, si può dire che in parte aveva già mutato il suo volto, occidentalizzandosi.

Prima del ‘68 Pasolini scrisse la tragedia in versi Pilade. In essa, attraverso la storia dell'amico di Oreste, divenuto suo antagonista politico, caricando di significati simbolici il mito, descrive il tentativo di contaminare la ragione “democratica” di Oreste, totalitaria, perché legata al culto di Atena (la dea partorita dalla testa di Giove) e alla rimozione del Passato, con il recupero della sacralità, dell'irrazionalità, della capacità poetica di rispondere alle domande sul mondo attraverso l'immaginazione e l'emozione violenta, patrimonio tradizionale delle oscure divinità delle Erinni.

Secondo il giudizio di S. Murri, Appunti per un'Orestiade africana, in qualche modo, riflette questo stesso conflitto, che viene ora focalizzato nel traumatico passaggio alla “democrazia formale” (dunque non democrazia “di fatto”) dei paesi dell'Africa moderna. Il vero protagonista di questo film è la condizione dell'umanità “nera” di ogni paese e di ogni classe, umanità che nell'immaginario collettivo occidentale è identificata con la primitività dell'uomo, con la connotazione atavica e ancestrale della società tribale, con la poesia innata della sacralità: umanità nera che trova nell'Africa una comune madre antica, confrontabile nel senso del sacro e del furore tragico all'antica Grecia, madre dell'Occidente 1.

L'Orestiade africana di Pasolini è modellata sulla trilogia di Eschilo. In particolare, il poeta considera fondamentale, per illustrare il passaggio delle società africane dalla fase della preistoria e della condizione pre-politica a quella dell'acquisto di un'identità politica nazionale e di istituzioni politiche democratiche, la terza parte, politicamente allusiva, in cui le Erinni “dee del momento animale nell'uomo”, la cui arma di giustizia è la strage e la vendetta, vengono trasformate, per intervento di Atena, dea della giustizia, in Eumenidi e costrette a dar vita alla prima forma di democrazia possibile, quella del Tribunale.

Pasolini scriveva nel 1960 che questo passaggio – “l'acme delle Eumenidi” – è il più commovente, perché, nel delicato momento di trapasso alla cultura della democrazia, con le sue norme e il suo codice rassicurante, “l'incertezza esistenziale della società primitiva permane come categoria dell'angoscia esistenziale o della fantasia nella società più evoluta”.

Oreste, che nella tragedia di Eschilo vendica la morte del padre, Agamennone, uccidendo i due adulteri traditori, Egisto e Clitemnestra, esprime simbolicamente il passaggio delle società tribali ed arcaiche dell'Africa alla dimensione politica del postcolonialismo e rappresenta l'esigenza di portare le forze irrazionali che governano la sua gente a confrontarsi con la razionalità organizzativa. La figura del protagonista incarna la condizione di quella giovane élite intellettuale che, avendo studiato in Occidente, affronta il problema della liberazione utilizzando gli stessi strumenti politici che appartengono alla cultura dei dominatori coloniali.


Lo stesso Pasolini forse si identifica con Oreste, quando, nello sforzo di razionalizzare processi ancora in atto, mostra le immagini del film a un gruppo di studenti africani dell'Università di Roma, analizzandole insieme. Nel film è così inserito un altro film che illustra la reazione degli Oreste-studenti africani in Italia, che vengono chiamati a giudicare la giustezza dell'analogia pasoliniana.

Uno di questi studenti spiega che la vita interiore dell'africano è tale che, probabilmente, le Erinni convivranno sempre con le Eumenidi; l'elemento della credenza e della suggestione pre-civile, della magia resterà sempre, come mondo delle emozioni, intatto, non contaminato dall'assolutezza della razionalità: la “società primitiva” sarà sempre identificabile con l'Africa tribale e arcaica, come nell'immaginazione pasoliniana.

Appunti per un poema sul Terzo Mondo. I Paesi Arabi

Nel corso della preparazione della performance multimediale, abbiamo fatto nostra la contrapposizione Erinni/ Eumenidi, intendendola come un dualismo irrisolto, o forse accantonato, che attraversa e frattura la nostra identità di uomini e donne dell'Occidente; ci è parso che sulla rimozione di uno dei due poli della dualità si fondi la tentazione totalitaria del potere, quando rimuove la corporea carnalità dei bisogni e cancella l'umano nelle relazioni, trasformandole in meccanismi tra detentore di potere e succubo di esso.

La performance multimediale, Appunti per uno spettacolo multimediale su “Appunti per un poema sul Terzo Mondo” di Pier Paolo Pasolini, ha preso spunto dalla sezione di Appunti per un poema sul Terzo Mondo, che Pasolini scrisse nel '68, dedicata ai Paesi Arabi.

Ci troviamo nel Sinai, il giorno dopo la guerra dei Sei Giorni, e il deserto è un cimitero, “l'esercito arabo è diventato un esercito di morti”. Tra i mucchi di morti ne spicca uno, “un ragazzo molto giovane, forte ecc., bruciato e mutilato”. Questo corpo resuscita e diventa attore. Il giovane soldato arabo, Ahmed, diventa Assi, “il figlio di Moshe Dayan, un giovane colto e cosciente, parla”, mentre muto resta l'altro, giovane “analfabeta, innocente e inconsapevole”. La guerra porta i due ragazzi, l'ebreo e l'arabo, a morire insieme sempre e comunque, corpi inermi uguali. La morte accomuna… La morte incancellabile, immedicabile, sempre silenziosa.

La morte rende, finalmente, uguali indipendentemente dall'identità, dalle diversità, dalla cultura – o meglio istruzione? – di ciascuno. Se ne rende forse conto quel ragazzo ormai cadavere? Se ne rende forse conto chi in quel campo di battaglia, per questa volta, è sopravvissuto? Qualcuno si rende conto del gioco in cui – uguaglianza o svuotamento – uno decide quale sia la forma migliore e mangia l'altro?

Possibile che non si riesca a concepire la ricchezza della diversità, la varietà della democrazia reale?

La realtà è che il potere è qualcosa di cui pochi si appropriano riuscendo realmente a gestirlo: le Eumenidi affamate, bulimiche… forse. Ma a un certo punto le Erinni, senza progetti pianificati o ben strutturati, da “giù” – un giù variamente identificabile – si ribellano …o si ribelleranno a questo?

Il potere contro la sacralità dei corpi di ciascuno. Il potere contro le ragioni di ciascuno.

“Le ragioni che parlando darà Dayan e le ragioni che in inconsapevole silenzio darà Ahmed saranno equivalenti. Non ci potrà essere scelta tra le due. Alla fine il cadavere… si riperderà nell'immedicabile silenzio della morte. È questa conclusione che, insieme a esprimere un dolore inesprimibile e puramente dato, darà anche il giudizio morale del film. Cioè una condanna di ogni nazionalismo – in qualsiasi forma storica – e della guerra – per qualsiasi ragione essa avvenga. Infatti il giovane colto israeliano e il giovane arabo analfabeta, sono una stessa persona. Uno stesso ragazzo morto, a cui nessuno potrà mai ridare la vita perduta per delle ragioni storiche la cui sproporzione con l'eternità non ha giustificazione alcuna.” 2

Riflettendo su tutto questo, abbiamo deciso di fare di questa nostra performance, che prende spunto, come dicevamo, dalla sezione sui Paesi Arabi, una performance, per usare le stesse parole di Pasolini, da farsi. In essa c'è tutta una serie di dualismi irrisolti – probabilmente irrisolvibili? – alcuni parte integrante di Pasolini stesso, del suo corpo, del suo essere, del suo fare, altri propri della Storia. Dualismi che sulla scena coesistono, si confrontano: uccellacci/uccellini; Erinni/Eumenidi; Sacralizzazione/desacralizzazione; Storia-passato/presente-futuro; Primitivismo/democratizzazione formale-occidentalizzazione (-progresso?); Parola / Immagine.

Questi dualismi non sono costruiti sulla distinzione tra bene e male, tra meglio o peggio ma su quella tra controllo e istinto, furia-voracità e razionalità-formalità, giustizia-diritto e norme-codici, istituzioni e corpi, “civilizzazione” e “primitivismo”, contaminazione e intensità pura. Sono aspetti che convivono, più o meno pacificamente, probabilmente in tutti gli esseri, ma in questi, di volta in volta, emerge solo l'aspetto più “socialmente condizionato”.

Appunti per un poema sul Terzo Mondo prevedeva che in ogni posto ci fosse “un episodio completo, per metà documentario, per metà con valore di ricognizione dei luoghi ove ambientare un futuro film: sarebbe raccontato indirettamente, come una storia da narrare in seguito. L'idea era questa. Ma proprio la settimana scorsa ci ho ripensato, rendendomi conto che il film non troverebbe un pubblico. Come ho già detto, il pubblico è dentro il film. Ma se girassi un film sul Terzo Mondo, è ovvio che mi rivolgerei alle élite. Sarebbe un saggio, non un'opera narrativa, perché io non sono un volgarizzatore. Il solo modo per attrarre un pubblico di massa consisterebbe nell'adattare la mia opera al livello del ‘Reader's Digest', cosa che non farei mai. Come sa, i pubblici del Terzo Mondo sono costretti a vedere le epopee degli indiani e Sofia Loren. E c'è un'altra cosa: il film sarebbe molto polemico sia verso il Partito comunista sia verso il movimento studentesco. Non lo farò, ancora. Ma lo farò un pezzetto per volta, perché è una cosa che aspiro fortemente a realizzare” 3.

Quello a cui Pasolini puntava era assicurare la fruizione del film non solo alle élite ma ad “un pubblico di massa”, il maggior numero possibile di persone a cui far comprendere la dimensione dell'alterità.

S. Francesco, nel film Uccellacci e uccellini, accenna a questa incapacità del linguaggio convenzionale, affidato alla parola, di “riconcepire” il sacro: “I nostri occhi si sono troppo abituati alla nostra vita e non sanno più riconoscere quella che voi vivete nel deserto e nella selva, ricchi solo di prole. Noi dobbiamo sapervi riconcepire e siete voi a testimoniare Cristo ai fedeli inariditi, con la vostra allegrezza, con la vostra pura forza che è fede”.

Il Terzo Mondo di Pasolini

Chi è questo “voi” che dovremo saper riconcepire? E chi è questo “noi” che deve riconcepire?

Per Pasolini, il “noi” che ha perso di vista il sacro, l'intensità, sono i cittadini di città ideali inesistenti, che hanno come regina la democrazia, ma nella sua versione “formale”, che hanno perso completamente di vista le proprie origini; che hanno subito una “mutazione antropologica” assoluta, tanto da far completamente svanire la “vecchia idea di uomo” (Pasolini); che vivono in una realtà completamente contaminata in cui il Consumo, l'Omologazione hanno attuato un “genocidio culturale”, un annientamento del “popolare” ormai quasi totale. Il “noi” è colui che ha perso la sua identità forte, è anche il contadino del Sud che, consapevolmente o inconsapevolmente, per necessità o inseguendo un'idea di miglioramento e progresso, compie il suo destino abbandonando la propria terra, emigrando verso ”il meraviglioso sole del Nord”, sostituendo ai suoi “feticci” quelli nuovi di zecca, “frigorifero e televisione” … e così “tre millenni svanirono, non tre secoli, non tre anni”.

E il “voi”?

Nella poesia Profezia, in cui Pasolini esprime la speranza che la rivoluzione parta dai luoghi dei diseredati della terra, si legge: “La grazia del sapere è un vento che cambia corso, nel cielo. Soffia ora forte dall'Africa”; è un altro sapere che irrompe nel nostro mondo “sviluppato”, il sapere ancestrale. È un altro mondo, quello di cui Pasolini parla; un mondo diverso da quello tecnicizzato, evoluto, formalmente razionalizzato e per questo scomodo per certi versi, ma utile per altri; è il Terzo Mondo, quello composto da “Voi che non volete sapere e vivete come assassini tra le nuvole e vivete come banditi nel vento e vivete come pazzi nel cielo, voi che avete la vostra legge fuori dalla legge e passate i giorni in un mondo che sta ai piedi del mondo e non conoscete il lavoro e ballate ai massacri dei grandi (…)”.

Un Terzo Mondo non addomesticato che ci costringe a un confronto con una concezione diversa della vita. È il mondo del “figlio” che “aveva degli occhi / di paglia bruciata, occhi / senza paura, e vide tutto / ciò che era male: nulla / sapeva dell'agricoltura, / delle riforme, della lotta / sindacale, degli Enti benefattori, / lui. Ma aveva quegli occhi. (…) Gli occhi bruciati del figlio, nella / luna, tra gli ettari tragici, vedono ciò che non sa il lontano fratello / settentrionale”. Un Terzo Mondo da cui arrivano “essi che non vollero mai sapere, essi che ebbero occhi solo per implorare / essi che vissero come assassini sotto terra, essi che vissero come banditi / in fondo al mare, essi che vissero come pazzi in mezzo al cielo (…)”. Arrivano essi che, nella Profezia che alla fine si dischiude quasi in immagini oniriche, insegnano “ai compagni operai la gioia della vita”, “ai borghesi la gioia della libertà”, “ai cristiani la gioia della morte”, essi “Anime e angeli, topi e pidocchi, / col germe della Storia Antica”; essi che “come figli che difendono la madre contro il padre / e colpendo il padre diventano uomini, / commetteranno finalmente violenza. // Per prima Roma sarà bruciata e distrutta / come se fosse la prima volta nei secoli, / e nell'Agro regnerà nuovamente la Preistoria”. Ecco “l'altro, il diverso da noi” nella sua crudele innocenza, che ci impone, per recuperare la gioia della vita, della libertà, della morte, per tornare appunto realmente e democraticamente padroni della nostra stessa esistenza, di cambiare i “nostri occhi troppo abituati alla nostra vita”, cosa che si può fare “solo attraverso Dio”4.

La ormai necessaria rivoluzione posa su questa leva, sul recupero della concezione del “sacro”, della “magia”, della “presenza”, della cultura.

Pochi sono pronti a riconoscere la necessità di riconcepire la presenza del Terzo Mondo come fatto organico, non separabile dalla nostra vita, pronti a riconoscere lo “scandalo” che i popoli di questo mondo sottosviluppato e affamato sono per “la razionalità dei centri del neocapitalismo” (Pasolini) e per l'omologazione e la mutazione antropologica conseguenti. Secondo Pasolini “un'unica linea così sembra unire i nostri sottoproletariati urbani e agricoli… con le tribù africane”. Dove il concetto di “sottoproletariato” ha un significato sociologico, antropologico e politico che però va oltre, non si limita alla sociologia, all'antropologia e alla politica, per approdare alla teologia, all'epifania del sacro.

Il Terzo Mondo è la rappresentazione, la manifestazione della “magia” in quanto non solo ricorda il nostro passato, ma è il nostro passato nel presente della società industriale, meccanizzata, “automizzata”.

Pasolini sembra quasi arrendersi, a volte, soprattutto guardando l'Italia, alla quasi impossibilità da parte dei suoi concittadini di prendere posizione, di indignarsi profondamente “Neppure sul sangue dei lager”; e si interroga anche sul senso del mostrare se stesso, utilizzare il suo corpo, “metterci la faccia e la voce”, come dice nella poesia La Guinea: “[...] L'intelligenza non avrà mai peso, mai / nel giudizio di questa pubblica opinione. / Neppure sul sangue dei lager, tu otterrai / da uno dei milioni d'anime della nostra nazione, / un giudizio netto, interamente indignato: / irreale è ogni idea, irreale ogni passione, / di questo popolo ormai dissociato / da secoli, la cui soave saggezza / gli serve a vivere, non l'ha mai liberato. / Mostrare la mia faccia, la mia magrezza / - alzare la mia sola puerile voce - / non ha più senso: la viltà avvezza / a vedere morire nel modo più atroce / gli altri, nella più strana indifferenza. / Io muoio, ed anche questo mi nuoce. [...]”.

Che cosa sono questo passato e questo sacro, queste idee e queste passioni da cui questo popolo – “la cui saggezza… non l'ha mai liberato” – è “ormai dissociato”?

Pasolini, nel suo “film da farsi” le identifica nelle Erinni, le radici: egli è alla ricerca delle radici, perché la trasformazione delle Erinni in Eumenidi, l'emancipazione, potremmo dire, si è quasi mutata in uno svuotamento di senso. Le Eumenidi sono diventate formali, non sono reali… “irreale è ogni idea, irreale ogni passione / di questo popolo”, questo popolo inebetito e schiavizzato da un potere patologico che dilegua, vanifica, distrugge.

Cultura Popolare e “crisi della presenza”

La cultura, soprattutto quella popolare, viene privata di dignità, assunta a simbolo di degrado. Pasolini appartiene alla schiera degli intellettuali che denunciano questo processo di distruzione.

Il tema della “crisi della presenza”, per esempio, di cui Pasolini parla, – descrivendo sociologicamente quello che stava avvenendo, la mutazione, con uno sguardo attento soprattutto ai giovani, e alla loro reazione alla lacerazione, allo svuotamento, all, alla paura, riecheggia uno dei temi fondamentali di cui l'etnologo Ernesto De Martino era stato portavoce criticato e attaccato.

De Martino rivolgeva particolarmente il suo sguardo attento alla miseria economica del Meridione, alla sua gente completamente sopraffatta, agita più che capace di agire e decidere rispetto ai mutamenti che stavano trasformando il Sud, esposta al rischio terrorizzante di perdere la propria stessa presenza, di vedersi negare la possibilità di sopravvivenza. Per De Martino il rituale mitico, il suo linguaggio, parlato e gestuale, il suo simbolismo sono, perciò, non un residuo inutile di tempi storici ormai trascorsi che la luce del nuovo progresso deve debellare, ma una possibilità, uno strumento sociale per permettere l'esistenza di uno spazio protetto, astorico, in cui la vita culturale di un gruppo sociale sia salvaguardata dall'annientamento, dalla totale cancellazione, forte affermazione della propria “presenza come libertà”, come afferma Carlo Levi. Ed è importante dire che questo interesse, questa denuncia, questa conseguente ricerca di protezione e salvaguardia non riguardavano solo “civiltà etnologiche”. De Martino, Levi, Scotellaro e altri hanno rinunciato il rischio della scomparsa, sotto il peso delle classi egemoni, di categorie sociali poste in ruoli assolutamente subalterni, in particolare, del mondo contadino, un mondo avente un prezioso patrimonio culturale, che purtroppo, nonostante tutto, è stato sostanzialmente condannato alla scomparsa. Il progresso, la civiltà, questo nuovo potere, per avanzare devono distruggere il passato, quella cultura superstiziosa e incivile che porta con sé valori, linguaggi, simboli, modalità di relazione completamente diverse, e trasfigura il reale fino quasi alla magia.

Scrive Pasolini nel 1968: “Nel mondo moderno, l'alienazione dovuta al condizionamento della natura è sostituita dall'alienazione dovuta al condizionamento della società: passato il primo momento di euforia (illuminismo, scienza, scienza applicata, comodità, benessere, produzione e consumo), ecco che l'alienato comincia a trovarsi solo con se stesso: egli, quindi, come il primitivo, è terrorizzato dall'idea della perdita della propria presenza. I primitivi, appunto, riempiono questo vuoto ricorrendo alla magia, che lo spiega e lo riempie. In realtà tutti ci droghiamo. Io (che io sappia) facendo il cinema, altri stordendosi in qualche altra attività. L'azione ha sempre una funzione di droga; (…) anche il lavoro che serve a “produrre” è una specie di droga. (…) Mancare di certezze culturali, e quindi della possibilità di riempire il proprio vuoto di alienati, se non altro per mezzo dell'autoanalisi e della coscienza (individuale e di classe), vuol dire, in termini banali, anche essere ignoranti. (…) D'altra parte (e questa è la conclusione disperante) liberarsi da questa ‘mancanza di cultura' o di ‘interesse culturale', sembra impossibile; infatti essa proviene, probabilmente, da un più generale senso di ‘paura del futuro'.” 5

Ma sappiamo che un progresso che sia reale, civile non è un progresso che spazza via, rimuove il passato, cancella la storia; è un progresso che nasce dalla consapevolezza, dalla conoscenza della storia, dal sapere chi eravamo per cercare di essere più degnamente chi siamo. Non si tratta di raccogliere semplicemente reperti storici, di fare musei del “caro estinto”, non si tratta di un romantico fascino o attrazione per l'esotico, il pittoresco, il curioso, il bucolico, il primitivo; né si tratta di elaborare nuovi sistemi e tecnologie assolutamente scientifiche per la raccolta di dati, riferimenti, per la selezione e il dirottamento verso il “museo del morto” di turno. La cultura non è la palla al piede che tiene imprigionato il progresso, che lo rallenta. Un certo tipo di progresso e i suoi complici hanno emarginato intere classi sociali, condannandole alla scomparsa. La volontà di recuperare il passato si traduce nell'aspirazione al riscatto delle masse: “Su scala mondiale le masse popolari combattono per entrare nella storia, per rovesciare l'ordine che le tiene subalterne”6.

Negli anni Cinquanta, in Italia, c'è un ampio dibattito su questa questione. Era stato proprio Gramsci a proporre una riformulazione del concetto di folklore, che considerato “come una bizzarria, una stranezza, un elemento pittoresco”, va preso come una vera e propria “concezione del mondo e della vita”, da mettere in relazione – per un discorso serio su che cos'è cultura, e sulla sua produzione – con il concetto di cultura che le classi “egemoni”, in un contesto prettamente socio-economico, hanno elaborato. Questa elaborazione è avvenuta tagliando fuori dalla produzione dei nuovi modelli le classi popolari e il loro sistema culturale. Risultato dell'estromissione, questi modelli sono stati passivamente adottati, dove economicamente possibile, con conseguente distruzione della cultura materiale-popolare, e non elaborazione di contenuti originali e positivi.

Non si tratta qui di esaltare assolutamente e indipendentemente la cultura popolare: il seguitare a vivere in case vecchie, senza riscaldamento, senza tutte le relative comodità, come smania di ritorno alle origini quale rifugio dalle brutture moderne. Quello che si sta cercando di sottolineare è che si fa passare spesso questa discussione come frutto di una necessaria contrapposizione tra il tutto moderno e il niente pre-moderno, tra la cultura moderna e l'ignoranza atavica, quando invece va sottolineato che si tratta di due culture, parimenti degne di essere chiamate tali, diverse certo, ma che dovrebbero stare in costante rapporto dialettico. La cultura popolare, con i suoi simboli altamente significanti, può mettere in crisi la tranquillità, tipica del padrone, che ha la cultura borghese, in un dialogo tra pari, tra modelli alternativi. Pasolini accusava di cecità politica sia la classe dirigente italiana, sia la sinistra che non ha saputo comprendere,“riconcepire” e lottare, non solo per gli operai, i “suburbani”, ma anche per i contadini, i “subrurali”.

Ciclicamente si parlerà di questione meridionale, di risollevamento delle sorti dei più poveri, che siano del Sud Italia o del Sud del Mondo ma senza un vero reale interesse a trasformare la situazione o meglio a produrre una efficace azione affinché ciò avvenga. Non conviene, prima di tutto; e poi trasformare, cercare i modi, le strategie più adatte, significa conoscere realmente la tradizione, la storia, la cultura dell'altro, il modo e il mondo in cui vive ed è vissuto; invece è più semplice impiantare sistemi adottati altrove per produrre e sfruttare, indipendentemente da tutto questo surplus.

È proprio questo l'atteggiamento che si ha, per fortuna non da parte di tutti, verso le popolazioni dei paesi “sottosviluppati”, quello di porle fuori dalla storia, come elementi che rischiano di turbare l'ordine e il progresso e che quindi vanno al massimo assistite come dei malati, a cui vanno somministrate le nostre pillole di saggezza, per sostituire alla loro cultura la nostra.

Parliamo di paesi che sono stati affamati per anni, che sono stati trattenuti indietro nella storia per millenni, mentre altri sfruttando le loro ricchezze sono “progrediti”, incredibilmente. Una voragine temporale ci distanzia. Che cosa gli possiamo fornire per recuperare, dopo averli depredati delle possibilità di procedere nel loro cammino? I nostri modelli, i nostri macchinari, le nostre tecniche…?

Questa è la forte contraddizione interna a tante cose, anche ai progetti di sviluppo che Enti Benefattori portano avanti: di quale sviluppo parliamo?

Pasolini e la Nostalgia dell'uomo

“Ho nostalgia” – scrive Pasolini – “della gente povera e vera che si batteva per abbattere il padrone senza diventare quel padrone. Poiché erano esclusi da tutto, nessuno li aveva colonizzati”.

E qui sta parlando non solo dell'operaio e del contadino italiano, ma anche del contadino del Terzo Mondo.

Pasolini ha una profonda nostalgia degli uomini, dei sottoproletari urbani e contadini, dei non-automi, ricchi ancora di magia primitiva, dell'integrità e dell'intensità dell'essere umano, e comincia a pensare che anche gli uomini del Terzo Mondo siano manchevoli, o meglio che anch'essi, in determinati meccanismi, manchino di quella forza in cui aveva riposto la propria speranza di rivoluzione con forza espressa nelle immagini oniriche di Profezia.

Per questo il mito rivoluzionario del Terzo Mondo fallirà. Quelli che imparano, apprendono, gli immigrati, i colonizzati dal benessere occidentale, sono le Eumenidi delle ataviche Erinni ormai inesorabilmente “sporcate”, appartengono a meccanismi formali.

La tecnica sembra vincere sul mito, sul sacro, sulla cultura. Profezia sembra distruggersi; lo stesso Pasolini la abiura, perché?

“Perché dunque il fatto che tale speranza posta nella potenzialità rivoluzionaria dei contadini del ‘Terzo Mondo' ora è sbagliata? Perché non è più guardata in prospettiva rivoluzionaria. (…) I contadini che vivono ancora nel loro ambiente, cioè laggiù, nel Terzo Mondo, io li conosco personalmente (anche attraverso la conoscenza più conoscitiva possibile, quella biblica […] E so che essi attendono di essere riscattati da ‘qualcun altro': in un profondo sopore (nomino i primi tre posti che mi vengono in mente: Wawarli, un villaggio indiano; Zagorà, un paesello del deserto marocchino; Tonje, un villaggio del Basso Sudan), i contadini colorati aspettano un nuovo futuro che li trasformerà da contadini preistorici in contadini storici, prima di tutto, e poi da contadini storici in piccoli borghesi. Ecco la grigia, deludente, lenta realtà. Là dove la realtà è vivida, vitale e rapida si hanno le guerre nazionali (Egitto ecc.). Insomma i contadini del Terzo Mondo hanno tutto un lungo cammino da ripercorrere (molto più rapidamente, tuttavia, dei nostri contadini. Per esempio fra una cinquantina d'anni il Marocco sarà una avanzata nazione neocapitalistica).

Resta il fatto che il sottoproletariato e il contadino sono eversivi soltanto perché “sono” e, in particolari situazioni locali o nazionali, possono essere dei sovversivi (rivoluzionari o guerriglieri, a scelta, secondo chi se li accaparra per primo)”7.

La razionalizzazione, l'omologazione estrema, il controllo, il formalismo svuota, priva di senso e di segni, rende ogni cosa uguale, tanto da fare dell'uomo un oggetto tra gli altri, solo con un “possibile” in più. Il possibile risveglio delle “erinni” che ha dentro di sé per il recupero delle radici umane primitive.

Non si parla qui, in realtà, dell'istinto, della violenza, della rabbia, dell'orgoglio, che sono potenzialmente presenti in tutti e che condizioni esterne, occasioni, la storia, i rapporti umani e i loro bisogni, o la loro voracità, a volte, fanno emergere. Erinni ed Eumenidi sono presenti in ciascuno: l'esasperazione di uno dei caratteri, che in modi diversi rende ciechi rispetto all'altro, ai suoi bisogni, alla sua “identità”, rende l'uomo vorace, tanto da mangiare l'altro, anche fisicamente.

Pasolini ricercava la purezza, la non costruzione, l'intensità, l'acme, la non tecnicizzazione nei pensieri, negli atteggiamenti, nell'amore: ricercava il “sacro assoluto”, non macchiato di “dottrina” umana, la magia dei primitivi, pulita, le Erinni, la realtà e non la forma. Era maniacale in questo. E lo pretendeva in quelle persone che per lui dovevano averla dentro.
Nel suo modo di girare le scene non c'è la ricerca della descrizione naturalistica della realtà: “io giro a brevissime inquadrature – inquadrature che non durano più di due, tre minuti al massimo – dei primi piani, delle figure intere, dei movimenti elementari – che poi coordino in un montaggio che è esattamente quello che ho in mente prima di girare. (…) Non mi interessa la cosiddetta spontaneità, la cosiddetta naturalezza; mi interessa cogliere, e poi unire insieme, le fasi dei sentimenti dei personaggi nei loro momenti culminanti, senza i passaggi intermedi, che richiedono, appunto, spontaneità e naturalezza”. “I miei film” – scrive Pasolini – “consistono in una serie di inquadrature brevissime e ogni inquadratura ha un'origine lirico-figurativa, più che cinematografica”.

Nel suo cinema ogni scelta ha una sua spiegazione e senso: significa, dice qualcosa, e l'uomo è al centro di ogni prospettiva. Il naturale se c'è, sta forse nella scelta degli attori, che potrebbero paragonarsi ai colori che il pittore sceglie di utilizzare nel dipingere un quadro; Pasolini sceglie soprattutto gli attori di strada, e li plasma come se fossero materia grezza.

Pasolini ha prodotto, finché ha potuto, “ordigni”; poi alcuni dei suoi progetti hanno cominciato a essere irrealizzabili, come il progetto per gli Appunti per un poema sul Terzo Mondo, perché gli uomini che lui ha conosciuto e amato con i propri sensi, e che nonostante tutto continua ad amare, i protagonisti di quegli Appunti e dell'Orestiade africana non sono più i soggetti rivoluzionari che pensava; inoltre non ha più un pubblico che si avvicini, non per pietà, alla realtà terzomondista. Tutto è cambiato, completamente, disumanizzato, e in questo contesto Pasolini è stato un ordigno per se stesso.

Pasolini non poteva che vivere come ha vissuto, con quegli occhi, entrando con quegli occhi nelle cose e nelle persone, conoscendo con quegli occhi, amando, osservando, denudando, processando, uccidendo con quegli occhi. Tutto quello che Pasolini ha fatto, ha scritto pare aderirgli perfettamente, pare aderire al suo corpo, alla sua mente, alle sue azioni e contraddizioni, alla sua mitezza e dolcezza che erano violenza e alla sua violenza che era mitezza e dolcezza.

Con quegli occhi, con quel sesso, con quel fegato, visceralmente.

Ha vissuto disperatamente, tragicamente, come uno che sa “ma non ha le prove”.

E la sinistra di oggi, che con questo Pasolini, con i suoi ordigni non ha forse mai realmente fatto i conti, non può che adulare e recuperare il letterato, l'artista, il visionario e profetico; non può che cerimonialmente, o comunque senza riuscire ad affrontare gli aspetti più spinosi, le sue critiche tesi politiche e sociologiche, riprenderlo; anche perché Pasolini è un irrisolto, un contraddittorio che continua a interrogare e irritare; Pasolini è scandalo, è un insieme di opposti inconciliabili; è vittima e carnefice allo stesso tempo; è uno che ti esplode tra le mani: un frammento ti libera, ti assolve, ti entusiasma, l'altro ti processa e ti condanna.

“Sappi che negli insegnamenti che ti impartirò, non c'è il minimo dubbio, io ti sospingerò a tutte le sconsacrazioni possibili, alla mancanza di ogni rispetto per ogni sentimento istituito. Tuttavia il fondo del mio insegnamento consisterà nel convincerti a non temere la sacralità e i sentimenti, di cui il laicismo consumistico ha privato gli uomini trasformandoli in brutti e stupidi automi adoratori di feticci.” (P. P. PASOLINI, Lettere Luterane, 13 marzo 1975).


1 Cfr. S. MURRI, Poema sul Terzo Mondo, Appunti per un'Orestiade africana, L'Unità-Il Castoro, 1995.
2 P. P. Pasolini, Appunti per un poema sul Terzo mondo, in Pasolini per il cinema, Mondadori, Milano 2001, vol. II.

3 Da Pasolini su Pasolini. Conversazioni con Jon Halliday (1968-1971), in P. P.Pasolini, Saggi sulla politica e sulla società, Mondadori, Milano 1999, pag. 1377.

4 P. P. PASOLINI, Poesie in forma di rosa, in Tutte le poesie, Mondatori, Milano 2001, vol. I.

5 P. P. PASOLINI, Da “Il Caos” sul “Tempo”, in Saggi sulla politica e sulla società, cit., pag. 1168.

6 Cfr. E. De Martino, Intorno ad una storia del mondo popolare subalterno, 1949.

7 P. P. PASOLINI, Intervista rilasciata a F. Camon, in Saggi sulla politica e sulla società, cit., p. 1645.


Fonte:
http://digilander.libero.it/lepassionidisinistra/n_14/lurto2.htm


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Perché non rinnegare Alì dagli Occhi Azzurri. Pasolini e il Terzo Mondo ai tempi dell’Impero

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro






Perché non rinnegare Alì dagli Occhi Azzurri. Pasolini e il Terzo Mondo ai tempi dell’Impero

di Alberto Altamura


1. L'invenzione del Terzo Mondo

Coniato dal francese Alfred Sauvy negli anni della Guerra fredda, allo scopo di definire lo spazio collocato al di fuori dell'Occidente capitalistico (Primo Mondo) e dei domini del socialismo reale (Secondo Mondo), il concetto di “Terzo Mondo”, giovandosi della forza sintetica tipica delle astrazioni concettuali, è servito a lungo per indicare in modo unitario aree culturalmente, socialmente ed economicamente molto diverse tra loro.
Si trattava già allora di un concetto estremamente problematico, ma erano gli anni della Conferenza di Bandung, dell'incontro di Bironi tra Tito, Nehru e Nasser, che nel 1956 sanciva la nascita del movimento dei “paesi non allineati”. L'ideologia antimperialistica aveva necessità di inventare l'unità del Terzo mondo, anche se già si intravedevano quelle forme disgregative che prendevano corpo, ad esempio, nei conflitti cino-sovietici, cino-vietnamiti, nella guerra del Vietnam e della Cambogia, nel genocidio cambogiano1. Del resto, in quegli anni, anche nel fronte imperialistico funzionava una visione unitaria del Terzo Mondo come area da integrare, al di là delle differenze, nella produzione e nel mercato capitalistici.
Questa strumentazione concettuale è stata potentemente messa in crisi dalla fine della Guerra fredda e, soprattutto, dall'affermazione dell'Impero.
Con il concetto di “Impero”, avvalendoci delle analisi di Hardt e Negri, intendiamo riferirci a quella struttura di potere nata dal trasferimento di sovranità che gli stati-nazione hanno realizzato ai livelli militare, monetario e culturale (ideologico-linguistico), allorché si sono accorti che le lotte operaie e i movimenti sociali non consentivano più di controllare, all'interno del loro spazio territoriale, le dinamiche di riproduzione della società capitalistica.
Di fronte ai cicli di lotte del ventennio ‘60/'70 - destinati ad investire non solo la questione salariale, ma in generale l'organizzazione del lavoro, le forme dell'alienazione, la violenza dell'asservimento programmata nelle strutture urbane - le élites capitalistiche hanno puntato tutto sulla costruzione di un apparato di potere decentrato/deterritorializzato, caratterizzato da tutta la flessibilità temporale e la mobilità spaziale offerte dalle tecnologie informatiche.
Tutto ciò non è accaduto soltanto in relazione ai cicli di lotte emersi nei paesi capitalistici avanzati, ma anche nel contesto del Terzo Mondo, dove la distruzione dello stato-nazione, cioè del punto di raccordo e di sostegno principale dell'azione del nazionalismo e dell'internazionalismo terzomondista, è stato il momento fondamentale della strategia adottata dall'imperialismo per fronteggiare la vittoria delle lotte di liberazione nazionale e la comparsa di alleanze potenzialmente destabilizzanti, maturate in seguito alla conferenza di Bandung2.
Oltrepassando lo spazio nazionale, la sovranità imperiale si configura come un non-luogo: senza centro di potere, senza confini e barriere fisse. Come apparato di potere decentrato e deterritorializzato, l'Impero incorpora l'intero spazio mondiale nelle sue frontiere aperte e in continua espansione.
Non c'è un centro e, quindi, non ci sono nemmeno margini, periferie, frontiere dell'Impero.
Le forme della produzione e delle relazioni sociali non possono più essere comprese secondo le vecchie opposizioni Nord/Sud, Centro/Periferia, Primo Mondo/Terzo Mondo: “Tutte le nazioni e le regioni del mondo contengono, in diverse proporzioni, quello che si riteneva appartenesse in esclusiva rispettivamente al Primo e al Terzo Mondo, al centro e alle periferie, al Nord e al Sud. La geografia dello sviluppo ineguale e le linee di divisione gerarchica non si basano più su solidi confini nazionali e internazionali, ma su un sistema di frontiere fluide infra e sopranazionali”3.
Nel 1968, progettando un film come Appunti per un poema sul Terzo Mondo, Pasolini sembra già in condizione di cogliere alcuni aspetti di quella che sarà la configurazione del Terzo Mondo ai tempi dell'Impero.
Egli parlava, infatti, di un'opera costruita come un “discorso unico” sull'India, l'Africa nera, i Paesi Arabi, l'America del Sud, i ghetti negri degli Stati Uniti, e destinata a contenere, “tra questi cinque fondamentali, anche altri ambienti: per es. l'Italia del sud, o le zone minerarie dei grandi paesi nordici con le baracche degli immigrati italiani, spagnoli, arabi, ecc.”4.
Vivendo negli anni in cui il Primo e il Terzo Mondo, il centro e le periferie, il Nord e il Sud erano ancora separati dalle linee delle divisioni nazionali, Pasolini non poteva di certo cogliere agevolmente la dissoluzione di quei poli oppositivi, che oggi “si intramano tra loro, distribuendo le ineguaglianze e le barriere lungo una rete di linee multiple e frammentarie”5.
Tuttavia, da attento osservatore delle dinamiche del neocapitalismo, Pasolini riusciva ad intuire la forma diffusiva di esistenza del Terzo Mondo, e proprio in Appunti per un poema sul Terzo Mondo sembra anticipare quanto oggi Hardt e Negri sostengono guardando alla dimensione mondiale del mercato: “Il Terzo Mondo viene a trovarsi al centro del Primo, nelle forme dei ghetti, delle favela e delle bidonville che si producono e si riproducono ininterrottamente. A sua volta, il Primo Mondo si trasferisce nel Terzo assumendo le fisionomie delle borse valori, delle banche, delle multinazionali e dei gelidi grattacieli ove si trovano le centrali del denaro e del potere”6.
Di ciò Pasolini sembra avere consapevolezza già dall'inizio degli anni Sessanta, quando, nello scritto La Resistenza negra, proponeva di usare il concetto “Africa” per definire l'intero mondo di Bandung, quella che chiamava l'Afroasia, che “comincia alla periferia di Roma, comprende il nostro Meridione, parte della Spagna, la Grecia, gli Stati mediterranei, il Medio Oriente. Non dimentichiamo che a Torino ci sono delle scritte sui muri che dicono Via i Terroni = Arabi”7.

2. Oltre il marxismo terzomondista

Pensando al di là di forme spaziali oppositive, Pasolini si collocava anche “oltre”, né con né contro, il marxismo terzomondista di quegli anni, che coglieva la conseguenza fondamentale dell'espansione mondiale del capitalismo proprio nell'accentuazione della divisione del mondo in centro e in periferie; tanto da indicare la contraddizione essenziale del capitalismo non più nel conflitto fra capitale e lavoro, ma in quella fra potenze dominanti e popoli della periferia. Contraddizione presentata, ad esempio, da Samir Amin come l'autentica “contraddizione attiva”8.
Lo sviluppo ineguale del capitalismo assegnava ai popoli d'Asia e d'Africa il compito di rovesciare localmente l'ordine capitalistico, dal momento che i paesi capitalistici, collocati in una posizione dominante nel contesto della divisione internazionale del lavoro, si chiudevano ormai sempre di più nel rafforzamento di una organizzazione politica democratica “bloccata” fra i poli elettorali della destra liberale e della sinistra moderata, fino al punto da integrare progressivamente una classe operaia priva di vocazione rivoluzionaria, perché incapace di elaborare un proprio progetto di nuova società, in grado di condurre all'abolizione delle classi9.
In questo contesto anche la tradizione marxista occidentale veniva depotenziata nelle modalità di una semplice corrente culturale incapace di trasformare la realtà. Il marxismo terzomondista sosteneva, allora, che il marxismo avesse ormai acquistato una vocazione asiatica e africana10.
Anche l'attenzione di Pasolini per l'Africa nasce apparentemente in una simile situazione di transizione. Sono bene noti i versi finali della poesia Frammento alla morte: “[…] / Sono stato razionale sono stato / irrazionale: fino in fondo. / E ora… ah, il deserto assordato / dal vento, lo stupendo e immondo / sole dell'Africa che illumina il mondo. // Africa! Unica mia / alternativa……………”.
Risalente all'aprile del 1960, Frammento alla morte è una delle “poesie incivili” inserite ne La religione del mio tempo, opera descritta, alla fine di un 1961 che lo vide viaggiare in India e Africa, come espressione della crisi degli anni Sessanta: “La sirena neocapitalistica da una parte, la desistenza rivoluzionaria dall'altra: e il vuoto, il terribile vuoto esistenziale che ne consegue. Quando l'azione politica si attenua, o si fa incerta, allora si prova o la voglia dell'evasione, del sogno (“Africa, unica mia alternativa”) o un'insorgenza moralistica (la mia irritazione contro una certa ipocrisia delle sinistre: per cui si tende ad attenuare, classicisticamente la realtà: si chiama ‘errore del passato', eufemisticamente, la tragedia staliniana, ecc.)” 11.
Si sbaglierebbe, tuttavia, a interpretare le parole evasione e sogno, che compaiono in questa replica polemica a un precedente intervento di Carlo Salinari, come espressione di una fuga dalla realtà. Nello stesso 1961, infatti, Pasolini parlava di una Resistenza negra che “non è finita; e pare non debba finire com'è finita qui da noi con i clericali e De Gaulle al potere. Mentre, se per noi Resistenza equivale, ancora a speranza, la resistenza storica, che si è conclusa, è ormai senza speranza, in Africa non è avvenuta la scissione di resistenza e Resistenza”12.
L'Africa, o l'Afroasia, si presentava allora come il sogno della coincidenza di “Resistenza” e “resistenza”; era l'evasione in una realtà in cui “si lotta dappertutto”, per un obiettivo immediato che è l'indipendenza, e per un obiettivo vero che è la giustizia sociale, “connubio tipico di ogni Resistenza”13.
È questa Resistenza, il suo legame indissolubile con la resistenza, che Pasolini cercherà, in quegli anni, in Africa.
Il 1962 si apriva, infatti, con un lungo viaggio in Africa (Egitto, Sudan e Kenia) e con l'elaborazione di un soggetto cinematografico, Il padre selvaggio, incentrato sulla formazione di un liceale africano destinato a far parte di quella classe dirigente a cui verrà affidato il compito di realizzare uno sviluppo di tipo europeo, e sul suo nucleo familiare di provenienza, ancorato attraverso la figura del padre ad un passato oscuro, “selvaggio nel senso nobile della parola”14. Pasolini pensava ad una ambientazione nel Congo della guerra civile scatenatasi dopo l'indipendenza (1960) tra il presidente Lumumba e le forze secessioniste del Katanga guidate da Ciombé e sovvenzionate dai poteri economici europei.
Anche il 1963 aveva inizio con un viaggio in Yemen, Kenia, Gahna e Guinea; e proseguiva con il Medio Oriente dei Sopraluoghi in Palestina, realizzati in vista del Vangelo secondo Matteo.
Nel 1964 in Poesie in forma di rosa il Terzo Mondo veniva continuamente evocato in Guinea, Profezia, Israele.
Nel 1965 e nel 1966 l'attenzione si concentrava sul Nord Africa, e particolarmente sul Marocco, scelto per le riprese dell'Edipo Re, che avranno inizio nell'aprile del 1967.
Alla metà degli anni Sessanta, l'Africa di Frammento alla morte è ormai per Pasolini un'Africa vissuta con grande passione.
Nel novembre del 1965 la pubblicazione del volume Alì dagli Occhi Azzurri verrà colta allora dal PCI come l'occasione buona per attaccare quello che sempre più si prospettava come una sorta di terzomondismo pasoliniano.
Ancora una volta fu Carlo Salinari, dalle pagine de l'Unità, ad intervenire sull'opera pasoliniana, per dichiararsi, da un lato, favorevole “al coraggio con cui Pasolini, in un momento in cui sembra che ci si debba interessare solo del neocapitalismo e dell'alienazione nei centri industriali, ci ricorda l'esistenza di tanta parte dell'umanità assillata da problemi diversi”, ma, d'altro lato, decisamente contrario “al suo voler considerare proprio le zone sottosviluppate come i centri motori della rivoluzione”.
Pasolini rispose a Salinari dalle colonne di Paese Sera, pubblicando sotto il titolo I diseredati sono il nostro Terzo Mondo due pagine pensate per l'introduzione di Alì, ma all'ultimo momento soppresse. In esse spiegava il senso della dimensione rivoluzionaria da lui colta nelle popolazioni del Terzo Mondo, a partire da quella che definiva la propria “disposizione arcaica” ad amare “uomini che in qualche modo portano nel cuore della civiltà borghese e piccolo-borghese una civiltà umana selvaggia”. “Quegli uomini – scriveva ancora Pasolini - tendono a un ‘futuro socialista', ma saltando l'esperienza borghese. L'esperienza borghese (malgrado lo snobismo capitalistico di molti stati africani e coloniali da poco liberi) che non pare presentarsi come indispensabile per il Vietnam del Nord o la Tanzania. Ma neanche per un sottoproletariato italiano – come del resto non è stata indispensabile per un sottoproletariato cubano o algerino, o per un contadino russo”15.
In queste considerazioni, piuttosto che individuare, nel senso del marxismo terzomondista, l'attribuzione di una missione rivoluzionaria alle masse del Terzo Mondo, è possibile cogliere la percezione di una condizione diffusa: “Un'unica linea sembra unire i nostri sottoproletari urbani e agricoli – resi di colpo ancora più arcaici dall'inserimento dell'Italia nello sviluppo europeo del neocapitalismo – con le tribù africane, rese meno arcaiche dalla loro partecipazione caotica, sia pure, alle guerre di liberazione nazionali (e sia pure piccolo-borghesi)”16.
Pasolini non sembra discostarsi dalle analisi sviluppate all'inizio degli anni Sessanta, allorché col “concetto di Africa” invitava a definire “il mondo del sottoproletariato consumatore rispetto al capitalismo produttore: il mondo del sotto-governo, della sotto-cultura, della civiltà pre-industriale sfruttata dalla civiltà industriale”17.
Segnalando che il Terzo Mondo è dappertutto, Pasolini potenziava i ragionamenti del marxismo terzomondista. A questo riguardo, in un'intervista rilasciata nel 1969 a Ferdinando Camon, egli indicava proprio l'Italia come paese-laboratorio, data la coesistenza in esso di mondo moderno industriale e Terzo Mondo: “Non c'è differenza tra un villaggio calabrese e un villaggio indiano e marocchino, si tratta di due varianti di un fatto che al fondo è lo stesso”18.
Queste riflessioni di Pasolini rivestono una straordinaria importanza in un tempo, come il nostro, così pronto a dichiarare la morte del terzomondismo.
In modo straordinariamente provocatorio Latouche vede nel seppellimento di quella “forma romantica della rivoluzione planetaria che attribuiva ai paesi sottosviluppati il ruolo messianico non assolto dal proletariato”, che fu il terzomondismo, un modo per l'Occidente di seppellire la propria cattiva coscienza: “È proprio come se la fine di una ideologia semplicistica, diventata non credibile di fronte alla complessità delle situazioni, avesse fatto scomparire la miseria del mondo”19.
C'è, tuttavia, una diversa possibilità di guardare alla fine del terzomondismo. Si tratterebbe, cioè, di cogliere in categorie come Terzo Mondo, Sud, Periferia, più che modalità di una ormai tramontata omologazione delle differenze, tipica del mondo bipolare della guerra fredda, la manifestazione di una volontà di unificazione delle forze anticapitalistiche. Volontà che non possiamo in alcun modo permetterci di seppellire.
Il terzomondismo di cui è opportuno riconoscere la morte è quello in cui quella volontà si era espressa, soprattutto tramite le élites che guidarono le lotte coloniali e antimperialiste, nell'obiettivo dello sviluppo, secondo il modello duramente criticato da Pasolini della “liberazione attraverso la modernizzazione”.
Ciò che invece merita di essere riconosciuto ancora in tutta la sua vitalità è il processo rivoluzionario della liberazione dal colonialismo realizzato dalle moltitudini, che, come Hardt e Negri evidenziano, “andava ben oltre l'ideologia della modernizzazione, rivelandosi così come una enorme produzione di soggettività irriducibile al bipolarismo USA-URSS e alla competizione tra i due regimi, che si limitavano a riprodurre la modernità come esclusiva modalità del dominio”20.
Negli anni in cui maturava il suo interesse per l'Africa, Pasolini riteneva fortemente sintomatico che a lottare per la giustizia sociale fossero rimasti i popoli più lontani dalla civiltà industriale, “dei sottoproletari addirittura preistorici rispetto a tale civiltà”. Allo stesso tempo, invitava a valutare il contrasto straordinario che si andava sempre più affermando fra la “sete violenta di ideologia” di questi popoli pre-industriali e l'atteggiamento di “desistenza o rigidezza” anti-ideologica del lavoratore europeo o americano, in generale dell'area neo-capitalistica21.
Da queste considerazioni, tuttavia, non scaturiva la proposta di una tattica terzomondista. Nella parte finale dello scritto La Resistenza negra, infatti, si afferma con forza la necessità di escludere un appoggio tattico alla lotta afroasiatica: una sorta di “momento fiancheggiatore della generale lotta politica”. Si assume, invece, l'impegno a fare di questo appoggio “il momento centrale di tale lotta”. Non a caso Pasolini decideva di chiudere lo scritto con quello che definiva “il grido del negro statunitense Frank Marshall Davis”: “Voi discepoli del Progresso / di tutto ciò che progredisce / comunisti, socialisti, democratici, repubblicani / guardate il quadro d'oggi: / non è bello a vedersi. […]”22.
Le lotte della soggettività moltitudinaria del Terzo Mondo attaccavano la modernizzazione capitalistica e non mancavano di denunciare il comune modello disciplinare interno alle sue varianti americana e sovietica. Per sopravvivere il capitalismo assumeva allora la forma di quella struttura gerarchica di comando rappresentata dal mercato mondiale, con la conseguenza che “nel momento stesso in cui festeggiavano la loro vittoria, le lotte di liberazione si trovarono confinate nei ghetti del mercato mondiale, in una sorta di favela dai confini indecifrabili”23.

3. La mobilità trasversale come azione controimperiale

Entrando nel regime disciplinare della produzione capitalistica, le masse del Terzo Mondo cominciavano a percorrere un durissimo processo di emancipazione attraverso il salario: “[…] nei tuguri delle nuove bidonville e delle favela, le relazioni salariali suscitavano nuove domande, nuovi bisogni e nuovi desideri. I contadini, diventati salariati e sottoposti alle norme disciplinari di una nuova organizzazione del lavoro, dovettero subire un grave peggioramento delle condizioni di vita – tanto che nessuno può affermare che divennero più liberi del lavoratore tradizionale territorializzato – e, tuttavia, in quel modo, divennero protagonisti di un nuovo desiderio di liberazione”24.
Questo nuovo desiderio di liberazione veniva colto in maniera contraddittoria da Pasolini.
C'è un Pasolini che in quel “desiderio di liberazione” non vedeva che un ingresso del Terzo Mondo nel neocapitalismo e che, ad esempio, rimaneva, come scrive nel resoconto del viaggio in Marocco del 1965, “non deluso, ma confuso”, dal fatto che nei cuori dei marocchini alberghi un ideale piccolo-borghese: “Rispetto alla Francia o in genere all'Europa, i marocchini sono un po' come un lucano rispetto a Milano: non criticano, non giudicano: vorrebbero semplicemente trasferirvisi, come luoghi che garantiscono aprioristicamente un tipo di vita borghesemente superiore, decantato nel contesto di una specie di snobismo plebeo”25.
È lo stesso Pasolini che nel 1969, intervistato da Jean Duflot, affermava di aver visto in Siria e Turchia, durante le riprese di Medea, un boom economico simile a quello che si sviluppava in quegli anni nell'Italia meridionale, tanto che “l'ideale della gente è di raggiungere l'onesto livello del consumo piccolo-borghese”26.
Nello stesso anno, nell'intervista rilasciata a Camon, ancora a proposito dei contadini del Terzo Mondo, affermava: “Essi attendono di essere riscattati da qualcun altro: in un profondo sopore (nomino i primi tre posti che mi vengono in mente: Wawarli, un villaggio indiano; Zagorà, un paesello del deserto marocchino, Tonje, un villaggio del Basso Sudan) i contadini colorati aspettano un nuovo futuro che li trasformerà da contadini preistorici in contadini storici, prima di tutto, e poi da contadini storici in piccolo borghesi. Ecco la grigia, deludente, lenta realtà”27.
Un Pasolini deluso, alla fine degli anni Sessanta, non sembra affatto disposto a riconoscere i possibili esiti liberatori di una emancipazione attraverso il salario.
Eppure siamo di fronte al superamento della tradizionale forma dell'imperialismo, in cui la forza-lavoro veniva collocata sulla direttrice colonia-metropoli. Nel mercato globale, infatti, si determina un nuovo tipo di mobilità: “una mobilità trasversale della forza lavoro disciplinata, che esprime un'inequivocabile ricerca di libertà ed è il sintomo di nuovi desideri nomadici che il regime disciplinare non è più in grado di contenere”28.
Portando la forza-lavoro del Terzo Mondo nel Primo, la mobilità trasversale contribuisce in modo decisivo a cancellare la vecchia dimensione delle frontiere e ad aprire possibilità rivoluzionarie. Come Hardt e Negri sottolineano: “I veri eroi della liberazione del Terzo Mondo oggi sarebbero i migranti e i flussi delle popolazioni che hanno distrutto vecchie e nuove frontiere”29.
Pasolini aveva colto queste potenzialità liberatorie della mobilità, agli inizi degli anni Sessanta, nella poesia Profezia, scritta in forma di croce.
Dedicata a Jean-Paul Sartre, dalla cui voce dichiarava di aver appreso la storia di Alì dagli Occhi Azzurri, Profezia contiene una potente descrizione della mobilità rivoluzionaria:

Alì dagli Occhi Azzurri
uno dei tanti figli di figli,
scenderà da Algeri, su navi
a vela e a remi. Saranno
con lui migliaia di uomini
coi corpicini e gli occhi
di poveri cani dei padri
sulle barche varate nei Regni della Fame. Porteranno con sé i bambini,
e il pane e il formaggio, nelle carte gialle del Lunedì di Pasqua.
Porteranno le nonne e gli asini, sulle triremi rubate ai porti coloniali.
Sbarcheranno a Crotone o a Palmi,
a milioni, vestiti di stracci
asiatici, e di camicie americane.
Subito i Calabresi diranno,
come da malandrini a malandrini:
“Ecco i vecchi fratelli,
coi figli e il pane e formaggio!”
Da Crotone o Palmi saliranno
a Napoli, e da lì a Barcellona,
a Salonicco e a Marsiglia,
nelle Città della Malavita.
Anime e angeli, topi e pidocchi,
col germe della Storia Antica
voleranno davanti alle willaye.
[...]
dietro ai loro Alì
dagli Occhi Azzurri — usciranno da sotto la terra per uccidere —
usciranno dal fondo del mare per aggredire - scenderanno
dall'alto del cielo per derubare - e prima di giungere a Parigi
per insegnare la gioia di vivere,
prima di giungere a Londra
per insegnare a essere liberi
prima di giungere a New York
per insegnare come si è fratelli
- distruggeranno Roma
e sulle sue rovine
deporranno il germe
della Storia Antica.
Poi col Papa e ogni sacramento
andranno su come zingari
verso nord-ovest
con le bandiere rosse
di Trotzky al vento...30


Rispetto ad un comando imperiale intento ad isolare le popolazioni nella povertà delle nazioni post-coloniali, Pasolini sembra anticipare ciò che può rappresentare l'esodo dal localismo: quella trasgressione dei confini e delle dogane, quella diserzione dalla sovranità, che in Impero viene individuata come la forza propulsiva della liberazione del Terzo Mondo31.
Riprendendo opportunamente la distinzione tra emancipazione e liberazione, elaborata da Marx nel testo Sulla questione ebraica, Hardt e Negri colgono l'emancipazione nell'accesso di nuovi popoli e di nuove nazioni nella società imperiale del controllo, mentre scorgono la liberazione quando, distrutti i confini e le strutture della migrazione forzata, la moltitudine si riappropria dello spazio, determinando la circolazione globale e le mescolanze tra individui e popolazioni.
Se, nella succitata intervista a Camon, un Pasolini deluso/confuso dall'ingresso del Terzo Mondo nel sistema del neocapitalismo sostiene di voler rinnegare Profezia, definendola un “capriccio vitale e fecondo della passione politica, un rovesciamento voluto e cosciente del buon senso del futuro”32, è proprio in Alì dagli Occhi Azzurri, nella mobilità trasversale da lui incarnata, che è possibile per noi scorgere un'azione radicalmente controimperiale.


1 Cfr. S. LATOUCHE, Il pianeta dei naufraghi, Bollati Boringhieri, Torino 1993, part. cap. 1.
2 Cfr. M. HARDT – A. NEGRI, Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione (2000), Rizzoli, Milano 2002, part. pp. 310-313.
3 Ivi, p. 312.
4 P. P. PASOLINI, Appunti per un poema sul terzo mondo, in P.P. PASOLINI, Per il cinema, vol. 2, Mondadori, Milano 2001, p. 2679.
5 M. HARDT, T. NEGRI, op. cit., p. 311.
6 Ivi, pp. 239-240.
7 P. P. PASOLINI, La Resistenza negra, in Letteratura negra, a cura di M. De Andrade, Editori Riuniti, Roma 1961, p. XXIII.
8 S. AMIN, La vocazione terzomondista del marxismo, in Storia del marxismo. Il marxismo oggi, Einaudi, Torino 1982, p. 299.
9 Ivi, p. 300.
10 Ivi, p. 302.
11 P. P. PASOLINI, Salinari: risposta e replica, in “Vie Nuove”, n. 45, 16 novembre 1961; ora in P.P. PASOLINI, Saggi sulla politica e sulla società, Mondadori, Milano 1999, p. 978.
12 P. P. PASOLINI, La Resistenza negra, cit., p. XV
13 Ivi, p. XXIV.
14 P. P. PASOLINI, intervista rilasciata a L. Biamonte, in “Il Paese”, 25 febbraio 1962.
15 P. P. PASOLINI, I diseredati sono il nostro “Terzo Mondo”, in “Paese Sera”, 23 marzo 1966; ora in P. P. PASOLINI, Saggi sulla politica e sulla società, cit., p. 829.
16 Ivi, pp. 826-827.
17 P. P. PASOLINI, La Resistenza negra, cit., p. XXIII.
18 P. P. PASOLINI, Intervista rilasciata a Ferdinando Camon (1969), in P. P. PASOLINI, Saggi sulla politica e sulla società, cit., p. 1638.
19 S. LATOUCHE, op.cit., p. 26.
20 M. HARDT – A. NEGRI, op. cit., p. 236.
21 P.P. PASOLINI, La Resistenza negra, cit., p. XXIV
22 Ibidem.
23 M. HARDT – A. NEGRI, op. cit., p. 238.
24 Ivi, p. 239.
25 P. P. PASOLINI, Viaggio in Marocco, in P. P. PASOLINI, Saggi sulla politica e sulla società, cit., p. 1060.
26 P. P. PASOLINI, Il sogno del centauro, in P. P. PASOLINI, Saggi sulla politica e sulla società, cit., p. 1485.
27 P. P. PASOLINI, Intervista rilasciata a Ferdinando Camon, cit., p. 1645.
28 M. HARDT – A. NEGRI, op. cit., p. 239.
29 Ivi, p. 337.
30 P. P. PASOLINI, Profezia (seconda versione), versi citati dall'autore nell'intervista rilasciata a Ferdinando Camon.
31 Cfr. M. HARDT – A. NEGRI, op. cit., p. 337.
32 P. P. PASOLINI, Intervista rilasciata a Ferdinando Camon, cit., p. 1644.

Fonte:
http://digilander.libero.it/lepassionidisinistra/n_14/perche.htm

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Un laboratorio di passioni

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro

Un laboratorio di passioni
di Vito Copertino


“Noi non riusciamo a coinvolgere le passioni della sinistra, la sua anima profonda”, così si preoccupa Alfredo Reichlin sull'Unità del sette novembre. Lo dice a proposito del nascituro partito democratico, ma la sua è una preoccupazione generale, un problema politico serio, che da molti anni si pone a tutta la sinistra italiana, non solo a quella riformista.
“Ma, in questi tempi, la sinistra ha ancora un'anima profonda?” incalza Valentino Parlato sul Manifesto del dieci novembre.
Poi, tutti e due convengono che “l'Italia non ha più una base culturale seria” ed è questo che preoccupa davvero perché lo sfilacciamento del tessuto etico e culturale si traduce nella disaffezione del cittadino alla politica. In questa situazione ci vorrebbe ben altro che l'indicazione di una politica ridotta ad esprimere la sua “disponibilità a tutti gli usi dei potenti del momento”, e degradata a tecnica di gestione dell'esistente.
Di fronte ad una tale confessione di non sapere dire null'altro, conforta leggere nella recente autobiografia di Pietro Ingrao, che lui, invece, “voleva la luna”.
Più modestamente, questa rivista vuole partecipare all'impresa di ricercare l'anima profonda della sinistra e di costruire una prospettiva di cambiamento reale, attraverso il tentativo di ritrovare nella politica quella carica utopica ed eversiva che sembra avere smarrito. Lo fa da più di cinque anni, seguendo l'insegnamento della critica marxista all'ideologia, partendo sempre dall'analisi dei fenomeni sociali e politici della società presente per demolire false certezze, anche quelle costruite dalla sinistra, e capire come sono cambiate oggi le forme di sfruttamento e di dominio.
Nel preparare gli Appunti per un poema sul Terzo Mondo, un'opera che non realizzò mai, ma mai abbandonò del tutto, Pasolini si convinse che il processo di liberazione di popoli e classi sfruttate non può passare attraverso la sussunzione nei modelli della democrazia formale occidentale né per un sistema che omologa ogni diversità economica, politica e culturale.
E' questo il senso che diamo, in questo numero, al laboratorio di ricerca teatrale, allo spettacolo multimediale su Pasolini e il Terzo Mondo, alla ricerca del suo messaggio politico ed umano.
Al lavoro, qui, è il Collettivo Laboratorio Teatrale “dei Popoli” di Molfetta, ricco delle suggestioni provenienti dall'esperienza di registi e attori, degli interventi decostruttivi di filosofi ed architetti, dei suggerimenti preziosi di singoli altri attori non professionisti.
E' impossibile ricondurre Pasolini a un progetto politico, e non è questo l'intento della ricerca. Sarebbe stato riduttivo, ai suoi tempi, e, a maggior ragione, oggi, sarebbe inutile, fuorviante.
Nei diversi articoli di questo numero, da Pasolini la redazione riprende la critica della democrazia formale e della sua esportazione nei contesti di culture e civiltà altre, e la sviluppa attraverso l'analisi storica e filologica, lo studio urbanistico della sorte dei beni culturali e architettonici del patrimonio dell'umanità, la riflessione sui soggetti di una possibile trasformazione.
Riparlare di Terzo Mondo con un intellettuale che fu sospinto nelle poverissime terre dell'Africa e del Medioriente dalla ricerca di un'autenticità impossibile in un mondo omologato dal processo di modernizzazione capitalistica significa ripercorrere i luoghi della sua opera saggistica, teatrale e cinematografica alla ricerca di un confronto possibile di quegli strumenti analitici con i fenomeni dell'attualità.
Oggi che la stabilità internazionale e la pace dipendono dalla soluzione dei conflitti che sono presenti in queste zone del mondo, ritorna prepotente l'attualità dell'analisi pasoliniana; abbiamo inteso l'importanza di riparlarne in una fase storica in cui l'Italia è impegnata in Afghanistan, in Iraq e in Libano, dove si svolgono vere e proprie azioni di guerra, e tutte le voci, anche quelle della sinistra, tacciono. Siamo infatti convinti, con Pasolini, che la pretesa di esportare il nostro modello di democrazia in Medioriente equivalga alla riproposizione di una logica politica imperialistica, e alla imposizione del modello economico neoliberista; siamo anche convinti che solo l'esercizio della critica può consentire alla sinistra di evitare fallaci ideologismi, di resistere al rullo compressore del neoliberismo e di condannare il ricorso alla guerra - in qualunque forma storica essa si presenti.
Convinta che l'essere minoranza non vuol dire per nulla essere minoritaria, la rivista ritorna sulla valorizzazione delle differenze, reagisce alla moltiplicazione dei recinti, visibili o invisibili, che delimitano terreni in cui tenere a bada l'alterità. Riscopre l'Orestiade Africana e lo fa senza presunzioni intellettualistiche, senza la pretesa di ricondurre la vita e il lavoro di un poeta a una prospettiva politica ancora oggi irrealizzabile, una prospettiva che rappresenta oggi un bisogno diffuso nelle società occidentali ma non trova applicazione nelle politiche e nei programmi dei partiti, in Italia e neppure in Europa.
I componenti di un gruppo teatrale, i redattori di una rivista di approfondimento culturale e politico, i volontari di un'associazione di commercio equo e solidale, gli autori di Pedagogie africane: sono tutti a rappresentare “l'agire di quei molti che non sono professionisti della politica , non ne hanno né la competenza né la delega, ma proprio per questo sono in grado di pensare e praticare la trasformazione della realtà ben oltre i limiti e le compatibilità stabilite da chi sa di politica” (Maurizio Zanardi, Aporie napoletane, Ed. Cronopio, Napoli 2006, p.17).
La politica è un agire pensante proprio perché attiva collettivamente ciò che in noi ci eccede: il troppo della vita che non può essere contenuto in nessuna forma. E non è un agire mite, spesso comporta conflitti e rotture non solo con il legame sociale ma anche con se stessi.
Più la politica si manterrà autonoma dalle preoccupazioni della gestione dello stato, più sarà in grado di impedire i tentativi dispotici del ceto politico e le prepotenze delle nuove burocrazie.

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