"Le pagine corsare "
dedicate a Pier Paolo Pasolini
Eretico e Corsaro
L'USIGNOLO
di Italo Moscati
Tratto da:
PASOLINI PASSIONE
Vita senza fine di un artista trasparente
EDIESSE, Roma 2005
Fu lo Spirito Santo a spingere il marxista Pier Paolo Pasolini a sfogliare il Vangelo? I racconti su quella notte si assomigliano tutti e ne fanno una storia edificante.
Lesse il Vangelo «d'un fiato come un romanzo scoprendo quanta parte della realtà del mondo contadino dell'età di Cristo è finita nelle pagine del testo di Matteo, il più 'rivoluzionario' perché il più 'realista'» (Naldini).
Provò subito il bisogno di «fare qualcosa», sentì «una energia terribile, quasi fisica»; e la «via di Damasco» che gli si spalancò davanti non fu quella della fede giunta come un fulmine a coglierlo, ma quella «estetica» della poesia. Il lettore notturno fu «invaso da quell'aumento della vitalità che l'opera di poesia - è la tesi di Bernard Berenson - suscita» (Siciliano).
Dopo la notte di Assisi, Pasolini scrisse in una lettera a Lucio Settimio Caruso, collaboratore di don Rossi, d'aver letto il Vangelo per la prima volta durante la guerra, fra il 1940 e il 1941, a diciott'anni. Si era sentito ispirato e con il tempo ne erano nati i versi di "L'usignolo della Chiesa cattolica".
In queste pagine Pier Paolo aveva riversato il suo amore per il «Cristo, sereno poeta, fratello ferito», per il Cristo dal «corpo di giovinetta», e la drammatica emozione provata di fronte alla crudeltà della crocifissione.
Una vera passione che si ritroverà anche in un altro suo libro, pubblicato più avanti negli anni, e sempre prima di Assisi, "La religione del mio tempo": «Io davo a Cristo / tutta la mia ingenuità e il mio sangue».
Nei versi dell'"Usignolo", il giovane Pasolini trasmise il suo bisogno di agire, di compromettersi: «Bisogna esporsi (questo insegna / il povero Cristo inchiodato?), / la chiarezza del cuore è degna / di ogni scherno, di ogni peccato / di ogni più nuda passione... / (questo vuol dire il Crocifisso? / sacrificare ogni giorno il dono / rinunciare ogni giorno al perdono / sporgersi ingenui sull'abisso)».
A quale perdono e a quale abisso Pasolini alludeva fin quasi a inchiodarsi egli stesso alla croce?
Alberto Moravia, che lo conosceva bene, lo stimava, ma non si faceva commuovere facilmente, riteneva che i suoi tormenti fossero dovuti a un senso di colpa di cui non era mai riuscito a liberarsi interamente, un senso di colpa dovuto all'aver adottato il giudizio negativo della società italiana sull'omosessualità.
Il gesuita Virgilio Fantuzzi, rifacendosi a questo giudizio negativo, aggiungeva che Pasolini sfidava una società iniqua da cui si sentiva ingiustamente condannato e protestava perché escluso «dalla festa della vita che solo per gli altri si rinnova».
Ma Pasolini non parlava soltanto di sé. Accusava la Chiesa di non fare abbastanza per condannare questa iniquità; ma anche la riteneva responsabile, in nome di un giudizio di cui si sentiva vittima, di non cercare rimedio a tutte le iniquità. La Chiesa gli appariva due volte colpevole, sia perché dimenticava i diversi come lui, sia perché stava con i ricchi e con lo Stato anziché con le moltitudini di poveri e sfruttati.
La passione ideologica di Pasolini, veemente come in un profeta, seduceva non solo i disponibili, generosi cattolici della Cittadella di Assisi, ma anche tutti quei cattolici che, come gli ex preti delle tendopoli, consideravano la Chiesa una vera peccatrice. Egli non amava la Chiesa ma sperava in qualche modo di contribuire a correggerla, usando la sua arte.
In quella stessa lettera che indirizzò a Caruso, proponendo il suo sincero «irrazionale sentimento» per il Cristo «che credo divino», Pier Paolo esprimeva il desiderio che il suo futuro film «potesse essere proiettato nel giorno di Pasqua in tutti i cinema parrocchiali d'Italia e del mondo. Ecco perché ho bisogno della vostra assistenza e del vostro appoggio. Vorrei che le mie esigenze espressive, la mia ispirazione poetica non contrastassero mai la vostra sensibilità di credenti».
In nome di «un'idea prepotente ed esclusiva», incosciente o forse machiavellico, pretendeva di mettersi alla testa dei credenti da non credente.
Era stato ospitato ad Assisi, nei giorni in cui si svolgeva «attutita, estranea e, in fondo, ostile la festa per l'arrivo del papa». Giovanni Ventitreesimo, il papa che amava e che avrebbe voluto vedere capace di emendare i peccati della Chiesa, era stato lì per una breve apparizione alla Cittadella. Pier Paolo era rimasto nella sua stanza a rileggere il Vangelo.
Una volta finito il film, avrebbe risposto a un lettore sul settimanale comunista "Vie Nuove"; «Se ti è lecito identificare un momento storico della Chiesa con la classe sfruttatrice, ciò non significa che lo puoi fare sempre [...] Il papa si è tolto dalla testa la mitria e l'ha donata ai poveri, sollevando un alto applauso tra tutti i vescovi e i cardinali avanzati che pensano la Chiesa come Chiesa dei poveri».
Non ci fu nessun miracolo ad Assisi. Ci fu soltanto l'intuizione di un prete intelligente. Don Giovanni Rossi capì il dono che un artista come Pasolini avrebbe potuto fare, più di altri, alla Chiesa di papa Giovanni e del Concilio Vaticano secondo, un'assise di prelati di tutto il mondo in cui l'intera vecchia struttura del cattolicesimo era stata messa in discussione.
Pasolini, a sua volta, capì che, affievolitasi ormai «la luce della Resistenza», la parola sacra del Vangelo avrebbe potuto essere così forte da surrogare la crisi ideale del marxismo e la sua personale crisi politica.
Il P.C.I. era stato ed era ancora una grande madre protettiva che Pasolini poteva criticare ma che non avrebbe mai abbandonato.
Curiosamente, se papa Giovanni predicava di aprire il dialogo facendo distinzione tra l'errore del comunismo, che andava comunque respinto, e gli erranti, cioè i comunisti, Pasolini preferiva mantenere il dialogo con il partito e polemizzare con i suoi intellettuali o con i burocrati che sbagliavano. Né papa Giovanni né Pasolini rinunciavano a credere nelle rispettive chiese.
Il film sul Vangelo poteva e doveva diventare un'occasione di dialogo fra cattolici e comunisti come rare volte si era verificato in passato.
Don Rossi, confidente di papa Giovanni Ventitreesimo che appena eletto nel 1959 gli comunicò la sua intenzione di convocare un Concilio, aveva cominciato da tempo a lavorare per Pasolini. In un colloquio privato con il pontefice, avvenuto agli inizi del 1963, quando Pier Paolo aveva in corso il piccolo carteggio con i nuovi amici della Cittadella, gli parlò del film che Pasolini voleva girare. La risposta fu positiva. Andate avanti, disse il papa, «con coraggio e con prudenza».
Sono particolari che Caruso ha comunicato alla rivista "30 giorni", diretta da Giulio Andreotti, nel dicembre 1994. Interessanti perché vi si apprende che a difendere il progetto fu anche l'arcivescovo di Genova Giuseppe Siri, considerato il più conservatore del Sacro Collegio.
In una lettera a don Rossi, che chiedeva lumi e coperture, rimasta a lungo inedita, l'allora presidente della Conferenza episcopale per l'Azione cattolica diede il suo nulla osta: «Per portare avanti la conquista della cultura a Dio, qualcosa bisogna pur rischiare. Non siamo dispensati dai canoni della prudenza; ma anche la prudenza in taluni casi consiglia l'audacia. Esclude solo la temerarietà. Mi permetta di pregarla di 'assistere molto', di far pregare molto perché non si può ammettere che la faccenda riesca meno bene dal punto di vista del rispetto pieno a Nostro Signore».
L'intervento di Siri fu politico e provvidenziale insieme. Già spirava un'aria favorevole al progetto che veniva da padre Grasso della Gregoriana e da altri teologi, mentre don Rossi era persino trepidante e disse a Pasolini che sempre lo aspettava ad Assisi «con grande amore e ammirazione».
Don Rossi mise accanto al regista come consulente il biblista don Andrea Carraro, «un prete contadino dal sorriso arguto», come lo definì il regista. Quando morì, nel marzo del 1969 mentre non cessavano le fastidiose polemiche su "Teorema", Pier Paolo andò a visitare la salma e lasciò un suo ricordo: lo aveva giudicato da subito un uomo infinitamente buono «perché ciò che conta è l'irraggiungibile santità, non la Chiesa. E ciò che solo ha valore, è questo silenzio della morte, così più reale di ogni obbedienza e di ogni disobbedienza».
Pasolini si dedicò al lavoro e in pochi mesi consegnò la sceneggiatura. Lucio Settimio Caruso, dopo averla letta, comunicò il suo entusiasmo all'autore, che rispose: «In me durante questi ultimi anni, l'insofferenza totale verso la borghesia ha assunto caratteri estremi [...] Là dove si parla di Dio, anche per dire la propria miscredenza, non c'è la borghesia. Forse è appunto perché sono così poco cattolico, che ho potuto amare il Vangelo e farne un film».
Una volta finito, il film divise i cattolici. Ebbe molti elogi ma provocò sconcerto fra gli alti prelati. Dopo aver assistito alla prima mondiale alla Mostra di Venezia del settembre 1964, il cardinale Giovanni Urbani reagì all'istante in modo negativo: «Pasolini non ha capito il Vangelo: Gesù non era così». Ma poi, come riferirà trent'anni dopo il segretario particolare di papa Giovanni, monsignor Capovilla, il cardinale Urbani era tornato a casa e aveva riletto il Vangelo di Matteo finendo per correggersi: «Mi sono accorto che Pasolini, pur da laico, aveva portato sullo schermo esattamente il Gesù di Matteo. Con grande fedeltà, parola per parola».
D'accordo con lui furono i padri riuniti a Concilio che applaudirono il film all'inizio quando apparve la scritta «Alla cara, lieta, familiare memoria di Giovanni Ventitreesimo», e alla fine. Papa Giovanni era morto, e sul soglio pontificio era salito Paolo Sesto. Si disse che anche lui avesse visto il film da solo, in una proiezione riservatissima, ma il fatto non fu mai confermato.
Pasolini era ormai uomo con il quale si poteva dialogare. Non fu soltanto il "Vangelo" ad autorizzare lo sviluppo del dialogo ma, paradossalmente, lo scandalo della "Ricotta", che non intralciò la preparazione del film tratto dalle pagine di Matteo, ma anzi la accelerò.
Il primo marzo 1963 un ufficiale dei carabinieri si era presentato al cinema Corso di Roma, dove si proiettava il film "Rogopag" in cui era inserito "La ricotta", con un ordine di sequestro firmato dal sostituto procuratore della repubblica di Roma, Giuseppe Di Gennaro. La proiezione venne interrotta perché, come si è detto, l'episodio diretto da Pasolini costituiva «vilipendio della religione di Stato».
Secondo Di Gennaro, il regista, «con il pretesto di descrivere una ripresa cinematografica», rappresentava «alcune scene della Passione di Cristo dileggiandone la figura e i valori con il commento musicale, la mimica, il dialogo e altre manifestazioni sonore, nonché tenendo per vili simboli e persone della religione cattolica».
Pasolini aveva previsto il rischio e aveva messo all'inizio del film una dicitura: «[...] la storia della Passione è la più grande che io conosca, e i Testi che la raccontano, i più sublimi che siano mai stati scritti».
Ma la formula non bastò perché Pasolini fu condannato per vilipendio a quattro mesi di reclusione. Un anno dopo fu assolto «perché il fatto non costituisce reato» e nel 1968 il caso fu finalmente chiuso con il dissequestro del film che intanto aveva ripreso a circolare, con il titolo "Laviamoci il cervello", grazie ad alcuni tagli della censura.
Per "La ricotta" era intervenuta direttamente la magistratura. La Chiesa aveva preso una posizione cauta. La Commissione vaticana per la revisione e il giudizio morale sui film non aveva «escluso per tutti» la pellicola. Alcuni autorevoli critici di giornali cattolici avevano pubblicato recensioni favorevoli. E forse anche gli appoggi dei cattolici di Assisi erano serviti.
Ma soprattutto doveva aver agito in modo sotterraneo, nella Chiesa e fra i cattolici, quella preoccupazione, esposta nella lettera del cardinale Siri: «Per portare avanti la conquista della cultura a Dio, qualcosa bisogna pur rischiare». La Chiesa cercava il dialogo con il mondo della cultura e sapeva che con quello del cinema non era facile. Sapeva anche che, in un paese dove tutto stava cambiando, si doveva pur correre qualche rischio, sia pure calcolato.
In Vaticano, i prelati non ignoravano quello che il centro e la destra politica dicevano del cinema italiano, e cioè che era sottoposto a una tradizionale e forte egemonia della sinistra, comunista in particolare. Gli interventi della censura ministeriale contro alcuni film che venivano allora definiti genericamente «impegnati» davano spesso la netta sensazione di colpire i registi, gli sceneggiatori, gli autori di sinistra in nome del pregiudizio.
Il potere della Chiesa, sia pure ridotto rispetto a quello politico, faceva comunque paura. Un giudizio negativo della Commissione di revisione dei film, affisso nella parrocchie e pubblicato dai giornali, letto in questura o da qualche giudice, poteva avere effetto sull'affluenza nelle sale e poteva essere usato per avviare lunghi procedimenti in tribunale. I rapporti esistenti fra la Chiesa e il governo guidato da democristiani erano tali, e il cinema italiano era così poco amato in Vaticano, che erano pensabili intese contro i film con maggiori ambizioni artistiche e culturali.
Registi famosi cercavano protezione e aiuto, o almeno prendevano qualche precauzione, rivolgendosi a sacerdoti intelligenti e colti per consigli, consulenze.
Federico Fellini, per "Le notti di Cabiria" o per "La dolce vita", ma anche per altri suoi film, chiedeva abitualmente pareri a padre Angelo Arpa, un gesuita esperto e sensibile, consultato anche da altri autori, compreso Pasolini. E così facevano anche importanti produttori.
C'era una lunga storia dei rapporti fra cinema, Vaticano e cattolici. Fuori dagli ambienti di Cinecittà, molti ignoravano che dal 1944, subito dopo l'entrata degli Alleati a Roma, il domenicano belga padre Felix Morlion, collaboratore durante la guerra del servizio segreto americano, aveva iniziato a organizzare in Italia un'estesa rete di sale parrocchiali grazie a una gran quantità di dollari.
Inoltre, sul finire degli anni quaranta, appoggiandosi al giovane giornalista Gian Luigi Rondi, amico dell'allora altrettanto giovane Giulio Andreotti, sottosegretario alla presidenza del Consiglio, incaricato del settore cinematografico, padre Morlion aveva avvicinato Roberto Rossellini, che realizzò "Stromboli terra di Dio" con Ingrid Bergman, e Vittorio De Sica. Entrambi potevano essere interlocutori su cui influire, poiché erano sempre alla ricerca di finanziamenti per i loro film.
Erano semplici iniziative per arginare l'egemonia comunista?
Il clima generale di quel periodo era molto particolare, molto carico di tensioni. E così lo descrive, a distanza di quasi cinquant'anni, lo storico del cinema Guido Aristarco: se per il cinema erano, con i capolavori del neorealismo, anni stupendi, tuttavia, «nessuno si sentiva indipendente. C'era imminente il pericolo di una guerra civile, c'erano persone pronte a partire per la Svizzera. Portare in tasca 'l'Unità' oggi fa ridere. Per noi, in quella situazione, vedere che l'autore di "Germania anno zero" aveva fatto un film come "Stromboli terra di Dio" era come vedere qualcuno abbandonare la battaglia».
In questo clima si combattevano lunghe, silenziose ma infuocate battaglie per orientare il cinema che era ancora il mezzo di comunicazione di massa più potente e non subiva la concorrenza dalla televisione.
La Chiesa di papa Giovanni non era più quella di padre Morlion e sceglieva altre strade, altri metodi.
Per questa Chiesa Pasolini poteva essere il compagno di strada?
I suoi scritti, i suoi film, i suoi interventi avevano un'intensità ideale che pochi scrittori e registi cattolici mostravano di possedere. E Pasolini sapeva almeno essere un interlocutore serio.
In un intervento alla Terza settimana sociale dei cattolici, nel settembre 1967, sempre ad Assisi, il regista fece una vera e propria lezione di semiologia applicata alla fede davanti a un pubblico composto in prevalenza di cattolici.
Era il frutto delle sue teorizzazioni sul linguaggio del cinema, che s'intrecciavano con la realizzazione dei film, e che esponeva volentieri ogni volta che gliene si dava l'occasione. Disse che i cattolici commettevano un errore se in arte pretendevano troppo dai contenuti; e aggiunse che il cinema era, in quanto riproduttore della vita e della natura, un linguaggio attraverso il quale si esprimeva Dio.
Nessuno si sentì di controbattere.
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Curatore, Bruno Esposito
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