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Biografia, lavori in corso - a breve anche il 1974 e il 1975

giovedì 20 marzo 2014

Che cosa sono le nuvole?

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro



3. Che cosa sono le nuvole?
di Gian-Maria Annovi


Un’analisi del breve film del 1967, Che cosa sono le nuvole?, non può prescindere da un confronto con Calderón, se non altro perché la vicenda di questo cortometraggio, vero e proprio piccolo capolavoro nel cinema di Pasolini, si svolge in un teatro. Si tratta però di un teatro povero e spoglio dove un pubblico alquanto popolare, fatto di uomini, “vecchie comari e giovanotti di vita”(86) è radunato per assistere a una versione per burattini dell’Otello di Shakespeare.
Non è chiaro da dove Pasolini abbia tratto ispirazione per questo progetto cinematografico, ma ha forse ragione Maurizio Viano a individuare un possibile modello in Paisà (1946) di Roberto Rossellini. In particolare, Pasolini sembra aver avuto ben in mente l’episodio ambientato a Napoli, dove un soldato afro-americano, accompagnato da un ragazzetto napoletano, si ritrova ubriaco davanti a uno spettacolo di burattini basato sulla lotta tra il cristiano Orlando e i saraceni. Il soldato, identificatosi con il personaggio del Moro e incapace di distinguere tra realtà e rappresentazione, mostrando così anche la consapevolezza di Rosselli circa gli effetti che la finzione (il cinema) può provocare nella percezione della realtà, interrompe brutalmente lo spettacolo quasi distruggendo il teatrino. La scelta pasoliniana di rappresentare la tragedia shakespeariana del Moro di Venezia sembra dunque stimolata dal rimando al protagonista e alla metarappresentazione del capolavoro di Rosselli, ampliamente discusso dal critico francese André Bazin nel suo imprescindibile Che cos’è il cinema? (1958-62), titolo che Pasolini avrebbe voluto impiegare proprio per un film a episodi comprendente anche il cortometraggio del ’67:

Avevo infatti in mente da molto tempo un grosso film fatto di episodi, ora lunghi ora brevi, tutti comici. Doveva intitolarsi Che cos’è il cinema, addirittura, oppure, più modestamente, Smandolinate. E De Laurentis mi ha offerto la possibilità pratica di fare due di questi episodi comici: prima La Terra vista dalla luna, e adesso Che cosa sono le nuvole?(87)

A consolidare il legame tra i due attori protagonisti, stabilito con Uccellacci e uccellini e ripreso proprio nel cortometraggio La terra vista dalla luna (1966),(88) Otello è interpretato da Ninetto Davoli, con la faccia bistrata, mentre Jago da un Totò dal volto dipinto espressionisticamente di verde. Lo spettacolo di burattini segue a grandi linee la tragedia shakespeariana, tra scene di gelosia, menzogna e tradimento ma, nel momento in cui Otello, seguendo il proprio destino di personaggio, s’avventa su Desdemona per ucciderla, il pubblico si ribella e – a confermare il legame con il film di Rossellini – irrompe sulla scena e uccide, strappandoli dai loro fili, Jago e Otello, che verranno poi portati in una discarica dall’immondezzaro interpretato da Domenico Modugno.(89) È tra i rifiuti, ossia fuori dallo spazio della rappresentazione, che i due burattini vedono per la prima volta il mondo e la sua bellezza, sotto forma di grandi, inesplicabili, nuvole bianche che attraversano il cielo, confermando così che è solo dopo il montaggio compiuto dalla morte che la vita assume significato:

OTELLO Iiiiih, che so’ quelle?
JAGO Sono…sono…le nuvole…
OTELLO E che so’ le nuvole?
JAGO Boh!
OTELLO Quanto so’ belle! Quanto so’ belle!
JAGO (ormai tutto in comica estasi) Oh, straziante, meravigliosa bellezza del creato! (966)

Già da questa breve sinossi è facile intuire cosa leghi il cortometraggio del ‘67 a Calderòn: entrambe le opere affrontano il tema del rapporto tra realtà e rappresentazione tramite il teatro, che da un lato è mezzo stesso del discorso, dall’altro metarappresentazione all’interno del mezzo cinematografico. Ulteriori riferimenti, più o meno espliciti, confermano l’intimo legame osmotico tra le due opere. Quando Otello domanda a Jago la ragione per cui debba sottostare alle regole della rappresentazione, vale a dire interpretare il ruolo che gli è assegnato per nascita, la risposta che riceve è una citazione dal dramma di de la Barca (“noi siamo un sogno dentro un sogno,” 965).
Il nome del drammaturgo spagnolo pare evocato anche nella complessa metafora impiegata poco prima da Jago per spiegare le ambiguità del rapporto tra realtà e rappresentazione:

La nostra vita è come una polenta. Prende la forma della caldara dov’è rovesciata. Ma qual è questa forma? La forma della superficie della polenta contro la parete della caldara, o la forma della parete della caldara che contiene la polenta? Noi siamo la polenta, e il giudizio degli altri è la caldara… (965)

In una recensione a Calderón, Cesare Musatti ha fatto notare come, in friulano, il termine “calderon” sia sinonimo di “gran caldaia.”(90) Il titolo del dramma di Pasolini non è dunque solo un riferimento esplicito alla centralità della figura autoriale, ma anche una metafora di quel dramma che necessariamente ci contiene tutti dalla nascita, quello che in Calderón il personaggio di Rosaura esperisce in termini di Potere: “il nostro primo rapporto, nascendo, è dunque un rapporto col Potere, cioè con l’unico mondo possibile che la nascita ci assegna.”(91)
Il punto di contatto più importante tra le due opere si trova però ancora una volta in Velázquez. Subito dopo la creazione del burattino-Otello, una scena che nella sceneggiatura – è stato opportunamente notato da Marco Antonio Bazzocchi in una delle più puntuali analisi del film(92) – rimanda all’incipit del Pinocchio di Collodi,(93) ci viene mostrato l’esterno del teatrino, dove la macchina da presa indugia su alcuni manifesti che pubblicizzano quattro diversi spettacoli in programma. I titoli sono inseriti su altrettante riproduzioni di quadri di Velázquez. Il ritratto del Nano Don Diego De Acedo, corrisponde allo spettacolo di IERI, La terra vista della luna, il cortometraggio realizzato da Pasolini l’anno prima. Che cosa sono le nuvole appare invece – insieme al nome di Pasolini, che s’iscrive così da subito nell’opera – su una riproduzione de Las meninas, con l’indicazione OGGI. Gli altri due quadri, Il principe Baldassar Carlos e una nana e il ritratto di Filippo IV, corrispondono rispettivamente a due diversi progetti cinematografici pasoliniani: Mandolini, accompagnato dalla scritta PROSSIMAMENTE e Le avventure del Re magio randagio e il suo schiavetto Schiaffo, con l’indicazione DOMANI. Mandolini, o anche, secondo altre versioni fornite da Pasolini in diverse interviste, Smandolinate, è un film purtroppo mai realizzato. Avrebbe nuovamente visto
la coppia Ninetto-Totò al centro dell’azione, così come ne Le avventure del Re magio randagio, progetto poi evoluto nel più complesso e parimenti irrealizzato Porno-Teo-Kolossal, di cui ci resta solo il soggetto.(94)
Come ha scritto Alberto Marchesini, dando conto delle ipotesi interpretative di altri studiosi, solo il legame tra Che cosa sono le nuvole e Las meninas appare subito leggibile, mentre incerte sono le ragioni che apparentano gli altri film pasoliniani ai dipinti del pittore spagnolo. Bazzocchi ha però colto molto acutamente che una costante delle tele scelte da Pasolini è quella della presenza di nani, che tradirebbero – secondo la lettura approntata da Svetlana Alpers de Las meninas – “una certa anarchia”(95) all’interno dell’ordine sociale rappresentato dal pittore. Si tratta di un rilievo molto importante che trova riscontro proprio in Calderón, nella lunga descrizione del quadro affidata al personaggio della regina, dove è però impossibile non riconoscere la voce diretta dell’autore:

la nana rincagnata María Barbola, e il nano Nicolasito Pertusato (che sono poi i veri protagonisti di tutto questo ‘avvenimento casuale’, in quanto mostri, che, pur delicati nella luce, esprimono nella superficie la mostruosità che è nascosta e aggraziata nel fondo).”(96)

Se si considera che sia in Che cosa sono le nuvole? sia in La terra vista dalla luna, i personaggi sono rappresentati in modo grottesco e antinaturalistico, con capelli e abiti clowneschi, o volti dipinti, pare logico ipotizzare che così come i nani di Velázquez dichiarano, con la loro presenza, la pretestuosità di ogni ordine naturale e sociale all’interno della rappresentazione, i burattini di Pasolini – carichi dello stesso valore perturbante che Freud assegna alle bambole animate, ossia “il dubbio che un essere apparentemente animato sia vivo davvero”(97) – mettono lo spettatore di fronte a una finzione dichiarata: essi sono persone solo nella misura in cui nascono già personaggi, immersi nell’ordine della rappresentazione, come prova proprio l’inizio di Cosa sono le nuvole?:

OTELLO Bongiorno…
JAGO Bongiorno, bongiorno…
OTELLO (sbottando per uno slancio buffo e irrefrenabile) Quanto son contento!
JAGO Eh! Beato te!
OTELLO E perché, son così contento? Perché?
JAGO Perché sei nato!
OTELLO E che vuol dire che son nato?
JAGO Che ci sei!
OTELLO Ah… (937)

L’ingresso nel teatro “significa nascere, uscirvi, cioè entrare nell’altro mondo (il mondo reale), significa morire.”(98) Proprio come per Rosaura, infatti, è impossibile uscire dal sogno nel sogno, la rappresentazione che ci contiene, senza il sacrificio della vita. È la stessa morale che chiude anche La ricotta, con il commento sarcastico del regista alla morte sulla croce dell’attore Stracci (“Non aveva altro modo per ricordarci che anche lui era vivo”(99) ).
Al di là delle ragioni specifiche che hanno spinto Pasolini ad impiegare i quadri di Velázquez all’inizio del suo cortometraggio, ciò che importa rilevare ai fini di questa ricerca è che tramite queste locandine egli sta di fatto mettendo in scena la propria opera, quella già realizzata (La terra vista dalla luna), in corso (Che cosa sognano le nuvole?) e da farsi (Le avventure del mago randagio e Smandolinate). Il singolo film, insomma, non solo contiene al suo interno rimandi ad altre opere pasoliniane, suggerendo allo spettatore percorsi di lettura meta-testuali, ma funziona come palinsesto, vero e proprio piano dell’Opera ancora in corso, segnale dunque di quella fittissima trama di relazioni che Gérard Genette ha chiamato “transtestualità”(100) e che rappresenta l’essenziale chiave di accesso per chiunque voglia affrontare il corpus pasoliniano.
In Cosa sono le nuvole? ad essere esposto al pubblico è un vero e proprio piano della propria opera cinematografica, che necessariamente genera nel pubblico curiosità ed attese, ma soprattutto propone percorsi di lettura, presentando anche quanto già è stato fatto, come nel caso del cortometraggio La terra vista della luna, che – nonostante faccia parte del film a episodi Le streghe – Pasolini considerava, già lo si è detto, come il primo di una serie di favole comiche sul cinema:

Totò e Ninetto erano una coppia così deliziosa, e di per sé così poetica; avevano un mucchio di possibilità, lo sentivo. Perciò pensai di fare un film che fosse fatto di favole, e una di queste favole fu La terra vista dalla luna […] con la morte di Totò l’idea andò in fumo.(101)

Quello che Pasolini mostra all’inizio del cortometraggio del ‘67 non è insomma semplicemente uno degli infiniti piani di opere ‘ad uso interno’ che a partire dal 1942 iniziano a riempire le carte chiuse nei cassetti del poeta, e di cui ha dato ampia notizia Siti nel saggio che chiude il decimo, corposo volume delle opere pasoliniane. Si tratta invece di un progetto d’opera spettacolarizzato, esposto, pubblicizzato, come quello contenuto nel lungo poemetto di Poesia in forma di rosa intitolato Progetto per opere future. In quel testo, sono addirittura otto i progetti che Pasolini si premura di esporre “in visione semiprivata”(102) al suo pubblico (dantesca “picciola compagnia / che vuol sapere: quasi per elezione / di seme”),(103) progetti che spaziano dalla poesia alla prosa, dalla critica al teatro, in un’apparente mescolanza di “materie / inconciliabili, magmi senza amalgama.”(104)Tra le opere future nominate ci sono la raccolta poetica Bestemmia e lo pseudo-romanzo La Divina Mimesis, l’unico a vedere la luce. Nulla si sa invece della Passionale storia della poesia italiana e di Morte della poesia, così come dell’irrealizzabile Alto monologo, “una lassa / di settanta volte sette (mila) versi, per Coro / e Orchestra, con settantamila violini e grancassa, / (e un disco di Bach).”(105) Lo stesso dicasi per Pasoliniana sui modi d’essere poeta e Opposizione pura, mentre si ritrova una Citazione brechtiana come terza scena dello spettacolo teatrale Italie magique, scritto per Laura Betti nel 1965. Con queste esposizioni di progetti futuri, realizzati e irrealizzabili, Pasolini non sta semplicemente mostrando i suoi muscoli di scrittore instancabile, o il proprio delirio di onnipotenza creativa, ma sta esponendo il proprio laboratorio.
In una cartellina intestata “Note appunti articoli interviste ecc. (1967-68),” conservata nel Fondo Pasolini di Firenze, si trova un dattiloscritto intitolato “Idee di opere” dove, nel dicembre del 1965, lo scrittore immagina “un libro fatto tutto di racconti che scaturiscono l’uno dall’altro, uno dentro l’altro, come quel giocattolo russo fatto ditante bambolette una dentro l’altra.”(106) In Petrolio, come si vedrà più avanti, quest’ideatroverà una parziale realizzazione negli appunti 97-103, e in particolare ne la Storia di mille e un personaggio, mostrando come la “scoperta” cinematografica de Le mille e una notte abbia mediato tra l’idea iniziale e la sua effettiva elaborazione. L’idea di una metaopera può così essere assunta a rappresentante dell’intero – e incompiuto – progetto pasoliniano, in cui – come in una matrioska – le singole opere scaturiscono l’una dall’altra, una dentro l’altra. È però il titolo scelto da Pasolini per questa irrealizzata meta-raccolta di racconti – Io re – a rivelare che ad essere veramente in gioco in questo generale meta-progetto è la centralità del soggetto autoriale, quell’io che Pasolini – secondo Giorgio Barberi Squarotti – ha interrogato come non altri nel Novecento, osservandolo, ammirandolo, esaminandolo, sezionandolo.(107) È esponendosi, dunque, e mostrando il proprio laboratorio, che Pasolini intende affermare la sua demiurgica capacità creativa. Da qui, forse, deriva anche la sua identificazione con il personaggio principale di un altro dipinto di Velazquez, La fucina di Vulcano, dal quale – lo ha suggerito Zigania – Pasolini trae l’ispirazione figurativa per il personaggio de l’allievo di Giotto, che interpreta nel Decameron (1971).
In Cosa sono le nuvole?, dove proprio il riferimento a Las meninas rappresenta il “modello per semplificare il complesso statuto autoriale di Pasolini,”(108) o forse per complicarlo, l’autore demiurgo è rappresentato nella figura del burattinaio che letteralmente regge i fili della vicenda e interviene rispondendo alle domande dei suoi burattini. Il fatto che ad interpretarlo sia Francesco Leonetti, che in Uccellacci e uccellini aveva prestato la propria voce al corvo, su cui Pasolini proietta la propria figura di intellettuale marxista in crisi all’inizio degli anni ’60, non può che far pensare che anche in questo film egli sia un doppio o una maschera dell’autore-Pasolini. Così come accadeva al corvo in Uccellacci e uccellini, anche il burattinaio viene infatti chiamato con scanzonata deferenza da Ninetto-Otello “Sor mae’” (signor maestro), un’espressione che pochi anni dopo Pasolini problematizza, attribuendola a sé, nei versi iniziali di un componimento intitolato La nascita di un nuovo tipo di buffone: “Non ‘caca’, ma ‘baba ndogo’ (sor maestro) / così viene liquidato il mio narcisismo.”(109) La poesia – scritta sul Lago Vittoria in Tanzania, mentre Pasolini stava girando Appunti per una Orestiade africana – mostra la sua piena consapevolezza di non poter essere percepito come qualcuno alla pari, un fratello (“caca” in swaili110) ma sempre come chi si propone quale detentore di una certa autorità, cosciente della propria posizione culturale. Il fatto che in Cosa sono le nuvole? anche Jago venga indicato con la stessa espressione, non può che far credere che anche questo personaggio, che Greenblatt ha letto come “the principle of narrativity itself,”(111) nel suo plateale intento manipolatorio della vicenda e nella sua attitudine pedagogica, sia un “riflesso della valenza demiurgica dell’autoreburattinaio.” (112) E difatti, anche Pasolini – che come Velázquez è l’autore onnisciente che gestisce dall’esterno l’opera in cui è egli stesso coinvolto – orienta la nostra lettura dell’opera orientando, tramite la scelta delle inquadrature, il nostro sguardo sulla vicenda, facendoci sentire, al contempo, dentro e fuori la rappresentazione.
Attraverso un complesso lavoro di campo e controcampo, il regista ci obbliga così a osservare lo spettacolo dei burattini e quando avviene dietro le scene. Noi, spettatori del film, non partecipiamo semplicemente alla visione frontale del pubblico seduto in sala, ma vediamo di volta in volta con gli occhi dei personaggi che a loro volta osservano il loro dramma da dietro le quinte, identificandoci allo stesso tempo con la macchina da presa, ossia con lo sguardo del regista. È questa totale messa in scena dello sguardo che Pasolini sussume da Las meninas, trasponendo il suo “sistema sottile di finte” nel cinema, mostrandone la potenzialità(113) e al contempo fornendoci, in anticipo sul suo Manifesto per un nuovo teatro, la descrizione del pubblico che egli si aspetta dobbiamo essere. È evidente, infatti, che nella rappresentazione del pubblico popolare del teatrino di periferia, e in quella dello sgangherato spettacolo di burattini, Pasolini ci mostra l’opposto di quello che dovrebbe rappresentare il suo Teatro di Parola: un luogo di dialogo e di discussione dove siamo chiamati a partecipare insieme all’autore.


85 Pasolini, “Al lettore nuovo,” SLA, Vol. II, 2512.
86 Pasolini, “Che cosa sognano le nuvole?,” PC, Vol. I, 939. Le citazioni successive saranno indicate tra parentesi nel testo.
87 Trascrizione dell’intervista del 10 Dicembre 1967 dal programma televisivo di Leandro Lucchetti, Per conoscere Pier Paolo Pasolini.
88 “Tutto quello che non ho potuto mettere in Uccellacci e uccellini l’ho messo nella Terra vista dalla luna e Che cosa sono le nuvole?,” intervista a Pier Paolo Pasolini del 1968, ora in La cosa vista, a cura di Adriano Aprà, febbraio 1985.
89 Anche la canzone cantata da Modugno, da lui musicata su parole di Pasolini, rappresenta in sé una meta narrazione. Il testo, infatti, si basa su una serie di citazioni dall’Otello. Cfr. H. Joubert-Laurencin, Pasolini. Portrait du poète en cinéaste (Paris: Diffusion Seuil,1995).
90 Cesare Musatti, “Calderón, Velazquez, Pasolini,” Sipario (aprile 1974).
91 Pasolini, “Calderón,” SLA, Vol. II, 1934.
92 Marco Antonio Bazzocchi, I burattini filosofi. Pasolini dalla letteratura al cinema (Milano: Bruno
Mondadori, 2007), 88-89.
93 “È uno sgabuzzino piccolo piccolo, con le pareti color liquerizia, triste, senza luce, con una sola
finestrella in alto, piccola come una feritoia. Nello sgabuzzino ci sono un bancone e degli attrezzi da falegname. Il Burattinaio ha appena finito di fare un nuovo burattino, Otello il Moro, con un vestito neoclassico-ingenuo colore azzurro fumo. Manca solo di avvitargli la testa, e Otello è fatto.” (935)
94 Cfr. Laura Salvini, I frantumi del tutto. Ipotesi e letture dell'ultimo progetto cinematografico di Pier Paolo Pasolini, Porno-Teo-Kolossal (Bologna: Clueb, 2004).
95 Svetlana Alpers, “Interpretation without Representation, or, the Viewing of Las Meninas,”
Representations, 1 (febbraio 1983): 40.
96 Pasolini, “Calderón,” TR, 680.
97 Sigmund Freud, “Il perturbante,” Opere 1905-1921 (Roma Newton & Compton, 1992), 1053.
98 Bazzocchi, I burattini filosofi, 85.
99 Walter Siti e Franco Zabagli, “Note e notizie sui testi,” PC, Vol. II, 3059.
100Cfr. Gérard Genette, Palinsensti. La letteratura di secondo grado (Torino: Einaudi, 1997).
101 Pasolini, “Pasolini su Pasolini,” SPS, 1355-56.
102 Pasolini, “Progetto di opere future,” Poesia in forma di rosa, TP, Vol. I, 1254-55.
103 Ivi, 1255.
104 Ivi, 1246.
105 Ivi, 1249.
106 Siti, “L’opera rimasta sola,” 1902.
107 Giorgio Barberi Squarotti, “La poesia e il viaggio a ritroso nell’io,” Pier Paolo Pasolini: l’opera e il suo tempo, a cura di Giorgio Santato (Padova: Cleup, 1983), 206.
108 Francesco Galluzzi, Pasolini e la pittura (Roma: Bulzoni, 1994), 66.
109 Pasolini, “Un nuovo tipo di buffone,” Trasumanar e organizzar, TP, Vol. II, 59.
110 La poesia è stata scritta sulle sponde del Lago Vittoria, in Tanzania, mentre Pasolini stava girando Appunti per una Orestiade africana.
111 Stephen Greenblatt, Renaissance Self-fashioning. From More to Shakespeare (Chicago and London: The University of Chicago Press, 1980), 236.
112 Alberto Marchesini, Citazioni pittoriche nel cinema di Pasolini (da Accattone al Decameron) (Firenze: La Nuova Italia, 1994), 100.
113 Cfr. Bazzocchi, I burattini filosofi, 104.


Tratto da:


In the Theater of my Mind:
Authorship, Personae, and the Making of Pier Paolo Pasolini’s Work

Gian-Maria Annovi

Submitted in partial fulfillment of the
requirements for the degree of
Doctor of Philosophy
in the Graduate School of Arts and Sciences

COLUMBIA UNIVERSITY
2011
© 2011
Gian-Maria Annovi

@Eretico e Corsaro - Le Pagine Corsare

Curatore, Bruno Esposito

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“Nient’altro che un sogno”

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro



2. “Nient’altro che un sogno”
di Gian-Maria Annovi


Nel 1966, Michel Foucault pubblica in Francia il suo importante studio sull’origine delle scienze umane intitolato Les Mots et les choses, subito tradotto in Italia l’anno successivo.(52) Il volume si apre con un’affascinante e dettagliata analisi del celebre dipinto di Velázquez e del suo complesso sistema di linee di sguardi. Le ragioni per cui questo quadro ha attirato l’attenzione di Pasolini sono molteplici: (a) la sua forte componente metalinguistica, ossia la presenza di un’opera (da farsi) nell’opera;(53) (b) la centralità della figura autoriale all’interno dell’opera stessa; (c) la dialettica tra autore e spettatore.

Iniziamo da quest’ultimo aspetto.

Come scrive Foucault, “nell’istante in cui pongono lo spettatore nel campo del loro sguardo, gli occhi del pittore lo afferrano, lo costringono ad entrare nel suo quadro.”(54) Il filosofo francese si riferisce al fatto che il soggetto nascosto della rappresentazione messa in abyme nel dipinto di Velázquez è ad essa esterno. Ciò che noi vediamo è solo il rovescio dell’opera: l’alto rettangoloide marrone che occupa di scorcio la parte sinistra della scena. Il vero soggetto lo si scorge riflesso nello specchio appeso sulla parete di fondo, alle spalle di Velázquez: è la coppia reale, Filippo IV e Marianna d’Austria, che l’infanta e la sua corte di nani e dame di compagnia (meninas) è venuta ad osservare nell’atto di farsi ritrarre. Gli occhi del pittore sono diretti verso di noi solo perchè ci troviamo al posto del suo soggetto, ma tanto basta a far sì che il nostro sguardo, e non quello della coppia reale, rappresentante il Potere istituzionale, goda della libertà di ordinare intorno a sè la rappresentazione, la medesima libertà di cui gode l’autore: “il posto in cui troneggia il re con sua moglie è anche quello dell’artista e quello dello spettatore.”(55) Non stupisce che, tra il 1967 e il 1968, Pasolini realizzi ben due opere che ricorrono proprio a Las meninas come modello per il problema della rappresentazione e della presenza autoriale al suo interno: la tragedia teatrale Calderòn (1967-1973) e il cortometraggio Che cosa sono le nuvole (1968). A dimostrazione di come la funzione-Velázquez agisca anche laddove meno ce lo s’aspetterebbe, come segnale della natura eminentemente autoriflessiva dell’opera pasoliniana, si osservi per un momento – prima di procedere all’analisi delle due opere appena citate, in cui il riferimento a Las meninas è esplicito – cosa avviene all’inizio di un film che apparentemente sembrerebbe non avere nulla a che spartire con l’opera dell’artista spagnolo: Salò (1975), libero adattamento delle 120 giornate di Sodoma del Marchese de Sade ai tempi del fascismo.
Fig.1

Soffermiamoci in particolare su un fotogramma preso dalla prima sequenza del
Girone delle manie, all’inizio del percorso infernale all’interno della villa in cui i quattro libertini costringono le loro sedici giovani vittime a ogni sorta di sevizie e pratiche sessuali. In questa scena i libertini sono radunati insieme alle guardie e alle loro vittime per ascoltare i racconti licenziosi della Signora Vaccari, una delle quattro “lettrici” che hanno il compito di intrattenere e stimolare l’immaginazione dei protagonisti.
A livello puramente compositivo, un confronto tra il fotogramma in questione e Las meninas mostra numerosi punti di contatto, che suggeriscono che lo spettro di Velázquez abbia attraversato anche qui lo sguardo cinematografico di Pasolini e che Salò non sia solo la trasposizione dell’opera di de Sade ai giorni precedenti la caduta del fascismo in Italia, ma anche un’opera metalinguistica, una riflessione sul senso dell’arte e del cinema.
C’è innanzitutto il punto di vista di scorcio sul grande stanzone dal soffitto altissimo; i dipinti – questa una costante in tutto Salò – che ne coprono le pareti; la figura femminile centrale, dai capelli biondi e dall’ampio vestito bianco; la porta che dà su una rampa di scale sullo sfondo. Si tratta ovviamente, come tutto in questo film, di una versione pervertita della tela del pittore spagnolo. Lo sguardo dei protagonisti, infatti, non esce mai dall’inquadratura, ma è unicamente rivolto verso la Signora Vaccari, la figura centrale, esattamente come avviene nel caso dei membri della corte nel dipinto originale, tutti intenti ad osservare l’Infanta. Ciò contribuisce alla creazione apparente di uno spazio chiuso: lo spettatore non si sente chiamato a far parte della composizione (e dunque dell’opera) e mantiene dunque una distanza psicologica rispetto a quanto avviene davanti ai suoi occhi. Anche lo specchio, uno degli elementi centrali nella lettura foucauldiana di Las Meninas, è assente da questa scena, ma nella sequenza precedente, in cui assistiamo alla toilette preparatoria della Signora Vaccari, esso compare con un valore tanto 
importante da occupare l’intero campo del visivo. Per una frazione di secondo, infatti, giusto il tempo di aprire l’anta del guardaroba, davanti ai nostri occhi si presenta l’essenza dell’immagine barocca: il molteplice riflettersi di uno specchio in un altro specchio, che istantaneamente elide completamente, eclissandola, la presenza umana, inclusa la nostra(Fig. 2). Ci si trova, infatti, di fronte a un vuoto speculare, divenuto l’unico soggetto della rappresentazione, il lacaniano punto di puro sguardo, lo sguardo che l’oggetto-Salò rivolge verso di noi producendo un effetto opposto a quello del quadro di Velázquez: escluderci dalla rappresentazione.(56) È ciò che Lacan, nel suo XI Seminario, chiama la schisi tra l’occhio e lo sguardo.(57) Questo reciproco rispecchiarsi di specchi, in cui nulla è riflesso tranne la specchiabilità stessa, conferma che ci troviamo di fronte a un mondo autistico, un universo separato in cui noi, spettatori, non siamo chiamati direttamente a prendere parte.
Si tratta ovviamente di un effetto calcolato, una trappola spettacolare, che ha lo scopo di rendere ancora più traumatica, violenta e brutale la nostra forzata e istantanea identificazione con lo sguardo dei libertini alla fine del film. Un’identificazione prodotta – come è stato più volte notato – attraverso il gioco di campo e contro campo nella scena conclusiva in cui, a turno, i quattro figuri osservano da una finestra, tramite un binocolo, le torture e le esecuzioni delle vittime (Fig. 3):


campo e controcampo danno l’illusione allo spettatore di trovarsi in mezzo allo svolgersi del film. Un’impressione talmente automatica, istintiva, fisiologica, se volete, però ai fini del modo di guardare lo spettacolo essenziale […] fa sì che lo spettatore sia risucchiato dentro lo schermo.(58)

È in quel momento che l’autore, prima solo percepibile come figura tremante nelle inquadrature imperfette realizzate con telecamera a spalla, manifesta con forza la propria presenza all’interno della rappresentazione e il suo totale controllo su di essa: noi come lui siamo risucchiati tecnicamente dentro l’immagine, e dunque parimenti complici di quella riduzione del corpo a puro oggetto di cui Salò vuole essere una lacerante quanto discutibile testimonianza.
La conferma di questa volontà di Pasolini di manifestare in Salò la propria presenza autoriale e di saldare così a doppio filo il suo legame con Las meninas proviene da alcune immagini superstiti relative a quello che – secondo alcune testimonianze(59 ) – sarebbe dovuto originariamente essere il finale del film. Ne restano solo alcune foto di scena, poiché il girato è andato probabilmente perduto per sempre dopo il furto della pellicola originale.(60) In quel finale, Pasolini è ripreso mentre balla spensieratamente insieme ai membri della troupe e ai ragazzi e alle ragazze che interpretano le vittime, circondato da alcune bandiere rosse. Tramite questa sequenza finale il regista non sarebbe solo entrato fisicamente nella propria opera, ma – esattamente come nel caso de Las meninas – ne avrebbe mostrato doppiamente il retro: da un lato, il cast in abiti borghesi, i cameramen, il regista, ecc., dall’altro l’ideologia antagonista a quella rappresentata nel film, evocata per sineddoche dalle bandiere.
La conferma che questo finale è direttamente legato al modello rappresentato dal dipinto di Velázquez viene dal fatto che esso corrisponde, per temi e motivi, al finale della prima delle opere pasoliniane esplicitamente ispirate a Las meninas, il dramma teatrale Calderón, dove Rosaura, la protagonista, racconta di aver sognato – dopo aver subito diverse trasformazioni – di trovarsi in un Lager che molto ricorda la scena conclusiva del Girone del sangue in Salò. In quello “stanzone,” le SS, proprio come i libertini nell’ultima scena del film, “ascoltano grammofoni,”(61) mentre la descrizione che Rosaura dà di sé e degli altri internati, sottolinea nuovamente il legame tra le due opere:

“non siano più uomini; non abbiamo più neanche la vita balzana degli animali; siamo cose di cui solo gli altri possono disporre” (756). 

Il riferimento alla reificazione dell’uomo messa in scena in Salò è esplicito, ed esplicito è il parallelo tra le scena del ballo e l’immagine dell’ingresso nel lager di operai che “hanno bandiere rosse strette nei pugni, con le falci e i martelli” (757-8) venuti a liberare i prigionieri. La retorica di questa immagine è mitigata solo parzialmente dall’affermazione finale di un altro personaggio principale, Basilio, alternativamente re, padre e marito, incarnazione della onnipresenza pervasiva del potere e della nostra impossibilità di sottrarci ad esso: “Perché di tutti i sogni che hai fatto [Rosaura] o che farai / si può dire che potrebbero essere anche realtà. / Ma, questo degli operai, non c’è dubbio:

esso è un sogno, niente altro che un sogno” (758). 

Come ha opportunamente notato Edi Liccioli, tracciando un percorso che intreccia anche le riflessioni pasoliniane di “Il cinema impopolare”:

Calderón conclude la parabola involutiva della dialettica storica e della prospettiva
politica […] Solo il sogno e l’oggetto del ricordo, il passato, sono rivoluzionari, ma senza alcuna effettiva incidenza sulla realtà del presente. Alla logica pasoliniana
dell’”opposizione pura” non rimane altro, a questo punto, che la pratica del negativo, la trasgressione permanente.(62)


52 Michel Foucault, Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane (Milano: BUR, 1967). [Le citazioni seguenti sono dall’edizione del 1998]. Proprio il saggio già citato “Che cos’è un autore?” nasce – scrive Foucault – come momento di revisione, in particolare delle “impudenze” commesse ne Les Mots e les Choses, dove parlava “in maniera generica della ‘storia naturale,’ o dell’’analisi delle ricchezze’ o dell’’economia politica,’ ma non di opere o di scrittori,” Foucault, “Che cos’è un autore?,” Scritti letterari, 1.
53 Questo aspetto rimanda figurativamente al tema del film La ricotta, ambientato s’un set cinematografico dove un regista sta realizzando un film sulla passione di Cristo, riproducendo le opere di Pontormo e Rosso Fiorentino in tableaux vivants cinematografici.
54 Foucault, Le parole e le cose, 19.
55 Ivi, 29.
56 Proprio a Las meninas, Jacques Lacan dedica – nel 1966 – il suo XIII seminario sull’oggetto della psicoanalisi. In particolare vi si sofferma nelle giornate dell’ 11, 15, 25 Maggio e del 1 giugno, discutendo anche l’interpretazione del quadro di Foucault. Il seminario è tuttora parzialmente inedito.
57 Cfr. Jacques Lacan, “La schisi fra l’occhio e lo sguardo,” Il seminario. Libro XI. I quattro concetti
fondamentali della psicoanalisi (Torino: Einaudi, 1979), 67-77.
58 Pasolini, “Incontro con Pasolini,” PC, Vol. II, 2955.
59 Mi riferisco a quanto riportato da Fiorella Infascelli, assistente alla regia durante le riprese di Salò: “Avevamo già girato una scena che non c’è, e che doveva essere il finale originale. Una scena in cui tutta la troupe ballava, e anche carnefici e vittime ballavano insieme [nelle foto di scena, i carnefici non sono presenti, n.d.a.]. Mi ricordo che Pier Paolo ci teneva tantissimo a questa scena. Andavamo a lezione di ballo alla fine delle riprese. Questa scena fu girata con tutti gli attori, i macchinisti, Pier Paolo che ballava insieme a noi, tutti quanti ballavamo. Era molto divertente e questo doveva essere il finale con i titoli di coda. Forse questa scena faceva parte dei negativi rubati. Non so per quale motivo non l’abbia montata e non ne abbia neanche parlato. Comunque, non fu montata e non ricordo quando fu girato il finale attuale del film. Ricordo solo che la scena che è il finale attuale, con solo i due ragazzi che ballano, fu fatta verso l’inizio delle riprese,” “Trent’anni dopo: memorie di un set indimenticabile,” Salò, mistero, crudeltà e follia, a cura di Mario Sesti (Roma: L’erma, 2005), 29.
60 Proprio questo furto sarebbe, secondo alcune recenti rivelazioni di Franco Citti raccolte dall’avvocato Guido Calvi, legato all’assassinio di Pasolini: “CALVI: Che cosa ricordi dei giorni precedenti la morte di Pier Paolo Pasolini e che cosa accadde nei giorni precedenti il 2 novembre 1975? CITTI: Andiamo per logica. Io parlo dell’ultima volta che vidi Pasolini. Siamo stati a mangiare insieme a Ostia. In quell’occasione Pasolini mi disse che gli avevano telefonato per riconsegnargli le pizze di Salò, senza voler alcun riscatto. Lui mi disse che, poiché doveva partire per andare a Stoccolma, quando tornava aveva un appuntamento con questa persona per riavere il materiale cinematografico. CALVI: Quelli che avevano rubato la pellicola di Salò chiesero soldi per riconsegnarla a Pasolini? CITTI: No. Dissero che avevano sbagliato. Dissero solo che avevano sbagliato e che volevano riconsegnargli le pizze. Anzi, in realtà ricordo che qualche giorno prima venne da me un ragazzo che io conoscevo, di nome Sergio Placidi, che mi disse che il film era in mano a persone che chiedevano un riscatto per riconsegnare la pellicola. Riferii questo a Pasolini, il quale a sua volta lo disse a Grimaldi, che volle una conferma del fatto che queste persone
avevano la pellicola, tanto è vero che dopo qualche giorno fecero ritrovare un pezzo della pellicola in un posto concordato. Il ragazzo che mi aveva contattato mi lasciò il numero di telefono di un bar, che si trovava in via Lanciani, dove però non lo trovai. Quando Pasolini tornò da Parigi, la mattina del primo novembre 1975 io lo contattai per incontrarlo, ma lui mi disse che quella sera non potevamo incontrarci perché lui doveva incontrare la persona o le persone che dovevano riconsegnargli il film. Quella fu l’ultima volta che parlai con Pasolini perché la sera fu ucciso,” “Non abbiate paura della verità,” Diario 28 ottobre 2005.
61 Pasolini, “Calderón,” TR, 755. Le successive citazioni da Calderón verranno indicate nel testo tramite il solo numero di pagina.
62 Edi Liccioli, La scena della parola. Teatro e poesia in Pier Paolo Pasolini (Firenze: Le Lettere, 1997),
309.

Tratto da:


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Gian-Maria Annovi

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Un estraneo in una terra ostile

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro






1. Un estraneo in una terra ostile
di Gian-Maria Annovi

Tra i compiti di questa ricerca vi è ovviamente quello di stabilire cosa significhi essere un autore per Pasolini ed illustrare l’originalità della sua posizione rispetto ai coevi discorsi sull’autorialità. Il compito è meno complesso di quanto possa sembrare, infatti, nel 1970, invitato a intervenire ad un convegno di cineasti sul tema “Libertà dell’autore e liberazione degli spettatori,” Pasolini si produce in un densissimo saggio – poi confluito in Empirismo eretico con il titolo “Il cinema impopolare”(23) – in cui offre di fatto una spiazzante, e insieme illuminante, definizione del termine “autore.” Si tratta, va detto, di uno dei saggi meno letti e meno compresi di Pasolini, spesso solo citato nella formula riduttiva del suo titolo. Proprio come nel caso di Barthes, ma con un senso ben diverso, ne “Il cinema impopolare” Pasolini associa il concetto di autore a quello di morte, sostenendo che autore è chi rivela “in qualche modo di ‘desiderare di morire’:”(24)

Se un facitore di versi, di romanzi, di films trova omertà, connivenza o comprensione nella società in cui opera, non è un autore. Un autore non può che essere un estraneo in una terra ostile: egli infatti abita la morte anziché abitare la vita, e il sentimento che egli suscita è un sentimento, più o meno forte, di odio razziale.(25)

Prima di concentraci sul senso di questo pasoliniano desiderio di morte dell’autore è bene soffermarsi un momento sulla prima parte di questa “definizione” e smontarne i singoli costituenti: essi sono infatti i concetti chiave dell’idea pasoliniana di autore che incontreremo nel corso di tutta questa ricerca.
Secondo la sua concezione, autore è un concetto transdisciplinare (“facitore di versi, di romanzi, di films”): anche quando Pasolini parla di cinema, dobbiamo intendere che quanto sostiene riguarda anche la sua produzione poetica e narrativa, per non dire saggistica. Quella dell’autore è poi una condizione di antagonismo rispetto alla società.
Secondo Pasolini non è autore chi viene compreso o passa inosservato, ma solo colui che provoca una reazione di rifiuto e genera ostilità, anzi, “odio razziale.” L’autore, insomma, deve necessariamente essere autore-contro, un enragè, caratterizzato da una profonda diversità rispetto alle idee dominanti del corpo sociale. Pasolini, che nelle liriche di Poesia in forma di rosa (1964) scrive esplicitamente di identificarsi con ebrei, zingari e negri [sic],(26) sta ovviamente modellando la definizione di autore su di sé e sulla propria difficile esperienza nel ritagliarsi uno spazio nell’asfittica società italiana, dalla cui borghesia e classe dirigente, che egli odia profondamente e vuole ad ogni costo scandalizzare (nel significato paolino del termine, centrale nella sua rappresentazione di Cristo ne Il Vangelo secondo Matteo), Pasolini si sente perseguitato, in senso morale e giudiziario:

In ogni autore, nell’atto di inventare, la libertà si presenta come esibizione della perdita masochistica di qualcosa di certo. Egli nell’atto inventivo, necessariamente scandaloso, si espone – e proprio alla lettera – agli altri: allo scandalo appunto, al ridicolo, alla riprovazione, al senso di diversità, e perché no?, all’ammirazione, sia pure un po’ sospetta. C’è insomma il “piacere” che si ha in ogni attuazione del desiderio di dolore e di morte.(27)

Esibizione, scandalo, diversità sono termini chiave per leggere l’opera pasoliniana. Egli, infatti, concepisce l’atto inventivo, ossia “ogni infrazione del codice […] necessaria all’invenzione stilistica,”(28) come qualcosa di necessariamente scandaloso, “l’esibizione di un atto autolesionistico”(29) da parte dell’autore, manifestazione masochistica che esprime “un ignoto e inconfessato istinto di morte, per definizione anti-conservatore.”(30) La libertà dell’autore è insomma per Pasolini “libertà di scegliere la morte,”(31) dunque di offrirsi, sadomasochisticamente vivo, a quel “fulmineo montaggio” che solo – lo si è visto  nell’introduzione – può fornire senso alla nostra vita.
Si tratta di riflessioni che, se lette in maniera tendenziosa possono far pensare, come nel caso di Giuseppe Zigania, che la morte di Pasolini sia stata una forma di attuazione meticolosa ed estrema di questi precetti, un’ultima opera suicida.(32) Nulla, ovviamente, di più lontano dalla verità. Quando Pasolini parla di desiderio di morte egli sta infatti pensando al termine pulsione (Trieb), che, nell’economia libidica del soggetto descritta da Freud, è connessa all’ambiguo rovesciamento del dolore in piacere:

io stesso provo in moviola (o, prima girando) l’effetto quasi sessuale dell’infrazione al codice, come esibizione di qualcosa di violato (sentimento che si prova anche scrivendo versi, ma che il cinema moltiplica all’infinito: una cosa è essere martirizzati in camera e una cosa è essere martirizzati in piazza, in una ‘morte spettacolare’): ma la cosa essenziale è restare in vita, e mantenere in vigore il codice: il suicidio crea un vuoto subito riempito dalla qualità peggiore di vita, mentre l’eccessiva trasgressione del codice, finisce per creare una specie di rimpianto.(33)

La morte di cui parla Pasolini è una “morte spettacolare,” dove spettacolare non va inteso come “straordinaria” ma come fittizia ed “esibita,” inserita cioè all’interno di un regime di massima visibilità come quello offerto da un mezzo di comunicazione di massa quale il cinema. L’opera, per Pasolini, è questo schermo, questa piazza – si potrebbe dire ‘un cinema all’aperto’ – in cui l’autore si espone narcisisticamente come individualità radicale. Esponendosi, egli espone formalmente – ossia attraverso la continua infrazione stilistica – il suo dissenso permanente rispetto all’esistente e alla norma (sia essa sociale o artistica), agendo così sulla vita con la consapevolezza che il suo gesto lo costringe a una forma di pubblico, ma necessario martirio. È quando altrove esprime sostenendo che un autore è sempre una “contestazione vivente”:

Un autore, quando è disinteressato e appassionato, è sempre una contestazione vivente. Appena apre bocca, contesta qualcosa, al conformismo, a ciò che è ufficiale, a ciò che è statale, nazionale, a ciò che va bene per tutti. Non appena apre bocca, un artista è per forza impegnato, perché il suo aprire bocca è scandaloso sempre.(34)

Quanto questa concezione sia influenzata dai suoi casi personali lo si vedrà in seguito, qui è importante sottolineare come l’infrazione, così come concepita da Pasolini, debba essere continua (e dunque radicata nel darsi della vita, vivente): “ciò che è importante – scrive concludendo “Il cinema impopolare” – non è il momento della realizzazione dell’invenzione, ma il momento dell’invenzione. Invenzione permanente; lotta continua.”(35) Il desiderio di morte dell’autore è dunque questa costante posizione antagonistica e individualistica rispetto alla società.
Invenzione, libertà, scandalo, ovvero l’idea di un’opera originale capace di sconfessare le attese del pubblico, sono concetti tutt’altro che nuovi e rimandano ovviamente all’estetica dell’arte d’avanguardia e al suo bisogno di violare l’istituzione e trasgredire ogni norma precostituita. Nel rifarsi all’autolesionismo dell’autore pasoliniano si potrebbe addirittura leggere un riferimento a uno dei più celebri manifesti del futurismo, La voluttà di essere fischiati, pubblicato da Marinetti nel 1915, se non fosse che l’incontro-scontro di Pasolini con la letteratura futurista risale solo a qualche anno dopo.(36) È però certo, e lo prova il linguaggio impiegato, preso a prestito dal vocabolario militare, che Pasolini sta qui polemizzando con un’altra avanguardia, più vicina nel tempo, quella del Gruppo 63, colpevole a suo parere di una “isteria di superamento” volta non a istaurare un’“anarchia totale” ma a ricercare un’“anarchia mentale e ‘letteraria’”(37) che avrebbe prodotto solo una forma di nuovo accademismo istituzionalizzato.(38) Secondo Pasolini, infatti, coloro che superano “la linea del fuoco,” vale a dire che si spingono “oltre il fronte delle trasgressioni,” si ritrovano necessariamente in un “territorio nemico,” dove vengono automaticamente “chiusi in una sacca […] ammassati in un Lager, che essi poi, come succede, trasformano altrettanto automaticamente in un ghetto.” Infatti, continua, “la vittoria su una norma trasgredita rientra subito nell’infinita possibilità di modificarsi e di allargarsi che ha il codice.”(39)
Pasolini si mostra ben consapevole del fatto che ogni operazione trasgressiva della norma, sia essa linguistica o formale, ha come destino quello di essere  nuovamente normalizzata. La sua proposta è dunque quella di “obbligare se stessi a non andare troppo avanti, interrompere lo slancio vittorioso verso il martirio; e ritornare continuamente indietro, sulla linea del fuoco.”(40) È ancora una volta l’avverbio “continuamente” a dare senso all’operazione di trasgressione del codice che l’autore deve compiere secondo Pasolini, e a informare “la lotta dell’arte contro la proprio istituzionalizzazione”(41) che per Carla Benedetti caratterizzerebbe la sua produzione a partire dagli anni ’60. In quell’avverbio è infatti racchiuso anche il senso della costante e ossessiva rielaborazione pasoliniana della propria opera, si pensi alla riscrittura di lavori giovanili, come nel caso de La meglio gioventù e – lo si vedrà nello specifico nel prossimo capitolo – della Divina Mimesis, nonché a quel costante bisogno di abiurare a quanto creato in precedenza che caratterizza la sua traiettoria artistica, come nel caso di Salò e della Trilogia della vita.(42)
È dunque soprattutto una “coscienza metalinguistica esplicita”(43) a caratterizzare il ruolo dell’autore e a rendere anche il cinema di Pasolini, ma si potrebbe dire la sua intera opera, volutamente impopolare. Ciò non significa però – come si potrebbe pensare – che il regista sia indifferente rispetto al proprio pubblico ma, come ho pocanzi mostrato, con le costanti indicazione “al lettore,” gli si rivolge invece in maniera diretta. Infatti, Pasolini precisa infatti che, quando si parla di opera d’autore, occorre considerare il rapporto tra autore e destinatario non come quello tra un individuo e la massa indifferente, ma come “un drammatico rapporto tra singolo e singolo democraticamente pari.”(44) Si tratta insomma di una sfida in cui entrambi sono collocati sullo stesso piano: il piano dell’opera.
Lo spettatore “per l’autore, non è che un altro autore,”(45) che partecipa della libertà autoriale godendo dello scandalo provocato dall’infrazione dell’ordine della conservazione:

In un certo senso quindi lo spettatore codifica l’atto incodificabile compiuto dall’autore che inventa, producendo su se stesso ferite più o meno gravi, e con questo asserendo la sua libertà di scegliere il contrario della vita regolamentatrice, e di perdere ciò che la vita ordina di risparmiare e conservare.
Lo spettatore in quanto tale, gode l’esempio di tale libertà, e come tale lo oggettiva: lo reinserisce nel parlabile. Ma ciò avviene al di fuori di ogni “integrazione”: in un certo senso al di fuori della società.(46)

Il dispositivo autoriale pasoliniano è dunque anche una macchina per l’esposizione della tortura che non può che catturare lo spettatore, così come avviene con l’immagine del suppliziato cinese che George Bataille utilizza, ne L’esperienza interiore, per illustrare il modo in cui possiamo essere coinvolti dalla morte.(47) Tramite il riferimento alle ferite la fisicità del corpo irrompe nell’opera a ricordarci che è di un autore “in carne e ossa” che stiamo parlando, ma soprattutto che il “martirio” di cui parla Pasolini, la sua condizione di vittima(48) – anticipando involontariamente la retorica della santificazione laica successiva alla sua morte – fa parte delle strategie d’irretimento dello spettatore presenti all’interno della sua opera, sin dagli esordi.(49) Si consideri, ad esempio, l’identificazione con il Cristo crocifisso che anima le sue prime prove poetiche: “Bisogna esporsi (questo insegna / il povero Cristo inchiodato?) / […] Noi staremo offerti sulla croce […] / per testimoniare lo scandalo.”(50) Così come le immagini del suppliziato cinese e di Cristo non ci permettono alcuna distanza di sicurezza dalla morte, ma nella loro esposizione radicale interpellano la nostra umanità, Pasolini esige dallo spettatore di non essere uno spettatore passivo, ma di uscire da sé ed entrare in comunicazione con l’altro.(51)
Una straordinaria metafora visiva di questo tipo di rapporto tra spettatore e autore, espresso attraverso un’alta coscienza metalinguistica, si trova in un’opera pittorica che occupa un posto centrale nella storia della cultura occidentale, ma anche nell’opera pasoliniana, di cui funziona in qualche modo come illustrazione: Las meninas (1656) di Diego Velázquez.


23 Pasolini, “Il cinema impopolare,” Nuovi Argomenti, 20, ottobre-diembre 1970; ora in SLA, Vol. I, 1600-1610.
24 Ivi, 1601.
25 Ivi, 1601-1602.
26 “E cerco alleanze che non hanno altra ragione / d’essere, come rivalsa, o contropartita, / che diversità,
mitezza e impotente violenza: / gli Ebrei…i Negli…ogni umanità bandita,” Pasolini, “La realtà,” Poesia in forma di rosa, TP, Vol. I, 1116.
27 Pasolini, “Il cinema impopolare,” SLA, Vol. I, 1601.
28 Ibidem.
29 Ibidem.
30 Ivi, 1602.
31 Ivi, 1600.
32 Cfr. Giuseppe Zigania, Hostia: Trilogia della morte di Pier Paolo Pasolini (Venezia: Marsilio, 2005).
33 Pasolini, “Il cinema impopolare”, 1608.
34 Intervista sul set di Uccellacci e uccellini, 1966, conservata presso la videoteca della Cineteca di
Bologna, Fondo Pier Paolo Pasolini.
35 Pasolini, “Il cinema impopolare,” 1610
36 In particolare, alla recensione dell’antologia Per conoscere Marinetti e il futurismo curata da Luciano De Maria (Milano: Mondadori, 1973) sul Tempo, il 7 ottobre 1973. Nel complesso dell’opera pasoliniana, questo è l’unico luogo in cui Pasolini si esprime in merito al padre del futurismo, e dimostra come la sua conoscenza fosse di fatto superficiale e tardiva, anche a causa dei pregiudizi ideologici che hanno reso complessa la ricezione e lo studio di Marinetti in Italia. Il giudizio di Pasolini sull’opera di Marinetti è sprezzante e sommario, nonostante proprio quest’ultimo abbia per primo fatto ricorso a un “genere” molto caro a Pasolini, quello del “cinema da farsi.”
37 Pasolini, “Il sogno del centauro. Incontri con Jean Duflot,” SPS, 1503.
38 Si veda, sempre in Empirismo eretico, il lungo saggio dal titolo “La fine dell’avanguardia.” Sulla
discussione generatasi dalle posizioni di Pasolini si vedano: Gian Carlo Ferretti, “Pasolini e l’avanguardia,” Rinascita, 3 febbraio 1967; Sergio Quinzio, “Pasolini e l’avanguardia,” Tempo presente, marzo 1967; Vittorio Spinazzola, “Due saggi contro l’avanguardia: ma leggiamo prima di giudicare,” Vie Nuove, XXII, 2 marzo 1967. Sull’intera questione offre un’interessante sintesi Alberto Bertoni, “Pasolini e l’avanguardia,” Lettere italiane, XLIX, 3 (luglio-settembre 1997): 470-80. Un approfondita ma non sempre condivisibile analisi si trova poi in Vincenzina Levato, Lo sperimentalismo tra Pasolini e la neoavanguardia (Soveria Mannelli: Rubbettino, 2002).
39 Pasolini, “Il cinema impopolare,” 1609. La metafora del lager è anche centrale per leggere il
posizionamento di Pasolini rispetto all’identità omosessuale, infatti, come si legge in un articolo di Scritti corsari, in quella che egli definisce la società del permissivismo sessuale: “tutto ciò che sessualmente è diverso è invece ignorato e respinto. Con una violenza pari solo a quella nazista nei lager” (Pasolini, “19 gennaio 1975. Il coito, l’aborto, la falsa tolleranza del potere, il conformismo dei progressisti,” Scritti corsari, SPS, 374). Il lager come spazio di annientamento della capacità contestatrice del soggetto e del corpo, è poi centrale sia in Salò, nell’ultima straziante scena di torture, che nel quarto sogno di Rosaura, la protagonista della tragedia Calderón, di cui ci occuperemo fra un momento.
40 Pasolini, “Il cinema impopolare,” 1610.
41 Benedetti, Pasolini contro Calvino, 172.
42 Cfr. Vittorio Russo, “L’Abiura dalla ‘Trilogia della vita’ di Pier Paolo Pasolini,” MLN, 108 (Gennaio 1993): 140-151.
43 Pasolini, “Il cinema impopolare,” 1605.
44 Ivi, 1602-3.
45 Ivi, 1602.
46 Ivi, 1603-4
47 George Bataille, L’esperienza interiore (Roma: Dedalo, 2003). La stessa immagine conclude anche il volume dedicato alla storia dell’eros Le lacrime di Eros (Torino: Bollati Boringhieri, 2004).
48 Il “meccanismo vittimario” descritto da Réne Girard ne La violenza e il sacro (Milano: Adelphi, 1992) può fornire un valido supporto per analizzare questo aspetto della psicologia di Pasolini. Stefania Rimini vi ha dedicato un recente volume, a cui si rimanda: La ferita e l’assenza. Performance del sacrificio nella drammaturgia di Pasolini (Roma: Bonanno, 2006).
49 Quello del martirio è per altro un motivo specificatamente ascrivibile all’estetica omosessuale e la sua presenza nella storia dell’arte e della letteratura può essere facilmente tracciata attraverso la figura di San Sebastiano. Che anche Pasolini avesse ben presente l’immagine di questo santo come “exemplary sufferer" (Susan Sontag), lo provano il dramma Porcile e la sua successiva versione cinematografica, dove il personaggio principale, Julian – la cui diversità sessuale è simbolizzata dalla sua passione per i maiali, che finiranno per divorarlo – è a un certo punto descritto come un “San Sebastiano manierista.” Proprio la pittura– che ha fatto di San Sebastiano uno dei propri soggetti privilegiati a partire dal ‘500 – ha contribuito fortemente alla diffusione nell’immaginario popolare della congiunzione tra l’idea di supplizio e quella di bellezza giovanile. Per un’interessante prospettiva sulla trasformazione di San Sebastiano da martire a icona omosessuale si veda la tesi di dottorato del francese, Karim Ressouni-Demigneux, La Chair et la
Fleche: Le regard homosexuel sur saint Sébastien tel qu'il etait representé en Italie autour de 1500, (http://semgai.free.fr/doc_et_pdf/pdf_these_articles_externes/ressouni.PDF). Nel romanzo dello scrittore giapponese Youkio Mishima, Confessioni di una maschera (1949), è proprio la visione di un San Sebastiano di Guido Reni a rappresentare il conflitto irrisolto del protagonista.
L’immagine del santo trafitto da frecce rappresenta il bisogno di punizione di una sessualità vissuta con profondo disagio. È questo anche il caso di Pasolini (cfr. Desiderio di Pasolini. Omosessualità, arte e impegno intellettuale, a cura di Stefano Casi [Torino: Edizioni Sonda, 1990], in particolare gli interventi di Nico Naldini e Giovanni Dall’Orto). Sono moltissimi gli scrittori che hanno ripreso la figura del San Sebastiano martire nelle loro opere, ad esempio Proust (ispirato dal Mantegna), o Thomas Mann, che in Morte a Venezia descrive il santo come “un nuovo tipo di eroe.” Lo stesso anno, il 1911, Gabriele d’Annunzio scrive in francese, con musica di Debussy, Il martirio di San Sebastiano, che susciterà profondo scandalo per il ruolo di protagonista affidato a Ida Rubinstein. L’opera di d’Annunzio ha certamente contribuito al consolidamento del mito androgino del santo e alla sua fortuna. Tra i registi, influenzato anche dall’estetica di Pasolini – che ha per altro interpretato nel film documentario di Julian Cole, Ostia (1991) – va ricordato Derek Jarman e il suo Sebastiane (1976).
50 Pasolini, “La crocifissione,” TP, Vol. I, 467-68. La poesie reca in epigrafe una citazione dalla Lettera ai Corinzi di San Paolo: “Ma noi predichiamo Cristo crocifisso: scandalo pe’ Giudei, stoltezza pe’ Gentili.”
51 Per Bataille, che legge proprio nella figura del torturato cinese in chiave cristologica, questa
“comunicazione con l’altro” è il fondamento dell’esperienza mistica.

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Il teatro dell’autore: pubblico, opera, riflessione, auto-rappresentazione

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dedicate a Pier Paolo Pasolini

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Il teatro dell’autore: pubblico, opera, riflessione, auto-rappresentazione
di Gian-Maria Annovi

Nel 1946, Pasolini pubblica il secondo numero de “Il Stroligut.”1 Si tratta di una rivista letteraria in lingua friulana stampata a Casarsa tra l'aprile 1944 ed il giugno 1947,che funge da organo dell’”Accademiuta de lenga furlana,” fondata dall’allora giovane poeta insieme ad alcuni amici per difendere le lingue regionali come forme specifiche della coscienza storica nazionale.2 Nell’editoriale di quel numero, un Pasolini poco più che ventenne si rivolge – in italiano – “Al lettore friulano.”3 Si tratta di un gesto importante; non solo perché nel rivolgersi direttamente al lettore di quella regione egli se ne congeda ed apre la piccola rivista (modestamente indicata con il termine “quaderno”) al più ampio pubblico di lingua italiana, ma perché mostra la precocissima attenzione di Pasolini per il proprio pubblico e il bisogno di stabilire con esso un contatto diretto: una costante di tutta la sua opera successiva.
Nella trascrizione integrale di un’intervista radiofonica con Achille Millo del 20 settembre 1967, conservata nel “Fondo Pier Paolo Pasolini” della Cineteca di Bologna, l’intervistatore chiede a Pasolini se considerasse il cinema come una continuazione del suo lavoro di poeta. La risposa di Pasolini non lascia dubbi circa la sua reale preoccupazione: 

“È molto, molto complicato rispondere a questa domanda, ora non so, ma i destinatari di questa nostra trasmissione chi sono?”4  

Ciò che emerge da questa domanda non è solo la volontà dell’autore di adattare le proprie risposte al contesto – mostrando una straordinaria consapevolezza del valore che il medium assume nella società della comunicazione – ma la sua attenzione per il pubblico, il bisogno di rivolgersi direttamente, e tramite il codice appropriato, a un determinato tipo di uditorio:

PASOLINI: Ma in questo momento, chi ci sta ascoltando? Nel momento in cui la trasmissione viene trasmessa, appunto, non registrata, ma trasmessa, a che ora è?

MILLO: Mi fa una domanda pericolosissima, perché non si sa mai in Italia a che ora la mandano, sarà di mattina quasi sicuramente.

PASOLINI: Ah, di mattina non di pomeriggio… Ecco, mettiamo che in questo momento ci stia ascoltando una donna di casa, sola a casa sua, sta sfaccendando, ha acceso la radio…

Come farà anni dopo immaginando Gennariello, il giovane napoletano per cui inizia a scrivere – sulle pagine de “Il Corriere della Sera” – un trattatello pedagogico,5 anche in questa intervista Pasolini deve immaginarsi un ascoltatore cui rivolgersi. L’autore, infatti, ha la piena consapevolezza che il destinatario “ha oggettivamente un peso nell’opera d’arte,”6 e la necessità d’interpellarlo direttamente emerge con chiarezza dall’analisi di molte delle “soglie” delle principali opere pasoliniane. Circoscrivendo lo sguardo alla sua produzione saggistica, l’impellente bisogno di Pasolini di interpellare il lettore non è – come potrebbe apparire dapprincipio – meramente informativo, ma una vera e propria strategia autoriale, come dimostra la “Nota” apposta in calce a Passione e ideologia (1960), la raccolta di saggi pasoliniani del decennio 1948-1958, raccolti però – mostrandocosì la cura che Pasolini rivolge alla riorganizzazione dei propri materiali – in un ordine rigorosamente non cronologico ma concettuale. Tale ordine rispecchia il titolo del volume, dove il valore della “e” vuol essere “se non proprio avversativo, almeno disgiuntivo: nel senso che propone una graduazione cronologica.”7 Nello strutturarsi del volume, insomma, “la passione, per sua natura analitica, lascia il posto all’ideologia, per sua natura sintetica:”8

Vorrei approfittare di questa nota, che presumibilmente sarà l’unica pagina che verrà letta da tutti, per porre in chiaro esplicitamente e didascalicamente […] due punti equivoci.9 

Nonostante Pasolini impieghi il termine “nota” ed essa sia collocata discretamente alla fine del volume, come si trattasse di una postfazione, questa interpellazione diretta al lettore funziona in realtà come una prefazione vera e propria al volume. Pasolini, infatti, non si rivolge a un lettore effettivo, ma a un lettore potenziale: la funzione della nota non è insomma “curativa, o correttiva”10 rispetto a una lettura già avvenuta, ma – al contrario – egli “propone al lettore un commento anticipato di un testo che questi non conosce ancora,”11 esplicitando come leggere i punti equivoci conformemente alle sue intenzioni di autore. Come Gérard Genette ha mostrato magistralmente analizzando la funzione prefativa, l’“ordine del tutto autoriale, per non dire del tutto autoritario”12 che caratterizza la prefazione è una costante in ogni manifestazione di questo specifico elemento di paratesto. Nel caso di Pasolini, però, la costanza e la pervasività degli interventi, ma soprattutto l’uso meta-letterario delle soglie del testo, fanno pensare che prefazioni e note costituiscano una sottofunzione del suo dispositivo autoriale che ha – tra gli altri scopi – quella di orientare il proprio pubblico e di stabilire un contatto con esso. Lo dimostra, ad esempio, l’apostrofe al lettore contenuta in Empirismo eretico, il volume pubblicato nel 1972 in cui Pasolini raccoglie i saggi e gli interventi degli anni ’60, raggruppati in tre gruppi tematici: lingua, letteratura e cinema. Anche in questo caso l’intervento autoriale sui testi è già evidente nella loro disposizione e presentazione grafica. I saggi veri e propri sono in carattere tondo, mentre gli scritti più militanti in corsivo: tra questi ultimi – in maniera spiazzante – è inserita anche una nota “Al lettore.” Contravvenendo ad ogni catalogazione dei tipi di prefazione, postfazione e nota fornita da Genette nel suo imprescindibile studio sui “dintorni del testo,” e mostrando così la propria originale gestione del testo come struttura tramite cui imprimere il proprio marchio autoriale, Pasolini colloca la sua nota “Al lettore” dove meno ce la si aspetterebbe: all’interno della sezione “Lingua” tra l’ultimo e il penultimo intervento: “Diario linguistico” e “Dal laboratorio.” Si tratta di una mossa particolarmente teatrale, perché, lette una cinquantina di pagine, il lettore – che ancora sta cercando di raccapezzarsi tra le originali posizioni linguistiche di Pasolini – si ritrova improvvisamente chiamato in causa. Si passa così da un rapporto impersonale con il testo alla percezione di un intimo e diretto rapporto tra autore e lettore:

Siccome questo è, meglio che una raccolta di saggi, un “libro bianco” sulla questione linguistica, non vi ho operato l’autoselezione e la revisione che si fa nei casi in cui un autore si sente impegnano nel proprio prestigio. Ho dato questi testi come “documenti” e i riferimenti agli interventi come “allegati”. La ricerca è in corso, il libro è aperto.13

Pasolini non solo fornisce una definizione per la raccolta e il suo contenuto, ma anche una definizione della posizione autoriale adottata, apparentemente incurante del danno d’immagine che eventuali ridondanze e sviste potrebbero arrecargli. In realtà, come già ho avuto modo di far notare, anche in questo caso Pasolini non solo cura attentamente la struttura del testo, sperimentando un “modello compositivo per costellazioni”14 tematiche, ma apporta anche numerosi ritocchi, correzioni formali e piccoli tagli rispetto agli originali. A volte, i cambiamenti sono però rilevanti. Si consideri, ad esempio, la conclusione del primo saggio, “Nuove questioni linguistiche,” originalmente letto da Pasolini a una conferenza nel novembre del 1964: “Mai come oggi il problema della poesia è un problema culturale, e mai come oggi la letteratura ha richiesto un modo di conoscenza scientifico e razionale.”15 In Empirismo eretico, dopo “razionale” Pasolini aggiunge “cioè politico.” Non si tratta di un particolare irrilevante se è vero, come ha scritto Adolfo Chiesa all’indomani della presentazione del volume, che Pasolini auspicava che “i critici cercassero di cogliere l’elemento continuo del libro, cioè l’elemento politico.”16
Se Empirismo eretico è un libro “aperto” poiché è la ricerca di Pasolini a non essere conclusa, la successiva raccolta saggistica, Scritti corsari (1975), che raccoglie gli articoli usciti tra il 1973 e il 1975 sul “Corriere della Sera” e sul “Mondo,” sembrerebbe proporsi come un’opera aperta la cui ricostruzione “è affidata al lettore.”17 Pare ovvio che Pasolini abbia in mente il concetto centrale del fortunato saggio di Umberto Eco del 1962, che il semiologo riassumeva in questi termini: “un’opera d’arte, forma compiuta e chiusa nella sua perfezione di organismo perfettamente calibrato, è altresì aperta, possibilità di essere interpretata in mille modi diversi senza che la sua irriproducibile singolarità ne risulti alternata.”18 Confrontiamo quanto espresso da Eco con le indicazioni che Pasolini fornisce al lettore di Scritti corsari nella sua “Nota introduttiva:”

La ricostruzione di questo libro è affidata al lettore. È lui che deve rimettere insieme i frammenti di un’opera dispersa e incompleta. È lui che deve ricongiungere passi lontani che però si integrano. È lui che deve organizzare i momenti contraddittori ricercandone la sostanziale unitarietà. È lui che deve eliminare le eventuali incoerenze (ossia ricerche o ipotesi abbandonate). È lui che deve sostituire le ripetizioni con eventuali varianti (o altrimenti accepire le ripetizioni come delle appassionate anafore).19

Ciò che appare evidente sin da subito è che Pasolini concepisce la sua opera aperta in termini opposti a quelli proposti da Eco. Se il semiologo richiama la libertà del lettore nei processi di significazione del testo, ossia nell’apertura del suo senso, l’opera – per quanto possa risultare “aperta” e “in movimento” – rimane però chiusa nelle sue proprietà strutturali definite, che la costituiscono in quanto tale. Pasolini invece, si appella alla libertà del suo lettore proprio nella ricostruzione strutturale del suo volume, pretendendo un “fervore filologico”20 che esula però da una supposta libertà interpretativa. Il senso resta quello stabilito dall’autore, che infatti suggerisce esplicitamente percorsi transtestuali: “il lettore è rimandato anche altrove che alle ‘serie’ di scritti contenuti nel libro.”21 Non solo ai testi con cui egli polemizza, ma a materiali “fondamentali” rappresentati da altri luoghi dell’opera pasoliniana, come le “poesie italo-friulane” dei suoi esordi, di cui Pasolini non esita a pubblicizzare la nuova “collocazione definitiva”22 nel volume La nuova gioventù, pubblicato quello stesso anno da Einaudi.
La richiesta fatta al lettore di partecipare e integrare la singola opera, non è una modalità circoscritta solo a Scritti corsari, ma fa parte di una strategia autoriale adottata da Pasolini alla fine degli anni Settanta. Proprio nel ’75, Pasolini sta infatti per licenziare anche La Divina Mimesis, un testo – lo vedremo in dettaglio nel prossimo capitolo – presentato come edizione critica, e allo stesso tempo sta lavorando con passione alla stesura di Petrolio, romanzo di appunti che utilizza la medesima finzione narrativa e in cui l’Autore-narratore rimanda costantemente a luoghi interni ed esterni al testo. È insomma possibile ipotizzare che quanto Pasolini scrive al lettore a proposito di Scritti corsari sia di fatto una descrizione, piuttosto accurata, del nuovo tipo di lettore a cui egli si rivolge, e che l’opera frammentaria, incompleta e dispersa, caratterizzata da contradditorietà, incoerenza e ripetizione, sia in realtà il modello della sua Opera complessiva, l’opera rimasta sola, di fronte alla quale, ancora oggi, noi lettori ci ritroviamo a dover seguire le indicazioni meta-, intra- e trans-testuali pasoliniane, immersi in una struttura instabile e mobile.

1 “Stroligut” significa “piccolo almanacco dialettale.”
2 Tra questi Giuseppe Zigania, Riccardo Castellani, Cesare Bortotto, Pina Kalč e Giovanna Bemporad, oltre ad alcuni dei figli di contadini che frequentano la scuoletta privata fondata da Pasolini e sua madre a Versuta.
3 Pasolini, “Al lettore friulano,” SLA, Vol. I, 157-158.
4 Intervista radiofonica con Achille Millo del 20 settembre 1967, conservata presso il Fondo P. P. Pasolini ella Cineteca di Bologna.
5 Cfr. Pasolini, “Gennariello,” Lettere luterane, SPS, 551-598.
6 Pasolini, “Incontro con Pasolini,” PC, Vol. II, 2973.
7 Pasolini, “Nota,” Passione e ideologia, SLA, Vol. I, 1238.
8 Ibidem.
9 Ivi, 1239
10 Gérard Genette, Soglie. I dintorni del testo, a cura di Camilla Maria Cederna (Torino: Einaudi, 1989), 235.
11 Ivi, 234.
12 Ivi, 207
13 Pasolini, “Al lettore,” Empirismo eretico, SLA, Vol. I, 1305.
14 Walter Siti e Silvia De Laude, “Note e notizie sui testi,” SLA, Vol. II, 2939.
15 Pasolini, “Nuove questioni linguistiche,” Empirismo eretico, SLA, Vol. I, 1270.
16 Adolfo Chiesa, “Presentato il nuovo libro di Pasolini,” Paese Sera, 30 giugno 1972; ora in SLA, Vol. II, 2939.
17 Pasolini, “Nota introduttiva,” Scritti corsari, SPS, 267.
18 Umberto Eco, Opera aperta: forma e indeterminazione nelle poetiche contemporanee (Milano: Bompiani, 1993), 34.
19 Pasolini, “Nota introduttiva,” Scritti corsari, SPS, 267.
20 Ibidem.
21 Ibidem.
22 Ivi, 268.


Tratto da:


In the Theater of my Mind:
Authorship, Personae, and the Making of Pier Paolo Pasolini’s Work

Gian-Maria Annovi

Submitted in partial fulfillment of the
requirements for the degree of
Doctor of Philosophy
in the Graduate School of Arts and Sciences

COLUMBIA UNIVERSITY
2011
© 2011
Gian-Maria Annovi



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Curatore, Bruno Esposito

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