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Biografia, lavori in corso - a breve anche il 1974 e il 1975

venerdì 18 dicembre 2020

Pier Paolo Pasolini, da Poveri ma fascisti, «Il Messaggero», 17 ottobre 1974.

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro



Pier Paolo Pasolini con Naldini e Alberto Moravia durante la presentazione del film a Roma (1974)
Fonte: Cineteca di Bologna



Pasolini su Fascista (1974)

di Nico Naldini 
(estratto)




«(...) Vedendo quella prima sequenza [del film Fascista di Nico Naldini], ho osservato le facce dei fascisti e della gente che, partecipe o indifferente, li attorniava. Le persone “importanti” (professori, avvocati, ecc.) avevano delle facce da imbecilli, al solito. (...) Sono proprio quegli imbecilli, magari rozzi, ingenui, e, oltre tutto, anche in buona fede (non in quanto fascisti, dico, ma in quanto piccolo - e medio - borghesi). Ma intorno c'erano le facce dei sicari fascisti. Facce magre, ossute, con occhi fortemente disegnati. Facce tirate dalla vita povera, dalla fame. Macerate da abitudini nate dall'osservanza della più stretta economia, dal bisogno (lettucci, stanzette polverose, stanzoni vuoti, niente riscaldamento, un paio di calzoni e una camicia, l'osteria, la messa domenicale, la periferia della città quasi campestre). Insomma, ciò che quei fascisti erano socialmente, aveva infinitamente più forza di ciò che erano ideologicamente. Erano lavoratori poveri e piccoli borghesi poveri come loro. Facevano la marcia su Roma come una scampagnata; al massimo si può pensare che essi, culturalmente, imitassero l'impresa fiumana. La maggior parte erano chiaramente “assoldati”, come soldati di ventura di second'ordine.
... le folle oceaniche...
Fonte: Cineteca di Bologna
Questa prima impressione di trovarsi di fronte a un tipo antropologico di italiano che è stato così per secoli e secoli, ed è cambiato solo in questi ultimi dieci anni, dura e si consolida durante tutto il film di Naldini. Questa inoffensività, non bonacciona o qualunquistica , ma “fisica” degli italiani in camicia nera, si estende anche ai capi. I famosi gerarchi, che io ricordavo come il massimo della ferocia e del ridicolo, sono invece dei patetici imbecilli: qualcuno di loro fa addirittura una specie di schifosa tenerezza, tanto è stupido e visibilmente attaccato alla greppia, come un allampanato animale. C'è qualche sguardo gettato da costoro su Mussolini che è un capolavoro di recitazione involontaria. È lo sguardo di un cane che sa un po' di latino gettato su colui che gli procura il cibo.
Ad accentuare questa inoffensività di poveraglia e di piccola borghesia affamata, è l'inevitabile confronto sia con i fascisti, che con la folla e i “gerarchi” attuali. Rispetto ai fascisti attuali, che sono ormai dei veri e propri nazisti, quelli hanno un'aria casalinga che stringe il cuore (tanto più quando il loro entusiasmo fascista si manifesta in sorrisi sinceri di vecchia felicità popolana o contadina); rispetto alla folla attuale, quella folla (non necessariamente fascista) è piena di dignità; in essa contano valori di cui il fascismo approfittava degradandoli. Infine rispetto ai “gerarchi” attuali quei “gerarchi” fanno pena. Cosa possono aver rubato, in quell'Italia miserabile? Qualche miserabile gruzzoletto di palanche. Lo si vede. E il pensiero corre alle ruberie, alle grassazioni, alle violazioni, ai delitti dell'attuale classe dirigente, fatta di parassitismo e di clientele, come ormai i dirigenti democristiani stessi ammettono, senza vergognarsi, e invece di togliersi per sempre di mezzo. Il fascismo non è stato alle origini che umile manovalanza del padronato. Alla fine è stata una bieca mascherata assassina. Ma a questo punto il film finisce.
Fonte: Cineteca di Bologna
Mussolini al balcone(...) Naldini ha preso delle decisioni stilistiche direi ferree nel progettare il film. Niente retorica antifascista, niente facile “ridicolo” sul fascismo, rappresentazione del fascismo attraverso materiale elaborato dai fascisti stessi, cioè attraverso la loro idea falsa e vera di sé. In tutto questo però Naldini è stato travolto da un dato incalcolabile: cioè dall'accumulazione di un materiale che aveva quasi costantemente per oggetto il rapporto pubblico tra Mussolini e le folle cosiddette oceaniche. Alla fine, e proprio filmicamente, il film è un film sul rapporto tra un Capo e il suo Popolo. (...) Rapporto inaudito, assurdo, manifestamente arrangiato, ritagliato e mistificato, ridicolo, bieco: ma in qualche modo, quello lì, proprio quello lì, come compare nella realtà fisica dei materiali del film. Materiali che si accumulano, e infine esplodono in una espressività abnorme e involontaria. È stato un terribile gioco, e il film di Naldini gioca con questo gioco. Per questo è un film bellissimo. Ma anche pericoloso, perché sono i destinatari in buona fede che accettano il gioco. Quelli in cattiva fede fanno il “loro” gioco, cioè, come si sa, non sanno giocare. Il fascismo è un tetro comportamento coatto».

Pier Paolo Pasolini, da Poveri ma fascisti
«Il Messaggero», 17 ottobre 1974.

Fonte:
http://www.cinetecadibologna.it/vedere/programmazione/app_609/from_2009-02-16/h_2000



Curatore, Bruno Esposito

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Pasolini - Fascista (Intervista a cura di Massimo Fini)

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro


La copertina di "L'Europeo"numero 52 del  26 dicembre 1974


Pasolini - Fascista
(1974 intervista a cura di Massimo Fini )

Vedi anche:

Pier Paolo Pasolini, da Poveri ma fascisti, «Il Messaggero», 17 ottobre 1974.



Esiste oggi una forma di antifascismo archeologico che è poi un buon pretesto per procurarsi una patente di antifascismo reale. Si tratta di un antifascismo facile che ha per oggetto ed obiettivo un fascismo arcaico che non esiste più e che non esisterà più. Partiamo dal recente film di Naldini: Fascista. Ebbene questo film, che si è posto il problema del rapporto fra un capo e la folla, ha dimostrato che sia quel capo Mussolini, che quella folla, sono due personaggi assolutamente archeologici. Un capo come quello oggi è assolutamente inconcepibile non solo per le nullità e per l'irrazionalità di quello che dice, ma anche perché non troverebbe assolutamente spazio e credibilità nel mondo moderno. Basterebbe la televisione per vanificarlo, per distruggerlo politicamente. Le tecniche di quel capo andavano bene su di un palco, in un comizio, di fronte alle folle "oceaniche", non funzionerebbero assolutamente su uno schermo.
Questa non è semplicemente costatazione epidermica, puramente tecnica, è il simbolo di un cambiamento totale del modo di essere, di comunicare fra di noi. E così la folla, quella folla "oceanica". Basta un attimo posare gli occhi su quei visi per vedere che quella folla lì non c'è più, che sono dei morti che sono sepolti, che sono i nostri avi. Basta questo per capire che quel fascismo non si ripeterà mai più. Ecco perché buona parte dell'antifascismo di oggi, o almeno di quello che viene chiamato antifascismo, o è ingenuo o stupido o è pretestuoso e in malafede: perché dà battaglia o finge di dar battaglia ad un fenomeno morto e sepolto, archeologico appunto, che non può fare più paura a nessuno. E', insomma, un antifascismo di tutto comodo e di tutto riposo.
Io credo, lo credo profondamente, che il vero fascismo sia quello che i sociologhi hanno troppo bonariamente chiamato la "società dei consumi". Una definizione che sembra innocua, puramente indicativa. E invece no. Se uno osserva bene la realtà, e soprattutto se uno sa leggere intorno negli oggetti, nel paesaggio, nell'urbanistica e, soprattutto, negli uomini, vede che i risultati di questa spensierata società dei consumi sono i risultati di una dittatura, di un vero e proprio fascismo. Nel film di Naldini noi abbiamo visto i giovani inquadrati, in divisa... Con una differenza, però. Allora i giovani nel momento stesso in cui si toglievano la divisa e riprendevano la strada verso i loro paesi e i loro campi, ritornavano gli italiani di cento, di cinquant'anni addietro, come prima del fascismo.
Il fascismo, in realtà, li aveva resi dei pagliacci, dei servi, e forse in parte anche convinti, ma non li aveva toccati sul serio. Nel fondo dell'anima, nel loro modo di essere. Questo nuovo fascismo, questa società dei consumi, invece, ha profondamente trasformato i giovani, li ha toccati nell'intimo, ha dato loro altri sentimenti, altri modi di pensare, di vivere, altri modelli culturali. Non si tratta più, come all'epoca mussoliniana, di un'irregolamentazione superficiale, scenografica, ma di una irregolamentazione reale che ha rubato e cambiato loro l'anima. Il che significa, in definitiva, che questa "civiltà dei consumi" è una civiltà dittatoriale. Insomma, se la parola fascismo significa la prepotenza del potere, la "società dei consumi" ha bene realizzato il fascismo.
Un ruolo marginale. Per questo ho detto che ridurre l'antifascismo ad un lotta contro quella gente significa fare della mistificazione. Per me la questione è molto più complessa, ma anche molto chiara, il vero fascismo, l'ho detto e lo ripeto è quello della società dei consumi e i democristiani si sono trovati ad essere, anche senza rendersene conto, i reali ed autentici fascisti di oggi. In questo ambito i fascisti "ufficiali" non sono altro che il proseguimento del fascismo archeologico: e in quanto tali non sono da prendere in considerazione. In questo senso Almirante, per quanto abbia tentato di aggiornarsi, per me è altrettanto ridicolo che Mussolini. Piuttosto, un pericolo più reale viene oggi dai giovani fascisti, dalla frangia neonazista del fascismo che adesso conta su poche migliaia di fanatici ma che domani potrebbe diventare un esercito.
Secondo me l'Italia vive qualcosa di analogo a quanto accade in Germania agli albori del nazismo. Anche in Italia attualmente si assiste a quei fenomeni di omologazione e di abbandono degli antichi valori contadini, tradizionali, particolaristici, regionali, che fu l'humus su cui crebbe la Germania nazista. C'è un enorme massa di gente che si è trovata ad essere fluttuante, in uno stato di imponderabilità di valori, ma che non ha ancora acquistato quelli nuovi nati dall'industrializzazione. E' il popolo che sta diventando piccola borghesia ma che non è ancora né l'uno e non è più l'altro. Secondo me il nucleo dell'esercito nazista fu costituito proprio da questa ibrida massa, questo fu il materiale umano da cui vennero fuori, in Germania, i nazisti. E l'Italia sta correndo proprio questo pericolo.
Quanto alla caduta del fascismo, innanzitutto c'è un fatto contingente, psicologico. La vittoria, l'entusiasmo della vittoria, le speranza rinate, il senso della ritrovata libertà e di tutto il modo di essere nuovo, avevano reso gli uomini, dopo la liberazione, più buoni. Sì "più buoni", puramente e semplicemente.
Ma poi c'è l'altro fatto più reale: il fascismo che avevano sperimentato gli uomini di allora, quelli che erano stati antifascisti ed avevano attraversato le esperienze del ventennio, della guerra, della Resistenza, era un fascismo tutto sommato migliore di quello di oggi. Vent'anni di fascismo credo non abbiano mai fatto le vittime che ha fatto il fascismo di questi ultimi anni. Cose orribili come le stragi di Milano, di Brescia di Bologna, non erano mai avvenute in vent'anni. C'è stato il delitto Matteotti, certo, ci sono state altre vittime da tutte due le parti, ma la prepotenza, la violenza, la cattiveria, la disumanità, la glaciale freddezza dei delitti compiuti dal 12 dicembre del 1969 in poi non s'era mai vista in Italia. Ecco perché c'è in giro maggior odio, un maggior scandalo, una minore capacità di perdonare... Soltanto che questo odio si dirige, in certi casi in buonafede e in altri in perfetta malafede, sul bersaglio sbagliato, sui fascisti archeologici invece che sul potere reale.
Prendiamo le piste nere. Io ho un'idea, magari un po' romanzesca ma che credo giusta, della cosa. Il romanzo è questo. Gli uomini di potere, e potrei forse fare addirittura dei nomi senza paura di sbagliarmi di tanto - comunque alcuni degli uomini che ci governano da trent'anni - hanno prima gestito la strategie della tensione a carattere anticomunista, poi, passata la preoccupazione dell'eversione del '68 e del pericolo comunista immediato, le stesse, identiche persone hanno gestito la strategia della tensione antifascista. Le stragi quindi sono state compiute sempre dalle stesse persone. Prima hanno fatto la strage di piazza Fontana accusando gli estremisti di sinistra, poi hanno fatto le stragi di Brescia e di Bologna accusando i fascisti e cercando di rifarsi in fretta e furia quella verginità antifascista di cui avevano bisogno, dopo la campagna del referendum e dopo il referendum, per continuare a gestire il potere come se nulla fosse accaduto.
In quanto agli episodi di intolleranza che lei ha richiamato, io non li definirei propriamente intolleranza. O almeno non si tratta dell'intolleranza tipica della società dei consumi. Si tratta in realtà di casi di terrorismo ideologico. Purtroppo le sinistre vivono, attualmente, in uno stato di terrorismo, che è nato nel '68 e che continua ancora oggi. Non direi che un professore che, ricattato da un certo gauchismo, non dà la laurea ad un giovane di destra, sia un'intollerante. Dico che è un terrorizzato. O un terrorista. Però questo tipo di terrorismo ideologico ha una parentela solo formale col fascismo. Terrorista è l'uno, terrorista è l'altro, è vero. Ma sotto gli schemi di queste due forme a volte identiche, bisogna riconoscere realtà profondamente diverse. Altrimenti si va a parare inevitabilmente nella teoria degli "opposti estremismi", oppure nello "stalinismo uguale fascismo".
Ma ho chiamato questi episodi di terrorismo e non di intolleranza perché secondo me, la vera intolleranza è quella della società dei consumi, della permissività concessa dall'altro, voluta dall'alto, che è la vera, la peggiore, la più subdola, la più fredda e spietata forma di intolleranza. Perché è intolleranza mascherata di tolleranza. Perché non è vera. Perché è revocabile ogni qualvolta il potere ne senta il bisogno. Perché è il vero fascismo da cui viene poi l'antifascismo di maniera: inutile, ipocrita, sostanzialmente gradito al regime.

("L'Europeo", 26 dicembre 1974, 
intervista, a cura di Massimo Fini a Pier Paolo Pasolini, 
successivamente pubblicata nel volume "Scritti corsari")

Fonte:
http://old.radicali.it/search_view.php?id=47281&lang=&cms=



@Eretico e Corsaro - Le Pagine Corsare

Curatore, Bruno Esposito

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Piero Sanavio intervista Pier Paolo Pasolini, seconda parte - Mi parli della sua religiosità.

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro





Intervista a Pasolini (mai ripubblicata altrove) tratta da:
Il Dramma
 N. 12 - settembre 1969 
« Porcile » o no tiriamo le somme su Pasolini
di

Seconda parte dell'intervista

Nel settembre del 1969, la rivista specializzata "Il Dramma", pubblica questa intervista di Piero Sanavio a Pier Paolo Pasolini. L'intervista avvenuta a casa di Pasolini, audio-registrata, viene poi trascritta e fatta pubblicare da  Sanavio. La trascrizione trova Pasolini insoddisfatto del lavoro svolto dal suo intervistatore e scrive al direttore della rivista... 
Questo post si articola in quattro parti: la prima è fatta dal preambolo-considerazioni dell'intervistatore, che precede  l'intervista;  La seconda e la terza, rispettivamente  la prima e la seconda parte dell'intervista;  la quarta, la lettera di Pasolini al  direttore della rivista "Il Dramma" e la risposta di Sanavio.



Io: Mi può parlare dei suoi prossimi film?
Pasolini: Prima faro una Medea. Poi un film su San Paolo, dove New York prenderà il posto di Roma e Parigi di Gerusalemme. Presenterò un San Paolo... Io sono abbastanza obiettivo, cioè non aggiungo nulla, tutto quello che lui dice lo prendo dalle sue lettere e dagli Atti degli Apostoli, non vi aggiungo niente, non gli metto in bocca nessuna parola mia. Come ho fatto con il Vangelo e ho preso il testo di San Matteo e a Cristo ho fatto dire esattamente ciò che dice in San Matteo e non ho aggiunto. Cosi faro con San Paolo come figura. Lui era lacerato ma non aveva coscienza di questa lacerazione. Lui era diviso profondamente, secondo me, è insanabilmente, ma non aveva coscienza di esserlo. E' questo che voglio mostrare. In epoca moderna. Cosi... Parigi e New York.

Io: perchè ha questi interessi verso la religione?

Pasolini: Secondo me la religione è un rapporto di tipo religioso con la realtà, cioè considerare la realtà non naturale.

Io: Un rapporto magico?

Pasolini: Non magico, sacrale direi. E' quindi naturalmente assorbe anche quanto di magico v’è stato nella nostra preistoria. Insomma, gli strati profondi della nostra psicologia.

Io : La religione cattolica cos’è, per lei?

Pasolini: Quando lei aggiunge alla parola religione un aggettivo lei istituzionalizza, la religione diventa chiesa, diventa istituzione, diventa codificazione, e come tale è in contraddizione con se stessa. Qualche volta questa contraddizione può farsi dialettica e può essere feconda e fertile. Per esempio, per dirne una, quasi tutti i santi sono nati da questa contraddizione. Per esempio San Francesco e diventato santo proprio per questa contraddizione tra chiesa e santità. In altri casi, invece, nei periodi di decadenza, il fatto d’essere una istituzione diventa puramente negativo. Per esempio la chiesa franchista, oppure la chiesa della Controriforma.

Io: Ma perchè questo interesse nella cultura cattolica?

Pasolini: perchè io sono nato in una nazione cattolica e quindi il mondo religioso, il mondo sociale che mi si è presentato davanti, storicamente, è un mondo cattolico.

Io: Che lei accetta senza discutere, passivamente. O di cui si serve come... convenzione culturale?

Pasolini: Non dirci convenzione culturale, è un puro fatto di realtà. Io sono nato qui, il mio mondo è questo, e uno scrittore non può parlare che del suo mondo.

Io : D’accordo, ma dipende da come ne parla. Comunque ciò che lei dice mi conferma, allora, che se non si tratta d’una accettazione passiva di una realtà specifica, questo suo interesse nel cattolicesimo risponde all’uso meccanico d’una convenzione culturale. Questa o qualsiasi altra. Senza nessun apporto ideologico personale.

Pasolini: Lei dice convenzione dove io dico istituzione. Io sono circondato dalle istituzioni. C’è una istituzione statale, c’è la falsa istituzione della democrazia italiana parlamentare, c’è l’istituzione dei partiti... Tutto è istituzionalizzato.

Io: Certo, e neppure per il meglio. Lei pero non ha risposto alla domanda.

Pasolini: Nel caso della Chiesa è lo stesso. La Chiesa è una istituzione e dentro questa istituzione c’è naturalmente una serie di cristallizzazioni che sono convenzionali. La liturgia è tutta una convenzione. 

Io: Continua a non rispondere. Con ciò che dice, intende sostenere, come sosteneva Croce, che nell'ambito della cultura italiana tutto è ≪ cristiano ≫ data la presenza della Chiesa?

Pasolini: Si. Io sono storicamente italiano. Come tale sono vissuto in un ambiente culturalmente provinciale, con tendenze fasciste e con la Chiesa cattolica, e quindi la mia esperienza è questa, ecco. 

Io
: Mi parli della sua religiosità.

Pasolini: La mia religiosità, come appare in Accattone ed Edipo, è un rapporto sacrale con gli oggetti e con gli esseri viventi della realtà. cioè, non riesco a vedere nella natura naturalezza. E quindi tutto mi appare sotto una forma non dico miracolosa nel senso convenzionale ma quasi, insomma, sacrale.
Io : Per rapporto ad Accattone lei ha subito una evoluzione ideologica? Uso la parola in un senso molto lato, che possa includere anche questa sua ≪ religiosità ≫.
Pasolini: Per farmi capire devo ricorrere a Gramsci. Gramsci parlava in letteratura come d'un ideale di opere che lui chiamava nazional-popolari, idealmente dedicate a un popolo ideale, in un ambito puramente classista, come se il popolo si staccasse culturalmente dalla borghesia, avesse una sua cultura, una sua mentalità, eccetera. Ora io, le mie opere, da Accattone a Mamma Roma al Vangelo, le ho composte con questa idea gramsciana in testa, volendo fare delle grandi opere nazionali e popolari, non dico semplificate e volgarizzate, ma in un certo senso mitiche, epiche : e che avessero questo andamento mitico ed epico e fossero capaci di entrare in consonanza, diciamo in sincronia, con grandi pubblici popolari. Naturalmente, i tempi sono cambiati e questo famoso popolo che Gramsci aveva in mente e che io, anch’io, avevo conosciuto... insomma, è andato lentamente cambiando e ora non si può più fare in Italia, neppure in Italia, dal momento che anche l’Italia e diventata una nazione neocapitalistica, questa netta distinzione tra popolo e borghesia. Ma anche l'Italia ha una cultura di massa che non è più ne borghese ne popolare, è qualcosa di diverso, è una cosa completamente nuova, che Gramsci probabilmente non poteva nemmeno immaginare. E allora, quando io faccio delle opere semplificate, epiche, cosi, o perlomeno semplici, allora non ho più l’illusione che queste opere vengano lette o capite da un popolo nel senso gramsciano della parola, ma purtroppo, oggettivamente, so che verranno mistificate, alterate, alienate da una massa e dai mezzi di comunicazione di massa. E allora c’è stata in me una ribellione, in principio inconscia, di cui mi sto rendendo conto lentamente adesso, per cui anzichè fare delle opere che mi illudessero di fare insomma un’arte in qualche modo popolare, nel senso gramsciano della parola, si capisce, faccio delle opere ambigue, quasi per elite, estremamente difficili e rigorose, in maniera che siano il meno possibile consumabili dalla massa. E resistano il più possibile alle semplificazioni della massa.

Io
: E' un discorso molto complesso, il suo, e credo non molto preciso. Non discuto la sua evoluzione ideologica, ma i termini nei quali s’è svolta. Ne voglio discutere a fondo le idee di Gramsci circa questa letteratura nazional-popolare, seppure mi sembri giusto dichiarare che in questo caso Gramsci faceva un discorso altamente reazionario, borghese : ripetendo mitologie ottocentesche che a me, perlomeno, ricordano il Gioberti. Quando parlava d’un pubblico nazional-popolare, Gramsci si sbagliava. Non ricordo, adesso, ciò che pensasse dell’opera, ma credo gli piacesse: come piaceva a Vittorini: che insomma la difendesse. come la difendevano molti uomini di sinistra italiani, in quanto sarebbe stata nell'Ottocento un’espressione di gusto e ispirazione popolari. Ora, la voga dell’opera nell’Ottocento, anche presso le classi popolari, non è certo una prova della sua validità, ma della coincidenza in un contesto storico specifico dei gusti del ≪ popolo ≫ con quelli della borghesia. Ma più che criticare Gramsci, a proposito di questo pubblico nazional-popolare, vorrei criticare lei: e con lei tutto un segmento della cultura italiana, che con idee di questo genere taglio la gola alle possibilità espressive di tutta una generazione. Instaurando un vero e proprio terrorismo culturale. Prima di pensare di scrivere per il popolo, chiunque sia questo popolo, e ammettendo inoltre che ciò sia fattibile, io sinceramente non lo so, bisognerebbe chiedersi se il popolo sa ≪ leggere ≫: e in che modo. Ho l'impressione che i gusti del ≪ popolo ≫ siano sempre, per rapporto all’arte, quelli della classe che gli è immediatamente superiore. In questo contesto, credo di poter affermare che la tragedia della rivoluzione russa non fu tanto la dittatura di Stalin quanto il fatto che i commissari del popolo avevano l’identico cattivo gusto dei funzionari zaristi : lo stesso tipo di ignoranza culturale. Prima di parlare di letteratura nazional-popolare, bisognerebbe preoccuparsi di insegnare al popolo a leggere : e fargli capire perchè un quadro di De Chirico è più bello d’una crosta di Cremona. Ma di ciò non può preoccuparsi l’artista: ciò è competenza del Ministero dell’Educazione Nazionale e della stampa, dei mezzi di diffusione. Se per educare il popolo a capire De Chirico occorre far la rivoluzione, ben venga: facciamola subito. Magari è proprio necessaria, che il gusto del ≪popolo≫ non dipende da dati innati, ma è il risultato di specifiche strutture sociali, del contesto sociale in cui vive. Anche l’artista può fare la rivoluzione, naturalmente: ma quella vera, allora, con fucile e bombe a mano, da uomo rivoluzionario, non quella da buffone, che scrive per il popolo. L’altra rivoluzione che può fare l’artista è al livello del suo lavoro d’artista: è cioè, esprimendosi artisticamente, senza preoccuparsi dei gusti del popolo o della borghesia o della nobiltà. In Italia, dal dopoguerra, non v’è stato nulla di meno ≪ popolare ≫ di quel movimento regressivo, ≪ popolare ≫ nelle intenzioni, che fu il neorealismo. In realtà, fu un movimento culturale borghese: con il quale la borghesia, quella reazionaria e anche l’altra, quella ≪progressista≫, tenta di salvarsi l’anima e conquistare il potere. Riuscendovi. Ma il neorealismo, movimento ≪popolare≫, fu distrutto in quarantott’ore da un solo libro, altamente ≪ anti-popolare ≫, scritto da un nobile, addirittura: Il Gattopardo. Che si rivelo molto più ≪ popolare ≫, in effetti, delle tonnellate di carta stampata, prodotta dai nazional-popolari. Mi domando a questo punto, e vorrei tirar le somme di quanto ho detto più su, se tutto questo non sia il risultato non solo del provincialismo ma anche dell’ignoranza della borghesia italiana, alla quale lei culturalmente appartiene: questa borghesia che non riusci mai a proiettare un’immagine coerente di se stessa e che ha sempre preferito l’intrallazzo di tipo rurale a una chiara e cosciente presa di potere. Questa borghesia che non ha nessun modello di se e non ha mai avuto il coraggio di espletare le proprie funzioni, anche quando queste funzioni erano storicamente necessarie. Lei ha parlato inoltre di comunicazioni di massa come d’un fattore nuovo, nella cultura occidentale: e dei cambiamenti che ciò avrebbe portato. A me pare che le complicazioni di massa, come fattore condizionante, siano sempre esistite: i veicoli erano diversi, la penetrazione era meno intensa, probabilmente, ma cent’anni fa anche questa penetrazione meno intensa bastava allo scopo. Era necessario condizionare direttamente tutta la popolazione in una società dove solo una parte aveva diritto al voto o comunque aveva la capacita d’esprimersi? E l’ignoranza, poi, non le pare condizionante? Torniamo indietro, al Medio Evo: anche allora v’era questa cultura di massa, propagata dai mezzi di comunicazione di quell’epoca, che molto spesso erano controllati dalla Chiesa. Non penso solo ai vetri istoriati, la Bibbia dei poveri in quanto raccontavano le storie dei santi e spiegavano una certa ideologia a coloro che noti sapevano leggere; o alle sacre rappresentazioni. Penso anche alla trasmissione massiccia di una cultura specifica, che vi avveniva. Un individuo poteva essere signore, o servo, e pero ambedue erano condizionati dalla loro comune cultura. Anche in esilio, e per colpa del Papa, Dante restava nella più schietta ortodossia: e mi pare abbastanza significativo. Sicchè, come avvenne nel dopoguerra, ho l’impressione che anche adesso la gente di cultura nazionale faccia discorsi che non corrispondono alla realtà, o per essere incapace, o per non aver voglia di analizzare le cose con un po’ di chiarezza.

Pasolini: Questo che dice lei... rientriamo nel concetto di istituzionalità, cioè tutto era istituito, e dentro questa istituzione ricco e povero erano convenzionali, al limite. E ne uscivano attraverso le eresie, le invenzioni, l’arte... come dire... dialetticamente. Invece la cultura di massa è un fenomeno completamente nuovo, tipico della civiltà moderna in cui i mezzi di comunicazione sono dei prodotti.
Io: Le forme di fuga che lei cita sono quelle che sono possibili anche adesso. Non lo dico per implicare che le cose vanno nel miglior modo possibile e tutto deve continuare a essere come è sempre stato. Piuttosto, perchè il problema mi pare risieda altrove. Quanto ai mezzi di comunicazione come prodotti... credo lo siano sempre stati. Lei non crede che la stampa, fin dalla sua invenzione, non fosse il prodotto di interessi economici, politici, ideologici ben definiti? e che cosi non fosse, non sia sempre stato, per tutti i mezzi di comunicazione, inclusa la parola? Lei sta creando dei falsi problemi. E parla da inserito in un sistema, che vuol servirsene e contemporaneamente salvarsi l’anima.
Pasolini: Io voglio dire che finchè il libro era un libro, era un fatto personale, e finchè il teatro era teatro, era fatto in carne e ossa, irriproducibile, i mezzi di comunicazione rimanevano sempre in qualche modo umani. Al momento in cui intervengono il cinema e la televisione, tanto per dirne una, oppure la stampa, arrivata al livello in cui è arrivata adesso, il mezzo di comunicazione si disumanizza. 

Io: E allora? Questa disumanizzazione appartiene alla nostra umanità d’oggi. Come la disumanizzazione ottocentesca, basata sullo sfruttamento diretto, schiavistico dell’uomo, apparteneva all’umanità dell’uomo ottocentesco. Ripeto, il problema è diverso, sta altrove. Sta nell’uso dei mezzi di comunicazione, sta nei rapporti sociali: nella struttura dei rapporti sociali. D’altra parte, anche nel Medio Evo mi pare che il mezzo di comunicazione fosse disumanizzato. Da un lato c’era il formalismo della messa e dall’altro v’erano delle pratiche...

Pasolini: Be’, va be’, se lei pone sul livello... In che senso? 

Io: ...delle pratiche che insegnavano la storia della chiesa, una ortodossia ben definita, una ideologia precisa, specifica. Quindi in che senso è nuovo, per lei?

Pasolini: E' nuovo nel senso che mentre nel Medio Evo c’era sempre molto spazio, entro questa convenzionalità di fondo - d’altra parte qualsiasi società ha questo fondo di istituzioni e di convenzionalità, questo purtroppo è vero... - il Medio Evo lasciava pero un grande spazio a libertà individuali, a equivoci. Oggi invece questo spazio si riduce sempre di più. 

Io: Lo spazio non credo si sia ridotto. Non le pare che anche nella società capitalistica vi sia un certo spazio? Per sopravvivere essa ha. bisogno di espellere una certa quantità di prodotti di scarto. E' come una grossa fabbrica di automobili, che riutilizza i frammenti di ferro fino al possibile, li rifonde... Arriva il momento in cui la nuova fusione dei pezzi di scarto non è più economicamente utile, costerebbe troppo, sicchè devono essere buttati. La distruzione dei prodotti di scarto è necessaria alla nostra civiltà capitalista, è un fenomeno... sono degli elementi... defecatoci, per dire. Come un fatto defecatorio è la creazione d’un prodotto per la sua distruzione. Ha mai letto ciò che sta scritto sul vetro delle bottigliette di birra che vendono negli S.U.? ≪ Vietato per legge servirsene una seconda volta ≫. L’economia capitalista vive su questi dati defecatoli. Ed è questa la libertà che noi possiamo usare: e in queste zone che si può operare. Pulendosi dopo, beninteso. E negli interstizi che questo apparente monolita della società capitalistica possiede, per restare in piedi, una specie di valvola d’equilibrio, che si può, ci si deve inserire: per portare qualcosa di nuovo. Che probabilmente farà cadere il monolito in frantumi. Tutto il resto è aria.

Pasolini: Ma infatti, quando prima le dicevo che anzichè operare nell’illusione gramsciana cerco adesso di fare dei film difficili, ambigui, inconsumabili, le dicevo proprio questo. Quando ho cominciato a fare del teatro, l’ho cominciato un po’ con questa illusione. Ma pero dobbiamo oggettivamente dire che queste operazioni individuali o anche di gruppi sono sempre più irrisorie e irrilevanti, e finiranno con l’essere schiacciate.

Io : Ho l’impressione che lei voglia dire altre cose. E che confonda il ruolo dell’artista, che è forzosamente sotterraneo, per definizione, con quello dell’impiegato in una agenzia di pubblicità. Che lei contamini la funzione dell’artista, con il mito capitalistico del successo. Comunque: vuol dire, con la sua ultima affermazione, che l’arte finirà per sparire?

Pasolini: Ma... queste cose qui non le dico mai.
Io: Ma l’ha detto, l’ha implicato.
Pasolini: Si, oggettivamente dovrebbe essere cosi. In una cultura di massa, quando non vi sarà più frattura tra Terzo Mondo e mondo neocapitalistico, quando i paesi del Terzo Mondo saranno industrializzati e tutto il mondo sarà neocapitalistico, e quindi la cultura sarà tutta una cultura di massa, oggettivamente, in una ingenua previsione del futuro, si dovrebbe dire allora che l’arte non potrà oggettivamente sussistere. Ma sa, queste qui son sempre definizioni schematiche e fasulle.

Io : E cosa può salvare l’arte?

Pasolini: L’arte può essere salvata da nuovi tipi di eresie. Per esempio, tanto per dirne una, nel mondo neocapitalistico più avanzato che ci sia, cioè l’America, si sono avuti ultimamente dei fenomeni grandiosi di eresia, cioè tutto il fenomeno dei beats, degli hippies, eccetera, questi scioperi contro il consumismo che sono di carattere spiritualistico, politicizzati solo fino a un certo punto. può darsi che nel futuro questi gruppi di umanità che franano fuori della tensione produzione-consumo siano fenomeni sempre più imponenti e impongano all'umanità una forma di autoriflessione su se stessa.

Io: Quindi sarebbero dei fenomeni non strutturati, irrazionali, spiritualistici che...

Pasolini: ...irrazionali di tipo in qualche modo religioso, di fondo, e d’un altro tipo. Da noi finora la religione è stata una religione contadina, preindustriale, no? La religione è un fenomeno da noi preindustriale e contadino e quindi ha certi elementi irrazionali che si collegano alle epoche magiche, eccetera. Adesso probabilmente i tipi religiosi avranno altra consistenza. Già sono prefigurati da quanto le dicevo prima. Il Village, a New York, quando ci sono stato quattro anni fa, era un po’ un fenomeno di questo genere. C’era l’idea di fare delle comunità di pura contestazione.

Io : Non le pare che siano fenomeni che appartengono ancora al XIX secolo, e che siano quindi inadeguati a lottare veramente contro la società contemporanea? Lei parla del Village. Io penso a tutti i fenomeni di falansteri, Brook Farm nel New England, i trascendentalisti, le comunità paracomunistiche dei gesuiti, i raggruppamenti mormonici, i quaccheri, tutte quelle società utopistiche della fine del XIX e dei primi del XX secolo, in tutto il mondo. Ma particolarmente in America. Alla comunità creata in Patagonia da Blasco Ibahez... Che ne restato? Furono tutti fenomeni di contestazione a un capitalismo ancora rozzo, primitivo: e già allora hanno fallito.

Pasolini: Si, si, indubbiamente in America questi fermenti sono più forti perchè c’è una tradizione.

Io : Ma non le pare, appunto, che dato il fallimento nel passato di fenomeni di questo tipo, dovuto anzitutto ai loro elementi irrazionali e vagamente spiritualistici, sia un po’ irreale sperare che da questi gruppi possa venire un rinnovamento? Sperare in questo tipo di rivolta irrazionale, e concedergli un’importanza rivoluzionaria, è un po’ ciò che faceva quel protofascista di D. H. Lawrence, quando protestava contro la società vittoriana perchè rovinava il paesaggio con le sue miniere, e cercava poi una soluzione al problema invocando una palingenesi del sesso. Cercando di convincersi, e convincerci, che le strutture sociali potevano essere superate grazie a misteriose affinità elettive, le quali si riducevano al sesso: a una funzione. E' questo, in definitiva, il discorso che fa in Lady Chatterley. E lei crede che da movimenti irrazionali, vagamente spiritualistici come i beats, che ripetono Lawrence magari senza saperlo, o gli hippies...

Pasolini: Be’, questa è una delle più ottimistiche previsioni. Sarebbe più drammatico se queste esclusioni diventassero addirittura delle esclusioni vere e proprie, dei lager. Se prevalesse, diciamo cosi, l’estrema destra, che sara per forza una forma di nazismo ancora più atroce in quanto ancora più... matematico, direi cosi. 
Io: Questa è propaganda. Non credo che i lager per questi gruppi vi saranno mai. Appena sorgono, infatti, questi gruppi sono strumentalizzati dal sistema di produzione. Costa meno. Ed essi servono il sistema, senza saperlo: o sapendolo, non ha nessuna importanza. Quanto al fascismo, mi pare che il mondo sia già in pieno fascismo. Corre verso un fascismo più istituzionalizzato e spersonalizzato di quello tradizionale. Si sta avverando una centralizzazione del potere e una sempre più maggiore spersonalizzazione: Ma è nella logica delle cose: è il risultato più esatto delle premesse della nostra società. Come dicevo prima, il problema è diverso, sta altrove: uso dei mezzi di comunicazione, accessibilità del potere in altri termini è suo uso, è struttura dei rapporti sociali. Finchè questo non cambia, o non lo si fa cambiare...
Pasolini: Si, purtroppo, oggettivamente, in questo momento le cose stanno cosi, c’è il fascismo dappertutto. Ci sono delle forme che io chiamo di fascismo di sinistra nella contestazione stessa, secondo me.

Io: Cos’è questo fascismo di sinistra?

Pasolini: Ma, il fascismo di sinistra è, perlomeno in Italia, il vecchio provincialismo, il vecchio moralismo, il vecchio amore per le istituzioni, la vecchia abitudine di parlare attraverso il codice, è la vecchia demagogia.

Io: Questo è il fascismo tradizionale, rurale...

Pasolini: Questo si riproduce nei movimenti di sinistra. C’è cioè un movimento ricattatorio e demagogico, moralistico, nei contestatori, che è oggettivamente simile a quello fascista. Voglio dire che il contenuto della demagogia è la demagogia. E il contenuto del moralismo è il moralismo. E quindi una demagogia equivale un’altra demagogia, e un moralismo vale un altro moralismo. E loro, i contestatori, hanno queste forme estremistiche che sono oggettivamente simili a quelle fasciste.

Io: Lei escluderebbe le cosiddette differenze qualitative?

Pasolini: Si perchè... Mi ricordo che quand’ero ragazzo io, fino a dieci anni fa, si diceva che anche quello russo era una forma di fascismo. Invece questo era un paragone forzato, sbagliato, storicamente sbagliato. cioè c’erano delle analogie puramente formali, diciamo cosi. Nel senso che la dittatura del proletariato, in quanto dittatura, aveva dei punti di analogia, di repressione, con la dittatura fascista. Ma erano somiglianze puramente esteriori. Invece quel tipo di analogia che propongo io è più interiore, più profonda.

Io: Non lo vedo. Non ne sono convinto. Non sono convinto della logicità di ciò che dice, voglio dire. Parliamo d’altro. Che cosa ha determinato il suo passaggio dalla scrittura al cinema?

Pasolini: Ho continuato sempre a scrivere, in realtà. Meno narrativa, ho scritto molto teatro... in versi... ho continuato sempre a scrivere. Ho pubblicato meno e l’ho fatto con meno... Mah, io pensavo che fosse il desiderio di cambiare tecnica. Come lei sa, chiunque è ossessionato da una specie di unicità di essere, irrimediabile, tende a reagire a questa sua unicità ossessiva cercando tecniche diverse, varianti di se stesso. Ora io ho sempre cercato delle tecniche diverse, anche in letteratura. C’è il dialetto friulano, il romanzo con inserti di dialetto romanesco, il saggio, la poesia civile, insomma ho sempre cambiato tecnica. Non sono monolinguista, sono plurilinguista, pluritecnico, anzi, come scrittore. E persino pensavo che anche il cinema fosse una tecnica diversa. Poi mi sono accorto che in realtà il cinema non è una tecnica diversa, è un’altra lingua. A questo sono stato convinto soprattutto dalla lettura d’un libro di semeiotica del professor Morris, e della semiologia in genere fino... E ora, pensando che fosse una lingua diversa, ho pensato che fosse una specie di protesta contro la mia nazionalita italiana. Facendo del cinema ho in qualche modo cambiato nazionalità, ho adoperato la lingua di un’altra nazione, o perlomeno d’una super nazione che non fosse l’Italia.

Io: Ciò contraddice quanto diceva prima a proposito della religione e d’una certa inevitabilità d’essere cristiani, se si è italiani. Mi pare. Il che mi porta a un’intervista che lei concesse lo scorso anno a Cancogni. Diceva, lei, che un piccolo paese non può dare un grande artista.

Pasolini: Non l’ho letta, l’intervista. Citavo una frase di Goldmann, che è un sociologo francese che segue Lukacs, il quale diceva che uno scrittore è omologo alla sua società. E quindi ciò che la società è, si riproduce nello scrittore. Se la società è complessa, larga, aperta, questo scrittore la rappresenta nella sua stessa misura, attraverso la stessa gerarchia di valori. Se una società è invece piccola, provinciale, ristretta eccetera, uno scrittore non può che esserne... Ecco, dicevo questo. E dicevo che l’essere italiano in un certo modo condiziona, nel senso che trattandosi d’una società ristretta, meschina, convenzionale, retrograda, eccetera, uno scrittore non può non risentirne. Con le stesse qualità e lo stesso talento, uno scrittore nato in Italia raggiunge risultati meno alti d’uno scrittore nato negli Stati Uniti o in Inghilterra o in Russia. Nato cioè in nazioni avanzate, più aperte, più culturalmente al centro della storia. L’Italia è piuttosto marginale.

Io: D’accordo, è marginale: e ha i difetti che lei dice. Credo pero che ancora una volta lei, come Goldmann d’altra parte, confonda risultato artistico con risultato mondano, realizzazione artistica con successo. Resta comunque un fatto innegabile: tutte le grandi letterature sono nate dal provincialismo. La letteratura americana ha trovato la propria forza nella cultura provinciale, basta pensare a Sherwood Anderson o a Mark Twain; o ai Puritani del New England, Hooker e Bradford e Winthrop, che scriveva una bellissima prosa, e Ann Bradstreet, Taylor... Per non fare che qualche nome. Non si può dire che il New England del XVII e XVIII secolo fosse meno periferico dell’Italia oggi. O pensiamo alla Russia dell’epoca di Gogol.

Pasolini: Be’, sa... C’è la provincia d’una nazione piccola e la provincia d’una nazione grande. D’una nazione grossa, con grande respiro, al centro della storia. Quando scriveva Gogol stava già cominciando la rivoluzione russa, tanto per dirne una. Mentre in Italia stava nascendo il fascismo.

Io
: Ma anche per l’Italia, nazione periferica, v’è sempre la possibilità d’un’altra visione... Italia come provincia europea. Un grande artista può nascere ed esistere e produrre anche se nessuno se ne accorge quando è vivo, anche se lo scoprono duecento anni dopo la morte, come di se diceva Stendhal. E, a rigore, nessuna regione è periferica in questo senso, perchè tutti si possono informare : possono leggere. Se si interessano a certe cose.

Pasolini: Ecco, infatti. Voglio dire che la frase di Goldmann è drastica : e io non sono d’accordo. Ecco, io la citavo come una cosa abbastanza vera ma non sono d’accordo in questo senso, che secondo me uno scrittore rappresenta si una società, la società particolare in cui vive, ma... secondo me la cosa è svalutata, la parola ≪ umanità ≫ ha un significato in questo momento quasi spregevole mentre in realtà bisogna ricostituirne il significato positivo... C’è una storia dell’umanità svolta come una storia delle varie nazioni... uno scrittore non può non essere anche nel flusso della storia dell’umanità.

Io: Sicche lei crede che esista questa storia europea, dato che esiste una storia dell’umanità, una cultura dell’umanità... dell’uomo...

Pasolini: Esiste, è chiaro, una cultura europea, ma vede, se un italiano si fa una cultura europea non può che portar dietro di se una realtà storica che è quella della sua provincia, e quindi può uscire in qualche modo, ma sempre con una specie di zavorra. Voglio dire che uno scrittore può essere grande egualmente anche se nasce in una piccola nazione, per quanto la come per un figlio del popolo come Rizzoli, un martinitt, diventare un grande industriale. Mentre uno nato da un industriale, uno nato da una famiglia di grandi industriali, può facilmente diventare un grande industriale, un martinitt ce n’è uno su un miliardo che lo diventa. Uno scrittore anche d’una nazione piccola come l’Albania può diventare un grande scrittore. E' un caso questo che non è completamente casuale. Se c’è, vuol dire che rappresenta qualcosa, voglio dire. Rappresenta... Rizzoli rappresenta il momento di verità del liberalismo. Un grande scrittore albanese rappresenta il momento di realtà della storia dell’umanità. cioè è albanese, si, contingentemente: ma nello stesso tempo appartiene alla storia dell’umanità. Oltre che alla storia dell’Albania.
Io: C’è molto, in ciò che dice, con cui sono d’accordo: ma non sono d’accordo sul fondo, ne lo sono sui nessi. Cosi prima di passare oltre, mi pare che una precisazione sia necessaria. Mi pare che bisognerebbe distinguere la carriera dell’artista, la sua realizzazione ≪ come artista ≫, dalla diffusione della cultura. L’artista può creare un rapporto tra se è la cultura mondiale, se vuole : sarà faticoso, in un paese provinciale, ma resta possibile. E' la diffusione della cultura, invece, che presenta il vero problema. In un paese provinciale, come l’Italia, la diffusione della cultura è problematica, cade fuori contesto. Basterà un esempio, che cito perchè abbastanza significativo. Nove anni fa, riuscii a ottenere dalla vedova dello scrittore Malcolm Lowry una decina di poesie inedite del marito, che proposi a una rivista culturale italiana. Allora si conosceva Lowry, in Italia e nel mondo, solo come autore di romanzi, soprattutto di Sotto il vulcano. Le poesie erano cosi una cosa abbastanza nuova. La rivista le rifiuto. Non perchè non fossero belle. perchè non le parevano significative. E non si trattava d’una rivista da due soldi, ma d’una rivista importante. Qualche anno dopo, quando le poesie uscirono negli Stati Uniti, la rivista si affretto a parlarne in maniera molto entusiasta. Vede? E' questo ciò che intendo. Questo che è tipico d’una cultura provinciale. La mancanza d’iniziativa per ciò che è nuovo, è il colonialismo culturale. Non sono il primo a dirlo. Lo diceva anche Pound, parlando di casa sua, una trentina d’anni fa. Lui poteva dirlo, pero: voglio dire, i veicoli per dire ciò che voleva gli erano accessibili malgrado tutto. Il che non è vero da noi. Ma tutto questo non mi pare tocchi l’evoluzione dell’artista. Adesso vorrei porle un’altra domanda. Da Le ceneri di Gramsci ai suoi film ciò che continua a disturbarmi nelle sue opere, oltre a incoerenze ideologiche, sono fattori stilistici : la mancanza d’una qualsiasi struttura. Potrebbe dire qualcosa in proposito?
Pasolini: Vede, i fatti stilistici sono la concezione di fatti altamente interiori. Allora questa ambiguità, nelle Ceneri, c’era umanamente, cioè politicamente. cioè questa ambiguità è il contenuto stesso del mio libro. Dico, ≪ Con te nel cuore ma col mondo irrazionale contro cui tu hai combattuto nelle buie viscere ≫. Ecco. cioè, voglio dire che il tema centrale del libro era proprio una ambiguità soggettiva, oggettivata come contenuto del libro. E ora questa ambiguità non poteva che riprodurre una ambiguità stilistica. cioè, le ≪ buie viscere ≫, l’irrazionalismo in cui mi ero formato, cioè la letteratura decadente, da Rimbaud fino a Proust e ai surrealisti eccetera, veniva contraddetta da un bisogno di razionalità, di discorso politico e ideologico a livello razionale. Pero sussisteva, e quindi ha prodotto quello stile. Il fondo era ambiguo e decadente, l’intenzione era razionalistica e oggettiva: al di la questa ambiguità stilistica.

Io: Per lei la razionalizzazione si fa al livello della scrittura, dell’espressione, oppure precedentemente, al livello dell’ideologia?

Pasolini: Si fa anzitutto a livello politico... politico e ideologico. Da qui passa agli altri livelli. Nel mio caso personale, la razionalità fu ottenuta invece che attraverso il razionalismo borghese, attraverso Croce cioè, attraverso il marxismo.

Io: può dire che cosa è per lei l'irrazionalità?

Pasolini: Secondo me si è irrazionali quando si opera all’interno d’una società... per esempio l’artista borghese che operasse all’interno della borghesia, cioè della classe borghese, senza avere coscienza, neanche marginale, della presenza diciamo cosi d’un’altra cultura di classe, che si oppone alla cultura borghese, è irrazionale. cioè... tutto il simbolismo e prodotto dalla borghesia, pero è chiaro che non accettava la borghesia, era contestatore. Nell’atto stesso in cui scriveva dei versi incomprensibili, sublimi, Mallarme faceva un atto di contestazione contro il razionalismo borghese perchè, intendiamoci, il dio della borghesia è sempre stata la ragione, la ragione come buon senso, come praticità. I simbolisti erano irrazionali in quanto erano antiborghesi restando dentro la borghesia.

Io: Questa è una risposta molto bella, molto giusta, anche. Per la prima volta sono d’accordo con lei. Che pensa del nuovo atteggiamento che sta sorgendo in Francia e in Svezia, per rapporto al cinema, all'opera d’arte in genere, anche, questo tentativo di voler includere nell’opera notazioni di carattere politico, persino cronachistico, e che ha indirettamente portato all’uso nel cinema della camera portatile, una specie di penna a sfera con la quale cogliere più direttamente la realtà?

Pasolini: Sono contro tutto questo. Ciò significa cedere al ricatto del fascismo di sinistra,di certe frange della contestazione, che essendo demagogiche sono, come tutte le demagogie, molto influenti. Per tacitare le loro coscienze, di cui nessuno sa niente, i fascisti di sinistra impongono un rigore che è quasi una santità. I deboli hanno ceduto al ricatto e ora è in atto una specie di psicosi per la quale bisogna far della politica a tutti i costi. Non ci si accorge che cosi questi fascisti di sinistra propongono una specie di neostalinismo, richiedono una nuova specie di realismo socialista. E' chiaro invece che un’opera d’arte dev’essere meditata, pensata, strutturata. E' puro romanticismo credere di poter cogliere la realtà cosi, con la penna a sfera. Si prendono degli appunti, con la penna a sfera. Dopo di che si lavora.

Io: Quali sono i suoi antecedenti culturali, nel cinema?

Pasolini: Sono arrivato al cinema con una assoluta ignoranza tecnica. Quando ho cominciato a girare Accattone non sapevo che ci sono diversi obbiettivi, per esempio. L’operatore mi chiedeva che obbiettivo volevo usare e io non sapevo. Avevo anche una casuale cultura cinematografica. E pero, dopo aver girato le prime scene, mi sono accorto che quelli che consideravo i miei maestri erano Charlot e Keaton e Dreyer, quello della Giovanna d’Arco. E poi Misoguchi, il regista giapponese. Questi erano i nomi sotto il cui segno ho cominciato a lavorare.
Piero Sanavio






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Piero Sanavio intervista Pier Paolo Pasolini, prima parte - Pig-pen è Porcile in inglese

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro





Intervista a Pasolini (mai ripubblicata altrove) tratta da:
Il Dramma
 N. 12 - settembre 1969 
« Porcile » o no tiriamo le somme su Pasolini
di
Piero Sanavio


Nel settembre del 1969, la rivista specializzata "Il Dramma", pubblica questa intervista di Piero Sanavio a Pier Paolo Pasolini. L'intervista avvenuta a casa di Pasolini, audio-registrata, viene poi trascritta e fatta pubblicare da  Sanavio. La trascrizione trova Pasolini insoddisfatto del lavoro svolto dal suo intervistatore e scrive al direttore della rivista... 
Questo post si articola in quattro parti: la prima è fatta dal preambolo-considerazioni dell'intervistatore, che precede  l'intervista;  La seconda e la terza, rispettivamente  la prima e la seconda parte dell'intervista;  la quarta, la lettera di Pasolini al  direttore della rivista "Il Dramma" e la risposta di Sanavio.


Prima Parte dell'intervista



Io: Lei ha appena finito un film, Il porcile...
Pasolini: Pig-pen... pig-pen...

Io: D’accordo, pig-pen è ≪ porcile ≫ in inglese. Di che cosa parla?
Pasolini: E' un film che è formato di due storie. Normalmente, sarebbero due episodi: uno per il primo tempo e un altro per il secondo. Invece questi due episodi sono raccontati alternativamente, cioè sono mescolati tra di loro. Una scena dell’uno, poi una scena dell’altro, poi... insomma, si alternano.

Io: C’è un rapporto tra le due storie?
Pasolini : Si, hanno un certo rapporto. C’è un momento che una scena coincide, riguarda tutt’e due. Riscocca la scintilla per cui si uniscono. E c’è un personaggio, un unico personaggio, che è interpretato da uno stesso attore, ed è nell’uno e nell’altro episodio. Il primo, diciamo cosi il primo episodio ma potrebbe essere il secondo, non lo so, uno dei due episodi racconta la storia d’un cannibale in un deserto mitico, misterioso, non si sa bene in che epoca, dove sia questo deserto eccetera...Un giovane, che è Pierre Clementi, vaga in un deserto, morendo di fame. A un certo punto trova un campo di battaglia, di una scaramuccia, dove sono dei morti con delle armi. Si veste di queste armi e gira vagando per il deserto, vestito di queste armi. Vede dei soldati lontani. Uno di questi soldati rimane indietro, lui lo affronta ferocemente come una specie di belva, c’è un lungo duello, e alla fine questo soldato muore. Pierre Clementi sta morendo di fame e gli viene l’idea di mangiarlo e lo mangia. E prende cosi l’abitudine di diventare un cannibale. Intorno a lui si forma una specie di piccola tribù di altri sei o sette disperati come lui che insomma hanno questa... niente, sono dei cannibali. Le parlo del cannibalismo con questo tono freddo perchè non è un cannibalismo realistico, è un cannibalismo simbolico. Rappresenta una specie di protesta violenta, globale come si dice adesso, portata fino all’estremo limite dello scandalo, di persone che vivono al di fuori della società. Che si differenziano nettamente dalla società fino all’estremo scandalo. cioè questo Pierre Clementi rappresenta il figlio disubbidiente nel modo più assoluto, più totale e più... insomma, più scandaloso. E' anche cosciente di questo, tanto è vero che quando viene preso prigioniero e viene condannato a essere divorato da degli animali, per una specie di legge di contrappasso, lui non si pente e ha quasi una forma di orgoglio di questa sua atroce disubbidienza. In conclusione, la società divora, fa divorare cioè dagli animali, cioè essa stessa divora i figli disubbidienti. L’altra storia invece ha ancora come protagonista un ragazzo. Questo ragazzo è figlio d’un grande industriale della Germania di Bonn. E ha, questo ragazzo, un’anomalia sessuale che è assolutamente al di fuori d’ogni tipicità, infatti è un caso clinico che ho trovato per caso, e credo sia unico nel suo genere, in un libro di psicanalisi, cioè egli poteva ottenere l’orgasmo avendo dei rapporti con dei maiali.
Io: In che libro l’ha trovato? Freud parla d’un caso analogo, no, non analogo, molto più semplice : della straordinaria affezione d’un ragazzino per le galline. Che aveva implicazioni sessuali, beninteso, ma solo implicazioni.
Dove...
Pasolini: ...con dei maiali. Anche in questo caso, pero, il rapporto non è mostrato ed è puramente simbolico. perchè questi maiali rappresentano poi, in conclusione, la società in cui lui vive, cioè suo padre e sua madre. Ora succede questo, che il padre grande industriale è un uomo all’antica, è un paleoindustriale diciamo cosi. Appartiene al capitalismo classico e quindi ha letto i classici, ha letto Kant, ha letto anche Brecht, ha letto anche Grosz...

Io: Ne ha visto i disegni, vuol dire?
Pasolini: ...ecco, Grosz che rappresenta i ricchi come dei grossi maiali. Questo grande industriale di Bonn ha un rivale che invece è neo capitalista e quindi le sue industrie hanno una struttura completamente moderna. Esse rischiano di travolgere questo vecchio capitalista, questa specie di Krupp, cosi. E allora questo vecchio capitalista cerca attraverso un suo detective privato di distruggere il rivale. E infatti sta per distruggerlo venendo a sapere che è un ex criminale nazista che faceva collezione di scheletri per l’Universita di Salisburgo. Ma nel momento in cui sta per distruggerlo, questo suo rivale si presenta e distrugge lui. perchè anche lui [il rivale] ha fatto la stessa operazione, cioè attraverso un detective : ed è venuto a sapere che il figlio dell’altro ama i maiali. Quindi i due si ricattano a vicenda, stanno per distruggersi a vicenda. anzichè distruggersi, decidono invece di fare la fusione delle due industrie. Durante la festa della fusione questo ragazzo va nel porcile, come al solito, e i maiali lo divorano.
Io: E questa la scena comune ai due episodi?
Pasolini: La scena comune è la scena in cui Pierre Clementi, il cannibale, viene divorato dalle bestie. Verso la fine. Che rappresenta, siccome io non mostro questo ragazzo che fa l’amore con i maiali, naturalmente, cosi viene divorato, e allora è quest’altra scena che lo sostituisce. E c’è un ragazzo, che è Davoli, il quale nell’altro episodio assiste, per cosi dire, agli animali che divorano Pierre Clementi, e racconta come il messaggero delle tragedie greche, racconta insomma come il figlio dell’industriale sia divorato dai porci.

Io: Se ho capito bene, all’inizio della nostra conversazione lei definiva i due personaggi centrali del suo film come persone al di fuori della società: e che s’opponevano alla società.
Pasolini: Ho dimenticato di concludere. cioè volevo dire che come nel primo episodio si vede come la società divora il figlio disubbidiente, il figlio totalmente disubbidiente, cosi essa divora anche il figlio che non è ne disubbidiente ne ubbidiente.
Io: Quando dice ≪ società ≫ pensa alla società contemporanea, con tutte le sue complessità, la società in senso lato, oppure alla società come qualsiasi nucleo sociale? alla famiglia, per esempio?
Pasolini: No. Nella fattispecie mi riferisco alla società capitalistica, pero... cosa che si vede nell’episodio degli industriali tedeschi. Pero, l’altro episodio rappresenta una società al di fuori del tempo, cioè la società tout-court. Praticamente, si vuol dire che fino ad oggi la società in quanto tale, in quanto istituzionalizzazione, è sempre repressiva.

Io: Sicchè questo cannibalismo di cui parla lei lo giustifica.
Pasolini: Si, io sono dalla parte delle vittime. Io come autore, anche se naturalmente, oggettivamente senza faziosità, sono dalla parte del figlio disubbidiente, che guardo con simpatia, è dalla parte del figlio ne ubbidiente ne disubbidiente che guardo con anche maggior simpatia.

Io: Torniamo al primo episodio. Clementi, da quanto m’ha detto, rappresenta una persona che è spinta al cannibalismo dal bisogno, dalla fame. Vuol dire che lei considera questo cannibalismo come il risultato d’una necessita di sopravvivenza?
Pasolini: S-si, ma questa necessita di sopravvivenza è pretestuale, in realtà. E' l’avvio di questa specie di parabola. Quello che conta poi è l’atto. E' la coscienza perversa dell’atroce significato di rivolta che questo atto ha.
Io: Non capisco molto bene. Dovrò vedere il film, immagino. Ma forse potrò capire comunque, anche adesso, se mi offre un punto di riferimento. Prendiamo cosi Ragazzi di vita. Questo film, rappresenta un’evoluzione ideologica, per rapporto al libro? oppure no? Anche in Ragazzi di vita c’è una rivolta contro le strutture della società.
Pasolini: li problema è abbastanza simile in tutt’e due le opere. Sennonchè in Ragazzi di vita la rivolta era diciamo cosi incosciente, puramente dovuta a questo istinto di conservazione che diceva lei prima. cioè al livello del sottoproletariato.

Io: Che si trattasse di sottoproletariato mi pare un fatto episodico: Forse nel film la struttura della rivolta s’è fatta più precisa, non lo so: ma da quanto racconta mi sembra che il discorso non sia diverso da quello fatto nel libro.
Pasolini: Be’, si, rimane sempre la stessa in quanto uno scrittore ha dei miti che continuano tutta una vita, è chiaro. Ma allora, forse, la differenza è questa, che il romanzo finisce in fondo con il ritorno, con il rientro in un qualunquistico ordine da parte del protagonista. Mentre l’altro finisce proprio...

Pausa. Guarda verso le finestre. Va! La pena di chiedergli in che misura il film non è qualunquista?
Piero Sanavio


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