"Le pagine corsare "
dedicate a Pier Paolo Pasolini
Eretico e Corsaro
La
poesia dell’impoetico “Trasumanar”
Tra i libri di poesie “civile” del ‘900,
Trasumanar e Organizzar è, a mio avviso, il più significativo, non tanto
per (l’evidente) impegno “civile”, appunto, ma per la straordinaria carica
innovativa, su più versanti, che Pasolini esprime in questa
raccolta.
Un luogo comune della critica è che le ultime
poesie di Pasolini, e dunque anche questa raccolta, siano segnati da una crisi,
quasi di identità e di ruolo, del poeta.
E si indica in questa “fuga dalla letterarietà” (cito la nota a firma R.G. dell’edizione Garzanti del
1976), una delle caratteristiche principali, dal punto di vista stilistico,
dell’intera opera. Tanto da vederla come
un anticipo dei “modi e dello spirito provocatorio dei successivi interventi
polemici” (si riferisce, credo, ai successivi saggi Lettere luterane e
Scritti corsari) e quasi a latere di più importanti lavori in altri
settori (il cinema ad esempio).
Peraltro, anche nella nota sopra citata, si conviene oltre, in verità
senza molto entusiasmo, che il libro è indiscutibilmente un libro di poesia,
nonostante la sua tentazione, per così dire, verso la prosa. Ma non ci viene però spiegato perché e
come, questo libro sia - e senza mezzi termini - un grande libro di
poesia.
Se è vero che la poesia di Trasumanar
segna una rottura, sia con le avanguardie, sia con l’iniziale terzina
pasoliniana, è perché tale frattura è il risvolto di una frattura interiore fra
il poeta e il suo tempo storico, che viene da lui avvertita e puntualmente
tradotta in un verso adatto ad esprimerla.
Ne Le ceneri di Gramsci o L’usignolo della Chiesa Cattolica
siamo di fronte a un Pasolini che, dentro la tradizione (sia stilistica che
culturale e concettuale) e benché in forte dialettica con essa, cerca una nuova
poesia capace di esprimere un sogno civile.
Il verso dunque, pur lontano dal formalismo tradizionale, sta dentro la
tradizione anche nella forma, perché evidentemente il poeta la ritiene adatta ad
esprimere un rinnovamento sia artistico che civile.
In Trasumanar le cose sono diverse. Ed è vero che la cocente delusione politica e
civile di Pasolini (espresse nei suoi corsivi sulla stampa, raccolti poi in
volume – Il caos, 1979) segna il libro, ma è anche vero che Pasolini non
abbandona la tradizione e che, anzi, Trasumanar è forse il suo libro più
vicino alla tradizione. E per far questo
egli abbandona, nella poesia, soltanto le convenzioni tradizionali (quelle che
si esprimono nel verso fonoprosodicamente “corretto”), ma non certo la sua
sostanza, l’afflato, le sue ragioni più profonde, in una sorta di restauro, di
disincrostamento da tutte quelle ragioni che poco hanno a che fare con
essa. Che cos’è il verso, infatti, se
non convenzione? qualcosa che si è
sedimentato nel tempo ed ha assunto una forma che, con discutibili trasformismi,
si è imposta essa stessa come essenza della poesia? E se il verso è convenzione, cosa impedisce
al poeta di esprimere un suo verso? La poesia, sembra dire Pasolini, con
c’entra nulla con questa incursione dell’intellettualistico, dell’estetico, del
calcolo, del gioco artigiano nell’ispirazione (la forma più banale della
poiesis, quella che ha offerto il destro a Platone per negare alla poesia lo
statuto di manifestazione originale di pensiero, o ad Aristotele per relegarla a
un ruolo mimetico della realtà).
La poesia invece è segno dell’uomo, è un suo individuale atto di
libertà che si impone sopra qualsiasi regola o convenzione: è atto di libertà e
pertanto non può essere costretta dentro un canone. La poesia è, per l’uomo, il respiro del
suo profondo, il luogo della sua verità che rifiuta qualsiasi
collocazione o convenzione. Ed è in
questo luogo soltanto che è possibile riscattarsi dalla massificazione. Siamo quindi di fronte, civilmente, alla
rivolta individuale del poeta contro il sistema – in questo caso
letteraria -, pur senza abbandonare – come in un certo senso fecero le
avanguardie – un dialogo serrato e critico con il sistema stesso. Anche qui, dunque, siamo dentro una
tradizione, che è la tradizione dell’umano minacciato dal meccanismo
massificante. Ed è qui che viene messa a
nudo in tutta la sua paradossalità, la degenerazione della tradizione, e
nello stesso tempo si tenta in recupero delle sue radici autentiche. Pasolini rilancia le radici dell’umanesimo
contro la degenerazione dell’umanesimo, così come Nietzsche smaschera le
mistificazione dell’umano troppo umano.
E come non vedere, in questa luce, l’evidente parentela con la grande
poesia – umanistica, appunto – degli epici e dei tragici greci? quel gusto di sondare i nodi più profondi e
più scomodi della convivenza e dell’esistenza stessa, che è la nota costante da
Eschilo, o anche da Omero, sino alla fine della grande stagione tragica? Pasolini non fa altro che riscrivere quelle
tragedie e quei poemi, in un linguaggio che è figlio del suo tempo, raccontando
la tragedia del non-senso, in dialettica con la degenerazione e la
banalizzazione che il nostro tempo ha fatto dell’arte. Se infatti lo spirito della grecità e quello
di costruire, leggendo gli avvenimenti e i fatti, il significato della
convivenza, anche attraverso un significato di ordine e regolarità espressa nel
verso, Pasolini recupera questo ordine rapportandolo al respiro individuale,
unico possibile (e originario) punto di partenza per ricostruire un mondo di
senso, da quando questo ordine e questa regolarità, da simbolo o significante,
sono diventati il significato stesso, privo di riferimenti con il mondo. Mentre la poesia greca costruisce la
tradizione poetica, Pasolini la decostruisce, ma non è questa un’operazione
anti-poetica. L’impoetico, se mai, sta
nel voler riproporre in modo esasperato una poesia che non ha più nulla da dire, o una poesia che ha perduto il suo centro ed è diventata soltanto uno strumento, una disciplina che in qualche modo deve servire uno scopo o un’ideologia (ciò che egli chiama zdanovismo). E in questo contesto posso essere d’accordo con chi sostiene che egli rifiuti, nell’ultima parte della sua vita, la poesia, e non creda più in essa (ma quale poesia?). Egli stesso infatti dà adito a questo equivoco, quando scrive che la poesia è inutile (infatti, la vera poesia, non è utile a nessuno, perché non è un bene di produzione o di consumo, ma un bene e basta – è quindi uno stato, un essere, un fatto, un gesto, come respirare). L’utilità ne sancirebbe dunque la natura impoetica, il suo asservimento, la sua metabolizzazione in un sistema, fatto per la massa e non per l’uomo libero.
Trasumanar e organizzar non è dunque un libro contro la poesia, un’opera nella quale Pasolini
esprime la sua crisi poetica. E’ invece
un libro da rivisitare, per le giovani generazioni di poeti, non per una qual
“grandezza” o anche originalità di stile, ma per il semplice fatto che non
poteva essere scritto in altro modo che in quello. Se Pasolini lo avesse fatto, avrebbe tradito
se stesso e non solo la poesia, perché di lui (come di pochi) si può scrivere,
senza timore di sbagliare, che vi è perfetta coincidenza fra vita e poesia, che
“poesia” e “identità” sono la stessa cosa.
Una mente come la sua, non poteva più permettersi di scrivere
poesia come la scrisse in precedenza.
Troverei infatti singolare che l’autore de Il caos o degli
Scritti corsari, avesse potuto scrivere L’enigma di Pio XII in
terzine, magari a rima alternata e con metro dantesco (e, non dimentichiamolo,
quello stile fu la rivoluzione ai tempi di Dante): ne sarebbe uscito un
impaccio, una masturbazione intellettuale, una farsesca prostituzione di ogni
suo convincimento umano e artistico.
***
Trasumanar e organizzar pone, nel contempo e tra le molte questioni, una riflessione sul
rapporto fra poesia e ideologia, forse non più così evidente oggi (non
che non lo sia: è che sono cambiate le ideologie, sono diventate più sfuggenti,
più striscianti e per questo più insidiose).
Le poesie della raccolta infatti sono scritte, all’incirca, negli anni
che corrono dal 1965 al 1971. In quella
temperie culturale, tutto veniva ideologizzato, e l’arte non fu risparmiata a
questo scempio (ce ne ricordiamo molto bene, anche se eravamo allora molto
giovani, noi sui 45 anni più o meno: anche un cucchiaio di minestra assumeva un
aspetto ideologico e doveva essere “spiegato” in riferimento a qualche massimo
sistema). Persino Pasolini stesso, anche
se raramente, è stato tentato dall’ideologia (ho in mente alcune interviste
rilasciate alla televisione) ma si vedeva che questo suo cedere all’ideologia
era l’espediente di parlare a nuora perché suocera intenda, cioè di usare il
linguaggio dell’ideologia per poter prendere a cornate coloro che così
ragionavano (non ultimi i “big” del PCI): usava quindi il solo codice ad essi
comprensibile, appunto per farsi capire.
Pasolini si difende dall’ideologia esercitando in modo esasperato, come
pochi intellettuali del suo tempo, la facoltà della critica, che è uno
strumento del filosofo più che del poeta, anche se egli la esercitò ovviamente
come artista (che non cerca i fondamenti delle sue convinzioni, ma le esprime “a
pelle”, a differenza del filosofo che cerca una certa “evidenza” sulla quale
appoggiarsi). Ed in questo ruolo di
artista-critico o artista-che-critica, egli costruisce la sua personalità, la
coesione della sua identità. Non dunque
l’artista che sogna, l’artista che celebra, l’artista che denuncia o che soffre
o che piange, ma l’artista che critica, con atteggiamento intrusivo e non
passivo. Non è soltanto, il suo, un
ribellarsi a parole, ma un ribellarsi eversivo anche se, ovviamente, non
violento (i mass media infatti ci hanno indotto a temere questa parola,
associandola tout court a fatti criminali, mentre, in sé, non ha questo
valore ideologicamente attribuito– il contrario dell’eversione è infatti,
è la conservazione, ma di quale “ordine”?).
Pasolini vive in modo appassionato e a tal punto
questo criticismo, che lo sente da poeta.
La poesia di Transumanar infatti, è un raro esempio di come il
pensiero possa diventare poesia, quando la passione lo infiamma o quando
l’ironia cambia il segno di ciò che, detto in altro modo, esprimerebbe solo
enfasi, retorica, assolo di trombone.
Trasumanar è prima di
tutto un libro appassionato, che in questa passione tutto consuma, che il
lei risucchia anche le sottigliezze del ragionamento, le riprese degli
avvenimenti civili e politici, i commenti, ecc.
Per questo riesce ad essere un libro di poesia, laddove si rasenta
(secondo una visione formalmente tradizionale della poesia) la
prosa. In questa passione che tutto
risucchia e ritempra come il crogiolo di un altoforno, la fa da padrona la
poesia, ossia la visione im-mediata del mondo che l’artista ci
propone.
E non è vero che Pasolini, come è stato scritto,
abbandona anche il “tono” della poesia.
C’è invece un tono, ed è evidentissimo, soltanto se ci si metta in questa
prospettiva, di leggere con passione ciò che un linguaggio apparentemente
prosastico grida con passione. Ho
scritto sopra che egli non poteva scrivere in altro modo che in quello:
ed è proprio nel diverso “tono” di queste liriche che si giustifica
l’affermazione. Pasolini evita il tono
nasale della lirica tradizionale, evita i falsetti o gli scarponi di certi
sperimentalismi o avanguardismi, evita retoriche o contro-retoriche,
semplicemente perché non gli sono congeniali, o non sono adatti al suo
sentire. Ma soprattutto non sono
congeniali a una lirica che intende fortemente cercare il “Tu” del colloquio per
esporre delle ragioni, convincere, toccare nel segno. Ecco allora il senso questo tono pacato,
quasi dimesso e quotidiano, accuratamente lontano da ogni artificio retorico
codificato; “democratico”, per così dire, nel senso che ha per obiettivo il
coinvolgimento del lettore in un dialogo che lo vuole parte attiva. Per scrivere la sua poesia civile (o meglio:
per salvare la sua poesia dall’insignificanza), l’artista ha inventato un
nuovo artificio retorico, che è quello di evitare quanto più possibile gli
artifici retorici. Ed è proprio questo
insistente rivolo d’acqua di accenti pacati e colloquianti che si insinua e
scava una sua breccia nella sensibilità del lettore. Possiamo dire che sia questa un’operazione
anti-letteraria? Dipende da cosa si
intenda per “letteraria”: le ambivalenze e i paradossi stanno nel termine
stesso. Dipende se per “letteratura”
intendiamo solo quella canonica dei “professori” o qualcosa di vivo,
incontenibile e inafferrabile e dunque anche non classificabile. A me pare che Pasolini, al di là di tutto
questo, sia uno fra i poeti più “letterati” della seconda metà del secolo; ma
non certo un “professore”.
E qui bisogna stare attenti anche a non dare
troppo credito alle dichiarazioni di Pasolini stesso che, da gran narciso qual
era, scriveva sornione: “e se qualche verso mi riesce passabilmente / è per
semplice abitudine” (e ovviamente, questa ed altre provocazioni, devono a
mio avviso essere collocate nella giusta prospettiva, di come si intende
l’inutilità della poesia e che cosa davvero significhi “verso”). Ecco dunque che il cerchio si chiude e, quasi
paradossalmente, il Pasolini che “ricusa” la poesia diventa l’estremo difensore
delle sue ragioni più profonde. Il
tradimento della poesia è infatti l’ideologia, l’operazione dubbia di tradurre
in versi (gli zdanovisti) una visione ideologica o filosofica della realtà, un
pensiero che vuole “spiegare” il mondo anziché viverlo, agirlo con l’innocenza e
l’immediatezza dell’artista.
Trasumanar e organizzar è dunque un libro più che mai vivo e attuale, dopo trent’anni dalla sua
prima apparizione (1971), un libro che non cessa di insegnare e che può essere
un buon punto di partenza, anche contro le ideologie (anche in poesia, anche in
poesia...), ora più di allora nascoste e difficili da smascherare. E per la poesia, in qualunque forma si
manifesti.
Fonte: http://www.poiein.it/autori/P_Q/pasolini.htm
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Curatore, Bruno Esposito
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