"Le pagine corsare "
dedicate a Pier Paolo Pasolini
Eretico e Corsaro
Salò o le centoventi giornate di Sodoma
Testo di
Giovanni Grazzini
Rileggendo in questi giorni L'Innocente di D'Annunzio, vi trovo un pensiero che sono tentato di applicare al Salò di Pasolini: "Ahimè, quante volte noi crediamo sentire la verità in una voce che mentisce! Nulla ci può difendere dall'inganno". Penso alla verità dell'arte, ma anche alla trappola in cui può essere caduto il povero Pasolini e che può contenere, o non contenere, il film: così ambiguo, così sconcertante a chi non sappia troppo giocare con le parole, e apportatore per tutti di malessere profondo, sembrandomi il suo ultimo modo di usare l'immagine del male per condannarlo. Mi chiedo se la ricerca della verità, che egli indubbiamente perseguiva con assillo furibondo, non fosse ormai guidata da una fantasia così ossessionata dal turpe da impedirgli di possedere il reale. Mi sento molto vicino a quanti, suoi amici, oggi si adoperano perché la sua fine appaia sotto una luce non ignobile. Dopo aver visto Salò, l'ipotesi che Pasolini sia andato volontariamente in cerca di qualcuno che lo suicidasse in uno scenario sentito come luogo canonico della desolazione mi sembra rafforzarsi. Il suo film, voglio dire, avvalora il dubbio che negli ultimi mesi Pasolini non sapesse più guardarsi da quella forma di autodistruzione, di separazione dalla realtà, di fuga dalla storia, che si esprime da un lato nella frenetica predicazione di assetti sociali utopisticamente regrediti e dall'altro nell'anarchico rifiuto dell'idea di potere, tenuto esso stesso per trionfale espressione dell'anarchia. Doveva esserci una dissociazione tragica, risolta nel delirio letterario, in un Pasolini che mentre rimpiangeva "il tempo del pane", tornando a contemplare il mondo qual è denunciava la vocazione dei suoi protagonisti subalterni, umili e casti, a essere con la loro passività complici delle aberrazioni dei potenti, sboccando così in un nichilismo nel quale forse si esprime l'impotenza di molta cultura contemporanea a reggere la difficoltà di vivere. Perché altrimenti Pasolini, col suo grande talento di artista, avrebbe scelto di ispirarsi, fra mille opere e mille esempi, a pagine della storia letteraria che per quanto possano essere interpretate come una rivolta metafisica non cessano perciò di restare un mito repellente, un rifiuto della ragione e dell'amore? Pasolini sapeva bene che l'immagine ha una concretezza sconosciuta alla parola, e che il simbolismo del marchese De Sade, una volta portato sullo schermo, non avrebbe potuto serbare la sua carica di scandalo intellettuale, ma prodotto un disagio fisico e morale in cui il fascino del male sarebbe stato maggiore del suo orrore. Se lo ha fatto, credo, è perché la nausea di sé, complice e vittima egli stesso del consumismo del sesso, lo induceva al più tetro "cupio dissolvi" che possa albergare in chi è costretto ad arrendersi dinanzi alla violenza corruttrice di quel potere che Pasolini considerava la negazione della storia e che invece è inerente alla sua stessa nozione. Perché la storia dell'umanità è la storia del potere, e viceversa. Salò trasferisce al 1944-45, nel clima della Repubblica sociale italiana, le vicende narrate nelle Centoventi giornate di Sodoma, scritte da Sade, esattamente centonovanta anni fa, in una cella della Bastiglia, e per la prima volta pubblicate, non a caso da uno psichiatra, nel 1904. Il film si apre su quattro personaggi (un'eccellenza, un presidente, un monsignore, un duca) che firmano un regolamento, da loro redatto, nel quale si prevede il cerimoniale delle pratiche cui si apprestano a dedicarsi. Di che cosa si tratti veniamo a sapere ben presto: appena rastrellati fra le campagne e sottratti a famiglie e collegi, adolescenti dei due sessi vengono raccolti in una villa, selezionati, e costretti ad assistere e partecipare ad azioni nefande, compiute su di sé e su di loro dai quattro signori e dalle guardie del corpo in divisa repubblichina. Perché l'atmosfera si scaldi, tre vecchie ruffiane d'abito e movenze eleganti (scendono scale come Wanda Osiris) raccontano a turno, accompagnate al piano da una quarta, nel corso di tre gironi intitolati alle manie, alla merda e al sangue, le maggiori perversità di cui sono state testimoni e protagoniste nel corso della vita: di un professore che si faceva masturbare dalle bambine, di un ministro che associava il piacere al culto degli indumenti carbonizzati, di un generale che amava mangiare escrementi, e via insanendo. I quattro signori, secondo il programma, ascoltano i racconti con crescente agitazione, pretendono ogni dettaglio, e sovente li interrompono per metterne in pratica i passaggi più scabrosi. Il film ci mostra così, senza veli, mani maschili che afferrano i giovani ospiti, li sbottonano, li piegano alle loro voglie, li trascinano nei cessi, coram populo li violentano, e se occorre li oltraggiano sino alla morte. Alle ragazze innocenti si dà lezione su un manichino, e se taluna scoppia in lacrime la festa è più eccitante. Accade che i pranzi, serviti da giovani nude, si chiudano con brindisi sodomitici, commentati da canzoni della grande guerra, che si celebrino falsi matrimoni intervallati da dibattiti culturali, e che i giovani siano costretti a comportarsi da cani. La vetta si tocca durante un banchetto di nozze nel quale vengono servite feci umane fumanti, e tutti ne mangiano, quando si indice un concorso per il culo più bello (primo premio, la morte), e tre dei signori, travestiti da donna, sposano altrettanti ragazzi. Dopodiché bisogna punire quanti fra i giovani hanno violato la legge che proibiva rapporti fra sessi diversi. Una catena di delazioni porta i signori a scoprire che molti hanno compiuto infrazioni al regolamento. Siano dunque castigati immergendoli in un catino di sterco e sottoponendoli agli affronti più crudi. Chi sfugge al capestro, alla fiamma e alla garrota verrà accecato e scuoiato. Gli aguzzini assistono a turno allo spettacolo da lontano, muniti di cannocchiale, e la vista delle perfidie è pretesto per nuove delizie. Due danze chiudono il film: fra tre carnefici, che intrecciano un balletto da avanspettacolo, e fra due ragazzi che affettuosamente parlano di fidanzati. L'unica che non ha retto è la ruffiana pianista, gettatasi dalla finestra. Che Salò sia fedele alle Centoventi giornate, e che quindi non si debbano attribuire alla fantasia di Pasolini le sue infamie, importa poco. Nemmeno intimidisce l'operazione critica che sarà compiuta, in una bella gara di intelligenze, per affermare il valore libertario di questo catalogo di follie, con il prevedibile elogio della bellezza dell'inferno: dato ricorrente in una cultura che esorcizza la paura della propria sterilità celebrando le virtù dei porcili. Tanto meno l'accusa di non saper controllare i meccanismi moralistici indotti dalla tradizione. Ciò che sgomenta è il ricatto di cui tutti siamo vittime dinanzi a un film sul quale è quasi impossibile esprimere un giudizio che in qualche modo prescinda dalla morte violenta del suo autore, e non lo correli alla provocazione, esplicitamente cercata, di un Pasolini prigioniero del proprio ruolo in una società che digerisce ogni scandalo. Le sue intenzioni si conoscono. Egli intendeva compiere una metafora delle nequizie cui conduce il potere, quali gli sembravano esprimersi soprattutto nel rapporto sessuale sadico. In qualsiasi potere, insisteva Pasolini, c'è qualcosa di belluino, che porta al possesso dei corpi, usati come oggetti. I delitti nazifascisti nei mesi di Salò ne sono l'esempio storico piu persuasivo, ma oggi se ne ha la riprova nei crimini del consumismo. I veri anarchici sono sempre quanti manovrano le leve di comando: la storia non esiste, odio i corpi e gli organi sessuali, odio il sesso divenuto, da gioia e libertà per gli umili in epoche repressive, atroce espressione di violenza in epoche permissive. "Faccio un film perverso per protesta contro la perversione che è ormai dappertutto". Mi chiedo questo: se la protesta non sia contro la perversione ma contro la vita stessa, se l'odio di sé non spingesse Pasolini a un supplizio autopunitivo in quel fango che a lungo era riuscito a intellettualizzare, aiutato dalle mode letterarie, ma del quale aveva misurato (anche per il complesso di colpa creatogli dal successo del cinema decameronico) l'irreparabile ribrezzo. Io non sono affatto sicuro che la ruffiana la quale si getta dalla finestra non sia il simbolo della coscienza di Pasolini. Mi sembra certo invece che il cammino della sua ricerca espressiva, volta a stilizzare la degenerazione in una specie di sacra rappresentazione del laido con elementi di sinistra comicità, sia stata frenata da ingorghi personali, dalla quasi maniacale venerazione di riti troppo vissuti o sognati per potervi ironizzare senza straziarsi le carni. Lasciamo perdere l'immagine di Salò come asilo di pazzi, sebbene anche quella parentela fra il castello svizzero del Seicento in cui Sade aveva ambientato le fiabesche "Giornate" e la "Villa Triste" dei repubblichini confermi la sfiducia di Pasolini nell'analisi storica. È che gli spunti sarcastici del film, riassunti nelle barzellette idiote che i quattro signori ogni tanto si raccontano ma anche nell'irridente invito d'una ragazza a sopportare ogni ingiuria facendo un fioretto alla Madonna, sono annullati nello stupore che Pasolini, sotto l'apparenza di un occhio glaciale, prova nell'esibire le svolte del male. Il suo pessimismo giunge a inglobare le vittime, non tutte spaurite dal satanismo dei padroni. Viene il sospetto che egli abbia più odio per quei giovani corpi inermi, esposti dalla stupidità dell'innocenza a ogni oltraggio, che per i loro carnefici, strumenti d'una fatale demenza. Mai come di fronte a Salò si misura l'assurdo del crinale fra bello e brutto, buono e cattivo. Il distacco di Pasolini dalla sua terrificante materia essendo intermittente, il film ha nel contempo la sacralità d'un mistero blasfemo, narrato come un sogno mentale di assoluta coerenza, e la bassezza del cinema osceno che dell'accumulo di immondizie fa, a seconda della tollerabilità dello spettatore, un elemento stilistico o un fattore di tedio umiliante. Con molte intuizioni narrative, quali il rapporto fra la squisitezza triviale dei racconti e la matta bestialità delle azioni, le pitture "degenerate" di cui i mostri si circondano, l'uso di sfatte bellezze per le parti delle ruffiane di lusso, la musica che accompagna le orge, il silenzio delle torture finali e certe parentesi assorte, ma anche con civetterie quali la bibliografia sadiana offertaci nei titoli di testa e strappi di gusto quali l'attribuire a uno dei quattro carnefici una voce molto simile a quella di Aldo Moro, il battezzare Gentile e Missiroli alcuni campioni di sadismo, e far salutare col pugno chiuso una delle vittime. Salò è un film privo di gioia erotica, e per paradosso anche privo di volgarità, ma dove la luce dell'intelligenza di Pasolini è appannata da un'ideologia della sconfitta. Non saprei dar torto a chi, respingendo il ricatto d'una cultura che spesso si sposa allo snobismo, si dolesse di veder affidato a Salò il testamento di Pasolini. Il marchese De Sade si augurava, morendo, che la sua memoria scomparisse dallo spirito degli uomini. Forse Pasolini ha sperato che, avviato al suicidio universale, il nostro mondo traesse dal suo film il coraggio di buttarsi. Per rinascere come? Febbraio 1976
(Per gentile concessione di Gammalibri/Kaos Edizioni, Milano)
Da: AA.VV., Dedicato a Pier Paolo Pasolini, Gammalibri, Milano 1976, già in Giovanni Grazzini, Gli anni Settanta in cento film, Laterza, Bari
Fonte:
http://pppasolini.altervista.org/articoli.htm