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Biografia, lavori in corso - a breve anche il 1974 e il 1975

venerdì 29 marzo 2013

La figura del Cristo rivoluzionario di Pasolini

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro



La figura del Cristo rivoluzionario di Pasolini

di Gherardo Fabretti

Il Vangelo cui Pasolini si richiama è quello di Matteo, dal quale emerge una figura umana, più che divina, di Cristo che, anche se ha molti tratti di dolcezza e mitezza, reagisce con rabbia all'ipocrisia e alla falsità. È un Cristo sorretto da una forte volontà di redenzione per le vittime della istituzionalizzazione della religione operata dai farisei "sepolcri imbiancati", che l'hanno adottata con ipocrisia e iniquità quale strumento di repressione politica e sociale. .
È un Cristo che non è venuto a "portare la pace ma la spada", perché sia possibile accedere al regno di Dio con cuore puro "come quello dei bambini". .
È, anche, un Cristo rivoluzionario. Nel corso di un dibattito tenutosi negli ultimi mesi del 1964, Pasolini dichiarò: "[...] mi sembra un'idea un po' strana della Rivoluzione questa, per cui la Rivoluzione va fatta a suon di legnate, o dietro le barricate, o col mitra in mano: è un'idea almeno anti-storicistica. Nel particolare momento storico in cui Cristo operava, dire alla gente 'porgi al nemico l'altra guancia' era una cosa di un anticonformismo da far rabbrividire, uno scandalo insostenibile: e infatti l'hanno crocifisso. Non vedo come in questo senso Cristo non debba essere accepito come Rivoluzionario [...]".. In effetti, per quel momento storico (e, per alcuni versi, anche per il momento storico nel quale Pasolini stesso si collocava) non sono da considerarsi rivoluzionarie predicazioni nelle quali si dichiara: "fate agli altri quanto gli altri volete che facciano a voi", "non accumulate tesori su questa terra", "nessuno può servire due padroni: Dio e il denaro"?. Quando fu presentato, nel 1964, il film fu ampiamente apprezzato (e premiato) dalla critica cattolica, quanto duramente contestato dalla sinistra. A coloro che lo avversavano Pasolini rispose: "[...] io ho potuto fare il Vangelo così come l'ho fatto proprio perché non sono cattolico, nel senso restrittivo e condizionante della parola: non ho cioè verso il Vangelo né le inibizioni di un cattolico praticante (inibizioni come scrupolo, come terrore della mancanza di rispetto), né le inibizioni di un cattolico inconscio (che teme il cattolicesimo come una ricaduta nella condizione conformistica e borghese da lui superata attraverso il marxismo)".

Fonte:
http://www.tesionline.it/v2/appunto-sub.jsp?p=76&id=579
 
 
@Eretico e Corsaro - Le Pagine Corsare

Curatore, Bruno Esposito

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Gesù sullo schermo

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro





La rappresentazione dell'immagine di Gesù nel cinema

Peio Sánchez

La persona di Gesù nell’estratto di all’incirca 35 film è stata il nuovo tema di pastorale giovanile presentato dal prof. Peio Sánchez ai partecipanti al Forum “Giovani, religiosità e Vangelo”, organizzato dall’Istituto Superiore di Scienze Religiose Don Bosco, di Barcellona

Una constatazione è ormai certa: i giovani vedono quotidianamente una media di quasi due film (sia alla TV che al cinema, in video e in DVD) e l’immagine che essi hanno della realtà è profondamente segnata da questa esperienza. Molto più condizionante dell’influsso che su di essi esercita la lettura. Perciò a noi educatori ci preoccupa la presenza dell’elemento religioso e spirituale nel cinema. E, dentro questi temi, certamente, interessa l’immagine di Gesù che essi possono ricevere attraverso questo mezzo altamente comunicativo.
I film su Gesù sono stati l’esponente classico del cinema religioso cristiano, ma essi non sono, assolutamente, il solo modo di riferimento a Gesù nella storia del cinema, né, certamente, della presenza dell’elemento spirituale nella cinematografia.

Influenza del cinema nella formazione religiosa

Il conferenziere, laureato in Teologia e Pedagogia e professore dell’ISCR Don Bosco che si muove negli ambiti della pastorale giovanile, ha messo in risalto che le rappresentazioni di Gesù nel cinema hanno avuto forte influenza sulla formazione popolare dell’immagine di Gesù di Nazaret. I film spettacolo, come Re di re (1961) di Nicholas Ray e La più grande storia mai raccontata (1965) di Georges Stevens hanno seriamente deformato l’immagine di Gesù. E, nell’estremo opposto, L’ultima tentazione di Cristo (1988) di Scorsese
presenta un Gesù interiormente complesso, e quel che comincia coll’essere una buona intenzione nella esplorazione della coscienza umana di Gesù finisce in un personaggio torturato dal suo Dio. Un tentativo fallito. E neanche Gesù Cristo Superstar (1974) di Jewison l’azzecca. Non appaiono né come profezia del Regno, né come novità di rapporto con il Padre, né come servizio di dedizione ai fratelli. Il finale rimane così simbolico da diventare impercettibile.
Il film Gesù di Nazaret (1977) di Zeffirelli, che ha avuto successo e diffusione, migliora sostanzialmente la vicinanza al vangelo, ma neanche esso convince totalmente. Scompaiono molti elementi centrali, ad esempio, le tentazioni, la trasfigurazione e la sofferenza nella passione. È un film didattico e per tutti i pubblici, ma nasconde l’aspetto drammatico; tutto rimane troppo superficiale e semplice, con poca forza spirituale.

Due opzioni più azzeccate

Due opzioni si sono dimostrate le più azzeccate. I film che, con mezzi semplici, hanno cercato la fedeltà storica e hanno tentato di attenersi agli stessi testi evangelici (Il Vangelo secondo san Matteo [1964] di Pier Paolo Pasolini). E quei film che non hanno preteso di ricostruire la vita di Gesù, ma che ne hanno mostrato la presenza in altri personaggi (il semplice Godspell [1973] di Green e quello più complesso Gesù di Montréal [1989] di Denys Arcand. In quello primo bisogna riconoscere il valore della fedeltà al vangelo e la capacità simbolica; in quello secondo, la trasposizione al tempo odierno.
Speriamo che Passion (2004) di Mel Gibson sia un apporto positivo. “Non credo che altri film siano riusciti a penetrare nella vera forza di questa storia. O sono inesatti nel racconto storico, o hanno cattiva musica, o sono di cattivo gusto. Questo film mostrerà la passione di Gesù Cristo così come essa avvenne. È come ritornare nel tempo e contemplare quei fatti, presentati esattamente così come essi sono avvenuti ... Voglio mostrare l’essenza del sacrificio” (Zenit, 6 marzo 2003).

Le “metafore” di Gesù


Diventa molto interessante la linea esplorativa delle metafore di Gesù. Abbiamo percorso personaggi vari che ci mostrano il Cristo nelle storie di persone molto diverse.
I testimoni di Dio ci hanno presentato personaggi che, con la loro vita, mostravano le opzioni di Gesù (Romero [1989] di John Duigan), essendo solidali con quei che lottano per la giustizia e la libertà (Roma, città aperta [1945] di Roberto Rossellini) e partecipando al compito di riconciliazione (I miserabili [1998] di Bille August).
Abbiamo anche riconosciuto in alcuni “pazzi” i tratti di Cristo. Così, la pazzia di Francesco, giullare di Dio (1950) che disarma i potenti; la pazzia per la bellezza in mezzo alla desolazione di Andrei Rublev (1966) di Tarkovski e la pazzia per l’impossibile di Ordet (1955) di Dreyer.
Tra le parabole del Cristo hanno un posto particolare i film che ce lo presentano come donna. Così Il festino di Babette (1987) di Axel, Le notti di Cabiria (1956) di Fellini e Chocolat (2000) di Lasse Hallström.
La scienza-finzione è un genere favorevole alla presenza dell’elemento spirituale. Così si deduce dall’analisi sulla figura di Cristo presso Blade Runner (1982) di Ridley Scot, il tentativo manipolatore dei Fratelli Wachowski nella saga di Matrix (2000-2003) e l’interessante Edoardo Maniforbici (1990) di Tim Barton.
Le storie di dedizione per la redenzione di altri ci parlano anche della presenza di Cristo. Così possiamo vederlo nel torturato Tenente corrotto (192) di Abel Ferrara e nel film La Strada (1955) di Fellini, dove la morte di Gelsomina redime il male di Zampanò.
Infine, nella conferenza è stata riconosciuta la presenza del volto di Cristo nei piccoli. I semplici sono capaci di rendere possibile lo straordinario in Miracolo a Milano (1950) di Vittorio De Sica: un bambino assume il ruolo di Cristo arrivando sino alla dedizione in Figli di uno stesso Dio (2001) di Yurek Bogayevicz. O scendendo ancora un gradino nella scala dell’umiltà: un asino rappresenta la sofferenza silenziosa di Cristo nel mondo in Au Hazard Balthasar (1966) di Bresson.
Una presenza di Gesù molto più abbondante
Tutte queste tracce ci consentono di riconoscere la presenza di Gesù Cristo nel cinema in un modo molto più abbondante e profondo di quel che indicava una prima impressione. Tuttavia, ci ha anche invitati a un dialogo con il cinema molto più profondo di quel che di norma si fa.
Ci si apre così una linea di lavoro educativo ed evangelizzante con i giovani che può far sorgere degli interrogativi e delle ricerche che la semplice visione passiva non facilita. Occorre suscitare uno sguardo capace di profondità per vedere la verità dei racconti e delle metafore del cinema; e bisogna anche passare dall’esperienza virtuale ad una esperienza reale di costruzione della fede.

Fonte: www.vidimusdominus.com 29.03.04


Gesu' sullo schermo
di Ernesto G. Laura

Dei molti film realizzati in un secolo di cinema su Gesù, alcuni appaiono invecchiati per linguaggio e per tipo di lettura biblica, altri (come il muto italiano Christus di Giulio Antamoro dl 1916 o il francese Golgotha di Julien Duvivier del 1934) sono irreperibili. Se dunque vogliamo inserirci nella celebrazione del Giubileo con proiezioni sul Vangelo dovremo fare di necessità virtù e tenerci a quanto è in concreto rintracciabile. Terremo conto comunque non solo della disponibilità su pellicola - sempre più ardua terminato il (sempre più breve) ciclo di sfruttamento - ma anche di quella in videocassetta.
Due proposte si presentano come immediate, il recente I giardini dell'Eden di Alessandro D'Alatri e il Gesù di Nazareth di Franco Zeffirelli (l'edizione cinematografica di quest'ultimo, acquistabile in videocassetta, è naturalmente molto più breve di quella a puntate trasmessa in televisione lunga circa otto ore).
Zeffirelli - autorevole regista di teatro e di opere liriche che nel cinema ha firmato fra l'altro le versioni filmiche di capolavori shakespeariani come La bisbetica domata, 1967, Romeo e Giulietta, 1968, Amleto, 1990 - mette a frutto la sua lunga esperienza di uomo di spettacolo per una esposizione piana dei fatti evangelici, rappresentandoli secondo le linee più care alla tradizione e dunque alla iconografia popolare e servendosi anche in parti minime di acclamate "stars" del cinema internazionale. Con D'Alatri, esponente di una più giovane e nuova generazione di registi italiani, si parla invece del Cristo con il linguaggio dell'uomo di oggi che da un mondo secolarizzato e "distratto" risale verso le fonti - utilizzando nel caso anche i vangeli apocrifi o liberamente inventando - e recupera il mistero dell'Incarnazione in modo suggestivo e vivace: si vedano le sequenze sul Gesù giovane prima dell'"uscita pubblica" o il bellissimo episodio della tentazione nel deserto.
Risalendo più indietro rimane sempre essenziale il Vangelo secondo Matteo diretto nel 1964 da Pier Paolo Pasolini, vincitore fra l'altro del premio dell'O.C.I.C. (Office Catholique International du Cinéma) alla Mostra di Venezia di quell'anno. Il poeta - che si dichiarava non credente - si accosta con grande rispetto al testo dell'evangelista, che traspone sullo schermo con piena fedeltà, ambientandolo suggestivamente in una cornice pastorale-contadina fuori di un tempo storico preciso non senza richiami alla grande pittura. Egli è soprattutto interessato alla perentorietà della predicazione di Gesù, all'invito che egli fa a seguirlo al di là di ogni calcolo personale, di ogni egoismo. Non a caso sceglie dei quattro Vangeli quello di Matteo che si può considerare il più "duro". Rispetto ad altri film cristologici che privilegiano l'aneddotica, preoccupazione costante di Pasolini è invece mettere al centro, con tutta la sua forza morale e spirituale, la parola di Gesù.
Discontinuo appare invece Il Messia con cui uno dei Maestri del nostro cinema, Roberto Rossellini, concluse nel 1975 la sua carriera. Nei confronti della fede il regista fece lungo gli anni dichiarazioni contraddittorie, finendo da ultimo per confessarsi ateo. E tuttavia l'intera sua opera è attraversata dal tema della fede tramite il "vissuto" di uomini di fede: il cappellano militare di L'uomo della Croce (1943), il parroco di Roma città aperta (1945), i frati di Paisà (1946), il Santo assisano di Francesco giullare di Dio (1950), la martire santa di Giovanna d'Arco al rogo (1954), per non parlare di drammi della coscienza come Stromboli terra di Dio (1950) e Europa '51 (1952). Il Messia rispetto ai suoi capolavori segna però un passo indietro: accanto a momenti felici e inediti (la Madonna che collabora alla predicazione del figlio insegnando ai bambini) ci sono intere sequenze "tirate via" con approssimazione come quella ambientata nella reggia di Erode.
Più attenti alle esigenze industriali del grande spettacolo popolare che non ai valori profondi del Nuovo Testamento risultano perlopiù i film hollywoodiani. Meritano comunque positiva attenzione almeno due opere, Il Re dei Re (King of Kings, 1961) di Nicholas Ray, che punta sulla attualità del messaggio del Cristo, e La più grande storia mai raccontata (The Greatest Story Ever Told, 1965) di George Stevens, non derivato direttamente dai Vangeli ma da un romanzo americano di Fulton Oursler da essi ispirato. Severamente accolto dalla critica statunitense, non è meritevole di giudizi tanto negativi: esso presenta diverse libertà rispetto ai testi biblici ma è loro fedele nella sostanza. Soprattutto si distingue per l'interpretazione carismatica dello svedese Max von Sydow, forse il migliore attore mai calatosi nella figura di Gesù. Meglio lasciar perdere invece L'ultima tentazione di Cristo (The Last Temptation of Christ, 1987) di Martin Scorsese tratto dal romanzo del greco ortodosso Nikos Kazantzakis. L'idea di partenza era interessante e intrinsecamente legata al mistero di Gesù in cui si incontrano persona divina e natura umana: quella di seguirne l'ipotetico itinerario di conquista della piena consapevolezza della propria divinità a partire dalla sua natura umana. Ma ci sarebbe voluta altra forza immaginativa e altra profondità di lettura, mentre il film, come il romanzo, non si libera da una accesa sensualità che ne falsa il centro e in più aggiunge note superficiali di attualizzazione (i discepoli che parlano in americano popolare di oggi).
Accanto ai film sopra indicati si deve ricordare il "musical" Jesus Christ Superstar (id., 1973) che il regista canadese Norman Jewison trae dall'omonima "opera rock" inglese di Webber e Rice. Ripensata nel passaggio dal palcoscenico allo schermo, l'opera non costituisce un diretto adattamento cinematografico del Nuovo Testamento quanto la sua rappresentazione da parte di una "troupe" di giovani nel deserto della Palestina a contatto con i luoghi autentici. Se non sempre la "lettura" evangelica appare rigorosa e completa, il film trae comunque dalla bellissima musica profonde suggestioni spirituali capaci in particolare di attrarre il pubblico giovane alla figura di Gesù. Di un altro regista canadese, Denys Arcand, è Jesus of Montréal (1989), interessante anche se non tutta accettabile attualizzazione di quel Vangelo di Marco che finora sembra aver meno stimolato i cineasti. Il giovane Daniel interpreta Gesù in una sacra rappresentazione che le autorità ecclesiastiche rifiutano reputandola appunto troppo attualizzata. Ma Daniel continua ad approfondire il personaggio fino a ripercorrerne nella Montréal di oggi le varie tappe sino al sacrificio finale.
Vorrei infine segnalare due film italiani che liberamente inventano ai margini del testo sacro storie intensamente religiose. Il primo è L'inchiesta (1986) di Damiano Damiani, da un vecchio soggetto di Ennio Flaiano e Suso Cecchi D'Amico che giaceva nei cassetti dal '71. E' l'immaginaria inchiesta che il romano - e dunque pagano - Tauro effettua in Palestina per incarico dell'Imperatore all'indomani della Resurrezione di Gesù. I romani naturalmente non ci credono e pensano che i discepoli abbiano trafugato e nascosto il cadavere. Molto bello l'incontro a Nazareth con Maria che, morto il figlio, trascorre nel suo villaggio gli ultimi anni. Il secondo è I magi randagi, ideato da Pasolini per Totò e nel 1996 rielaborato e infine realizzato da Sergio Citti, fiaba di religiosità semplice e candida, vicenda di oggi di tre poveracci arruolati per fare i Re Magi in un presepio vivente e che si ritrovano a rivivere il misterioso annuncio della nascita del Bambino.
L'episodio iniziale del Nuovo Testamento, la notte di Betlemme, è il perno ispirativo di altri due buoni film italiani, Cammina cammina diretto da Ermanno Olmi nel 1983 in forma di storia che un carovaniere racconta al nipotino sotto la tenda nel deserto, e Per amore solo per amore che un regista dell'ultima leva, Giovanni Veronesi, trae nel 1993 da un romanzo di Pasquale Festa Campanile, analizzando con delicatezza il rapporto coniugale fra Giuseppe e Maria di fronte allo sconvolgente annuncio dell'Angelo. (In due videocassette è anche disponibile il televisivo Un bambino di nome Gesù di Franco Rossi, che rievoca con sincera partecipazione le vicende d'apertura dei Vangeli dall'Annunciazione agli anni dell'infanzia).




Insegnamento della religione cattolica e cinema
Don Dario Viganò
Docente all'Università Cattolica di Milano di "Etica e deontologia della comunicazione"

Introduzione

Non è una novità delle nostre ultime legislature quella di introdurre nei percorsi didattici una specifica attenzione al cinema. Pare infatti che già nel 1906, pochi anni dopo i primi vagiti della settima arte, Stefano Cremonesi avviò l'esperienza di proiettare nelle scuole catanesi documentari di viaggi, di usi e di costumi di paesi lontani. Sempre Cremonesi avrebbe realizzato a Brescia nel 1909 una serie di proiezioni periodiche, una sorta di cineforum, destinato a un migliaio di ragazzi e riguardanti pellicole morali, educative e con soggetti di storia e di geografia.
Fu l'associazione milanese Cinema Docet, costituita nel 1912, a organizzare questi interventi disseminati sul territorio nazionale, a darne una forma teorica e a pubblicare la scuola dell'avvenire ossia l'istruzione e l'educazione a mezzo del cinematografo. è chiaro che l'intento è strumentale e non siamo ancora giunti a considerare il cinema come testo culturale, ma è pur sempre un inizio significativo. Nonostante gli sforzi spesso dovevano fare i conti con la scarsa attenzione del governo e con le miserrime condizioni economiche, non mancarono persone che con determinatezza condussero una battaglia per l'introduzione della cinematografia nei programmi scolastici.

Umberto Paradisi, direttore artistico della Pasquali Film, stese un testo nel 1915 che così recita: «Il programma scolastico delle classi elementari superiori è senza dubbio, di per se stesso, denso e complesso; ma la cinematografia non intende colmare delle lacune; essa dovrebbe integrare e rafforzare la coltura e la preparazione intellettuale della gioventù, senza aggravi mnemonici, ma come ausilio dell'educatore e allo studioso, con un semplicissimo corredo di mezzi e con vera genialità di metodo».
La visione puramente strumentale del cinema è comprensibile anche a partire dall'epoca in cui tali riflessioni vanno svolgendosi, un'epoca in cui le teoriche del cinema stavano ancora costituendosi e articolandosi. Ieri come oggi, non mancarono feroci oppositori a tela novità nella didattica. è lo stesso Paradisi ad informarci: «Noi temiamo purtroppo che oppositori della cinematografia didattica siano precisamene i maestri. Oppositori non molto facilmente placabili, poiché la loro non è opposizione di principio, fatta di incredulità e di diffidenza, ma piuttosto una ragione d'indifferentismo professionale».
Molti decenni si dovette attendere prima che nel nostro Paese i programmi scolastici fossero rivisitati. È chiaro che testi di riforme sottoposti a continue analisi e ritocchi, unitamente all'introduzione dell'autonomia che, se da un alto apre a spazi progettuali più ampi dall'altro evidenzia la necessità ineludibile e non procrastinabile di un sollecito ricambio, non possono che generare una serie di macro-obiettivi senza dare precisione agli obiettivi specifici. Li ricordiamo:
a. la promozione di un primo livello di alfabetizzazione intesa come acquisizione critica dei linguaggi iconici;
b. il potenziamento della creatività espressiva;
c. l'accostamento ai beni culturali per incentivare la maturazione del gusto estetico.
Questi pur generici macro-obiettivi, che facilmente incrociano le discipline che afferiscono all'area espressiva, non eludono il problema della formazione degli insegnanti. Un aspetto questo, tanto necessario quanto disatteso, che questo breve intervento vuole in qualche modo mettere a tema.
L'intervento, di cui queste brevi note sono un piccolo supporto, è distinto in due momenti.
Il primo vuole anzitutto porsi come riflessione teorica sulla modalità di approccio al testo cinematografico. In particolare, attraverso l'analisi storica dello sviluppo della semiotica, vorremmo approdare ad una possibile definizione di lettura del film come testo.
Il secondo ha come obiettivo quello di mostrare, nella storia del cinema, il rapporto complesso e fragile tra testo sacro e sua traduzione audiovisiva. In particolare, attraverso la visione di alcuni brani cinematografici, di vorrà giungere ad una possibile classificazione del cinema biblico, con la consapevolezza che ogni classificazione ha il vantaggio della chiarezza, ma la povertà del non rendere ragione di tutto.

Bibliografia essenziale:

F. CASETTI - F. DI CHIO, Analisi del film, Bompiani, Milano 1991.
G. MICHELONE - D. VIGANO', Cinema Cinema Cinema. Dalle origini ai nostri giorni, Milano 1995.
DARIO E. VIGANO', Il cinema delle parabole, Effatà, Torino 2000.



Dal pretesto al testo





La semiotica ha un valore strumentale e metodologico. L'esito di un approccio semiotico al testo è duplice:
– vengo a conoscenza della struttura del testo
– apprendo le strategie discorsive
Possiamo dire che l'approccio semiotico si inserisce in una prospettiva più ampia che è quella che chiamiamo ermeneutica.


a) Semiotiche di prima generazione (anni 50-60)
Si tratta di quegli approcci al testo che trovano nella categoria di struttura la chiave di accesso al testo. Colui che si trova di fronte al testo diviene sostanzialmente un decodificatore.

b) Semiotiche di seconda generazione (anni 60-80)Sono quelle semiotiche che, abbandonando il concetto troppo statico di struttura, ne assumono uno maggiormente dinamico che è quello di contratto. In questo contesto il lettore diviene anzitutto un interlocutore.

c) Semiotiche di terza generazione (anni 90)Il tema che affrontano tali semiotiche è l'interazione del testo con il suo contesto. Attorno alla categoria del contesto il lettore viene considerato anzitutto un partner.

Proposta di uno schema di analisi del film

Testo sacro e riscrittura cinematografica: irriducibilità o connaturalità?

La rilevanza della riflessione sul possibile rapporto tra testo sacro e audiovisivo è istituita anzitutto dal consumo: per molte persone infatti la Bibbia, prima di essere un libro è anzitutto un film . A tal fine, anche per mettere un po' d'ordine alla vasta produzione di cinema d'ispirazione biblica, è importante far tesoro degli studi che, dall'inizio degli anni 70 hanno messo a tema l'interesse per la forma narrativa giungendo ad istituire «un'indagine sul valore e sulle conseguenze di una presenza massiccia del "narrativo" all'interno dell'intero libro biblico».
La formazione, la redazione e la recezione dei testi canonici, in altre parole riconosciuti come ispirati, è assai complessa. Tale consapevolezza ci porta ad affermare che la Bibbia non è l'insieme materiale dei testi che la compongono. Abbiamo infatti molto di più che l'accostamento di documenti letterari differenti. Abbiamo la testimonianza della verità di Dio destinata ad essere origine e custode della fede.
«La ritrovata coscienza biblica dell'idea di rivelazione come storia, dove la manifestazione di Dio che avviene in molti modi (parole ed eventi, di carattere individuale e collettivo), si evidenzia sempre nella catena di esperienze, attestazioni, testimonianze, interpretazioni della coscienza credente che formano tradizione, consente orinai di superare la schematicità naturalistica - e l'ingenuità metafisica - di quel modello (n.d.r. ovvero del positivismo letterario per cui un testo veniva considerato come scritto e quasi dettato da Dio). Ma ciò appunto acuisce l'urgenza di una teoria che formuli, in modo coerente con la stessa tradizione biblica, la ragione teologica della speciale referenzialità di un sistema di testi che sono norma della fede perché a differenza degli altri, possono essere riconosciuti, venerati e letti come parola di Dio».
Per quanto attiene al nostro problema del rapporto Bibbia e cinema possiamo affermare che «la Bibbia non è semplicemente un libro, è una "biblioteca", una raccolta di testi, composti in epoche diverse, con forme, destinazioni e intenti comunicativi molto diversi fra loro». Non è possibile confondere brano omiletici con testi storici, una raccolta di massime con dei testi normativi. La Bibbia si presenta come opera complessa, ricca e polifonica.
Inoltre «i testi biblici sono uno sforzo comunitario e secolare di rileggere ciò che è accaduto alla luce di un'ipotesi: l'intervento di Dio nella storia degli uomini, nella nostra storia, nella mia storia di essere umano» .
Esistono alcuni elementi fondamentali di un progetto comunicativo biblico che devono essere tenuto presenti nell'opera di "disboscamento" che faremo. Gli aspetti del progetto comunicativo biblico possiamo così riassumerli: «la sua insopprimibile polifonicità, la sua elaborazione collettiva, il suo essere strutturalmente attualizzante e il suo spessore narrativo».
A questo complesso e affascinante mondo biblico dobbiamo aggiungere alcune altre considerazioni in margine ai problemi di traduzioni. Anzitutto un breve rilievo a livello semantico. Sappiamo quanto sia difficile passare da un testo scritto ad un altro testo scritto. Una parola non trova mai la piena e perfetta corrispondenza in un'altra lingua. Ogni parola posta con sé un prezioso margine di ambiguità, una carica di sfumature, rappresenta una costellazione di senso. Pertanto anche al solo livello di traduzione di testi scritti, tradurre significa sostituire un intero universo di senso con un mondo di significati parzialmente sovrapponibili. Accanto al problema semantico se ne presenta uno che possiamo definire di tipo semiotico. Esso si pone in rapporto al progetto comunicativo inscritto nel testo stesso. Ogni testo non solo implica un profilo del suo fruitore, ma contiene delle istruzioni d'uso per attivare dei percorsi di lettura e di comprensione. Tradurre sign’fica pertanto ostruire un progetto comunicativo analogo a quello originale. Da ultimo un problema si pone a livello del contesto di fruizione, nel senso che ogni testo nasce con particolari modalità di consumo.
Ecco che possiamo dunque avere tre livelli:


bullet si può passare da una costellazione semantica ad un'altra con un buon grado di sovrapposizione oppure ad un'altra di fatto non sovrapponibile all'originale;
bullet si può passare da un progetto comunicativo ad uno analogo oppure ad un progetto comunicativo decisamente divergente;
bullet si può infine passare da una riscrittura attenta alle pratiche di consumo dell'originale ad una riscrittura che punta a pratiche di consumo completamente diverse».

Questi problemi presenti già al livello di traduzione tra due testi scritti si complicano quando i codici della riscrittura cambiano.
Un criterio per la comprensione critica della storia del cinema biblico è dunque quello di superare la superficie del racconto. Infatti da quanto abbiamo accennato, la fedeltà di superficie non è mai una condizione sufficiente (e neppure a buon conto necessaria) per una traduzione che sia fedele e rispettosa del testo. Non è sufficiente nel senso che possiamo avere una gran fedeltà di superficie ma un tragico tradimento a livello di progetto comunicativo; neppure necessaria perché possiamo al contrario avere film apparentemente distanti a livello di intreccio dal testo sacro, ma profondamente fedeli al progetto comunicativo.
La storia del cinema alle sue origini si presenta fortemente intrisa di vicende bibliche.
Le origini del cinema bibl’co portano con sé quel duplice pregiudizio sotto il quale tutto il cinema si è posto: quello della referenzialità che fa riferimento ai fratelli Lumière e quello della ricreazione fantasiosa il cui capostipite è Georges Méliès.
Anche i primi film, che si rifacevano alle sacre rappresentazioni della passione di Gesù, si muovono tra questi due poli. Abbiamo così il film Vues representant la vie et la passion de Jesus Christ (1987) che doveva essere, secondo il carattere documentaristico della produzione Lumière, la ripresa sullo schermo della Sacra Rappresentazione della Passione più famosa nel mondo, quella che ogni dieci anni si celebrava a Oberammergau in Baviera. L'opera appariva davvero complessa soprattutto per ragioni di tempo, così i nostri produttori pensarono bene di optare per un'altra Sacra Rappresentazione, quella che ogni anno si svolgeva a Horitz in Boemia. Ma neppure questa scelta andò a buon fine. Ripiegarono alla fine sulla scelta di girare tutto a Parigi spacciandola comunque ai loro agenti come il documentario sulla Passione di Horitz.
L'altra anima del cinema, quella fantasiosa, non tardò a mostrarsi al pubblico. Così l'anno seguente, il nostro illusionista e proprietario del teatro Robert-Houdin, con i suoi elaborati trucchi, produce Le Christ marchant sur les eaux, episodio evangelico di Gesù che cammina sulle acque come pretesto per mettere a punto la capacità di Méliès di realizzare trucchi di immagine davvero sbalorditivi.

Questa duplice modalità narrativa, quella della ripresentazione fotostatica della realtà e quella della ricreazione fantasiosa, non esauriscono la complessità di intrecci narrativi delle origini, ispirati alla storia biblica. Un caso emblematico di questa differenza è Christus (1916) un film di Giulio Antamoro. Questo regista, appartenente all'antica nobiltà romana, chiese al poeta Fausto Salvatori di scrivergli un poema mistico su Cristo. Il poeta dannunziano scrisse un poema in tre misteri che costituì la base per la sceneggiatura e le didascalie. La novità e la differenza del film non sta tanto nello stretto legame tra cineasti e letterati, quanto piuttosto nella linea figurativa modellata sulla grande tradizione pittorica: dall'Annunciazione del Beato Angelico alla Natività del Correggio, dai quadri del Perugino al capolavoro di Leonardo da Vinci.


Un momento interessante per la produzione del cinema biblico è rappresentato dalla metà degli anni Sessanta. Infatti mentre in America abbiamo la produzione del famoso film The greatest story ever told (1965) firmato da uno dei registi di maggiore fama della cinematografia statunitense, George Stevens, in Italia il grande maestro Pier Paolo Pasolini gira l'anno precedente Il Vangelo secondo Matteo e, precedentemente firma l'episodio di Ro.Go.Pa.G. dal titolo La ricotta (1963). Proprio dal confronto di questi due modi di fare cinema, possiamo anche scoprire differenti modi di fedeltà del testo biblico. George Stevens è un regista con impegni anche da produttore. Necessita di catturare il pubblico e così riflette una figura di Gesù legata ad una "medietà" americana: Gesù non ha fratelli o sorelle per non irritare i cattolici; riduce i miracoli per non infastidire gli agnostici; nel sinedrio vengono utilizzati toni sfumati per evitare l'accusa di antisemitismo e, a Lazzaro, che Steven identifica con il giovane ricco, che pone il problema della liceità del possedere, la risposta cerca di fare un compromesso per evitare di essere tacciato di antia-mericanismo.

Film come questo dunque tendono a cogliere solo l'aspetto superficiale trasformando il testo sacro in un pretesto per raccontare una favola.
Assolutamente diversa è la scelta registica di Pasolini. Nell'episodio del film collettivo firmato da Rossellini, Godard, Pasolini e Gregoretti, si racconta la storia di una passione. Il film, accolto come provocatorio dalla critica cattolica, doveva aprirsi con una didascalia che denunciasse tutto il rispetto di Pasolini per la storia sacra. Il film si presenta come un atto di accusa contro coloro che in qualche modo si sono fatti complici dell'annacquamento degli ideali evangelici. Più organico è il discorso pasoliniano nel Vangelo. Pasolini non vuole fare un Gesù moderno; piuttosto ne vuole cogliere la radicalità. Pasolini ha un atteggiamento mitizzante nei confronti di Gesù, lo coglie come uomo prototipo in rivolta, un uomo che da scandalo. Il film, dedicato alla cara memoria di Giovanni XXIII, è il documento più chiaro di quanto Pasolini, uomo "non credente" fosse in realtà dominato dall'urgenza del sacro. La scelta del testi di Matteo nasce dal fatto che l'evangelista non solo è quello più radicato nella cultura ebraica, ma è quello che pone in maggior evidenza le implicazioni sociali della parola di Gesù. Di fronte alla morte di Gesù, la macchina da presa di Pasolini sceglie il buio, una scelta anticinematografica che si pone come grande atto di fede: di fronte alla morte lo sguardo deve abbassarsi e solo il cuore si farà custode del tempo inedito e mai più rappresentabile.
Gli anni Settanta sono stati caratterizzati dal film che è divenuto il cinema biblico per antonomasia: Gesù di Nazareth (1977) di Franco Zeffirelli. Per la verità era Ingmar Bergman che avrebbe dovuto girare per la RAI un film sulla vita di Gesù. Ma il suo progetto venne accantonato perché giudicato troppo rischioso come opera d'autore che certamente avrebbe fatto una lettura singolare e personale della vicenda di Gesù. Così la mano passò a Zeffirelli esperto di cinema spettacolare e capace sia di una rappresentazione in sintonia con l'iconografia popolare sia di un coinvolgimento di molte star del cinema internazionale. Il film ebbe due versioni: una lunga per la televisione e una molto più breve per il cinema. Un film che sottovaluta e annulla alcuni momenti centrali nella storia di Gesù, nasconde i veri e propri apax dei percorsi di salvezza, non riesce a tradurre l'irruzione del kairos nel chronos.
Sempre in questi anni Settanta un film molto interessante è firmato dal regista che ha imposto nel mondo il cinema italiano: Roberto Rossellini. Dopo aver girato Roma città aperta (1945), Paisà (1946), Germania anno zero (1950) e altre opere importanti, due anni prima della sua morte firma Il messia (1975). L'opera conclude la carriera del maestro ma è anche punto di arrivo di un percorso contraddittorio, non privo di difficoltà e domande inquiete.

La produzione non ha mai smesso di dare forma al racconto della vita di Gesù visitando a volte l'andamento catechistico, altre volte scegliendo la modalità trasgressiva. Alcuni titoli vanno certamente ricordati: Cercasi Gesù (1982) di Luigi Comencini con Beppe Grillo come protagonista è un film che si muove in bilico tra cronaca e invenzione; L'inchiesta (1986) di Damiano Damiani, inquietante film girato dal punto di vista dell'estraneo alla vicenda di Gesù, il romano Tauro che l'Imperatore manda in Palestina per accertare cosa sia successo al corpo di Gesù che non viene più ritrovato e per svelare, se ci fossero, dei trucchi. Ancora L'ultima tentazione di Cristo (1987) di Martin Scorsese. Una cosa strana è che mentre il film è stato accolto tra mille polemiche, l'uscita del romanzo di Kazantzakis, scrittore greco di fede ortodossa, cui si ispira, non ha suscitato neppure una minima polemica. La tentazione cui allude il titolo non è quella del potere o della carne, ma quella di una vita "normale", con moglie, figli, un lavoro e gli amici. Nonostante la forza provocatoria e la modalità a volte trasgressiva della rappresentazione, alla fine tutto sarà una tentazione, l'ultima appunto, prima di riaprire gli occhi ed essere sulla croce, luogo dove celebrare la fedeltà al progetto del Padre. Jesus of Montreal (1989) di Denys Arcand, I magi randagi (1996) di Sergio Citti (collaboratore di Pier Paolo Pasolini) e I giardini dell'Eden (1997) di Alessandro D'Alatri, sono alcuni tra gli ultimi titoli del cinema biblico

Fonte:
http://franz23.altervista.org/frammento/cinema/gesuschermo1.htm#sanchez

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venerdì 15 marzo 2013

Accattone tra le borgate - Pasolini e il cinema


"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro

 


Accattone tra le borgate - Pasolini e il cinema


Ah, ah, ah! Ciài 'na fortuna, nei piedi te! Perchè no la sai sfruttà... Er DDT ammazza le mosche ma che je fà, te co' la puzza tua ammazzi pure i cavalli!


A Roma nelle borgate degradate alla periferia della città vive Vittorio Cataldi detto “Accattone”, nulla facente e protettore di una prostituta: Maddalena. Quando la ragazza verrà arrestata l’unica speranza di sopravvivenza per Vittorio diventa sostituire Maddalena con una nuova ragazza; Stella …..
Sì! Te vai pe' strada! Ma falla finita!... Ormai ho deciso che ce penso io a te! Basta! Tu devi stà a casa! Quando me metto in testa 'na cosa io dev'esse quella! O il mondo m'ammazza me, o io ammazzo lui!
Girato fra le baracche delle borgate alla periferia della capitale, brulicanti di un’umanità varia e pronta a tutto per sopravvivere; “Accattone” narra la vita di uno di questi spiantati e forse del più spiantato di tutti questi ragazzi di vita le cui sorti erano tanto care al regista e scrittore di origini bolognesi. Autore di un’efficacia fuori dal comune, capace di narrare quella parte di umanità ai margini di una capitale brulicante di possibilità, siamo agli albori del boom economico, ma che al tempo stesso degli echi di quelle possibilità potè raccogliere solamente i resti a causa un istinto di conservazione che non permette a Accattone di ricrearsi una vita professionale normale, in grado di levargli di dosso quella polvere da troppo tempo respirata e incollatagli addosso come una seconda pelle.Il film rappresenta il primo tentativo, ben riuscito e ultra premiato sia da critica che da pubblico, ma solo a lunga scadenza, di portare al cinema una summa dei due romanzi di Pasolini : “Ragazzi di Vita” (1955) e “Una vita violenta” (1959). 
M'è successo che so' 'no stronzo! Ecco quello che m’è successo! Me so' ito a ammazzà, pe' mille lire! Gesù Cri sto nun me poteva fà venì un colpo stamatina quando so' uscito da casa...
Il risultato fu così sconcertante da allarmare la censura, la quale colpì l’opera sino a farla ritirare dalle sale; inoltre per chi credeva che la ricostruzione post-bellica fosse riuscita a completare la prima fase di imborghesimento della popolazione italiana, le giornate al bar di Franco “Accattone” Citti divennero un colpo alla bocca dello stomaco dal quale era difficile riprendersi facendo gridare allo scandalo ai ben pensanti dell’epoca sino a un’aspra critica nel corso della mostra del Cinema di Venezia.
L'Unità, 31 dicembre 1961

Le vicende sono altresì narrate senza sovrastrutture molto, anzi troppo, care al cinema contemporaneo ma aiutandosi esclusivamente con i luoghi più cari dell’immaginario Pasoliniano: le borgate fra l’Appia antica e il ponte Testaccio e grazie all’imprescindibile apporto dei volti degli stessi ragazzi veramente provenienti da queste realtà marginali perché: “…..solamente questi ragazzi possono rappresentare loro stessi e nessun altro….“.Il film, non senza difficoltà: Fellini rinunciò alla produzione all’ultimo momento preoccupato dell’inesperienza di Pasolini; venne girato quasi contestualmente alla seconda opera di Pasolini: “Mamma Roma” che fece incontrare il regista con la prima vera diva dello star system romano; quell’Anna Magnani che di primissimo impatto non piacque a Pasolini, a causa dell’impossibilità d’incanalarne le capacità artistiche, di plasmarne la bravura scenica e di renderla credibile nelle vesti di una prostituta. A distanza di anni, ma quasi immediatamente, lo stesso regista dovette ricredersi: La Magnani divenne non solo Mamma Roma ma con ogni probabilità l’attrice Pasoliniana per eccellenza.



L'Unità,14 ottobre 1061

Il film fu vietato ai minori di 18 anni, anche se non esisteva una legge che poneva tale limite (esisteva solo quello di 16 anni).
La commissione di censura richiese queste modifiche:

Prima frase incriminata:

«Tutte le mamme di famiglia in quelle condizioni lo farebbero, anche mia madre lo farebbe», dice Accattone a Stella quando la ragazza gli confessa che la madre ha fatto la prostituta per mantenere i figli. La correzione proposta è: Anche altre mamme di famiglia lo avrebbero fatto, anche mia madre avrebbe potuto farlo.»
Seconda frase incriminata:

«Artro che porelle quelle sso dritte, buscheno dae venti ae trentamila al giorno», risponde Accattone a Stella quando la ragazza, alla visione delle prostitute, esclama:«Porelle!». Il censore vuole che venga eliminato il riferimento alla “lucrosità” della professione.
Terza frase incriminata:

«Ma tiè – dice Amore indicando i suoi gioielli nella scena della balera -, questi l’ho fatti coi soldi vostri. Io coi soldi vostri me compro scarpe da dodicimilalire». Il censore consiglia di ridurre il prezzo delle scarpe a tremilacinquecento.Quarta frase incriminata: «Dovrai attaccarle [le mutande] al chiodo, sei vecchia». Viene richiesto di sostituire mutande con sottana.
L’anteprima romana del film ha luogo il 22 novembre al cinema Barberini. Un gruppo di giovani di destra lancia bombette fetide in sala e boccette d’inchiostro contro lo schermo. Nascono tafferugli fuori e dentro la sala che rendono necessario l’intervento della polizia . Il giorno successivo le proiezioni vengono effettuate con la scorta.



l'Unità, 17 ottobre 1961

L'Unità,10 dicembre 1961

L'Unità, 15 ottobre 1962



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1961 LA RAGAZZA CON LA VALIGIA

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro




1961 
LA RAGAZZA CON LA VALIGIA

Regia di Valerio Zurlini
Produzione: Maurizio Lodi Fè
Distribuzione: Titanus / Société Générale de Cinématographie
Soggetto: Valerio Zurlini
Sceneggiatura: Leo Benvenuti, Piero De Bernardi, Enrico Medioli, Giuseppe Patroni Griff, Valerio Zurlini, Pier Paolo Pasolini (non accreditato nei titoli)
Fotografia: Tino Santoni
Scenografia: Flavio Mogherini
Musica: Mario Nascimbene
Fra gli interpreti: Claudia Cardinale, Jacques Perrin, Romolo Valli, Gian Maria Volontè

PRIMA PROIEZIONE
1961: XIV Festival di Cannes

TRAMA:
Aida, una giovane soubrette in cerca di un lavoro, cede al fascino di un dongiovanni, Marcello Mainardi, che presto la lascia. Aida decide però di rintracciarlo e di presentarsi a casa sua. Marcello manda il suo fratellino di sedici anni Lorenzo a disfarsi di lei, con qualche scusa. Ma Lorenzo, che è un ragazzo ingenuo e di buon cuore, ascolta la storia di Aida e biasima il comportamento di suo fratello. Tra i due nasce una tenera amicizia: Aida capisce che è meglio non continuarla e lascia la città per andare in cerca di una scrittura, ma senza successo. Rimasta sola e senza soldi Aida sta per concedersi a un poco di buono, ma Lorenzo arriva e si getta contro l’uomo per difenderla. Aida prende coraggio e scappa. Lorenzo la raggiunge per offrirle i pochi soldi recimolati per aiutarla.



Fonte:
L’ARENGARIO STUDIO BIBLIOGRAFICO
IL CINEMA DI PIER PAOLO PASOLINI
Libri fotografie giornali manifesti
Filmografia completa
EDIZIONI DELL’ARENGARIO





Curatore, Bruno Esposito

Collaborano alla creazione di queste pagine corsare:

Carlo Picca
Mario Pozzi
Alessandro Barbato
Maria Vittoria Chiarelli
Giovanna Caterina Salice
Simona Zecchi

1961 LA RAGAZZA IN VETRINA

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dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro




1961
LA RAGAZZA IN VETRINA

Regia di Luciano Emmer
Produzione: Nepi Film (Roma) - Sofidetip-Zodiaque Film (Paris)
Distribuzione: Lux Film
Soggetto: Emanuele Cassuto, Rodolfo Sonego, Luciano Emmer
Sceneggiatura: Vinicio Marinucci, Luciano Martino, Pier Paolo Pasolini, Luciano Emmer
Fotografia: Otello Martelli
Musica: Roman Vlad
Fra gli interpreti: Marina Vlady, Lino Ventura

TRAMA:
Insieme con un gruppetto di italiani, Vincenzo giunge in Olanda per lavorare in una miniera di carbone. Sopravvissuto a un crollo per miracolo decide di tornare a casa, ma prima accetta di passare il fine settimana ad Amsterdam da Federico, un compagno della miniera. Ad Amsterdam Federico frequenta la ‘strada delle vetrine’, dove le prostitute si offrono agli occhi dei passanti. Qui conosce Els, e a poco a poco tra i due ragazzi nasce un tenero sentimento. Els per la priima volta si sente rispettata e Vincenzo è indeciso tra l’amore per la giovane e il desiderio di tornare in Italia.

BLIOGRAFIA:
- AA.VV., La ragazza in vetrina. Sceneggiatura dell’omonimo film di Luciano Emmer, Casa del Mantegna, 1998


Fonte:
L’ARENGARIO STUDIO BIBLIOGRAFICO
IL CINEMA DI PIER PAOLO PASOLINI
Libri fotografie giornali manifesti
Filmografia completa
EDIZIONI DELL’ARENGARIO





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giovedì 14 marzo 2013

(Ri)visti in TV: Medea di Pier Paolo Pasolini (1969)


"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro


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        (Ri)visti in TV: Medea di Pier Paolo Pasolini (1969)

Pier Paolo Pasolini debutta alla regia nel 1961 con “Accattone” dopo aver lavorato nel cinema come sceneggiatore. La sua opera prima vede la luce in una stagione d’intenso rinnovamento per la cinematografia italiana: alla generazione di coloro che avevano portato la settima arte del bel paese ad essere la più originale del mondo (Visconti, Antonioni e Fellini su tutti) si aggiungono i contributi di nuovi autori. In piena “nouvelle vague” per il nostro cinema manca un movimento analogo e se per alcuni è evidente l’influenza francese (pensiamo a Bellocchio e Bertolucci), per altri (Ermanno Olmi) rimane importante punto di riferimento, invece, la tradizione neorealista. A Pasolini, già affermato poeta e scrittore, intellettuale sensibile e acuto osservatore di una realtà in profonda e tumultuosa mutazione, il cinema appare un veicolo comunicativo assai più potente della narrativa letteraria. Le modalità con cui decide di misurarsi con il “linguaggio” rivoluzionario delle immagini in movimento si rivelano sin dall’inizio del tutto personali e sempre lo saranno anche quando, molti anni dopo, la padronanza della tecnica cinematografica sarà affinata. Sebbene gli esordi siano ancorati alla matrice neorealista, soprattutto alla lezione di Rossellini, per l’ambientazione e per il ricorso ad attori non professionisti, l’estetica dell’immagine pasoliniana proviene più dalla pittura che da un bagaglio cinefilo: uno stile che non sarà mai omologabile a nessun altro tra il rude e lo ieratico con momenti di sensibile tenerezza. L’autore mostra un gusto d’origine figurativo che tende ad accostare le immagini per offrire una composizione “iconica” che sia, al contempo, espressivamente poetica: una tendenza che sarà mantenuta successivamente pur adoperando per le opere documentaristiche un taglio visivo più incisivo da cine-reportage con molte riprese a mano e violente zoomate o movimenti a schiaffo (tecnica che viene impiegata anche per “Il vangelo secondo Matteo”).
La filmografia pasoliniana degli anni ‘60 risulta davvero molto variegata per i temi trattati e si chiude con il dramma antiborghese di “Teorema” e la controversa spietatezza di “Porcile” per lasciare il passo all’alba degli anni ‘70 alla rivisitazione delle tragedie greche nell’ambito del terzo mondo. “Medea” del 1970, dunque, riprende il discorso che il poeta aveva iniziato già con “Edipo re” (1967) e soltanto abbozzato con “Appunti per un’Orestiade africana” (1968-1969) che rimane, comunque, un validissimo documento/documentario sull’Africa. Pasolini s’ispira alla tragedia di Euripide (come già nelle due opere sopracitate aveva preso spunto rispettivamente da Sofocle ed Eschilo) per stravolgerne il mito - rappresentando il contrasto fra la barbarie e la civiltà - e mettere in scena la metafora della scomparsa del mondo agreste che, non più accecato dalle superstizioni popolari, lascia il passo ad un mondo nuovo, diverso, laicamente scevro da obblighi religiosi. L’operazione che compie l’autore è di straordinaria complessità: nulla semplifica, tutto rimanda ad un coacervo di citazioni erudite che addensano il tessuto narrativo, l’impianto audio-visivo ed il sostrato simbolico in un panopticon in cui è difficile orientarsi ma che, paradossalmente, produce nei confronti dello spettatore un’irresistibile malìa.
 Impossibile non rimanere affascinati dai barocchismi scenografici di Dante Ferretti e dai ricercati preziosismi dei costumi di Piero Tosi, dall’intensità luminosa della fotografia di Ennio Guarnieri dagli accesi colori, dai canti d’amore iraniani o dalle antiche melodie giapponesi che, uniche e indecifrabili voci umane, costituiscono il commento musicale selezionato per il film dallo stesso Pasolini e da Elsa Morante, dalla grandiosità naturalistica del paesaggio della Colchide, ricostruita in Siria e Turchia. Nonostante Pasolini effettui le riprese con tremolanti movimenti di macchina che hanno il compito di sporcare le immagini e rendere più immediatamente spontanea la recitazione dei personaggi (“Medea” è pur sempre un film, infatti, visto con gli occhi del terzo mondo), l’opera è visivamente seduttiva per le lente panoramiche contemplative ed i pittorici campi lunghi che s’alternano all’intensità frontale dei primi piani e ad inquadrature grandangolari (soprattutto) della protagonista, una monumentale Maria Callas, perfetta, visionaria icona del tragico. Al di là, comunque, di qualsiasi considerazione estetica, “Medea” rappresenta sopra ogni cosa un compendio “antropologico” del cinema pasoliniano: l’impossibilità di una sintesi tra l’umanità primitiva e la civiltà, il crollo dei miti e dell’assoluto (religioso) e, dunque, con essi la fine di tutte le illusioni e i sogni. La crudele certezza che la progressiva affermazione del logos ossia del progresso della storia costituisca la morte definitiva dell’umano.
(Nicola Pice)




            


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