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Biografia, lavori in corso - a breve anche il 1974 e il 1975

venerdì 18 dicembre 2020

Pasolini: "Faccio cinema senza speranza"

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro




"Faccio cinema senza speranza"
di Pier Paolo Pasolini
Un brano dell’intervista filmata da Gideon Bachman
sul set di Salò durante le riprese finali del film
.

Salò è preso dalle 120 giornate di Sodoma di De Sade, ma è ambientato durante la Repubblica di Salò, cioè nel ‘44-’45. Quindi, c’è molto sesso, ma il sesso presente nel film è il tipico sesso di De Sade, la cui caratteristica è esclusivamente sado- masochistica, in tutta l’atrocità dei suoi dettagli e delle sue situazioni. 
[...] Nel mio film tutto questo sesso assume un significato particolare: è la metafora di ciò che il potere fa del corpo umano, è la mercificazione del corpo umano, la sua riduzione a cosa, che è tipica del potere, di qualsiasi potere. Se io, al posto della parola “Dio”, in De Sade metto la parola “potere”, viene fuori una strana ideologia, estremamente attuale. [...] Un altro elemento d’ispirazione del film è la rievocazione di quei giorni che ho vissuto, i giorni della Repubblica di Salò. [...] Io non stavo a Salò, ma in Friuli. Il Friuli era diventato una regione tedesca, era stato annesso burocraticamente alla Germania. Si chiamava il “Litorale adriatico”. C’era un Gauleiter, che era una specie di governatore, dall’8 settembre ‘43 fino alla fine della guerra. Quindi, ho passato giornate spaventose in Friuli. Intanto, c’è stata una delle più forti lotte partigiane e mio fratello ci è morto. [...] Fra l’altro, il Friuli era continuamente bombardato dagli americani e vi passavano le formazioni delle fortezze volanti che andavano a bombardare la Germania. Rastrellamenti, paesi deserti, bombardamenti quasi inutili, di pura crudeltà. 

La lezione del film

[...] Non m’illudo di essere capito dai giovani perché con loro è impossibile instaurare un rapporto di carattere culturale perché vivono nuovi valori con cui i vecchi valori, nel nome dei quali io parlo, sono incommensurabili. Sembra che si mettano d’accordo! Parlano, ridono e si comportano allo stesso modo, fanno gli stessi gesti, amano le stesse cose, montano le stesse moto.
[...] La cosa orrenda della cultura italiana è che i giovani siano liberi, siano privi di complessi, siano disinibiti, vivano una vita felice. Tutta la borghesia italiana è convinta di questo. Anche tutta la sinistra, sì.
[...] Non capiscono, non vedono. Perché non li amano! Chi non ama i contadini non capisce la loro tragedia. Chi non ama i giovani se ne frega di loro. «Ma sì, sono contenti, sono disinibiti!» [...]

Padri e figli

Tutti i miei libri e le mie opere narrative parlano di giovani: li amavo e li rappresentavo. Adesso non potrei fare un film su questi imbecilli che ci circondano. A volte mi vengono letteralmente le lacrime agli occhi quando vedo il figlio di Ninetto [Davoli ndr], che ha un anno. Mi vengono le lacrime agli occhi per la pietà per il suo futuro.
[...] Nelle grandi città industrializzate la gioventù è diventata odiosa, insopportabile. I loro padri, in fondo, cos’hanno fatto, quelli che hanno quaranta-cinquant’anni? Cos’hanno fatto perché questi figli non fossero così? Niente! I padri che hanno dei figli dai quindici ai vent’anni ormai oggettivamente non possono più insegnare niente, perché non hanno fatto esperienza del tipo di vita dei loro figli. [...] 

Sesso e libertà

Durante le età repressive il sesso era una gioia, perché avveniva di nascosto ed era un’irrisione di tutti gli obblighi e i doveri che il potere imponeva. Invece, nelle società tolleranti, come si dichiara quella in cui viviamo, il sesso è necrotizzante perché la libertà concessa è falsa e soprattutto è concessa dall’alto e non conquistata dal basso. Quindi, non si tratta di vivere una libertà sessuale, ma di adeguarsi a una libertà che viene concessa. Allora, a un certo punto, uno dei personaggi del film dirà proprio questa frase: «Le società repressive reprimono tutto, quindi gli uomini possono fare tutto». Ma ho aggiunto questo concetto che per me è lapidario: le società permissive permettono qualcosa e si può fare solo quel qualcosa. Che è terribile! In Italia oggi si può fare qualcosa. Prima non era concesso niente, in realtà. Le donne erano quasi come nei paesi arabi. Il sesso era nascosto: non si poteva parlare, non si poteva mostrare neanche mezzo seno nudo in una rivista. Adesso concedono qualcosa, concedono foto di donne nude, non di uomini però! La coppia è un incubo
Poi, c’è una grande libertà nei rapporti della coppia eterosessuale, una libertà per modo di dire perché dev’essere quella, e poi è obbligatoria. Siccome è concesso, è diventato obbligatorio, perché un ragazzo, visto che è concesso, non può non approfittare di questa concessione. Quindi, si sente obbligato a stare sempre in coppia e la coppia è diventata un incubo, un’ossessione, anziché una libertà.
[...] È una coppia completamente falsa e insincera, di un’insincerità spaventosa. Vedi i ragazzi che, presi da chissà quale slancio romantico, camminano tenendosi per mano, un ragazzo e una ragazza, oppure tenendosi abbracciati. «Cos’è quel tipo di romanticismo?», ti chiedi. Niente. È la loro coppia rilanciata dal consumismo perché questa coppia consumistica compra. Tenendosi per mano va alla Rinascente, alla Upim. [...] 

Il potere

Ognuno odia il potere che subisce. Quindi, io odio con particolare veemenza il potere di oggi, 1975. È un potere che manipola i corpi in un modo orribile, che non ha niente da invidiare alla manipolazione di Himmler o Hitler. Li manipola trasformandone la coscienza, cioè nel modo peggiore, istituendo dei nuovi valori che sono alienanti e falsi. Sono i valori del consumo, che compiono quello che Marx chiama un genocidio delle culture viventi, reali, precedenti. [...] 

Mangiare merda

Un vecchio contadino tradizionalista e religioso non consumava delle sciocchezze preconizzate dalla televisione. Bisognava fare in modo che invece le consumasse. In realtà, i produttori costringono i consumatori a mangiare merda. Il brodo Knapp è merda! Danno delle cose sofisticate, cattive, le robioline, i formaggini per bambini, tutte cose orrende che sono merda. Se facessi un film su un industriale milanese che produce biscotti, li reclamizzassi e li facessi mangiare a dei consumatori, verrebbe fuori un film terribile, sull’inquinamento, la sofisticazione, l’olio fatto con le ossa delle carogne. Potrei fare un film così, ma non posso! Come faccio a stare lì un anno prima a pensarci e poi a girare? Sarebbe più utile, nel senso diretto, pratico della parola, farlo proprio così com’è. Ma chi me lo fa fare? Sarebbe autolesionismo.

La sottomissione al consumismo

[...] L’unico sistema ideologico che ha davvero coinvolto anche le classi dominate è il consumismo perché è l’unico che è arrivato fino in fondo, che dà una certa aggressività perché quest’aggressività è necessaria al consumo. Se uno è puramente sottomesso, segue l’istinto puro della sottomissione come un vecchio contadino che chinava la testa e si rassegnava, cosa sublime come l’eroismo. Adesso questo spirito di rassegnazione, di sottomissione non c’è più, perché altrimenti che consumatore è uno che si rassegna e accetta un suo stato arcaico, retrogrado e inferiore? Deve lottare per elevare il suo stato sociale. «Io chino la testa in nome di Dio» è già una grande frase. Mentre adesso il consumatore non sa affatto chinare la testa, anzi crede stupidamente di inchinarla e avere i suoi diritti. Anzi, è sempre lì a pretendere i suoi diritti, a crederci, invece è un povero cretino.
[...] Non credo ci sarà mai un tipo di società in cui l’uomo sia libero. Quindi, è inutile sperarci. Non bisogna mai sperare in niente. La speranza è una cosa orrenda, inventata dai partiti per tener buoni i suoi iscritti.

Scrivere per il cinema
 
Non scrivo più come prima, il che equivale a dire che non scrivo più. In principio, quando ho cominciato a fare cinema, ho pensato che fosse solo l’adozione di una tecnica diversa, direi quasi di una tecnica letteraria diversa. Poi, invece, mi sono reso conto, pian piano, che si tratta dell’adozione di una lingua diversa. Quindi ho abbandonato la lingua italiana, con cui mi esprimevo come letterato, per adottare la lingua cinematografica. Ho detto varie volte, per protesta, contestazione totale, che avrei voluto rinunciare alla nazionalità italiana. Facendo del cinema ho rinunciato alla lingua italiana, cioè alla mia nazionalità. Ma la verità è un’altra, forse più complicata e profonda: la lingua esprime la realtà attraverso un sistema di segni. Invece, il regista esprime la realtà attraverso la realtà. Questa è forse la ragione per cui mi piace il cinema e lo preferisco, perché esprimendo la realtà come realtà opero e vivo continuamente a livello della realtà. Le parole «fiore», «petalo», le vado a prendere dal nostro linguaggio di uomini che stiamo comunicando. Non importa niente a noi della poesia. Usiamo la parola «fiore» perché ci serve nei nostri rapporti umani. Le immagini, invece, su quale altro linguaggio si fondano? Si fondano sulle immagini dei sogni e della memoria. Noi quando sogniamo e ricordiamo, giriamo dentro di noi dei piccoli film. Allora, il cinema ha le sue fondamenta, le sue radici su un linguaggio completamente irrazionale, irrazionalistico.
[...] In fondo, quando uno ha visto un film, gli pare di aver sognato.

Perché faccio cinema

Se io credessi che il mio cinema fosse del tutto integrato da una società che vuole anche il tipo di cinema che faccio io, allora forse non lo farei.
[...] La società borghese digerisce tutto: amalgama, assimila e digerisce tutto. Però, in ogni opera in cui l’individualità, la singolarità si afferma con originalità e violenza, c’è qualcosa di inintegrabile.
[...] Ho questa fiducia nella libertà umana, che non saprei rendere razionale. Però mi rendo conto che, se le cose continuano così, l’uomo si meccanizzerà, si alienerà talmente, diventerà così antipatico e odioso che questa libertà andrà completamente perduta. Continuerei a fare cinema lo stesso anche se la libertà fosse solo da parte mia e si esaurisse con l’espressione. Continuerei a farlo lo stesso perché ho bisogno di farlo. Mi piace farlo e lo farei. O mi suicido o lo faccio.
[...] Io penso che l’artista in nessuna società è libero. Essendo schiacciato dalla normalità e dalla media di qualsiasi società dove egli viva, l’artista è una contestazione vivente. Rappresenta sempre l’altro di quell’idea che ogni uomo in ogni società ha di se stesso. Un margine anche minimo, magari non lo si può neanche misurare, di libertà, secondo me, c’è sempre. Non so dirti fino a che punto questa sia libertà o non lo sia. Ma, certo, qualcosa sfugge alla logica matematica della cultura di massa, ancora per adesso.




Curatore, Bruno Esposito

Collaborano alla creazione di queste pagine corsare:

Carlo Picca
Mario Pozzi
Alessandro Barbato
Maria Vittoria Chiarelli
Giovanna Caterina Salice
Simona Zecchi

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