"Le pagine corsare "
dedicate a Pier Paolo Pasolini
Eretico e Corsaro
Porcile o no, tiriamo le somme su Pasolini
di PIERO SANAVÌO
La prima cosa che lessi mai di Pier Paolo Pasolini fu "Le ceneri di Gramsci". Gli echi del successo critico m’erano giunti anche negli Stati Uniti, dove ormai abitavo da anni: su riviste e giornali nazionali. Il libro arrivò più tardi, per posta normale, impigliandosi tra i colli più eterogenei che una nave può trasportare tra due continenti, non per via aerea come i quotidiani o magari via radio come le notizie. Me lo depositò il postino al numero 10 di Linnaean Street, e tornando da un seminario mattutino su Sceve e i petrovchisti me lo portai in biblioteca. Quando non insegnavo, vi passavo i pomeriggi a leggere i Puritani. Quelli veri, non l’opera: quelli che impiccarono le streghe a Salem, pacifica cittadina costiera dove un secolo dopo, due anzi, Hawthorne doveva mangiarsi il cuore, salvando (loro: gli assassini) la legittimità dello Stato e preparando l’indipendenza delle Colonie. Gente tutta d’un pezzo, lungimiranti. Con quei tragici nasi romani che neppure l’accademismo degli incisori riusci a raddolcire sui risguardi dei libri. Riapparivano in carne e ossa tra le strade di Boston, quelle che strisciano giù dalla collina, camuffati da vecchi rentiers o banchieri o più semplicemente pensionati (ex capitani di marina, ex mercanti, ex qualsiasi cosa: in attesa del sole, a Louisville Square, che sul loro volto pareva coincidere con l’approssimarsi della morte), e in realtà non erano ne banchieri ne rentiers ne pensionati: solo un’altra generazione, vecchi yankees stolidi, bellissimi e un po sospettosi, sopravvissuti all’ondata di irlandesi abbattutasi sulla Nuova Inghilterra l’anno della carestia delle patate e alle invasioni successive. Guardavano nel vuoto e i loro occhi, tra le rughe del viso, esprimevano un misto d’orgoglio, indifferenza e stanchezza. Ombre d’un altro clima.
Non aspettavano la morte : aspettavano qualcosa. Qualsiasi cosa? una causa, nella quale giustificarsi. J.F.K. passo loro sul capo come un fenomeno della corruzione dei tempi : un irlandese nuovo-ricco, cattolico per di più, e d’una famiglia che loro non avevano mai frequentato. Si mossero poco prima della sua morte, alle esplosioni dei negri. La madre del governatore del Massachusetts, una Peabody (come dire, in Inghilterra, una cugina della regina), fini in galera nel Sud, a ottant’anni, nel corso d’una marcia con Luther King, in favore della integrazione.
Una volta al mese, da Cambridge di gusto falso-inglese, scendevo a Washington per visitare un vecchio, rinchiuso in manicomio. Ezra Pound, dal quale ho imparato quel poco che so, tolta la politica (ma questa e un’altra storia), almeno nel senso d’un certo gusto e interessi specifici, dalla letteratura all’economia e viceversa, sparava i suoi tic verbali da sotto la visiera di celluloide, verde come d’un telegrafista del vecchio West: caustico e buffonesco e con la capacita di toccar giusto pur partendo da presupposti che talvolta erano tanto sbagliati da parere impossibili. In ogni caso, offrendo l’esempio umano più assoluto del rifiuto d’ogni compromissione, anche nell’errore.
Pagato fino in fondo, questo, e nel modo più spietato : e di cui, dietro il paravento in fondo al corridoio, dove riceveva, o sdraiato su una chaise longue in giardino, più tardi, tra le urla dei pazzi, non raccontava mai. Parlava dell’Italia, di Londra, di Parigi. Di tanto in tanto mi dava dei consigli su ciò che dovevo leggere. In una lettera, per esempio, mi esortava a lasciar perdere la ≪ STEW-pi-DI-taaaaaa dei puritani ≫ e concentrarmi invece su un certo Matt Quay, ≪ che leggeva i classici greci nell’originale e nascondeva il fatto ai suoi elettori, per paura di perderne i voti ≫.
Doveva essere un novembre. Il cielo era grigio, dietro i vetri della Widener Library, e l’umidità che veniva dal Charles, dal Mystic, dalla baia o chissadove, s’estendeva più definitiva d’una macchia d’olio in un bicchier d’acqua. Dalla finestra contro cui Increase Mather, John Cotton, Governor Winthrop, John Hooker, Cotton Mather, che credeva nelle streghe, e il fedelissimo Cartesio (cioè : i loro libri), spalla a spalla, appoggiavano il peso dei propri dubbi, rigidi del pari che i minutemen di Lexington quel giorno famoso (che permise a Emerson di inventare una frase e a John Reed di migliorarla), vedevo i soliti camini di Cambridge, e il Main Street di Cambridge, Mass Ave, e l’intrico di fili elettrici che marcava l’inizio di Harvard Square. Sudavo, nel mio cubicolo in biblioteca, per l’umido: e imprecavo contro gli obblighi universitari, ma a pensarci adesso dall’ignobile piazza di Spagna, quegli anni sembrano straordinari. Mitologici, addirittura. Perché erano la libertà.
Ognuno, da dovunque venisse, era non chi conosceva o ciò che era stato : piuttosto, quanto poteva dare. Molto spesso il ≪ dare ≫ si riduceva a una specifica curiosità : un fatto abbastanza piacevole che implicava molta onesta, anzitutto l’ammissione della propria ignoranza. Forse era per questo che quegli anni avevo persino l’impressione che servisse qualcosa parlare.
Fu pensando al vecchio nella casa dei pazzi, dal quale avevo appena ricevuto una lettera irritata e irritante, ma che pareva una poesia, che cominciai a leggere Pasolini. Avevo allora, bisogna dirlo, delle idee abbastanza precise sul come scrivere certe cose : anche sulla politica. Quanto a Gramsci, m’ero già accorto che ciò che si pubblicava in Italia su di lui nasceva da presupposti idealistici, per non dire ottocenteschi, uscissero le glosse al classico dalla penna di irreprensibili membri del Partito che, magari, in Spagna, s’erano imboscati dalla parte di Franco. Sicché, nell’edizione Einaudi, me l’ero riletto tutto con pazienza. Per quanto importante possa essere stato per me, non me n’ero fatto un dio: ne un padre o una madre o un fratello maggiore cui chiedere la risposta a problemi che non riuscissi a risolvere da solo. Il dogma, o l’attaccamento sentimentale a un’ideologia, m’hanno sempre fatto paura.
Non che a questo non creda anche adesso, incluso ciò che si riferisce al modo di scrivere certe cose : tutte. So pero, adesso, che parlarne serve poco. E che scrivere rimane un atto privato, come lo e ogni tipo di scoperta artistica e, per noi occidentali perlomeno (da Vladivostok ad Anchorage, passando per l’Europa), ogni forma di ≪ cultura ≫ : privato, ovviamente, nel senso che la ricerca e strettamente personale e non implica, ne richiede, nessun ≪riconoscimento≫ : hegeliano o meno, questo. E un'attività sotterranea, simile allo scavar gallerie due centimetri più giù del livello dell’asfalto o dell’erba. Un bel giorno si avrà scavato tanto, ognuno per conto suo, che i due centimetri di spessore cederanno e molte cose che ancora esistono in superficie andranno in fumo. L’arte e il solo nemico naturale dello Stato.
Dunque leggevo Pasolini. Lessi un bel pezzo prima di alzare gli occhi e guardar fuori, le luci nel buio, adesso : e prima di confessarmi il mio stupore e una certa ilarità. Non provavo nient’altro. Pareva assurdo, tutto qui. Qualcuno dal nome attraente, siglabile all’americana, nascondeva la propria ignoranza di periferico maestro di scuola in una scrittura pseudoautomatica, da poveracci, mediata attraverso uno squallido sentimentalismo piccolo borghese. Con qualche bel verso : e molto gesticolare e cattivo gusto e autoamore. Non capivo davvero cosa avessero inteso, o vi avessero visto, i critici. Vi pensai per un po’. Non con la dovuta attenzione. L’avessi fatto, forse mi sarei accorto che la pubblicazione e il successo di quel libro segnavano una data importante nella cultura italiana del dopoguerra: l’inizio di certa politica culturale, mediata attraverso una compromissione dell’intelligentia con l'industria del libro (e non solo del libro). Che il paese, insomma, entrava in un conformismo di tipo New Deal: con qualche ritardo sugli Stati Uniti.
Mi illudo. Anche se v’avessi pensato per mesi, v’erano cose che non avrei capito, della penisola. Ero assente da troppo tempo. E non potevo sospettare che dopo avere esitato tra America e Russia, e aver subito la dittatura di quell’idealista staliniano che, fino all’entrata in Bucarest dei carri armati khruscioviani, fu Lukacs - un Croce dei paesi d’oltrecortina - il paese scopriva la tecnologia, e nell’euforia del boom dei frigoriferi gli uomini di cultura mescolavano tutto, Hegel e Heidegger, Lukacs e Merleau-Ponty, Goldmann e Sartre, l’800 romantico e Gramsci, vivendo per citazioni e riducendo il discorso critico al solipsismo d’un pendolare moderatamente bibliofago, in moto perpetuo tra Roma, Milano, Palermo e Forte dei Marmi. Ne potevo immaginare, e qui pero la colpa era mia, la storia d’Italia la conoscevo, che sotto la patina di populismo, neorealismo, libertarismo e mammistico ingaggio politico (tutte tendenze che dovevano presto sfociare nel recupero del gusto liberty, in loro logica morte e trasfigurazione: in attesa d’una prossima riproposta del gusto dannunziano, per il ritorno emblematico delle immagini del poeta-eroe come nostra realtà quotidiana: magari sulla pubblicità d’un detersivo), la scrittura in Italia fosse rimasta ≪ufficiale≫. Avrei dovuto saperlo. Dante che sogna l’incoronazione con fronde d’alloro e Petrarca che l’ottiene, non sono degli esempi isolati d’epoche di barbarie. Hanno come corrispettivi tutti quegli artisti che tra le due guerre accettarono il ≪ regime ≫ per un posto all’Accademia, e questi altri, più recenti, vivi adesso, che alla spada e alla feluca (peraltro abolite) han preferito più remunerate compromissioni. Sicché diventava ridicolo, non aveva neppure la venatura d’un calcolo prestabilito, parlare (come molti inseriti già facevano, negli anni Cinquanta) di tradimento della Resistenza e simili cose. Era perdita di fiato. Tutto non poteva non essere come era sempre stato. Non si può trasformare una cultura senza far piazza pulita di molte situazioni. Non basta far ritoccare la fotografia dell’avo, sottufficiale piemontese, nascondendo collo duro, bottoni e medaglie sotto un fazzoletto d’ispirazione garibaldina: fidandosi, per mascherare il falso, che sia soldati regi che truppe irregolari amavano le lunghe barbe.
Credo che il nostro sia il solo paese dove anche i discorsi programmatici dell’avanguardia posseggono ormai il tono pedante di tesi di laurea e l’ambiguità filologica delle dichiarazioni di un politico in cerca di voti. Per contrasto, uno tende a pensar con affetto, direi con tenerezza, all’umorismo, alle ingenuità, alla freschezza e alla fondamentale serietà dei primi futuristi.
Stiano comunque quieti i turisti stranieri in viaggio di nozze a Posillipo o a Venezia: nella terra del sole, dove tutto si muove solo nell’ombra, nessuno si sognerà mai d’uccidere il chiaro di luna.
Ma ritorniamo a Pasolini : anche se ho l’impressione di non aver parlato che di lui. Dopo Le ceneri lessi gli altri libri, vidi anche i film: in Europa, questi. A poco a poco cominciai a nutrire verso di lui una sincera ammirazione. Per il suo genio del luogo comune, l’impudicizia di elevare presunzione e provincialismo a canoni estetici nazionali, la capacita di sfoderare la più piatta banalità al momento giusto (chi altri avrebbe pensato di rispolverare negli anni Sessanta la vieta immagine d’un Cristo populista?), come un figlio unico viziato, che in una prima elementare frequentata solo da bambine voglia imporre la propria virilità alzando il tono di voce. Son qualità abbastanza tipiche di quell’artista fatto in casa che egli e, in definitiva : pronto a vendere sentimentalismo per indignazione sociale e imprecisione stilistica per intenti rivoluzionari; una specie d’acqua piovana mescolata a polvere Idriz, offerta in bottigliette di gazzosa (con la pallina al posto del tappo) agli ignari indigeni. Per far tutto questo, ce ne vuole di immaginazione.
Anche mi divertiva. Con quella scrittura cachettica e per il suo narcisismo entusiasta, da chierico dèfroquè, sempre esitante tra la bestemmia e l’autopunizione e che pero richiedeva la medaglia di finecorso ad attestato ufficiale che in ogni caso s’era comportato bene. Pensavo ai miei Puritani, per i quali l’entusiasmo, anche in materia di religione, era condannabile con il confino a vita o l’impiccagione, o al vecchio nella casa dei pazzi, adesso in esilio a casa nostra, e al suo rigore, la sua assoluta dignità d’artista. Pasolini non ha tutto questo, e naturale. Ma d’altra parte, siamo in another country, un altro paese : and besides the wench is dead. Marlowe non ci pensava ma possiamo farlo noi : interpretare arbitrariamente wench (ragazza) come sinonimo di ≪ coerenza ≫. La coerenza e morta. E pero, nel paese degli artisti ≪ ufficiali ≫, serviva proprio? Mi si dirà che con questo atteggiamento ero forse la persona meno indicata per intervistare Pasolini, ed e possibile. Seppure, quando lo feci, lo feci con molta discrezione, tentando di dimenticare ciò che pensavo di lui. Fu abbastanza facile perché ero in Italia da un mese e mi sentivo un po’ sconvolto dalla realtà della penisola, un po’ depresso. Mi chiedevo se non fossi io ad aver sbagliato tutto. In definitiva, forse chi aveva ragione era proprio Pasolini.
Fu all’EUR, casa sua, un bel giorno ventoso di fine marzo. Nel soggiorno campeggiava un elmo rinascimentale, un elemento decorativo mi figuro. Lui stava seduto, rispondendo a domande che qualcun altro, un giovane tedesco che parlava italiano, incideva su un registratore identico al mio. Era tutto molto comico : l’uno dopo l’altro, il tedesco e io, a confessare una terza persona e portarne via la voce. Come se la testa non ci servisse più. Dopo un poco fu il mio turno. Pasolini stava in profilo, come Antonito el Camborio quando mori. Parlava in tono molto serio, decisamente professorale, mi istruiva. Aveva ragione, ce n’era bisogno : ad ascoltarmi adesso, nel registratore, non sembro tanto brillante. Non lo sono mai stato.
PIERO SANAVÌO
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