"Le pagine corsare "
dedicate a Pier Paolo Pasolini
Eretico e Corsaro
Commento allo scritto del Bresson
In Dall'impressionismo all'arte completa (su «Primato»), G.B. Angioletti, come sempre ad un'estrema e quasi esasperata avanguardia del gusto, e per ciò guidato e come trascinato da una sensibilità esercitatissima più che da plausibili ragioni critiche, andava già presentando il pericolo, la decadenza, di una pittura italiana modernissima, che nei confronti dell'impressionismo francese e delle varie scuole post-impressioniste, avrebbe potuto essere definita «completa» (s'intende, tecnicamente). Il pretesto di questo discorso gli era venuto da una lettura francese, Les contemporains di René Huyghe; riportiamo la sintesi che l'Angioletti fa di questo libro: «Dall'impressionismo, che, come abbiamo visto, già segna la fine dell'accordo secolare tra l'artista e la società, il passaggio alla rivoluzione fauve è già di origine popolare. La breve audacia di Pierre Bonnard si amplifica nell'espansività pittorica di Henry Matisse, per tradursi in fine nel violento lirismo plebeo di Rouault e nella tetraggine poetica di Vlaminck. Ma questo giuoco di scoperte e superamenti continuerà senza interrompersi: e se Rouault si ribella al "penchant traditionnel de la France" cioè ala sensibilità più espansiva e più tenera che non appassionata e patetica, Derain riporterà il "fauvismo" verso la cultura».
Il cubismo a questo punto recherà un ennesimo colpo mortale alla visione realistica. «Eccoci dunque alla conquista dell'assoluto» continua il riassunto dell'Angioletti «nella quale il nostro autore, strenuo difensore dello spirito latino, vede il tentativo più potente di realizzare il sogno dell'arte mediterranea: "organiser un art dont l'homme soit le seul creature et maitre". Si faranno allora i nomi di un Gris, di un Léger, di un Braque, di un Roger de la Fresnaye, di un Picasso. Dopo il cubismo, il surrealismo si è gettato con tutte le sue forze nell'esplorazione dell'"ignoto". L'arte giungerà così a un' autonomia estrema da cui il pubblico sembrerà escluso per sempre. E appunto in un problema di comunicazione con questo pubblico, verrà a identificarsi il problema dei giovani. Oscillanti tra i poli estremi del cubismo e del surrealismo, essi non potevano trovare un punto in cui consistere se non nell'umanità: cioè nell'unica superstite della distruzione pittorica o della cattività della materia. Ebbene i giovani più avveduti capirono che non era più tempo di rivolta contro i predecessori, bensì era tempo di usare con discrezione l'astuzia. In questa presa di posizione noi italiani non possiamo certo dire di essere arrivati in ritardo. L'arte italiana di questi ultimi anni e non soltanto la pittura, si fonda infatti su un ritorno al la costruzione, alla composizione, alla figura. . .; e d'altra parte le correnti chiamate metafisiche o evocative o ermetiche hanno lasciato una traccia troppo profonda perché il giovane artista non ne tenga conto. Si tende dunque oggi a un'arte completa, fatta di equilibrio e di serenità». Ma a questo punto comincia il distacco fra il critico italiano e quello francese, inquietandosi il primo, preso come da una certa scontentezza irrequieta, e presagendo i pericoli, gli equivoci di quell'arte «completa>>, mentre il francese sembra rimanersene quietamente chiuso nel limbo della certezza e dell'orgoglio, per quel che riguarda in generale quest'ultimo quarantennio di pittura:
«On étonnerait le public en lui disant que dans les mouvements artistiques le plus outrancier de ce temps on il ne soit fumisteries indignes de son attention , il y a sans doute l'accent le plus humain de toute l' èpoque>>.
E questa risulta chiaramente essere la posizione del Bresson: posizione di certezza, quasi di rivincita.
(«La peinture française fut en XIxcme siècle un miracle de vitalité dans une Europe privée de maitres. Meme abondance en xxème siecle, meme fré nesie de - recherches , meme rayonnement.»)
Simili orgogliose affermazioni in questi ultimi tempi non sono state affatto rare anche in Italia, sia in brevi appunti polemici, quanto in più ampi esami panoramici . Ma quasi sempre, da noi, si tratterà di una delle solite messe a punto, contro i soliti detrattori ignoranti, mentre si sarà lungi dal credere che qualcosa di definitivo si sia ottenuto nell'ultima pittura italiana, specialmente la più giovane, qualcosa in cui credere ciecamente, senza più la speranza di una ricaduta, di una crisi. Tutt'altro. E abbiamo già visto in Angioletti quello stato di quasi melanconica coscienza, suggerito a lui da una presunta «pittura completa» ben lungi dall'essere realizzata, del resto ora, in Italia.
Come potremo parlare di pittura completa nell'Italia pittorica di uno Scipione, di un Mafai, di un Guttuso, di un Birolli ecc. ecc.? Noi riprenderemmo il discorso piuttosto da un recente scritto di Virgilio Guzzi, Vent'anni di pittura, in cui le conclusioni sui più giovani - essendo da una parte più concretamente aggiornate - erano dall'altra meno rosee che nell'Angioletti, ma forse non meno tendenziose:
«L'importanza di una polemica come quella inscritta a un certo punto da Scipione e Mafai... di una polemica sulla bontà e necessità degli affetti, è ormai di piena evidenza per tutti»,
e:
<<sono forse quattro, cinque, otto pittori, tra Roma, Milano e Torino. Diremmo che essi tendono - almeno i più consapevoli - a un approfondimento di valori prospettico-spaziali del colore: donde uno studio di Van Gogh, Picasso, Cézanne>>.
E, noi aggiungeremmo, specialmente di Van Gogh, non lasciando da parte l'espressionismo tedesco con Kokoschka.
Abbiamo così visto quali siano, grossolanamente, i due filoni delle tendenze attualmente reperibili in Italia: da una parte (Angioletti) il sentimento di essere giunti a una saggezza estrema, ·in cui sia possibile coordinare le più vicine e lontane esperienze senza tradirne nessuna: una pittura catartica, serena (e non è ancora precisabile quanta influenza abbia su tale gusto pittorico, la parallela estetica dell'ermetismo con i concetti, appunto di «catarsi» e «distanza»); una pittura, infine, che torni sul binario della tradizione con intatta la veste delle più anti tradizionali esperienze. Dall'altra parte ( Guzzi) è ancora reperibile un desiderio di non mancare al generale ripiegamento ad una tradizione, un desiderio di ordine e catalogamento, ma questa volta attraverso una valorizzazione estrema degli affetti, delle passioni, del cuore, che riavvicini agli uomini la pittura, senza affatto prostituirsi, ma anzi esprimendo quegli affetti, quelle passioni nel modo più immediato e audace.
Insomma appare assai facile affermare che in Italia siamo ben lontani da quell'aria di olimpica, lieta sicurezza che sembra spirare da alcuni scritti critico-divulgativi francesi (e ora, dal presente scritto del Bresson). In compenso, ad un confronto non più fra le due critiche ma fra i diversi testi pittorici di questo ultimo quarantennio, se si eccettuano le nostre più nuove esperienze ancora in atto, ci sembra senz'altro che, anche se tale confronto possa riuscire ingrato, la pittura italiana ci guadagni. E molto. Il discorso sarebbe troppo lungo a dimostrare come una serie di esemplari morandiani, depisisiani ecc ... riuscirebbe alquanto superiore a questa serie puhblicata dal Bresson. Siamo ben lontani qui, da quell'aria poetica espressa con mezzi unicamente e coscientemente pittorici che tante volte i nostri Carrà, Morandi, De Pisis ecc ... hanno saputo realizzare. Tanto è vero che oltre ai nomi di Cézanne, Renoir, per questi nostri pittori italiani della generazione più anziana si possono fare quelli di un Delacroix o di un Daumier: Siamo cioè sulla linea di una pittura intesa m un senso rigorosamente pittorico, anche laddove il significato o la poesia del soggetto sembrano sopraffare. E non ci sembra che, per questi tre o quattro nostri maggiori maestri, sia più lecito parlare di post -impressionismo: la loro esperienza assomma, è vero, tutte le esperienze post-impressionistiche, ma nei migliori ultimi risultati è giunta a una vera e propria libertà e novità di espressione, identificabile in una riscoperta della pittura nei confronti di una non-pittura che coi suoi limiti teorici ed autobiografici avrebbe caratterizzato il post-impressionismo. Al contrario questa cultura francese 1900- 1940, è ancora tutta immersa in un mondo pittorico post-impressionistico, e giunta alle estreme conseguenze, pare ormai senza più via di scampo.
Di quel mondo resta qui tutta l'apittoricità, tutta la disposizione morale a confessarsi, a teorizzare, a sfogarsi: e manca tuttavia la novità, la violenza, la freschezza di quei primi pittori. Stanco è l'ultimo Matisse, rappresentato qui da una Lecture ( 1941), mondana, futile e sgargiante che purtroppo non stonerebbe in una rivista di mode; Jean Puy ha un Mercato di Sanary tronfio, rutilante, greve di materia. Marcel Gromaire ha un orribile Orage sur les blés. E poi dovremmo vergognarci a confessare che un Dufy, un Vlaminck, o un Van Dongen non ci hanno mai molto convinto?
Troviamo in essi una grande e passiva stanchezza, una noia che fa pazzie per svagarsi, e l'unico suggerimento che ce ne proviene, è di ordine morale, come quello di una violenta ed anche ironica confessione. Siamo ben lontani dalla serenità, dalla saggezza, non più teorica, ma pienamente pittorica, di un Carrà, di un Morandi ... Se i maestri furono gli stessi, il loro linguaggio trapiantato in Italia ha acquistato un vigore nuovo, quasi rinverginandosi e in Francia sembra continuare meccanicamente, accontentarsi di «meravigliare i borghesi». Ma quello che ora più ci interessava è notare come i più giovani pittori italiani (Mafai, Guttuso, Birolli ecc.) abbiano avuto l'idea di riallacciarsi all' inizio delle esperienze di questi modernissimi pittori francesi, e fare in Italia un duplicato della strada che quelli, di conseguenza in conseguenza, hanno battuto in Francia. E sono straordinarie certe analogie: si veda Edouard Vuillard, che nelle Deux femmes sous la lampe ha dei passaggi tecnicamente identici al nostro Birolli (Nudo dal velo nero ecc ... ); François Desnoyer ha molte analogie, in questa Toilette del '38, con Guttuso.
Ma anche in questo secondo confronto, se vogliamo proprio farlo, mi sembra guadagnino i pittori italiani, per cui questa strada già battuta da altri, e senza sbocco, ha un valore disperato di ricerca, che non si placa affatto in benevoli e ilari consensi critici, come succede in Fran· eia, ma, circondata da una non maligna severità (vedi in «Architrave» Severità per la giovane pittura di F. Arcangeli), sembra abbastanza cosciente - e ce lo dimostra, Paura della pittura - della sua precaria condizione.
P.P.P.
«Il Setaccio», anno III, numero 6, maggio 1943
«Il Setaccio», anno III, numero 6, maggio 1943
Biblioteca Universitaria di Bologna, collocazione 2118/PER. 10220.
Progetto a cura di Maurizio Avanzolini (Biblioteca dell'Archiginnasio).
I documenti digitalizzati appartengono alle raccolte di:
Biblioteca dell'Archiginnasio
Biblioteca Universitaria di Bologna
Centro studi-archivio Pier Paolo Pasolini - Bologna
Archivio storico dell'Università di Bologna
Biblioteca Cantonale di Lugano
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