"Le pagine corsare "
dedicate a Pier Paolo Pasolini
Eretico e Corsaro
Ragionamento
sul dolore civile
Pier Paolo Pasolini
Il Setaccio,
anno III,
numero 2,
Pag. 3
dicembre 1942
Pier Paolo Pasolini
Il Setaccio,
anno III,
numero 2,
Pag. 3
dicembre 1942
Il pensiero dell'infinito ci ha ormai distaccati dalle umili ed affannose tradizioni dell'esistenza famigliare; già il fiume, il bosco, il prato e la vigna che protessero l'infanzia delle nostre madri e di noi, sono fissati dietro i nostri passi, da una ferma nostalgia, da un sogno che non muta. Di sera, andiamo nel nostro campo o nella nostra casa, e lì - tremando - ascoltiamo battere il tempo ed affiorare gli anni e le voci; così, lentamente, nei nostri dolcissimi luoghi, ci edifichiamo il sepolcro.
L'infinito che -nelle
spoglie dell'ignoto e dell'immenso-ha nei secoli tratto gli uomini al
moto, ora giace stanco e chiuso nei propri confini, davanti a noi che
non abbiamo un gesto o un grido per cancellarlo o conquistarlo. La
vigna o il focolare sono l'infinito (talvolta con lontane grida di
fanciulli, o scrosci di pioggia, o, nella stanza vicina, il canto
della madre che invecchia).
Così sembra che -nel cerchio delle ansie
umane, che i secoli hanno dispogliato dai suoi misteri - noi ci
sprofondiamo, senza curiosità, inerti a un desto e vigilante
letargo, a una nenia che canta l'inconoscibile attraverso gli
affettuosi simboli del passato che ritorna e del presente che se ne
consola dolorosamente; sembra, insomma, che, nitidi di un'esperienza
di secoli, padroni di noi stessi, si sia raccolto il deserto intorno
a noi, un deserto sensibile al nostro solo canto, dove riaffiorino
disseccati nei rari simboli della casa natia, o della madre o d'altro
che ci è caro, quei concetti che in altri tempi hanno teso il
cammino dell'uomo: l'ignoto, la gloria, i viaggi, la lotta, la
patria, Dio. Questa solitudine poetica, questa turris eturnea esiste:
ma non è peccato.
Non
è peccato perché dal deserto che è nostro- dove siamo soli - noi
non deviamo, sbandati da un'incomposta retorica pietà verso gli
uomini che ci sono intorno, ma piuttosto li assumiamo, parte della
nostra stessa natura, ad un amore che da egoistico - senza tradirsi,
ma anzi rimanendo fermo nella tradizione della sua unica esistenza -
diviene civile. (Al di là di ogni schema idealistico o
superumanistico, in questo è da riconoscere una sorta di cosciente
umiltà: parte della nostra stessa natura, ho detto, e tale
riconoscimento è avvenuto senz'altro nel più ingenuo dei modi.)
Così, alcuni di quei concetti che ho sopra nominato, nel nostro deserto ritornano più puri: li abbiamo riedificati, non per contemplarli, ma per amarli più castamente. Ci siamo messi in un nuovo moto - nuovo per noi, come fu nuovo per i morti, e come sarà nuovo per i nascituri - e in questo ci sentiamo più liberi e trepidi a ritentare la vita. Un moto d'amore (che a noi sembra nuovo, anzi è nuovo, perché se così non fosse un passo dell'esistenza umana sarebbe inattuato), simile a quello che spinse la misurata anima greca a mari ignoti, al pédion pletos àperon che estinse Bruno nel rogo o Battisti sul patibolo.
Noi siamo forse più umilmente uomini, perché più vicini a un infinito non più materiale, e conchiuso entro confini familiari alla nostra sofferenza, che ne sarà maggiore. La nostra ricerca non ci si propone in un senso di avventura, di epopea o retorico progresso, che risuona amaramente al nostro orecchio, ma ridotta al solo pensiero, ci si presenta piuttosto come memoria che s'infutura nel dolore. E in questo siamo tutti di una stessa sta tura: manca l'eroe, che come un faro ci guidi costruendo gli eventi: questi saranno piuttosto frutto o premio della fratellanza o amore civile.
Così hanno riacquistato valore quegli antichi attributi del vivere umano che sembravano esausti dal lunghissimo uso: la solidarietà, il progresso, la carità, i costumi. Ma soprattutto vorrei soffermarmi sul concetto di patria, che, nel suo significato estremamente astratto, sembra stentare a riproporsi, sul nostro dolce deserto, attraverso un simbolo che lo purifichi. Eppure questo è il concetto che, al di là di ogni chiarificazione critica -forse sopra ogni cosa parte della nostra natura - si è insinuato con più dolente nostalgia nel nostro petto, con un impeto ed una commozione, come è raramente accaduto nella nostra vita. (Forse è il peso del sangue, forse sono le voci che il padre andava dettando alla sorda infanzia e che hanno fruttificato, come certi semi in luoghi incredibili.)
Del resto si può credere poeticamente nella patria, come si può credere poeticamente in Dio. E una fede che, imitando la vera, la equivale: ed è forse il più nobile mezzo per conquistarla. Noi siamo orgogliosi di una siffatta fede nella patria.
Così, alcuni di quei concetti che ho sopra nominato, nel nostro deserto ritornano più puri: li abbiamo riedificati, non per contemplarli, ma per amarli più castamente. Ci siamo messi in un nuovo moto - nuovo per noi, come fu nuovo per i morti, e come sarà nuovo per i nascituri - e in questo ci sentiamo più liberi e trepidi a ritentare la vita. Un moto d'amore (che a noi sembra nuovo, anzi è nuovo, perché se così non fosse un passo dell'esistenza umana sarebbe inattuato), simile a quello che spinse la misurata anima greca a mari ignoti, al pédion pletos àperon che estinse Bruno nel rogo o Battisti sul patibolo.
Noi siamo forse più umilmente uomini, perché più vicini a un infinito non più materiale, e conchiuso entro confini familiari alla nostra sofferenza, che ne sarà maggiore. La nostra ricerca non ci si propone in un senso di avventura, di epopea o retorico progresso, che risuona amaramente al nostro orecchio, ma ridotta al solo pensiero, ci si presenta piuttosto come memoria che s'infutura nel dolore. E in questo siamo tutti di una stessa sta tura: manca l'eroe, che come un faro ci guidi costruendo gli eventi: questi saranno piuttosto frutto o premio della fratellanza o amore civile.
Così hanno riacquistato valore quegli antichi attributi del vivere umano che sembravano esausti dal lunghissimo uso: la solidarietà, il progresso, la carità, i costumi. Ma soprattutto vorrei soffermarmi sul concetto di patria, che, nel suo significato estremamente astratto, sembra stentare a riproporsi, sul nostro dolce deserto, attraverso un simbolo che lo purifichi. Eppure questo è il concetto che, al di là di ogni chiarificazione critica -forse sopra ogni cosa parte della nostra natura - si è insinuato con più dolente nostalgia nel nostro petto, con un impeto ed una commozione, come è raramente accaduto nella nostra vita. (Forse è il peso del sangue, forse sono le voci che il padre andava dettando alla sorda infanzia e che hanno fruttificato, come certi semi in luoghi incredibili.)
Del resto si può credere poeticamente nella patria, come si può credere poeticamente in Dio. E una fede che, imitando la vera, la equivale: ed è forse il più nobile mezzo per conquistarla. Noi siamo orgogliosi di una siffatta fede nella patria.
Ma
le recenti condizioni del tempo e i fatti della guerra, volevano
piuttosto avviare il discorso - dopo le necessarie premesse - ad un
commento del dolore civile. Non dovrei qui ripetere come questo-nel
nostro nuovo senso della vita, l'infinito che ci raccoglie - viene a
dispogliarsi dei vecchi ripieghi retorici, di cui l'avevano adornato,
sopra gli altri, i nostri padri dell'Ottocento. Non carità, non
pietà, non beneficio, non aiuto o lamento, è esso un dolore che si
esaurisce nella coscienza della • sua necessità. E un attributo
dei popoli nobili, è un frutto di secoli di fratellanza. Dovrò io
esortare gli italiani alla storia? Ricordare la loro giovinezza e le
loro antichissime
origini? Forse non sarebbe del tutto inutile. Ma è accertato che la
qualità soverchia in valore il numero: così mi rivolgo - quasi
tremando - a coloro che sono coscienti e quindi responsabili. La
storia si merita. Il premio è in diretta corrispondenza con la
sofferenza del desiderio. Sarà più grande la gioia di chi avrà più
disperatamente sperato. Questi sono i termini del dolore civile, ed i
suoi fini. Più che le vite offerte - un sacrificio senza nome, che
ogni giorno si ripete centinala di volte, il più crudele dei doveri,
il più doloroso dei mezzi - verrà a contare davanti alla storia, la
possibilità di amore che la patria avrà ottenuto dagli uomini. È
perciò che ardentemente mi rivolgo a chi può intendermi, acché
egli soffra di amore anche per i troppi che la natura e l'educazione
non hanno reso capaci a questa purissima necessità. La patria è chi
l'ama: e in questo pensiero la fede non mi acceca.
Fonte:
http://badigit.comune.bologna.it/mostre/pasolini42/index.html
Creative Commons Attribuzione 3.0.
Pier Paolo Pasolini
Biblioteca Universitaria di Bologna, collocazione 2118/PER. 10220.
Progetto a cura di Maurizio Avanzolini (Biblioteca dell'Archiginnasio).
I documenti digitalizzati appartengono alle raccolte di:
Biblioteca dell'Archiginnasio
Biblioteca Universitaria di Bologna
Centro studi-archivio Pier Paolo Pasolini - Bologna
Archivio storico dell'Università di Bologna
Biblioteca Cantonale di Lugano
http://badigit.comune.bologna.it/mostre/pasolini42/index.html
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